Quanto stai bene a scuola? Per gli studenti arriva il “misuratore di felicità” – La Repubblica

Un “feliciometro” che misura la felicità e la fatica degli studenti: questa l’invenzione, che presto diventerà anche un’app, pensata dal liceo classico e delle scienze sociali Don Bosco di Borgomanero. Di seguito l’articolo pubblicato su La Repubblica lo scorso 5 giugno a cura di Cristina Palazzo in merito al progetto.

Quanto stai bene a scuola? Per gli studenti arriva il “misuratore di felicità”

Il test, che diventerà presto un’app, per 250 ragazzi del liceo classico e delle scienze sociali Don Bosco di Borgomanero, nel NovareseUn “feliciometro”, ovvero che misura la felicità e la fatica degli studenti. È lo strumento digitale per monitorare la soddisfazione dei ragazzi, e perché no ricalibrare il programma scolastico, che funziona rispondendo solo a quattro domande: “Quanta fatica hai percepito durante la settimana scolastica? Quanto hai percepito faticoso lo studio? Quante ore hai dedicato allo studio? Quanto è stata per te piacevole la settimana scolastica?”.

L’invenzione, che mira a diventare presto anche un’app, arriva dal liceo classico e delle scienze sociali Don Bosco di Borgomanero, nel Novarese. L’idea è di Corrado Maio, 40 anni, docente di scienze motorie almeno da 7, che ha deciso di traslare le scale di valutazioni utili nello sport per quantificare la percezione dello sforzo fisico e del carico interno all’emotività scolastica degli studenti.

“L’intenzione è dar voce agli studenti, dar la possibilità di esprimere un giudizio, e provare da questi a migliorare o tarare il lavoro se necessario”.

È stato sufficiente per i circa 250 ragazzi (130 nei momenti di lockdown) rispondere ogni venerdì, quando quindi la percezione della settimana è ancora viva, alle domande.

“È emerso, ad esempio, che in questo periodo dei ragazzi d alternanza in presenza e in Dad, chi frequenta in classe percepisce meno fatica e, al contrario, reputa più piacevole la settimana scolastica. È un risultato parziale – precisa il docente – ma credo confermi che per tutti la socialità e la presenza ha un valore importante”.

Nell’istituto i licei si alternavano di settimana in settimana per la presenza a scuola. Una settimana frequentavano le sezioni dell’indirizzo classico, la successiva le classi delle scienze sociali, lasciando quindi intatti i gruppi classi, su cui si basa il questionario per fare paragoni:

“È emerso anche che i ragazzi del secondo biennio percepiscono più fatica – spiega il professore -. Direi soprattutto terze e quarte, visto che in quinta è fisiologico. Come il fatto che la percezione della fatica aumenti con l’approssimarsi della fine dell’anno”.

L’idea è nata da circa due anni. Negli ultimi mesi, considerato il potenziamento dell’uso della tecnologia causato dal covid, è entrato a sistema, con il sostegno del preside Giovanni Campagnoli. Con l’intenzione “di capire quel che vivono i ragazzi, che si trovano a doversi confrontare con ansie e paure dovute all’età”.

È in cantiere anche un’app, anche se per sviluppare l’idea ci servono fondi e competenze tecniche trasversali. Ma la speranza è che possa essere di aiuto in altre scuole e periodi:

“Sarebbe importante verificare da settembre, quindi nel periodo post pandemia, quali risvolti tutto questo ha avuto sui ragazzi. Questo strumento – conclude Maio – può essere utile per ricodificare la proposta didattica ma il fine primario è chiaro: educare gli studenti al bello della scuola. E perché no, usare una versione ad hoc anche per insegnanti e personale scolastico. La soddisfazione è un indicatore importante”.

CGS, assemblea nazionale 2021: ripartenza e sguardo verso il futuro

Dal sito del CGS, il resoconto dell’assemblea nazionale svolta on line il 29 maggio.

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Sabato 29 maggio 2021 si è tenuta, sulla piattaforma Zoom, l’assemblea nazionale ordinaria della nostra Associazione. Erano presenti circa 40 tra consiglieri nazionali, coordinatori territoriali e rappresentanti dei circoli sparsi per tutta la nazione. È stata un’occasione per accogliere nuovi volti del CGS – tra cui la nuova delegata del CIOFS suor Maria Grazia Tripi – e per fare il punto della situazione sullo stato di salute dell’associazione e sulle prospettive del prossimo futuro.
L’assemblea, dopo i saluti da parte del presidente Cristiano Tanas, si è aperta con un’introduzione guidata da Suor Maria Grazia e da suor Palma Lionetti (già delegata CIOFS), le quali hanno fatto riecheggiare alcune parole di Papa Francesco tratte dal Messaggio per la 55° giornata mondiale per le Comunicazioni sociali, con l’invito ad “uscire da noi stessi e ad andare là dove nessuno vuole andare”. A loro si è unito nel saluto don Roberto Dal Molin, presidente CNOS, che, citando il sogno dei nove anni di don Bosco (“questo è il tuo campo dove devi lavorare”), ha esortato tutti ad impegnarsi sia nelle proprie realtà locali, che al livello nazionale.

Il presidente ha esposto i passaggi principali della relazione annuale del 2020. Sebbene riguardasse un anno complicato come quello da poco terminato, la relazione contiene numerosi spunti positivi, che esaltano il grande impegno profuso sia al livello dei circoli locali che al livello nazionale (“Ci siamo dati da fare, ognuno ha fatto qualcosa nel suo piccolo. Molti si sono rilanciati e ricreati!”). Gran parte delle iniziative principali che promuove l’associazione al livello nazionale (tra cui il Laboratorio Venezia Cinema) sono state svolte come di consueto, le attività di segreteria e di promozione dell’associazione sono state garantite con continuità e ci si è mostrati pronti ad adeguare le numerose attività alle modalità da remoto, come è avvenuto – ad esempio – per le riunioni del consiglio direttivo nazionale, per gli incontri di formazione sul tema “Relazioni al centro” tenuti nel mese di marzo 2021 e per gli approfondimenti sulla riforma del terzo settore. È proprio quest’ultima riforma che rappresenta una sfida per tutti i circoli, che stanno provvedendo ad adeguare i propri statuti. Tra le notizie positive, il presidente ha detto che l’associazione al 31 dicembre 2020 conta 42 circoli in 14 regioni e 6 coordinamenti territoriali costituiti, grazie anche alla nascita del CGS Ubuntu di Recale (Caserta) ed alla rinascita del CGS XXI di Civitavecchia, che fu il primo circolo affiliato ai CGS nei 54 anni di storia dell’associazione. La presentazione della relazione annuale si è chiusa con il ricordo per chi ha sofferto per la pandemia e per le persone che in questo periodo ci hanno lasciato, in particolare l’ex presidente Candido Coppetelli di cui ricorre l’anniversario della morte il prossimo 8 giugno.

Il tesoriere, Emilio Santoro, ha riassunto il bilancio dell’associazione per l’anno 2020 sottolineando come, nonostante la riduzione dei contributi ministeriali, la gestione dell’ultimo quadriennio sia riuscita a garantire un “galleggiamento sostenibile” per l’associazione, e di come si siano rese più chiare e trasparenti le informazioni economiche e finanziarie. Il bilancio è stato verificato e confermato anche dall’Organo di controllo, rappresentato in assemblea da Alessandro Vincis, che ha sottolineato come la semplicità e la chiarezza della gestione abbiano reso tutti più partecipi delle dinamiche economiche dell’associazione.

Il presidente ha anche esposto la relazione preventiva per l’anno corrente. L’argomento principale è il rinvio dell’assemblea elettiva al 31 ottobre in modo da poterla tenere in presenza, a Roma. È importante poter effettuare in presenza tale assemblea, in quanto i membri degli organi direttivi devono essere conosciuti e deve essere chiaro a chi è affidata la gestione dell’associazione. A tal proposito, si è ampiamente ripetuto durante le ultime battute dell’incontro come ci sia la necessità che l’assemblea elettiva sia un momento di rilancio, pensando al futuro dell’associazione anche in termini anagrafici, dando fiducia ai più giovani che portano con sé competenze, cuore ed entusiasmo. Giovani che stanno già creando una rete anche al livello nazionale grazie agli incontri formativi organizzati dal direttivo nazionale e grazie a numerose iniziative proposte e organizzate in autonomia e con spirito di iniziativa. Nella chiusura della relazione preventiva, il presidente ha esortato nuovamente i circoli locali a prendere maggior coscienza delle proprie responsabilità gestionali ed amministrative, dall’adeguamento alla riforma del terzo settore fino al tesseramento dei soci, fondamentale perché siano garantiti i diritti statutari e perché si possano portare avanti molte iniziative.

È stata riportata una proposta arrivata da parte dei Salesiani per il Sociale APS, che invita il CGS a diventare parte di una rete associativa (contemplata dalla riforma del terzo settore) insieme all’associazione TGS – Turismo Giovanile e Sociale, che permetterebbe di ampliare le opportunità per una presenza salesiana più rappresentativa a livello nazionale. Infine, è stato ricordato che la sede dell’associazione sarà trasferita, insieme alla comunità del CNOS, dall’Istituto Sacro Cuore all’Istituto Salesiano Pio XI in via Costamagna a Roma.

La votazione sulla relazione annuale e sul bilancio ha visto l’approvazione unanime da parte di tutti gli aventi diritto.
Oltre che con uno sguardo verso il futuro, l’assemblea si è chiusa con un occhio al passato: è stata infatti avanzata la proposta, accettata con generale accordo, di creare una memoria storica dei cinque decenni vissuti fin qui dall’associazione, mediante gli strumenti comunicativi a noi cari, che possa essere testimonianza del lavoro e della passione di tutti coloro che hanno gettato le basi per ciò che è oggi l’associazione Cinecircoli Giovanili Socioculturali.

Piergiorgio Geraci – CGS Don Bosco Ranchibile

Italia – Un volume raccoglie le Lettere Circolari di Don Chávez ai salesiani

Dal sito dell’agenzia salesiana ANS.

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(ANS – Roma) – Le Lettere circolari ai Salesiani emanate da Don Pascual Chávez Villanueva, Rettor Maggiore emerito, vengono raccolte in questa opera unica (1.386 pagine) dal sig. Marco Bay, SDB, per favorire la rilettura dei 12 anni del Rettorato (2002-2014) e riscoprire l’operato, la guida, il governo, gli eventi, gli incontri, le ricorrenze, le scelte e l’animazione da parte di Don Chávez della Società di San Giovanni Bosco e della Famiglia Salesiana. Il volume, edito dall’editrice salesiana LAS, gode della presentazione di Don Ángel Fernández Artime, Rettor Maggiore e X Successore di Don Bosco.

Don Chávez indica chiaramente che “per poterle valorizzare meglio nelle varie comunità, si suggerisce che siano scritte in un linguaggio semplice e discorsivo e che si alternino quelle ricche di contenuto su temi impegnativi con altre familiari e informali sulla vita della Congregazione. … Cercherò – indica ancora lo stesso Chávez – di essere fedele a questa richiesta, al fine di aiutare a sviluppare di più il senso di Congregazione e di stimolare a riflettere sul carisma, due cose entrambe indispensabili per assicurare l’unità nella diversità, uno dei compiti più preziosi che io debba svolgere. Così la comunicazione del Rettore Maggiore sarà messa al servizio dell’animazione e del governo, partendo da ciò che si è fatto o si sta facendo nella Congregazione e dai suoi bisogni e dalle sue sfide”.

Infine, “lo scopo è sempre quello di far conoscere e valorizzare tutto ciò che siete e state facendo, raccogliere le sfide che la missione salesiana incontra, riflettere ad alta voce, cercando di attingere al nostro ricco patrimonio salesiano, per rispondervi con la mente, lo spirito e l’intraprendenza di Don Bosco”.

“Ci auguriamo che la lettura sia di gradimento alla Famiglia salesiana per dare continuità al cammino di speranza che continua in tutto il mondo” conclude il curatore del volume, sig. Bay.

Marco Bay attualmente collabora con la Segreteria Generale della Congregazione Salesiana e per l’editrice LAS ha pubblicato altre opere compilative con riferimento a don Juan Edmundo Vecchi (1931-2002) e don Renato Ziggiotti (1892-1983), rispettivamente VIII e V Successore di Don Bosco alla guida della Congregazione Salesiana.

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Note di pastorale giovanile – Come stanno gli adolescenti?

Dal sito di Note di Pastorale Giovanile, una conversazione con Gustavo Pietropolli Charmet  di Anna Stefi (Doppio Zero Editoriale)

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Incontro Gustavo Pietropolli Charmet rigorosamente a distanza, come in dad, dietro a uno schermo. Non ha bisogno di grandi presentazioni: è noto il suo lavoro con gli adolescenti e i suoi libri credo siano lettura cui non possa sottrarsi chiunque lavori – insegnante, formatore, psicologo, educatore – con i ragazzi. Ho letto il suo Il motore del mondo, uscito ad agosto e già recensito su queste pagine, ma la ragione per cui gli domando un appuntamento è che, come ho raccontato, sono in un vuoto di senso che rende difficile il mio tempo in classe e mi fa pensare urgente la necessità di interrogare la scuola, quanto accaduto, dove siamo e cosa questo tempo ci ha mostrato in modo più evidente di prima.

AS: Professore, come stanno gli adolescenti? Come è stato questo tempo di restrizioni, di frequenza con i coetanei ridottissima, a stretto contatto con la famiglia: cosa ha determinato?
GPC: Come stanno? La pandemia ha fatto due vittime: gli anziani li ha fatti fuori, e gli adolescenti li ha malmenati. Non lei direttamente, ovviamente, perché gli adolescenti non hanno nemmeno visto la morte e la malattia atroce; in primo piano hanno visto le misure preventive, le restrizioni, le rinunce, tutte apparentemente rivolte a loro: calcio, concerti, sport. Ogni cosa. Chiusi in casa. Tutto questo, in una famiglia, generalmente si definisce “castigo”: impedire di uscire, impedire l’allenamento di calcio, il vedere gli amici, sono dei castighi. Castigo, dunque? E per che motivo? Non si trattava di un castigo, sono state date delle regole, apparentemente insensate, che dovevano essere seguite. Certo è che queste regole hanno comportato deprivazioni importanti e significative. In famiglia non mi sembra che ci siano stati problemi, globalmente, la famiglia contemporanea è una famiglia a scarso contenuto etico, prevale più l’attenzione alla relazione che la regola, l’occasione di conflitto è stata dunque tollerabile. Certo, c’è stato un lungo tempo nella cameretta e un riflusso verso attività di marca regressiva: cucina, recupero della gastronomia, giochi in scatole, repertorio di cose dismesse tornate di moda per il maggior tempo a disposizione.
Il gruppo è rimasto accessibile – per loro un amico virtuale è un amico reale – e con la famiglia è stata una sorta di tempo di vacanza prolungato, con genitori a casa tutto il giorno. Socialmente invece le privazioni sono state molte, gli è stato impedito il movimento, il divertimento, il ballo, ma anche cose importanti, iniziatiche: il concerto in centomila a San Siro è un’occasione importante, che reimmerge nel clima della propria generazione. La colonna sonora diventa un’esperienza reale, con la sua ritualità.

AS: E la scuola? Come hanno vissuto la dad? Ho faticato a capire i loro vissuti, del resto molto diversi tra loro. Credo tuttavia che non si possa negare che sia visibile, da che siamo rientrati, un generale smarrimento, anche in chi era ben contento di dormire un’ora in più e connettersi indossando una maglietta sopra il pigiama.
GPC: Sento sempre dire che la loro malinconia e la loro protesta dipendano dalla difficoltà dell’andare scuola: gli amici, il gruppo classe, la dad, il contatto artificiale con gli amici. In verità non credo che sia questo il tema: loro hanno la grande risorsa di poter avere, con la loro rete, ampi contatti di natura erotica, aggressiva, virtuale, di conoscenza. Quando entrano nella loro cameretta a noi pare che vadano a studiare e dormire, ma nei fatti entrano in un centro sociale, in un’agorà piena di occasioni. Non credo sia stato questo che li abbia fatti soffrire, credo che, molto indirettamente, li abbia fatti soffrire – senza che se ne possano troppo accorgere né lo possano ammettere – il fatto che la scuola, come tutte le organizzazioni di lavoro, in questo periodo ha traballato: chiusi, aperti, socchiusi, eccetera. Questo li ha messi in difficoltà coralmente: è vacillata la loro istituzione di lavoro, che garantisce ruolo sociale, identità, appartenenza, colonizzazione del futuro, fraternizzazione – mica poco! Si tratta di cose grosse, importanti, sono le cose che fa un’università o un luogo di lavoro, un’azienda, per un adulto, senza i quali è molto facile cadere in depressione: non si sa più chi si sia, non si hanno progetti, si perde valore sociale. Ecco la scuola è l’unico momento sociale che gli consentiamo di avere, ha una funzione di appartenenza, seppur precaria, ed è il luogo dove possono prendere minimamente contatto con la propria vocazione: cosa mi piace fare? Si tratta di un contatto vago, la scuola lo sappiamo non aiuta molto in questo senso, però ci prova, nel confronto con discipline diverse qualcosa di uno stile, di un gusto, si delinea. Questa secondo me è stata la perdita più grave: il loro lavoro, quello che dava loro una qualche forma di identità, è stato sottratto. Questo ha creato un’anomia e questa, sì, è una perdita reale. Son andati in “cassa integrazione” da questo punto di vista: studenti a mezzo servizio, con tutta la sottrazione di queste benemerenze che la scuola ha, indirettamente. La scuola consente a un adolescente di sapere perché è in colpa o perché si vergogna: se apre gli occhi la mattina un adolescente incontra interrogativi su compiti, interrogazioni, scadenze. La scuola è un grande organizzatore dei sentimenti, e questa è una funzione enorme. Se un adolescente deve per contro proprio la mattina decidere se è in colpa o meno, se si deve vergognare, rispetto a che cosa, è complicato! Il figlio dell’uomo, spontaneamente, prima di aver accesso alla gioia, è portato a liberarsi di colpa e vergogna, in agguato appena apriamo gli occhi.

AS: E il rapporto con gli insegnanti?
GPC: È andato male, purtroppo. Gli insegnanti, non addestrati a insegnare a distanza, hanno ripetuto la lezione che avevano preparato. Non viene bene, non funziona: le occasioni di distrazione in camera o in cucina – dove ad ascoltare c’è anche il nonno – sono troppe. La dad non può sostituire l’insegnamento tradizionale, è necessario che si proponga dell’altro, un altro modo. Il paese sta andando verso questo – si lavora da casa, l’università sarà a casa e forse anche la scuola. È necessario pensare a modalità nuove. Così è deludente. Quello che è venuto a mancare non è tanto l’apprendimento, o una modalità di fare cultura diversa da quella che si fa a scuola, è che la scuola è una liturgia, è entrare in Chiesa, è entrare in una istituzione, è la forte richiesta sulla soglia di uscire dal ruolo di adolescente e entrare in quello di studente, con una offerta di mediazioni, nei confronti dei compagni e dei docenti, importante. La dad non offre tutto questo.

AS: Si parla poi molto del rapporto di controllo: telecamere spente e accese; la mole di verifiche non appena si è tornati in classe; la rincorsa alla valutazione…
GPC: Ne sento parlare spesso dai ragazzi, mi sembra strano, ma è anche comprensibile: i docenti sono diventati molto sospettosi nei confronti dei ragazzi, sono ricorsi a verifiche, valutazioni continue. L’immagine della ragazza bendata coglieva nel segno. Diminuendo il controllo visivo aumenta una specie di controllo rafforzato, per vedere se effettivamente qualcosa è passato. Mi diceva il dirigente di un grande istituto che c’è il tema di verificare se si connettano davvero, se siano davanti allo schermo. Ovviamente ci sono stati docenti che si sono fatti in quattro per trovare modalità alternative, capire bisogni, intercettare modalità di relazione che siano contestualizzate al momento che i ragazzi vivono: in fondo alcuni docenti fanno lezione a ragazzi al primo anno di scuola che dunque non si conoscono nemmeno tra loro, al quinto anno c’è il tema della maturità, insomma ci sono situazioni differenti da considerare.

AS: La sensazione che ho, in classe, nell’assenza-presenza, è che il controllo, diventato delirio di controllo, sia esito di un vissuto dell’insegnante di grande solitudine, che non è data tanto dal tema della telecamera accesa o spenta, quando da interrogativi di senso rispetto al proprio operare. Si è interrotto un agire automatico che abitava la scuola, il “cerimoniale”, e si è persa un po’ la capacità di collocarsi. Mi è parso che questo sia accaduto da entrambi i lati. In un primo tempo, al rientro, i ragazzi portavano un desiderio di restare a casa, e mi pare che a dare corpo a questo desiderio contribuisse una sensazione si spaesamento: aprile sembra giugno, come ho scritto. Si è provvisori, come se l’anno fosse finito (o, forse, nemmeno iniziato).
GPC: In questo senso io non credo che sarà possibile recuperare la normalità. Siamo usciti dal setting. Vale anche nella mia professione: ho lavorato a distanza e ora raggiungere lo studio mi sembra un’impresa, mi sembra di essere meno protetto e meno competente. È un discorso complicato quello che andrebbe fatto, ma devo dire che sono stato molto colpito e ho cambiato alcune convinzioni. Ero prevenuto rispetto alla possibilità di costruire una relazione a distanza con i ragazzini, soprattutto quelli che stavano peggio. Ho invece avuto l’impressione che questo strumento consenta, se si vuole, un’intimità, una confidenza, e un approfondimento che nel mio mestiere sono valori di riferimento. Quello che ancora non so dire è quanto tale intimità, tale ‘serietà’ – che fa il mio gioco in questo lavoro –, dipenda dal fatto che fuori c’è la pandemia e dunque qualcosa arriva a loro della gravità della situazione.

AS: C’è dunque stato un incontro con la morte?
GPC: Percepire la serietà della situazione, cosa che è accaduta anche se non lo ammettono esplicitamente, non ha voluto dire che abbiano visto la malattia grave o la morte orrenda, non hanno visto il rischio della distruzione della specie umana, né che abbiano paura dell’una o dell’altra. E questo è stato un errore educativo grossolano che è stato fatto dal nostro paese. Ci siamo lasciati sfuggire una occasione, un’occasione per dire, con la morte lì, “parliamo di questa faccenda che corre insieme alla vita”. Letteratura, poesia, la morte imprigionata, risolta: siamo immersi nella morte, non sappiamo se la nostra specie sopravvivrà – e se non dovesse succedere? Perché non si è alzata una voce sobria, autorevole, comprensibile – ma anche un po’ stupefacente – per parlare ai ragazzi di tutto questo. È difficile parlare con loro della relazione con la morte eppure loro ci pensano, il 20% degli studenti liceali ha fantasie di suicidio, che non attueranno, ma è un passaggio obbligato.
È la scoperta della loro mortalità. Sono lasciati soli con tutto questo e abbiamo perso una grande occasione, perché per evitare che le fantasie diventino azioni bisogna che siano trasformate in parola. Loro hanno visto le misure, le regole, più delle ragioni che hanno determinato tali misure. Al più si è messo a tema il “non portare a casa il virus ai nonni”, mentre invece si sarebbe potuto convocare i ragazzi, responsabilizzarli, un grande volontariato nazionale, si sarebbe potuto trovare dei modi di coinvolgerli per portare il cibo, accompagnare per i vaccini, e soprattutto evitare i contagi con misure più significative, con un livello di responsabilità maggiore, non con una legge cieca. Il discorso sui nonni, paradossalmente, ha avvallato la loro immortalità: l’identikit della persona a rischio non erano loro. Ecco questo credo sia stato un grande errore, proprio adesso si poteva accogliere il loro: “mamma ma tu lo sapevi che sarei morto? E allora perché mi hai fatto nascere?”. Lo hanno questo problema in qualche modo, perché li abbiamo lasciati soli con questo?

AS: La scoperta della propria mortalità, dice, i fatti di cronaca registrano in questo ultimo anno un numero di passaggi all’atto che spaventa: è così o è la messa a fuoco dei media su questo che crea l’impressione che sia un fenomeno in aumento?
GPC: Credo si possa dire che, al di là dei dati statistici in questo ambito sempre opinabili a causa delle difficolta di registrazione, senza dubbio se ne parla di più di quanto accadeva un tempo. La “propria morte” è stata sdoganata, un adolescente in grave crisi sente che quella è una possibilità, si sente libro di scegliere la soluzione migliore al proprio dolore e il rifiuto di crescere è a portata di mano. Ecco perché parlo di occasione mancata, mi pare davvero fondamentale costruire una educazione sul tema della morte che non li lasci soli a decidere nel momento più cupo della loro vita.

AS: E per quel che riguarda l’esplosione del disagio psichico? Ho l’impressione che siano aumentati, almeno al mio sguardo, attacchi di panico, atti autolesivi, fenomeni di chiusura…
GPC: Non c’è dubbio che dalla pandemia sia venuta fuori una quantità notevole di ragazzi che stanno male. Ci sono indici di richieste di ricovero nelle neuropsichiatrie infantili, nei servizi di neuropsichiatria, che sono segnale del fatto che c’è davvero un esito cicatriziale di questo insieme di situazioni di malessere generalizzato e di mancanze. Attacchi di panico, disturbi della condotta alimentare, paradossalmente anche il ritiro sociale è esploso: i ragazzi lo facevano già prima, chiudersi nel virtuale, e si sono ancora più radicati. Sarà ancora più complicato tirarli fuori. C’è una relazione tra pandemia e aggravamento epidemiologico di situazioni di malessere abbastanza gravi, soprattutto – stranamente – fenomeni di autolesionismo. Le crisi di panico sono momenti orrendi, terrificanti – in quel momento sei morto o sei pazzo –: è una radicalizzazione della grande paura del figlio dell’uomo. Paradossalmente hanno una loro efficacia: hai paura ma non muori e non impazzisci, per quanto rimarrà il ricordo di quel momento davvero orribile. Nel consultorio gratuito dove lavoro abbiamo una richiesta importantissima di aiuto, strettamente correlata alla pandemia: molti sono i ragazzi traumatizzati dalla morte che hanno avuto in famiglia – spesso morti multiple, vista la contagiosità del virus. Complessivamente c’è sempre una frangia di ragazzi che sta male, potremmo dire per ragioni statistiche, ma ecco quello che vedo è che il disagio si è aggravato. Io ho scelto di lavorare con questi ragazzi: ritiro sociale, disturbi della condotta alimentare, atti autolesivi. Tutto questo quarant’anni fa, quando ho iniziato questo lavoro, non c’era. L’autolesionismo era allora un sintomo gravissimo di esordio psicotico, il corpo non si toccava era la casa del Signore o comunque apparteneva alla madre, sacro. L’uso del corpo per risolvere un problema della mente è nuovo e soprattutto è nuova l’intensità dei sentimenti violenti, intollerabili, in assenza di una diagnosi clinica. Questi cambiamenti sono un po’ sconcertanti, le metodologie sono sconcertanti: tagliarsi, digiunare, chiudersi nella stanza. Insomma rende la misura del dolore. Ma non è solo questo: c’è stato anche un ingigantirsi, a seguito della pandemia, di alcuni vissuti, come la noia e la tristezza. Questo ha prodotto depressione, apatia, perdita di progettualità, disinteresse, e poi soprattutto il disprezzo per chi prova ad avvicinarsi con proposte – sport, cultura, gastronomia – non interessanti. Gli adolescenti han molto sofferto, direi che si è slatentizzato qualcosa che era già presente, che è stato messo in forma dal periodo di pandemia ed è diventato qualcosa da curare, mentre prima si tendeva a ignorare.

AS: Dice di queste proposte che arrivano a loro: mai interessanti. Incontro questo, in classe. In Il motore del mondo (Solferino, 2020) lei scrive che la scuola non insegna il futuro, l’impressione che ho, in questo tempo, è che non solo la scuola non lo insegni ma che la fatica ora sia proprio reperirlo, un futuro. E dunque, come adulti, che si fa? Come ci rapportiamo, come rispondiamo a questa sfiducia, questa assenza di desiderio generalizzata.
GPC: Non c’è una risposta. Insomma come adulti con che faccia tosta ci presentiamo ai ragazzi vagheggiando il futuro come momento felice di realizzazione dei talenti? Siamo preoccupati, lo eravamo già prima di tutto questo. Sarebbe bello che la scuola potesse qualcosa, ma non è così. I docenti si ritrovano con una storia imponente da raccontare ai ragazzi, tutte le materie sono impregnate di questa storia, di come l’uomo ha costruito teoremi ed è arrivato su Marte. A forza di studiare il passato non si riesce a insegnare il futuro. È ovvio che si debba fare la storia, la storia della letteratura, ma qualcosa nell’impostazione attuale non aiuta a vedere il futuro, a dargli spazio. Forse mettere insieme le discipline in modo integrato, forse portare questo grande tema che li riguarda, il fatto che c’è da aggiustare la Terra, prima di tutto, aggiustare i rapporti umani, l’organizzazione sociale. Il lavoro che c’è da fare è il futuro, ma non si arriva a mettere a tema nella scuola. Si tratta di temi che possono essere affrontati solo in un dialogo tra diverse discipline e io credo che questo per i ragazzi sia molto importante: il disastro che è sotto i nostri occhi va messo a posto e c’è poco da fare, tocca a loro. Non è male come compito, è un compito eroico.

AS: Mi sembra tuttavia che più che il futuro i ragazzi soffrano della propria, singolare, inettitudine alla vita: in fondo io, nei loro discorsi, non sento che non c’è il futuro, sento che c’è la propria impotenza, il loro essere inadatti, come qualcosa di irredimibile. Forse è l’adolescenza, forse è stato così anche per noi, ho l’impressione – ma magari è il mio sguardo dimentico – che oggi sia più radicale. Non c’è modo di uscire dalla propria inettitudine alla vita.
GPC: È così. Se parliamo di futuro bisogna pensare che per loro il futuro è domenica. Sarò capace, domenica, di fare quel che non ho fatto? Se non sono capace sono inadeguato alla vita: mi ritiro, mi taglio, mi ammalo. Risolvono così l’inadeguatezza. Se però si accetta che al posto del padre siede il gruppo e che è il gruppo che decide cosa è importante o meno – esser bello? aver successo? occuparsi del pianeta? – il pensiero del gruppo può essere usato per accendere l’interesse, la vocazione. Il valore personale dell’insegnante è avere questo tesoro pazzesco di informazioni sul passato da trasmettere, ma parla del passato.

AS: Ma un po’ ci si illude che nel passato si trovi qualcosa di sé, in fondo mi pare che dire il passato sia trovare tracce, rendere complessa l’inadeguatezza, svelare che è fatto antico.
GPC: Non è semplice con gli adolescenti che ci troviamo davanti oggi. Quello che li attacca non è il vecchio e amabilissimo Super-Io, non è la legge morale, il parroco, il dovere. Il tema sono gli ideali della società dei consumi: la vergogna produce un sentimento di inadeguatezza irreparabile, crudele, non è come la colpa, che si ripara con la confessione. Chi è inadatto deve solo vergognarsi e scomparire, è più grave. Come fare a valorizzarli a fronte di esperienze personali mortificanti? Sono marginali, non riescono a essere popolari. Vivono in un cono d’ombra. Riuscire a tirarli fuori da tutto questo non è semplice: bisogna valorizzare la loro età, la loro generazione, la loro sottocultura. Non è impossibile, non è peggiore delle altre, ma è un compito difficili e bisogna fare attenzione; molti docenti amici, di grande volontà, rischiano di trasformare la scuola in un servizio: ma se la scuola è un servizio hai dei clienti e devi soddisfarne le esigenze, e dunque è finita l’educazione. I ragazzi oggi sono più vicini al disprezzo che all’aggressività. Una volta al docente disobbedivano, oggi lo disprezzano: non gliene frega niente. Quello che non riescono a fare è davvero indossare il ruolo di studente e restituire alla scuola un valore istituzionale ed etico. Sono in classe ma, anche nelle mura dell’aula, restano adolescenti e non studenti. Hai voglia tirarli dalla parte della cultura e della ricerca! A un adolescente non interessa, interessa a chi è entrato nel ruolo di studente, ma non è così scontato che questo accada. Bisognerebbe rendere il ruolo di studente molto accattivante, farne non solo un fatto di merito e votazione, ma promuovere ingegno, capacità, motivazione. Del resto gli allievi che portiamo avanti nei nostri studi sono persone ingegnose, creative, anche se – secondo me – con una coscienza sindacale esagerata! Ma è anche giusto, certo, fatto sta che spesso mi trovo da solo a lavorare e loro alle cinque sono andati a casa. Io ero l’ultimo a spegnere la luce quando c’era il Professore e ora accade lo stesso, sono sempre l’ultimo a uscire: sono il Professore e spengo la luce!

Italia – Conclusione della Visita Straordinaria di don Pèrez Godoy all’Ispettoria dell’Italia Meridionale

Dal sito dell’agenzia salesiana ANS.

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(ANS – Napoli) – Si è conclusa ieri, lunedì 31 maggio, a Napoli, la Visita Straordinaria di don Juan Carlos Pérez Godoy, Consigliere per la Regione Mediterranea, all’Ispettoria “Beato Michele Rua” dell’Italia Meridionale (IME).

Per quattro mesi esatti, dal 31 gennaio al 31 maggio, don Pérez Godoy ha attraversato l’Italia meridionale, l’Albania e il Kosovo – le cui missioni appartengono anch’esse all’animazione e al governo dell’IME – e ha incontrato la Famiglia Salesiana attiva nelle 27 case salesiane, impegnata nella missione educativa in diversi settori di animazione pastorale con oratori, parrocchie, scuole e comunità-famiglia.

“Sono felice di aver conosciuto in maniera più approfondita quest’Ispettoria – ha dichiarato il Consigliere Regionale –. È una realtà salesiana generosa, composta da tanti ragazzi, laici e consacrati che in questo territorio dalle molteplici forme di disagio sociale si impegnano identificandosi fortemente nello spirito di Don Bosco”.

Presso la sede ispettoriale di Napoli, ieri, don Pérez Godoy, con l’ausilio dell’Ispettore IME, don Angelo Santorsola, ha incontrato tutti i Direttori delle case salesiane per presentare la relazione conclusiva della sua visita straordinaria. “Guardando in prospettiva, la missione salesiana nel Sud Italia non solo è ancora valida, ma è necessaria. In questi mesi ho avuto modo di verificare diverse espressioni di emergenze sociali e giovanili, come la disoccupazione, l’immigrazione, i disagi economici, la mancanza di reali sostegni del settore pubblico. La Chiesa rappresenta una delle poche presenze che concretamente si mobilita con azioni di aiuto e solidarietà. E in questo senso i salesiani, con il loro specifico carisma per gli ultimi e i più bisognosi, possono raccogliere tutte queste sfide e affrontarle con un unitario progetto d’azione ispettoriale e regionale”.

La giornata è terminata poi con un momento di ringraziamento e di convivialità intorno al Visitatore, “grati – come ha sottolineato don Santorsola – per averci illuminati e incoraggiati a proseguire con entusiasmo e speranza il servizio verso i giovani del Meridione”.

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Italia – A 40 anni dall’attentato delle BR, il sig. Magagna ricorda

L’agenzia salesiana ANS ha intervistato il sig. Giuseppe Magagna, coadiutore oggi di casa al Noviziato di Genzano, che 40 anni subì un attentato dalle Brigate Rosse, mentre si trovata nel CFP del Gerini di Roma.

(ANS – Roma) – Tutto il mondo ha ricordato pochi giorni fa l’attentato a Giovanni Paolo II compiuto il 13 maggio 1981 dal killer professionista Alì Agca, in Piazza San Pietro: il Papa polacco si salvò miracolosamente ed attribuì sempre la sua salvezza all’intercessione della Madonna. Forse, però, non tutti sanno che pochi giorni dopo, il 29 maggio 1981, fu un salesiano coadiutore a rimanere vittima di un attentato, questa volta da parte del gruppo terroristico delle Brigate Rosse (BR), e anche lui si salvò per una serie di circostanze “fortunate”, che anch’egli attribuisce alla protezione di Maria. In occasione del 40° anniversario di quell’episodio, la vittima e il “miracolato” di quell’attentato, il sig. Giuseppe Magagna, SDB, ha condiviso con ANS i suoi ricordi e le sue riflessioni.

Sig. Giuseppe, cosa ricorda di quel giorno? Ci può descrivere cosa accadde?

Era il mattino del 29 maggio 1981. Tutto l’evento iniziò alle 7:40 e terminò alle 7:55. Stavo aprendo le porte ai ragazzi, quando sento alle spalle una voce: “Ci manda Pasquale, vogliamo farle una intervista”. Pasquale era il politico del CNOS-FAP con cui io collaboravo spesso. Quindi rispondo: “Accomodatevi”, aprendo l’ufficio. Vado ad aprire la persiana e mi sento dietro le spalle una voce forte: “Spicciati, siediti”. Io mi giro e mi sembrava che in mano avesse un microfono e rispondo: “Calma, calma…” Sempre con voce irritata dicono: “Siamo Brigate Rosse, siediti”. Vedo allora il silenziatore di una pistola. Sento freddo alla schiena, ma mi siedo.

Cominciano con la scritta sul muro, ma non riescono a terminare perché la bomboletta non funziona più. Allora mi attaccano il cartello usuale al collo: “CONTRO IL LAVORO NERO” e altro che non ricordo. Quindi il primo colpo di pistola all’inguine destro e la pistola si inceppa. Con un’altra pistola sparano al piede destro e poi alla gamba sinistra e la seconda pistola si inceppa anch’essa. Grido: “Basta, andatevene!”.

E così, non certamente perché l’ho detto io, se ne vanno! Chiamo la portineria e dico di chiudere tutti i cancelli … e poi con l’Economo e un insegnante di corsa al Policlinico… il resto è storia risaputa.

Secondo lei, perché decisero di sparare proprio a lei?

Probabilmente cercavano una persona della Direzione in un punto da cui sarebbe stato più facile uscire.

Infatti, terminato quanto avevano programmato, sono usciti dal laboratorio e, saltando il cancelletto che conduceva all’oratorio sono saliti nella macchina che li attendeva all’ingresso dello stesso, scomparendo nelle vie adiacenti.

È da notare che il cancello dell’oratorio era normalmente chiuso al mattino e solo quella mattina era stato aperto, per motivi di pulizia all’interno. Quindi sicuramente l’attentato era preparato da tempo ed essi attendevano il momento opportuno.

È vero che gli attentatori vennero inseguiti da ragazzi e professori?

Sì. Appena sono usciti dal laboratorio e si sono incamminati a passo veloce verso il cancelletto che divide l’istituto dall’oratorio, un gruppo di ragazzi ha tentato di inseguirli, ma di fronte alle pistole che i BR avevano spianato contro, si sono fermati e quindi le stesse hanno avuto il tempo di saltare il cancelletto.

Ha mai avuto modo di incontrare gli attentatori? Li ha perdonati?

Per il perdono, senz’altro! Una di loro, attraverso Padre Bachelet, mi ha inviato una lettera, che peraltro io non mi ritrovo più, in cui la BR riconosceva l’errore sociale e politico del gruppo e chiedeva il mio perdono.

Io gli ho risposto che il mio perdono era assicurato e l’ho invitata a continuare il suo percorso di ritorno alla società che le BR volevano sovvertire.

A distanza di 40 anni, è riuscito a vedere se da quel tragico episodio è venuto anche qualcosa di bene?

Il fatto che appena tornato dall’ospedale e rientrato in mezzo ai ragazzi, pur con le gambe ingessate, i ragazzi mi abbiano espresso la loro stima e amicizia in tanti modi, questo credo sia stato un momento positivo per i ragazzi stessi, in quanto con il loro comportamento nel tentativo di inseguirli e con la benevolenza poi verso di me hanno dimostrato il rifiuto verso queste forme di violenza.

Inoltre, dopo un anno circa una donna delle BR che non aveva partecipato all’evento, ma aveva contribuito a prepararlo, mi ha telefonato chiedendo perdono pur non avendo partecipato di persona. Nel colloquio telefonico anch’essa ha espresso in modo preciso il suo giudizio negativo del movimento terroristico e mi ha ringraziato per avere risposto e per quanto io gli ho detto in merito alla violenza e al mio perdono.

L’attentato avvenne a pochi giorni dalla festa di Maria Ausiliatrice. Secondo lei, è stata la Madonna a proteggerla?

Certamente! Ho sempre creduto che Qualcuno dall’alto in qualche modo sia intervenuto! Una bomboletta di vernice che non funziona, una prima pistola si inceppa, la seconda si inceppa anch’essa…. Cosa dovrei pensare?

Credo che per me era preparato un campo di lavoro in cui avrei potuto fornire le conoscenze, capacità, comportamenti per far sì che i giovani che avrei incontrato nella formazione professionale diventassero “ONESTI CITTADINI E BUONI CRISTIANI”.

Forse non ho fatto tutto quanto avrei dovuto fare per questo, ma ho fiducia che quel Qualcuno mi farà poi da avvocato quando mi presenterò di fronte alla Giustizia Divina. E per questo pregate per me.

Gian Francesco Romano

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Ispettoria Meridionale, a Caserta si ricorda il sacrificio di Falcone e la giornata della legalità

Dal sito dell’ispettoria Meridionale, il racconto della giornata della legalità organizzata dall’Istituto Salesiano “Sacro Cuore di Maria” di Caserta, dal comitato “Amici di Don Bosco” e dai ragazzi della comunità alloggio “Casa Pinardi” in ricordo del sacrificio del giudice Falcone.

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Il 23 Maggio del 1992 è stata una giornata che ha cambiato la storia politica, giuridica e sociale del nostro Paese. Da quel giorno, nonostante il dolore e la distruzione causati da una criminalità organizzata senza coscienza, il sentimento di rabbia della brava gente Italiana si è trasformato in energia per alimentare un cambiamento che non si è mai più fermato. Noi Salesiani, sui quattro pilastri della Legalità (uguaglianza, pace, giustizia e libertà) abbiamo consolidato il percorso tracciato da Don Bosco: anche quest’anno non potevamo sottrarci dal commemorare il sacrificio del Giudice Borsellino e degli uomini e donne che hanno sacrificato la loro vita per il bene dello Stato.

L’ Istituto Salesiano “Sacro Cuore di Maria” di Caserta, il comitato “Amici di Don Bosco” e i ragazzi della comunità alloggio “Casa Pinardi” in occasione di questa data hanno organizzato un bellissimo evento commemorativo dal titolo “SeminiAmo legalità: Palermo chiama, l’oratorio Salesiano di Caserta risponde”. La partecipazione di molti ragazzi, dai bambini delle elementari a quelli più grandi delle superiori, e il coordinamento degli animatori ha permesso di creare un momento unico sia di ricordo che di motivazione: Caserta e i suoi giovani non si piegano all’illegalità. L’obiettivo della Giornata, riprendendo il pensiero del Direttore dell’Oratorio don Giancarlo D’Ercole, è stato quello di “fare memoria”, non intendendola come semplice ricorrenza annuale, ma come fiamma accesa da quasi trent’anni che fa luce verso un nuovo futuro più giusto.

Sono stati tanti gli ospiti d’eccezione intervenuti nel corso della giornata. Il Comandante della Squadra Mobile di Caserta Angelo Barbato, in rappresentanza del Questore di Caserta, ha presentato alla manifestazione una volante per “scortare” simbolicamente i ragazzi e ragazze dell’Oratorio che per un giorno sono stati gli uomini e donne di legge e dello Stato uccisi dalla criminalità organizzata. Al termine di questo percorso a piedi, momento di grandissima umanità è stato l’arrivo all’Oratorio e l’incontro con Don Bosco personificato da un ragazzo dell’Istituto Salesiano. La giornata è proseguita con gli allievi della scuola secondaria che hanno esposto numerosi striscioni colorati preparati nei giorni precedenti con l’aiuto degli animatori: la frase “Non li avete uccisi perché le loro idee cammineranno sulle nostre gambe” ha saputo rendere pienamente il sentimento che si respirava durante il corso della manifestazione. Gli studenti delle classi superiori hanno dedicato “Siamo Capaci”, brano scritto da Roy Paci e Giuseppe Anastasi, cantando e suonando al folto pubblico di ospiti e personalità dello Stato. Il testo racchiude tutta la voglia di rivalsa e riscatto per dire no al sistema criminale, ovunque si trovi. Successivamente agli interventi del Comandante della Squadra Mobile, del Magistrato Raffaello Magi e del Giudice Giuseppe Zullo, c’è stata l’inaugurazione dell’“Angolo della Legalità” dove i bambini delle scuole elementari hanno piantato quattro arbusti a significato dei quattro pilastri della legalità: uguaglianza, pace, giustizia e libertà.

Il grande impegno di tutti gli operatori e degli animatori, la dedizione dei giovani dell’oratorio non ha lasciato indifferenti i presenti. Infatti il Magistrato dott. Raffaello Magi ha donato, come ricordo della giornata, una copia dell’interrogatorio al primo “pentito” della storia, Tommaso Buscetta ritornato dagli Stati Uniti: il documento scritto da Giovanni Falcone, all’epoca Giudice Istruttore, ha rappresentato l’inizio al nuovo corso intrapreso dai due Giudici. Il documento sarà permanentemente esposto in Oratorio affinché le giovani generazioni possano sempre fare memoria e riflettere sulle parole di Giovanni Falcone: «si può sempre fare qualcosa».

Fulvio Mastroianni

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Avvenire – La Famiglia Salesiana e Torino invocano l’aiuto di Maria Ausiliatrice

Pubblichiamo l’articolo di Marina Lomunno su Avvenire per la festa di Maria Ausiliatrice, celebrata Torino alla presenza del Rettor Maggiore, don Angel Fernández Artime.

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Torino. Non solo per la famiglia salesiana, sparsa in 132 nazioni, ma anche per i torinesi la festa di Maria Ausiliatrice, giunta alla 153a edizione e che ogni anno raduna 20mila persone per la tradizionale processione per le vie di Valdocco, le strade percorse dal santo dei giovani, è un appuntamento fisso. Neppure le guerre mondiali hanno fermato l’uscita della Madonna dalla Basilica la sera del 24 maggio. Da due anni invece la pandemia ha costretto la statua a «fermarsi» nel cortile di Valdocco – accanto alle effigi di don Bosco e di mamma Margherita – «dove ogni pietra parla del nostro santo che cercava e accoglieva in questa casa i giovani più fragili», ha sottolineato il rettor maggiore dei salesiani, don Angel Fernández Artime, concludendo nel cortile della Basilica la novena nella serata di domenica scorsa. Ma la statua dell’Ausiliatrice transennata, l’obbligo delle mascherine, il cortile con sedie distanziate e gli ingressi in Basilica contingentati e controllati dal servizio d’ordine dei volontari, i collegamenti social tradotti in 5 lingue, grazie all’agenzia Info Salesiana che ha mandato in diretta le celebrazioni presiedute dall’arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, e dal rettor maggiore, hanno – se è possibile – reso ancora più intensa la preghiera in un momento così difficile.

«Mai il cortile e la Basilica nei giorni della novena e della festa la cui vigilia, per una felice concomitanza, è coincisa con la solennità di Pentescoste, sono rimasti deserti: migliaia di famiglie, giovani, anziani, rispettando le regole sanitarie, sono venuti a pregare commossi, anche senza processione, la nostra Mamma, aiuto dei cristiani, che in un momento così incerto ci invita alla responsabilità gli uni verso gli altri e, con don Bosco, ricorda alla famiglia salesiana la priorità per l’educazione dei giovani che la pandemia sta mettendo a dura prova», ci dice don Guido Errico, rettore della Basilica, casa-madre dei salesiani. Molto partecipate le due liturgie centrali in Basilica: domenica la concelebrazione presieduta da Nosiglia che, con parole di supplica, ha voluto affidare a Maria Ausiliatrice l’arcidiocesi di Torino che nei prossimi giorni si riunisce per «l’assemblea diocesana che, sul tema della Chiesa in uscita, promuoverà un’ampia riflessione in vista di un forte impegno che dovrà investire tutte le nostre comunità ecclesiali, le famiglie e i giovani in prima persona».

E poi ieri pomeriggio, nel giorno della solennità, la Messa presieduta da don Artime, decimo successore di don Bosco, che ha evidenziato come la pandemia stia decimando i più poveri del mondo che non hanno accesso a cure e vaccini: «Dopo un anno, la malattia continua a colpire molte persone. E anche se in alcuni luoghi si comincia a vedere la luce alla fine del tunnel, in altri la situazione rimane ancora molto grave e pesante. Oggi come ieri a Lei, nostra Madre, aiuto nei momenti difficili, orientiamo il nostro sguardo e rivolgiamo la nostra preghiera affinché arrivi al Signore. E nella solennità di Maria Ausiliatrice abbiamo bisogno, forse più che in altri momenti, di rivolgerle il nostro sguardo, affinché guardandola e parlandole con il cuore possiamo sentire che ancora una volta Lei ci dice: “Perché avete paura, non sono qui io che sono vostra madre?”».

RMG – Sig. Pettenon, SDB: “Raccogliere fondi vuol dire dare una mano alla Provvidenza affinché la cura di Dio per l’umanità trovi concretezza”

Dal sito dell’agenzia ANS.

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(ANS – Roma) – Salesiano coadiutore, di origine veneta – è nato 55 anni fa nel paese natale di un Papa santo, Riese Pio X – Giampietro Pettenon ha trascorso gli ultimi sette anni rilanciando e affinando a tutti i livelli le attività di “Missioni Don Bosco”, la Procura Missionaria salesiana di Torino, direttamente dipendente dal Rettor Maggiore. A settembre lascerà l’incarico al successore designato, don Daniel Antúnez, ma oggi per i lettori di ANS ripercorre sfide e soddisfazioni di questa “missione” che è stato chiamato a svolgere.

Gentile sig. Giampietro, in cosa è consistito il suo lavoro come Responsabile della Procura Missionaria “Missioni Don Bosco” di Torino?

Il servizio che ho svolto in Missioni Don Bosco è stato molto bello, e particolare, nell’ambito della Congregazione Salesiana. È consistito essenzialmente in un vivere di continui incontri fra persone. Incontri con i missionari che venivano a Torino-Valdocco, dove ha sede la Procura Missionaria, per presentare i bisogni dei più poveri e chiedere aiuto. Ed incontri con i nostri sostenitori, i benefattori delle opere salesiane, per far conoscere i bisogni della missione e tendere la mano per… “domandare la carità”.

Dopo sette anni, quale ritiene sia il risultato più importante conseguito alla guida di MDB? E quali sfide lascia a don Antúnez?

Faccio fatica ad individuare un risultato preciso, come se il servizio in Missioni Don Bosco fosse una gara con un traguardo da raggiungere. Coordinare la Procura Missionaria non è stato per me un lavoro, ma una “missione” da vivere ogni giorno, con le sorprese belle e difficili che la vita riserva a ciascuno. Riconosco comunque che sono stati anni di vita bellissimi, seppur difficili in alcuni passaggi cruciali.

A don Daniel Antúnez cedo il testimone di un’attività in corsa, proiettata verso un orizzonte di relazioni intense con i nostri benefattori, relazioni che necessitano di essere sempre più personalizzate e sempre meno massive. È nella relazione personale, caratterizzata dallo Spirito di Famiglia che ci ha insegnato Don Bosco, che dovrà misurarsi il mio successore.

Durante il suo mandato a MDB ha avuto modo di visitare in prima persona tante missioni e tante realtà di grande povertà, ma anche di speranza. C’è qualche episodio che l’ha più colpita?

Un po’ per necessità, un po’ per passione, ho conosciuto tanti confratelli salesiani e li ho visti operare sul campo. La loro testimonianza di donazione totale è commovente: stanno facendo autentici miracoli!

Ho sempre ritenuto la formazione professionale strategica per educare ed evangelizzare i giovani, specialmente i più poveri, ed avviarli alla vita in maniera dignitosa. Tra le opere che mi hanno più colpito, e che cito spesso, c’è stato un incontro, in un nostro centro di formazione professionale in Vietnam situato nella zona del delta del grande fiume Mekong. Il dirigente di una impresa commerciale di import-export che opera sulle banchine del porto ha detto di assumere volentieri i ragazzi qualificati alla scuola di Don Bosco perché hanno tre caratteristiche: 1. Non rubano, 2. Obbediscono al capo, 3. Sanno lavorare in squadra. Penso che un complimento più bello, rivolto al nostro servizio educativo, non potessimo riceverlo.

Don Bosco stesso fu un grande fundraiser. Oggi quali sono “i segreti” per svolgere con successo questa missione?

Raccogliere fondi per sostenere le opere salesiane in terra di missione è dare una mano alla Provvidenza affinché la cura di Dio per l’umanità trovi concretezza. Più che di “segreti” io parlerei di “atteggiamenti” da curare e vivere ogni giorno nell’incontro con l’altro, sia esso il missionario o il benefattore.

Anzitutto bisogna essere umili e riconoscere che quello che stai facendo è opera di Dio. Poi è importante essere sinceri e trasparenti, presentando i reali bisogni dei più poveri, e non quello che a te fa’ più piacere. Infine, essere riconoscenti per tutto l’aiuto ricevuto gratuitamente da tanti benefattori e che sei chiamato ad amministrare, in pieno accordo con i Superiori della Congregazione salesiana, affinché sia distribuito e condiviso con i più bisognosi.

Quanto è importante il ruolo dei laici nel settore della raccolta fondi? E quanto è contato, d’altra parte, il suo essere consacrato e salesiano nella gestione di una realtà come MDB?

In Missioni Don Bosco opera una bella squadra di laici che credono molto nel servizio che portano avanti con dedizione e tanta competenza. Sono loro il motore dell’attività. Senza di loro non ci sarebbe la Procura Missionaria. Io, come salesiano consacrato, ho cercato di entrare in questa organizzazione ben collaudata con il compito di essere l’olio che lubrifica il motore. L’olio del motore non si nota e non si percepisce che c’è. Ma senza olio il motore si surriscalda e brucia in fretta.

Vivo questo avvicendamento fra me e il mio successore, don Daniel Antúnez, come un cambio dell’olio, il tagliando periodico per mantenere in buona salute la macchina della Procura Missionaria.

Da quello che ha potuto vedere, la pandemia ha fiaccato o riacceso la generosità?

La pandemia da Covid-19 ci ha spaventati e provati molto, tutti: salesiani, giovani e benefattori, ma non ci ha travolti, anzi! La generosità non è venuta meno. Al contrario. Proprio perché abbiamo sperimentato in diversi modi la paura e l’impotenza di fronte a questa catastrofe, ci siamo sentiti più “umani” e solidali gli uni con gli altri. In particolare, i nostri benefattori si sono fatti presenti in maniera forte e spesso commovente. Di questo dobbiamo rendere lode a Dio.

C’è qualche altro spunto che vuole condividere con i nostri lettori?

Desidero ringraziare. È molto più quello che ho ricevuto da questa esperienza di quello che ho potuto modestamente donare. E concludo usando le parole del nostro caro Padre Don Bosco: “Dio benedica e ricompensi tutti i nostri benefattori”.

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Salesiani per il Sociale APS, don Francesco Preite è il nuovo presidente

Di seguito il comunicato stampa relativo all’assemblea nazionale di Salesiani per il Sociale APS di oggi, durante la quale sono stati rinnovati il presidente e il consiglio direttivo.

COMUNICATO STAMPA

ASSEMBLEA 2021, DON FRANCESCO PREITE È IL NUOVO PRESIDENTE
DI SALESIANI PER IL SOCIALE APS

 

(Roma, 19 maggio 2021) – L’assemblea Nazionale di Salesiani per il Sociale APS ha eletto il nuovo presidente per il quadriennio 2021-2025, che sarà don Francesco Preite, attuale direttore dell’istituto salesiano Redentore di Bari. Don Francesco è nato a Potenza, fa parte dell’Ispettoria salesiana Meridionale e ha 44 anni.  

Nel saluto all’assemblea, il nuovo presidente ha voluto sottolineare tre aspetti: “Sempre per e con i giovani. Tutto quello che siamo e che facciamo, la nostra identità e la nostra missione di Associazione, è per i giovani, specialmente i più poveri. Siamo una grande comunità nazionale, fatta di persone e di Enti del Terzo Settore con un buon radicamento territoriale: desidero davvero raccomandarvi di ricercare costantemente innanzitutto il dialogo con le Comunità Educative Pastorali locali ed i Comitati territoriali di riferimento. Scegliere il Sud. Non come semplice luogo geografico ma come scelta preferenziale rivolta ai più fragili, che popolano le periferie delle nostre Città, dei nostri territori, della nostra Italia. È evidente che laddove mancano diritti, servizi, cultura educativa, il disagio è più forte ed i ragazzi sono più esposti ai pericoli. Non siamo eroi, ma siamo persone chiamate nel Buon Samaritano a rendere un servizio educativo ai giovani. Continuiamo insieme a scegliere la via dell’educazione e del servizio responsabile per costruire un pezzo di Italia con e per i giovani. Ce lo chiede don Bosco, ce lo chiedono i giovani”.

A presentare all’assemblea don Francesco Preite è stato don Stefano Aspettati, superiore della Circoscrizione Italia Centrale e ispettore delegato per l’Emarginazione e disagio. “Don Francesco, ora direttore della comunità di Bari Redentore, ha maturato un’esperienza poliedrica, con una grande attenzione per i giovani emarginati e poveri e con un grande impegno anche in prima persona in un quartiere difficile. Siamo sicuri che saprà proseguire l’opera di generazione di una comunità dentro l’ufficio nazionale”, ha concluso don Aspettati. 

Durante l’assemblea, che si è svolta in modalità on line per le restrizioni dovute all’emergenza sanitaria, è stato rinnovato anche il consiglio direttivo formato, oltre che dal presidente, da: Jennifer Avakian (Ass. Casa Don Bosco Taranto), Valentina Bellis (Circoscrizione Piemonte e Valle D’Aosta Torino), Rino Balzano (Ass. Piccoli passi Torre Annunziata), Luciano Piras (Coop. Soc. Differenze Sassari) e Corrado Caiano (La Lunga Domenica Prato). 

Nella sua relazione, il presidente uscente, don Roberto Dal Molin ha raccontato l’ultimo anno di vita associativo. Un anno caratterizzato dall’emergenza sanitaria che si è trasformata in emergenza sociale e alla quale, come rete Salesiani per il Sociale APS, abbiamo fatto fronte. “Grazie per tutto quello che avete fatto e state facendo, senza clamori o titoloni da quotidiano, nella vita di tutti i giorni per tanti ragazzi e per le loro famiglie; siete il volto e cuore di Don Bosco”, ha detto don Roberto Dal Molin. Passando in rassegna quanto fatto, don Roberto Da Molin ha sottolineato il lavoro della sede centrale e tutti i contesti di partecipazione dove Salesiani per il Sociale è presente, così come i progetti in atto e l’attività di raccolta fondi. 

“Il futuro presidente e il Consiglio Direttivo eletti oggi sapranno certamente accompagnare la rete delle nostre associazioni in modo adeguato e propositivo”, ha concluso. 

L’assemblea ha poi approvato il bilancio ed eletto i tre probiviri, don Gianluigi Pussino, Alessandro Brescia e Michela Vallarino.

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