Pubblichiamo un’intervista rilasciata da Nico Lotta, presidente del VIS all’Espresso firmata da Giancarlo Capozzoli.
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Ho avuto modo di approfondire le questioni legate alla cooperazione e lo sviluppo con l’ingegner Nico Lotta, presidente del VIS, Volontariato Internazionale per lo Sviluppo, una ONG legata ai Salesiani per la realizzazione dei progetti all’estero. Questa intervista, realizzata durante il periodo di emergenza sanitaria e sociale che sta affliggendo gran parte del mondo, vuole essere una ulteriore testimonianza in merito a tali questioni.
Gentile Presidente, lei come ha iniziato la sua attività con il VIS?
Subito dopo aver conseguito la laurea in ingegneria, mi sono interessato ai progetti connessi con le comunità salesiane all’estero, e ho deciso di fare come ex allievo salesiano una esperienza di volontariato in Madagascar in qualità di tecnico, all’interno del VIS, e poi nella fase di ricostruzione post crisi in Sri Lanka.
La sua collaborazione ad Haiti dopo il terremoto, partiva dalla sua formazione come ingegnere…
Sì ma ero anche parte del comitato esecutivo dell’ente.
A partire proprio da questa sua prima esperienza, quanto crede che sia importante la formazione anche dei volontari? Voglio dire… dopo la liberazione della Silvia Romano in Kenya, mi sono chiesto, intervistando anche responsabili di altre organizzazioni, sulla formazione e sulla educazione di base di questi ragazzi che decidono di fare queste esperienze all’estero…
La formazione e l’educazione sono fondamentali. A tutti i livelli. Con formazione intendo sia una formazione universitaria che una formazione di carattere professionale.
Di quali questioni negli ultimi anni vi siete occupati maggiormente come VIS?
I progetti in corso sono molti. Sicuramente la questione del contrasto al traffico di esser umani, con il progetto Stop Tratta, ci ha interessato molto. È un tema strettamente congiunto con il tema della migrazione, a tutti i livelli. Diversi componenti del VIS assieme al nostro partner Missioni Don Bosco e ai Salesiani si occupano di questa questione a partire proprio dal percorso migratorio che porta tante persone qui in Europa.
Proprio da dove partono…
Attraverso i luoghi di passaggio e fino al punto di arrivo…. è uno degli strumenti che abbiamo per combattere il fenomeno della migrazione irregolare.
Conoscere un fenomeno per proporre anche delle alternative…
Sì, l’idea di fondo è quella di proporre alternative concrete di cooperazione allo sviluppo. Molti dei nostri progetti sono sia nell’Africa est che in quella ovest, dall’Etiopia al Senegal, al Mali e in Nigeria per intenderci.
Quando si parla di vittime di tratta a chi ci si riferisce principalmente, a partire dalla esperienza che avete maturato nel corso del tempo, sul campo?
Sono uomini e donne, ragazzi e ragazze, purtroppo, membri delle comunità dei villaggi più isolati. A cui vengono proposti dei viaggi che non si concretizzano.
…che non si concretizzano già in partenza, immagino. in questi anni ho avuto modo di realizzare io stesso interviste a ragazze giunte in Italia davvero con la prospettiva di un lavoro o di una realizzazione economica che era di base già finta… Si puo parlare di consapevolezza- inconsapevolezza anche riguardo alla destinazione finale?
La situazione è purtroppo più drammatica di quel che si pensa. Lei dice il vero. Spesso non si ha neanche la consapevolezza della destinazione finale. Ma la situazione è anche più grave. Basti pensare che il fenomeno dei trafficanti porta in qualche modo ad una vera e propria riduzione in schiavitù delle persone che vengono spinte a partire. E a questo fenomeno è anche legato il traffico di organi… I trafficanti chiedono sempre più soldi lungo la strada. Continuamente. E il debito dei migranti cresce. È una esperienza concreta quella di cui sto parlando. Esperienza di cui sono testimoni i Salesiani. Si tratta di un vero e proprio pagamento per il riscatto. Il problema concreto allora è se pagare per saldare il debito oppure no. È evidente l’inganno e lo sfruttamento della situazione drammatica da parte dei trafficanti di esseri umani.
Nonostante tutto alcuni ragazzi preferiscono affrontare il viaggio, consapevoli dei rischi che corrono…
Il nostro progetto contro la tratta parte proprio dall’esperienza di chi ha subito questo fenomeno. Vuole raccontare la verità, vuole raccontare attraverso la voce dei testimoni diretti il viaggio che hanno vissuto, anche per scoraggiare altri migranti. E altri trafficanti, soprattutto. Ma per aver successo in questo tipo di progetti è necessario proporre anche delle alternative.
Progetti e programmi di sviluppo…
Sì, a partire da una reale formazione professionale in loco, con l’avvio, ad esempio, di piccole attività professionali, che spingano i ragazzi a restare nella loro terra. Mi riferisco ad esempio a progetti per attività agricole finanziate a partire da un microcredito, che serve per comprare un terreno, e poi ad iniziare l’attività lavorativa vera e propria.
Sono attività concrete, progetti concreti..
Tenga presente inoltre il contesto particolare in cui spesso vengono realizzati. Noi lavoriamo nei campi per i rifugiati in Etiopia, nella gestione dei corridoi umanitari. In questo caso la formazione è finalizzata alla preparazione del rifugiato da un punto di vista culturale e linguistico.
Quanti sono i progetti attualmente in corso?
In questo momento siamo attivi con circa 80 progetti, tutti in ambito di sviluppo ed emergenza.
C’è un modo diverso di intervento a seconda che si tratti di sviluppo o emergenza, evidentemente…
Con i progetti di sviluppo portiamo avanti soprattutto la formazione professionale, il capacity building, che può portare ad uno sviluppo della realtà locale. È necessario gestire progetti in loco, ma anche portare avanti altri tipi di interventi come quelli che riguardano la protezione dell’infanzia in situazione di vulnerabilità. Per quanto riguarda i progetti di emergenza, appena è possibile agire si interviene soprattutto nell’ambito educativo, che in tali situazioni è comunque determinante per lo sviluppo della persona umana e per ripartire poi anche in un ambito più specifico rispetto allo sviluppo, in senso stretto.
L’emergenza Covid-19 come ha influenzato il vostro modo di agire e progettare?
Il Covid-19 ha rallentato le attività un po’ovunque. Quasi tutte le scuole e gli oratori, ad esempio, sono stati impossibilitati a portare avanti le loro attività e missioni. Pertanto, sicuramente si è modificato il nostro modo di agire. Anche se quasi tutti gli operatori sono rimasti nei propri Paesi di destinazione. Tenga presente che in alcuni contesti l’emergenza per questo virus si è aggiunta all’emergenza costante riguardante la condizione igienica. E allora uno dei punti fondamentali è stato quello di tentare di cambiare l’approccio.
Rientrare in strutture protette, immagino…
…e convincere le persone a smettere di vivere in condizioni di strada, in cui i rischi sono troppi, soprattutto dal punto di vista igienico. In alcuni contesti le persone sono davvero troppo esposte.
E’ dovuto mutare dunque anche l’approccio psicologico alla luce delle nuove questioni…
Abbiamo dovuto ripensare e reinventare la didattica a distanza, anche in questi contesti. E cercare strumenti tecnologici alternativi. Bisogna tener presente che in determinati Paesi solo in alcuni contesti è stato possibile realizzare e migliorare questo tipo di formazione. Il rischio concreto è l’interruzione della didattica. Voglio dire… in altri contesti, quelli più rurali e più isolati, c’è poco da inventare. La tecnologia non arriva neanche… In ogni singolo contesto non è semplice: attualmente non si ha ancora una reale conoscenza dei numeri dei contagi. C’è una mancanza di controlli, differente da quello che accade da noi, qui in Europa, in Italia. Come VIS abbiamo avviato una raccolta fondi in Italia, per poter sostenere i nostri progetti di educazione e formazione anche durante questa terribile emergenza.
Lei sostiene che il numero dei contagi non si può sapere con certezza…
Sì, ed inoltre sono contesti in cui anche fare una diagnosi è complicato. E sostenere delle terapie è difficile, se non impossibile, quindi è fondamentale puntare sulla prevenzione e sull’igiene.
Veniamo un po’ a quella che è stata l’occasione della nostra chiacchierata. La formazione e la educazione dei volontari che decidono di fare una esperienza all’estero. Io lo scorso anno ero in Kenya a seguire una piccola organizzazione, e ho notato una poca professionalità nei volontari. Ma anche una scarsa attenzione nei confronti della cultura locale. Questioni credo che riguardano anche il caso della ragazza rapita sempre in Kenya e liberata lo scorso maggio…
Per la nostra organizzazione la formazione è fondamentale. Ed è differenziata in base alla tipologia di persone che partono. A seconda che sia un volontario VIS in servizio civile o che siano operatori per lo sviluppo. Per cui è necessaria una formazione finalizzata anche a gestire la progettazione in loco.
Quale è il livello di formazione con cui arrivano da voi?
La gran parte delle persone che si rivolgono alla nostra organizzazione sono in possesso di una laurea e/o di master. Hanno inoltre un forte sistema valoriale e buona preparazione tecnica.
Prima mi diceva della vostra specifica formazione…
Noi come VIS forniamo una formazione specifica. Che significa fondamentalmente, oltre alla conoscenza della congregazione salesiana e di tutte le procedure e i protocolli di sicurezza, una formazione specifica relativa al ruolo, al progetto e al Paese.
Quanto è importante il rapporto con la realtà locale dei posti in cui opereranno?
Per i nostri operatori è determinante un confronto costante con le comunità così come è importante l’integrazione con lo staff locale. Ed è fondamentale per noi analizzare le motivazioni che spingono una persona a partire. Motivazioni che vanno oltre le capacità tecniche, pur importanti, ma che riguardano anche e soprattutto il sistema valoriale di ciascuno.
Una volta partiti vengono seguiti a livello locale e a livello di sede?
Sì certo, e come le dicevo hanno formazioni specifiche in base al ruolo e al contesto in cui vanno ad inserirsi.
Quanto è importante conoscere il contesto, gli usi e le tradizioni dei posti, secondo lei?
Fondamentale è formare su alcuni criteri di base indiscutibili. Il primo è il rispetto assoluto delle comunità e delle culture in cui ci si inserisce. La questione dell’intercultura non deve restare lettera morta, ma diventare reale e viva in ogni relazione, in ogni parola, in ogni azione.
Mi sembrano i principi di base, da cui ciascuno dovrebbe partire…
Spesso però non è chiaro. E dunque diventa importante ribadirlo, sempre e comunque. È necessario cancellare i propri pregiudizi interiori. Non bisogna aver paura di riconoscerli per poterli contrastare. Il confronto approfondito con una cultura diversa dalla nostra è la base dell’intercultura, dell’interazione di culture diverse e spesso anche distanti, differenti.
Quanto gli aspetti culturali a cui fare attenzione fanno parte della formazione in loco?
Come le ho accennato, è importante la conoscenza specifica del contesto in cui si va a operare e a vivere. È dirimente il lavoro con i colleghi locali, al fine di stabilire una vera relazione tra diverse culture. L’esperienza lavorativa va fatta a partire e alla luce della cultura locale.
L’esperienza pregressa e la motivazione personale, credo siano determinanti per lavorare in questi contesti…
L’incontro umano, da un lato, e la preparazione tecnica, dall’altro lato, sono fondamentali. Sono decisivi anche i percorsi formativi sulla cooperazione, con lo studio di materie specifiche. La conoscenza e la formazione sono le basi solide da cui partire. E naturalmente la formazione sul campo e l’esperienza maturata. Ma solo con un approccio valoriale forte si può avere una vera esperienza positiva.
Sono esperienze arricchenti, sotto diversi punti di vista, per tutti.
Assolutamente sì. Per quanto sia importante far conoscere il contesto prima della partenza, bisogna tener presente che si può conoscere un Paese solo vivendolo. E allora è importante entrarci in punta di piedi, per immergersi in una comunità locale, per avere un’esperienza che sia realmente arricchente, un’esperienza piena.
I valori che voi del VIS portate avanti sono chiari…
Abbiamo una identità chiara, portiamo avanti valori cristiani. Ma né gli operatori, né i beneficiari sono scelti in base al loro orientamento religioso.
Dialogo e incontro…
Lavoriamo nel contesto del sistema valoriale salesiano che è accogliente e aperto verso tutti i giovani.
Una idea di rispetto e sviluppo che si basa sui diritti umani, sulla dichiarazione universale dei diritti umani…
Lo sviluppo di ogni uomo e lo sviluppo di tutto l’uomo. Dell’uomo inteso in ogni dimensione, nella sua totalità e interezza.
Principi che in qualche modo portano avanti anche una idea di cooperazione e sviluppo che non è assistenzialista…
Esattamente. L’empowerment e l’owernship sono il contrario dell’assistenzialismo a cui lei fa cenno. La nostra missione è rendere i nostri beneficiari partecipi, indipendenti e protagonisti del proprio percorso di sviluppo. Sono fortemente convinto che la cooperazione funziona davvero se e quando poi riesce a sparire. Il nostro obbiettivo è rendere ciascuno protagonista del proprio sviluppo.
Quanto è attuale parlare oggi ancora di diritti umani?
Maggiore è la difficoltà di promuovere i diritti più è importante parlarne. Intendo di quei diritti universali per ogni uomo e per tutti gli uomini. Esistono ancora, oggi, realtà lontanissime dal rispetto di questi diritti. Ma proprio questa situazione dà un senso al lavoro della cooperazione e delle ong. Quando questi diritti non esistono, non vengono rispettati, è importante promuoverli, parlarne, pretenderli.
La battaglia per l’affermazione e il rispetto dei diritti umani è ancora urgente…
È necessario porre un rimedio alle disuguaglianze presenti nel mondo. Dico che non bisogna accontentarsi di rispettare solo alcuni diritti umani, ma che bisogna pretenderli tutti. Non c’è alternativa. Come può ben immaginare, la battaglia sul campo è molto dura.
Lo scopo, l’orizzonte deve essere quello però…la affermazione dei diritti per tutti…
Non c’è alternativa per rimediare alle ingiustizie in cui molti ancora vivono. Come dice padre Alex Zanotelli, l’uomo non è un tubo digerente. Non è solo uno stomaco da riempire: deve avere la possibilità di uno sviluppo totale e sostenibile della propria persona e personalità.