Attesi dal suo amore: spiritualità apostolica – la definitiva scelta vocazionale di Don Bosco per i giovani

 

Spiritualità apostolica – la definitiva scelta di Don Bosco per i giovani 

La motivazione vocazionale è dettata dall’amore per i giovani: se don Bosco non si occuperà di quei poveri fanciulli nessun altro lo farà al suo posto. Questo dice l’unicità e l’insostituibilità di una chiamata che viene da Dio. Essa ha bisogno di essere onorata in prima persona singolare e in prima persona plurale, perché ogni autentica vocazione diverrà sempre e comunque una convocazione per molti. 

Verso il Giubileo della Speranza

Dalla newsletter di Note di Pastorale Giovanile, l’editoriale di don Rossano Sala.

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I tempi sono maturi

Il 26 novembre 2023, nel messaggio per la 38a Giornata Mondiale della Gioventù papa Francesco concludeva il suo testo con queste parole: «Invito tutti voi, specialmente quanti sono coinvolti nella pastorale giovanile, a riprendere in mano il Documento Finale del 2018 e l’Esortazione apostolica Christus vivit. I tempi sono maturi per fare insieme il punto della situazione e adoperarci con speranza per la piena attuazione di quel Sinodo indimenticabile».
Tale riferimento diventerà per noi il filo rosso degli editoriali di NPG per il 2025, che si prefiggono di prendere sul serio questo invito del Santo Padre, riconoscendo che davvero adesso “i tempi sono maturi”. Perché l’interesse di non dimenticare quel felice e fecondo momento ecclesiale è più che strategico per noi che viviamo di pastorale giovanile. Anzi, sembra che dalle parole del successore di Pietro emerga il desiderio di recepire in pienezza un percorso che per tanti motivi non è stato ancora del tutto preso in carico da chi lo doveva fare. Vi è quindi la necessità di sviluppare le tante potenzialità ancora inespresse da quel Sinodo.
Vale la pena però, prima di rilanciare il metodo, lo stile e i contenuti del cammino sinodale che abbiamo vissuto con e per i giovani dall’ottobre 2016 al marzo del 2019, provare a vedere che cos’è successo alla pastorale giovanile in questi ultimi cinque anni, quelli che vanno dall’inizio del 2020 al termine del 2024, così da renderci conto perché è così importante ripartire con coraggio dall’evento sinodale dedicato ai giovani.

Un quinquennio molto turbolento

A tutti di certo sarà capitato di viaggiare in aereo ad alta quota e sentire la voce del pilota che invitava ad allacciare le cinture in quanto si stava entrando in una fase di “turbolenza”. Eravamo tranquilli, ci stavamo muovendo all’interno dell’aereo, stavamo facendo ciò che meglio pensavamo e abbiamo dovuto riprendere il nostro posto, allacciare le cinture, chiudere il tavolino e metterci in posizione di sicurezza per superare alcuni momenti di agitazione innaturale del velivolo.
Mi sembra una buona immagine per identificare il tempo immediatamente successivo alla conclusione del percorso sinodale con i giovani. Stavamo prendendo le misure e la rincorsa, cercando di comprendere che cosa il Signore avesse voluto dirci con tutto quel movimento innescato nella Chiesa intorno al mondo giovanile, e subito, a nemmeno un anno dalla pubblicazione dell’esortazione apostolica Christus vivit, è arrivata la pandemia in modo tanto inatteso quanto dirompente.
È stata a dire il vero molto più che una turbolenza, perché siamo letteralmente finiti nell’occhio di un ciclone per diversi anni. La pastorale in generale e quella dei giovani in particolare si sono fermate per molti mesi. Tutti ricordano, anche se oramai con una certa distanza e anche distacco, che cosa è successo a noi personalmente, al mondo nel suo insieme e alla vita ordinaria della Chiesa. Siamo entrati in un loop che ci ha in un certo senso risucchiati, paralizzati e frastornati. Da cui per certi aspetti non siamo usciti ancora del tutto.

Una recezione tutt’altro che semplice

Effettivamente a partire dal gennaio 2020 avevamo immaginato un movimento entusiasmante di ricezione, rilancio e potenziamento della pastorale giovanile, spinti dal vento in poppa di un cammino sinodale che aveva dato fiato alle fatiche dei primi anni del terzo millennio, ma che ci sembrava di avere superato.
Avevamo tutta la Chiesa con noi a sostenerci e accompagnarci. Un sinodo dedicato ai giovani è stato un unicum nella storia postconciliare, e non solo in quella storia. Avevamo documenti di qualità con indicazioni rilevanti e perfino profetiche: l’Instrumentum laboris, che faceva il punto della condizione giovanile e della pastorale giovanile, dandoci in mano un quadro di riferimento su scala mondiale che certamente andava poi contestualizzato in ogni territorio, ma che era una bussola assai precisa; avevamo il Documento finale, frutto dell’assemblea sinodale dell’ottobre 2018, ricco della freschezza e della passione di un momento di dialogo e confronto davvero ricco di proposte e stimolante da molti punti di vista; avevamo soprattutto la parola autorevole e propositiva di papa Francesco che aveva ripreso tutto il cammino fatto con l’esortazione apostolica postsinodale Christus vivit, rilanciandolo con originalità, audacia e profondità.
La pandemia ha bloccato praticamente questo cammino, dirottando tutte le nostre energie altrove. Prima di tutto sulla sopravvivenza, e poi nel cercare di immaginare come continuare a fare pastorale giovanile in un contesto così diverso da quello che avevamo fino ad allora vissuto. E la recezione del Sinodo sui giovani è stata messa sullo sfondo, almeno per quegli anni.

Vari tentativi di ripartenza

Il tempo post pandemico è stato vissuto portandosi dietro le ferite accumulate dal tempo della pandemia. Ferite nel corpo fisico e in quello sociale. Ferite affettive e relazionali. Ferite ecclesiali. Tutte cose che non si rimarginano presto e che lasciano il segno a lungo. Soprattutto il bagno di realtà sulla nostra fragilità ha colpito duro. Siamo vulnerabili, non siamo onnipotenti. Non dominiamo davvero il mondo. È bastato poco per metterci in ginocchio, per riscoprirci friabili e debilitati da molti punti di vista, incapaci di risollevarci. È stato un tempo di umiliazione, che purtroppo non sempre ci ha portato a ridiventare umili.
Anche la Chiesa ha preso coscienza della sua debolezza e vulnerabilità. La mancanza della celebrazione in presenza, perno dell’appartenenza e della partecipazione alla vita in Cristo, ha generato i suoi frutti amari: alcuni tentativi di scimmiottare banalmente ciò che non si poteva più vivere realmente ci hanno fatto vergognare, la lontananza dal contatto fisico ha reso il corpo ecclesiale disunito, nervoso e anche lacerato, la mancanza di una pastorale fatta di incontri in carne e ossa ha lasciato strascichi non indifferenti. Il primo è stato quello dell’ampia disaffezione della pratica liturgica seguita alla pandemia, ma il più importante è stato quello della presunta inessenzialità della Chiesa: si poteva vivere senza di essa, questo per molti è stato il punto. Si poteva vivere comunque, anche senza vivere con la Chiesa e nella Chiesa.
La ripartenza è stata dunque difficile. Non è ancora del tutto conclusa. Facciamo ancora fatica a mandare giù quello che abbiamo vissuto. Anche se alcuni segnali luminosi sono arrivati. Per esempio la Giornata Mondiale della Gioventù: al di là di molte aspettative non entusiasmanti da parte di vari attori ecclesiali e civili, è stato un momento in cui la Chiesa ha ripreso coscienza a livello universale che si può andare avanti con speranza, e che i giovani ci sono e ci stanno, che partecipano e appartengono. Che desiderano fare corpo, fare squadra, ed esserci come protagonisti del rinnovamento nella vita della Chiesa.

Siamo arrivati allo snodo del 2025

Ora, dopo questo quinquennio per lo meno “interessante” che ci ha messo alla prova e ci ha riservato molte sorprese, non ultime alcune guerre fino ad alcuni anni fa impensabili che non vedono per ora delle vie di uscita praticabili, siamo davanti al Giubileo della speranza. Si tratta di uno svincolo importante non solo rispetto agli ultimi cinque anni, ma anche rispetto ai 25 anni di inizio di questo agitato Terzo millennio dell’era cristiana.
Il Giubileo ha sempre significato, sia nella storia del popolo d’Israele che nella vita della Chiesa, un’opportunità di cambiare passo, di ripartire in modo nuovo. Un evento di grazia particolarmente abbondante che capovolge le nostre aspettative e offre nuova luce alle nostre prospettive. Un tempo di riconciliazione e di ripartenza, di rinnovato incontro con Dio e solidarietà tra gli uomini.
La stessa venuta del Signore Gesù e l’inizio della sua missione stanno non per nulla sotto il segno e nella luce del Giubileo, perché egli interpreta giustamente la sua presenza nella logica della proclamazione dell’anno di grazia del Signore:

Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore.
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Lc 4,16-21).

Il Giubileo è una rinnovata occasione per ripartire dal Signore Gesù. Quindi è una grande opportunità da tutti i punti di vista. Non ultimo per la pastorale giovanile, che è chiamata a ripartire con speranza, sapendo che il Dio dell’alleanza è ancora disponibile ad entrare in contatto con l’umanità, con tutti i popoli e in particolare con i giovani, da sempre pupilla dei suoi occhi.
Ma di questo, ovvero dell’immensa grazia giubilare, ce ne occuperemo per tutto il 2025. Quindi andiamo avanti con coraggio, cercando di far tesoro di ciò che abbiamo vissuto negli anni scorsi e proiettandoci con speranza e gioia verso gli anni a venire. La Porta Santa, segno di Cristo che ci invita ad entrare in comunione con il Padre, ci aspetta per essere attraversata con fede da noi e da tutti i giovani con cui ci faremo pellegrini in questo anno di grazia.

I doni di una pastorale giovanile in tempo di guerra

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Maksym Ryabukha, SDB  – Esarca Arcivescovile di Donetsk (Ucraina).

Nei giorni scorsi ho avuto la inattesa ma piacevole sorpresa dell’invito da parte della direzione di NPG a un contributo per una nuova rubrica: PG dalle periferie. Hanno pensato che l’esperienza che sto e stiamo vivendo (e la comunità ecclesiale, e i giovani con me) possa risultare significativa e forse interrogante per giovani ed educatori che vivono in parti del mondo “più fortunate”. Capisco anche che essi considerino il territorio della mia chiesa “periferia”, sia perché ai margini orientali dell’Europa (dove il Centro è ovviamente ben contraddistinto, anche con pastorali elaborate) che in zona invasa o “occupata” o a rischio di invasione e totale occupazione: quale zona dunque più periferica di questa?
Devo comunque dire, tra parentesi per non disturbare troppo, che noi ci sentiamo al “centro”. Perché dove siamo è sempre centro, dove ci stanno i giovani e adulti che si occupano di loro è sempre centro, dove abita Dio (anche se si dice che preferisce le periferie) è sempre centro. Questo che anticipo è quanto ci dà forza e speranza. Allora ecco una voce da una periferia-centro, a un “centro” che si apre alla periferia.
Accetto anche molto volentieri questo invito perché viene dal mondo istituzionale e “carismatico” di cui faccio parte, quello Salesiano, e dalla rivista “Note di pastorale giovanile” che conosco e stimo, dai tempi della mia formazione in Italia, e che ha accompagnato molti dei miei passi pastorali. Restituisco dunque qualcosa di quanto ho ricevuto.
Vorrei articolare la mia risposta alla domanda “Come si fa pastorale giovanile nella periferia e cosa può dire alla PG italiana?” come una “restituzione” di doni. Finora abbiamo ricevuto tanto dalle comunità ecclesiali italiane (e non solo) e dai giovani: non solo la formazione carismatica salesiana che ci ha aperto un vasto campo di servizio in Ucraina, ma negli ultimi anni di guerra in termini di aiuti materiali ed economici (medicine, cibi, tende, suppellettili, l’accoglienza di tanti profughi…), e spirituali con la vicinanza e la preghiera. Ecco, vorrei in qualche modo “restituire” col dono della nostra esperienza, che per noi sta diventando il tesoro che ci resta in un tempo di macerie e di rovina, che è come quel tesoro evangelico che non viene consumato da ruggine e da tarli.
Quali sono allora i doni di esperienza che possiamo offrire ai nostri amici italiani (e forse a vari amici di altri paesi), i nostri tesori?

1. Il dono di un Dio che c’è

Dio c’è, c’è sempre, in qualunque tempo e circostanza. Lui diventa la nostra forza di resistenza anche nei momenti più drammatici se riusciamo ad accorgerci della sua presenza. E qui voglio prendere in prestito le parole (bellissime parole) di un’amica dei giovani, una giovane lei stessa, che ha vissuto in maniera ancora più drammatica una situazione simile alla nostra: Etty Hillesum.
Così lei scrive nel suo Diario il 12 luglio 1942, in una “preghiera del mattino”, ancora nel cuore della guerra mondiale, e nell’oscurità del campo di concentramento di Westerbork, prima dell’ultima tappa della morte ad Auschwitz:

“Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirTi dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che Tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la Tua responsabilità, più tardi sarai Tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te, difendere fino all’ultimo la Tua casa in noi.”

È questa l’esperienza che purtroppo stiamo vivendo, di un Dio sepolto tra le macerie e le devastazioni assieme a coloro che sono sepolti e devastati. È questa dunque l’esperienza di tanta gente, tanti cristiani, tanti ragazzi e giovani. Ma Dio resiste nei cuori, non permettiamo che venga sepolto, perché altrimenti tutto sarebbe veramente finito.
Dio c’è in tutto questo. Non perché l’abbia voluto ma perché ci dà la forza per continuare a tenerlo vivo, la forza per resistere, sperare e nel frattempo vivere la nostra vita cristiana.
C’è appunto nonostante tutto. C’è nei segni delle preghiere che sono diventate molto più significative per noi, c’è nella sua Parola che viene annunciata (magari con i suoni delle sirene di allarme o il fragore dei missili che cadono o delle difese aeree che tentano di impedirlo) con maggior senso, nel gesto di carità di un aiuto a chi ha bisogno, di una parola di conforto, una carezza a un bambino o un anziano… e in tanti altri modi. Non abbiamo bisogno di tante parole di apologetica. Dio si “impone” alla fede e alla vita perché altrimenti saremmo disperati.
Nelle parole di Bonhoeffer, Dio resta quella fontana zampillante del villaggio che permette di dissetarsi e di sentirsi comunità; e lo è sia nella vita gioiosa che in quella pericolante. Me ne accorgo ogni qual volta celebro la Messa o mi intrattengo tra la gente nelle parrocchie e negli oratori. “Al bombardamento tutto esplodeva intorno a me. Ed io – solo una scheggia sotto il naso. Dio c’è”. Quante storie di questo genere assicurano che non siamo lasciati da soli. Egli c’è.
Ecco, questo è il primo “dono” che mi sento di fare, dal pozzo della nostra fontana di villaggio. Dio c’è; in modo misterioso ma reale e sempre interrogante e consolante è presente. Nessuna situazione drammatica potrà convincerci che ci abbia abbandonato o abbia smesso di amarci.

2. Il dono di una quotidianità infranta e di un popolo in sofferenza

La nostra vita quotidiana, dall’oggi al domani, si è infranta al suono delle cannonate e i sibili dei missili. Intendo la quotidianità nella sua normalità di alzarsi col cielo rosso dell’alba o grigio della pioggia, il caldo della colazione profumata, il bacio prima di uscire per il lavoro o la scuola, il rientro serale, il pasto in comune, la notte sicura nel proprio letto e nella propria cameretta… e sogni come tutti i sogni di persone normali.
Da quell’oggi tutti i nostri domani sono cambiati, e l’oggi è diventato un incubo, una tensione costante, una totale insicurezza. Sono rimasti i pezzi, i frammenti della nostra vita usuale, come se si fosse disfatto un puzzle completato. Ma ci siamo resi conto che la guerra non può mettere “in pausa” la vita. Adesso ci tocca ricostruire il quotidiano, ritrovare un filo di senso. Il quotidiano è l’unico luogo dove può avvenire la non perdita del senso e la ricostruzione della speranza, la crescita nell’oggi, la promessa di un futuro. Non possiamo aspettare la fine, quando essa possa venire per la grazia di Dio (e l’impegno degli uomini). Nel quotidiano dobbiamo non sopravvivere ma vivere, e trovare ragioni e modi per dare senso e gusto alle cose. Il quotidiano è non far finta che non stia succedendo niente, ma vivere ogni momento con l’opportunità che ci offre: i rapporti familiari e di amicizia, gli incontri di comunità domenicali e in settimana, il gioco dei bambini, la scuola e lo studio, le azioni di carità. Certo, con gli occhi, le orecchie e le gambe ben pronte per affrontare il pericolo. In questo quotidiano di spazio (rare volte non di macerie) anche il tempo è prezioso, ogni momento è prezioso, ogni attimo è avvertito come dono di Dio, perché il prossimo attimo potrebbe non esserci.
Può essere questo un dono a voi, riscoprire e rivalutare il quotidiano nella sua bellezza e gratuità e meravigliosità? Come la natura a volte ci sa restituire (le piante, gli animali, l’acqua) con la sua resilienza?
Ma non intendo fare poesia a buon mercato. In questa faticosa quotidianità da ricostruire, da ritrovare, siamo un popolo che soffre. Possiamo offrire come dono anche questo? Si può offrire in dono la propria sofferenza? Penso di sì, come esperienza di condivisione umana e anche come esperienza di corpo mistico. La passione e morte di Cristo ha portato la conversione del cuore umano. Credo che il dolore disumano e ingiusto vissuto in questo tempo drammatico potrà convertire il cuore umano e ricostruirlo nella pace.
Penso che la ricostruzione dell’Ucraina partirà da questo impegno della pastorale giovanile: ridare luce alle coscienze, e forse ci aiuterà il vangelo della Beatitudini, quelle che invocano la pace e promettono il dono di Dio a chi ha sofferto per le ingiustizie.
Ho parlato della quotidianità come spazio e tempo (qui-ora) della concretezza della vita. Ma essa non è un contenitore vuoto. Questa quotidianità è abitata, da persone, da cose, da legami, anche da memorie. Essa presenta e pretende un nuovo modo di essere, dove la persona, il giovane riscoprono l’importanza dell’esserci, della relazione, dell’essenziale e del poco. Ho visto riscoprire questi valori (volevo dire la “spiritualità” di questi valori) che probabilmente altrove contano o valgono poco, ma qui sono la distanza tra vita e morte, tra pieno e vuoto, tra senso e insignificanza, tra luce e tenebre. Se dovessi lasciare solo un messaggio, lascerei questo, appunto perché è essenziale e vitale, ed è una cosa che nella sofferenza abbiamo riscoperto con maggior intensità, e la affidiamo anche come tesoro nostro a tutti gli amici.

Ceuta: mondi che si incontrano

Dalla rubrica Voci dalle periferie – Per una PG segnata dagli ultimi.

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di Renato Zilio

Come una lingua di terra immersa nell’acqua, la città autonoma spagnola si allunga a partire dell’Africa del Nord e con i suoi 80mila abitanti respira l’Europa: Ceuta.
Le sue “calle” sono gremite di negozi, di bar e di turisti, le sue chiese di ori e statue di santi, come nella madrepatria. Così, le poderose mura, più che difendere, servono ora a proteggere i suoi ricordi e i suoi secoli di storia. Iniziata già con i portoghesi nel lontano 1415, poi passata agli spagnoli, che ancora oggi la vivono come un pezzo di patria, incastonata nel Continente africano (insieme a Melilla).
Autori come Platone, Pomponio, Strabone… sfilano in centro città con il loro busto di marmo: già dall’antichità essi scrivono di lei come “l’invalicabile”, una delle due celebri colonne d’Ercole.
Il suo segreto, però, sta scritto in latino sulla piazza centrale, di fronte alla cattedrale: “Plus ultra”. Andare al di là. Fu questa la chiave del successo nel “secolo delle scoperte”: affrontare il mare e l’ignoto, senza paura. Al di là della fine del mondo allora conosciuto, precisamente Ceuta.
Paradossalmente, il suo senso oggi lo vivono centinaia di giovani migranti. In modo inverso. Spinti ad ogni costo ad andare “al di là” della loro terra africana, dove manca ogni prospettiva. Per entrare, così, in questo pezzo d’Europa ritagliato in terra d’Africa.
«Una vera mattìa!» mi fa don Nicola di Foggia, a Tangeri. Sì, i giovani subsahariani hanno tutti la stessa follia: superare la barrière“.
Nascosti nelle boscaglie alle spalle della città, per giorni senza cibo, o con acqua e pane secco si preparano ad assaltare la barriera di filo spinato alta sette metri. Si nastrano con lo scotch degli uncini di ferro alle mani. Invocano mille volte Allah, in soccorso. E si spezzano le ossa nell’impresa. Il resto lo faranno le due polizie spagnola e marocchina.
Alle parrocchie di Oujda, di Rabat e di Casablanca li ritrovate poi per mesi feriti a decine. Sempre pronti però a riprendere la loro avventura, come in una palestra maledetta. «Sii come il mare che, infrangendosi contro gli scogli, trova sempre la forza di riprovarci»: come un mantra – si direbbe – le parole di Jim Morrison risuonano nella loro testa. L’Europa è il loro sogno.
«È necessario continuare a sognare – scrive Coelho –, altrimenti la nostra anima muore». Anche se oggi, veramente, qualcuno si interroga: «Le merci e le comunicazioni circolano facilmente, perché gli uomini no?».
A Ceuta, il Centro sant’Antonio, come altre strutture, accoglie una quindicina di adolescenti marocchini, entrati via mare. Su delle lavagne i loro nomi, gli orari, i piccoli servizi richiesti. Una regola di casa: imparare l’autonomia.
In un armadio, poi, un paio di pinne sono rinchiuse come una reliquia. Con queste ai piedi si presentava, infatti, un mattino Mohamed, marocchino ventenne, giorni fa. Nell’oscurità della notte aveva attraversato il mare incontrando al largo un adolescente in pericolo, a cui dava un piccolo salvagente, poi un secondo che stava annegando e poi ancora un terzo con una torcia accesa per chiamare aiuto, agganciandoli tutti all’unico salvagente. Raggiungeva da solo, poi, veloce, la riva, allertando i soccorsi…
Ancora commosso il racconto di Giulia, una delle volontarie italiane. La notte, infatti, o i giorni di nebbia e di mare mosso, cioè di pericolo, sono momenti buoni per i giovani marocchini di lanciarsi in mare. Con un tragico esito, molto sovente.
Esprimo, in fondo, la mia ammirazione per questi animatori del Centro nella loro attività su due mondi, in un terreno interculturale, tra due culture. «No, mi ribatte una di loro, quattro!». Ceuta, infatti, città di mare, eredita straordinariamente dalla sua storia una popolazione mista: spagnola, marocchina, ebrea e indù.
E poi, Lucie a spiegarmi come a Natale nella piazza del centro appare una grande scritta luminosa: “Felice Natale!”. Ma, durante il mese musulmano, diventa: “Felice Ramadan!”. E così pure per le feste delle altre due culture si illumina diversamente.
Quale è, per davvero, la regola d’oro? «Il rispetto dell’altro!», pronta la loro risposta.
Così, in un contesto di impietosa e dura chiusura europea, quasi una vera fortezza con telecamere, cani e filo spinato, che blocca qui la meglio gioventù africana, almeno nel cuore della città, una lezione di umanità. In fondo, sarà sempre la storia ad insegnare. Magistra vitae.

Il problema degli altri è uguale al mio

Per una “buona” politica” è una rubrica di Note di Pastorale Giovanile, a cura del Gruppo “Strade e pensieri per il domani” (giovani di Como, Milano, Valtellina)

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di Michele Pitino (Responsabile pastorale vocazionale e universitaria della diocesi di Como. Coautore del libro È ancora possibile una buona politica? (Paoline, 2023)

«Dimmi e dimenticherò, insegnami e forse ricorderò, coinvolgimi e imparerò» (Benjamin Franklin). È iniziato tutto così e forse per questo ha funzionato bene. Non era un tempo che prometteva bene: primavera 2020. Eravamo chiusi in casa per il lockdown, vivevamo nella paura di ciò che accadeva e si soffriva il peso della solitudine. Allo stesso tempo, si avvertiva il bisogno dell’incontro, la spinta ad un impegno di maggiore solidarietà, il sogno (o l’illusione?) di un possibile futuro più buono. “Saremo migliori”, dicevamo.
Tutto è iniziato con un invito. La proposta di incontrarci in videochiamata per qualche chiacchierata su ciò che stava accadendo e per discutere insieme le questioni sociali e politiche che si rivelavano urgenti in quel nuovo contesto. Non tutti si conoscevano già. Io ho solo preso l’iniziativa, ma poi tutto è andato avanti da solo con la forza dell’amicizia, radice e insieme frutto più bello di questo percorso condiviso. Definirlo “corso di formazione socio-politica” è forse troppo per come è iniziato. Più semplicemente, desideravo far incontrare tra loro alcuni giovani che avevo conosciuto negli anni: universitari, ricercatori o da poco avviati ad una prima esperienza di lavoro. Conoscevo la loro passione ed entusiasmo, i diversi campi di impegno e competenza e, soprattutto, la condivisione di valori intorno ai quali poterci ritrovare (la pace e la cura dell’ambiente, la giustizia sociale e la sostenibilità, la difesa della dignità della vita di ogni persona, specialmente se fragile ed esclusa, il sogno europeo…). Il gruppo, pur destinato ad allargarsi, nasceva volutamente ristretto (inizialmente otto) per mantenere un numero adatto al confronto e al dialogo. L’invito aveva la forma dell’impegno: non solo: “Vieni per ascoltare, perché hai qualcosa da imparare”, ma anche: “Vieni, perché hai qualcosa da dire, vogliamo ascoltare la tua passione, la tua competenza, i tuoi studi”. Un percorso di formazione che ha dato vita a una bellissima esperienza educativa.
Da quella primavera abbiamo iniziato ad incontrarci con ritmo settimanale. Due persone alla volta proponevano un tema, a seguire si dialogava e insieme si arrivava a delle buone sintesi. Nessun argomento era tabù, ciascuno proponeva varie tematiche legate alla politica e al bene comune, e così abbiamo parlato di diritto alla salute e di scuola, di educazione e di città più verdi e sostenibili, di urbanistica e di informazione, di divario di genere, di immigrazione e interculturalità… Ci hanno accompagnato, come utili tracce, l’agenda ONU 2030 e la Costituzione Italiana. Gli incontri sono proseguiti online per due mesi, poi finalmente è stato possibile incontrarsi di persona. Tra un incontro e l’altro l’amicizia cresceva e si allargava. Nell’estate 2020 abbiamo anche avviato la tradizione di organizzare campi formativi in montagna aperti a tutti.
Pur con l’allargarsi dei partecipanti e l’evolversi dell’esperienza, una cosa è sempre stata chiara: il focus del gruppo doveva essere la formazione alla “politica”, come parola buona che esprime un servizio al bene comune. Tutti i giovani del gruppo sono impegnati in diversi campi di impegno e volontariato, la prospettiva politica li ha uniti in una visione più ampia. Avvertendone l’assenza, ci siamo esercitarci a maturare quel “pensiero politico” che prova a tenere insieme temi e obiettivi, sogni e visioni, considerando sempre la complessità degli elementi in gioco. Qualcosa di controcorrente rispetto alle semplificazioni riduttive dei populismi che impediscono il dialogo e trasformano tutto in slogan inutili che riempiono di applausi, ma svuotano le teste. Siamo anche consapevoli che il pensiero politico deve tendere all’azione politica che coinvolge tutti senza esclusioni, pur nella pluralità di forme con cui questa si può esprimere. Il contrario – il disimpegno – ci sembra essere il nemico più insidioso. Ci guidano le parole di un grande maestro, don Milani, che scriveva: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne da soli è avarizia, sortirne insieme è la politica” (Lettera a una professoressa). Più volte ci siamo chiesti: “Chi siamo?”. Ci ha aiutato papa Francesco che provocatoriamente si rivolge ai giovani, dicendo: «Tante volte, nella vita, perdiamo tempo a domandarci: “Ma chi sono io?”. Tu puoi domandarti chi sei tu e fare tutta una vita cercando chi sei tu. Ma domandati: “Per chi sono io?”» (Christus Vivit, 286). Questa conversione non riguarda solo le singole persone, ma anche i gruppi e ancor di più chi si dedica all’impegno politico. Scrive ancora papa Francesco in Laudato si’: “Occorre prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare” (n. 19).
Da questa rinnovata consapevolezza, è nato il desiderio di mettere per iscritto quanto emerso e così abbiamo iniziato una nuova avventura. Riprendendo le varie tematiche affrontate, ci siamo accorti che, più che i singoli contenuti, erano importanti alcuni “fili rossi” che sempre ritornavano. Si tratta di alcuni stili e obiettivi che crediamo necessari, affinché il pensiero e l’azione politica possano essere liberati da molte attuali storture. Inizialmente scrivevamo per noi stessi, per aiutarci a riordinare i pensieri, e non avremmo immaginato che questo lavoro potesse diventare un libro. Interessante è stato anche il metodo di scrittura che ci ha visti dividerci in gruppetti, poi rimescolati per ulteriori e costanti revisioni. Così facendo il tempo si è allungato, ma il risultato è un’opera collettiva per cui tutti possiamo sentirci autori dell’intero libro, senza suddivisioni tra i diversi capitoli. Il libro, dal titolo È ancora possibile una buona politica? Stili e obiettivi (Paoline 2023), crediamo possa essere un valido strumento per continuare a creare occasioni di formazione per noi e per altri gruppi e persone. In particolare, è pensato per supportare il lavoro di educatori e insegnanti. Pur con un contenuto denso e impegnativo, è volutamente scritto con un linguaggio semplice e chiaro, accessibile a tutti. Il volume si arricchisce di diversi elementi, tra cui molte citazioni, una sintesi dell’agenda ONU 2030 e una postfazione del cardinal Oscar Cantoni, vescovo di Como, che ci ha sempre sostenuti e incoraggiati. Oggi desideriamo diffondere il messaggio contenuto nel libro, poiché crediamo che la politica – “sortire insieme” – possa davvero essere una forma di servizio attraverso cui realizzare valori che contribuiscono a far crescere le persone e le comunità. Crediamo che educare sia soprattutto questo: aiutarci, insieme, ad essere migliori.

 

 

Seminario “Il primo annuncio e il dialogo interreligioso” della Regione Mediterranea a Madrid

Dall’11 al 13 ottobre, nella Casa Don Bosco di Madrid si è svolto il seminario “Il primo annuncio e il dialogo interreligioso” della Regione Mediterranea. Ecco li racconto di don Elio Cesari, presidente del Centro Nazionale delle Opere Salesiane.

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Un gruppo di salesiani e laici delle undici ispettorie della Regione Mediterranea si è riunito a nella nuova Casa don Bosco di Madrid dall’11 al 13 ottobre 2024 per riflettere e condividere alcune esperienze pastorali su “Il primo annuncio e il dialogo interreligioso”, seguendo il piano elaborato dalla Conferenza degli Ispettori della Regione al termine del CG28.

Nei giorni del seminario hanno predominato in noi due atteggiamenti.

  1. In primo luogo, volevamo ascoltare e contemplare la realtà con una prospettiva di fede. Il Concilio Vaticano II ha affermato che Dio è nascosto nei segni dei tempi e che per conoscere e interpretare i segni dei tempi abbiamo bisogno del dono dello Spirito e di assumere Gesù Cristo come criterio di discernimento.
  2. Il secondo atteggiamento è stato quello di cercare la forza teologica e pastorale della parola “dialogo”: “la Chiesa deve entrare in dialogo con il mondo in cui vive. La Chiesa diventa parola; la Chiesa diventa messaggio; la Chiesa diventa dialogo” (ES 34).

La finalità di questa nostra riflessione seminariale era di aiutare ed orientare le nostre Ispettorie nell’elaborazione dei PEPSI affinchè esse siano all’altezza delle sfide che il mondo di oggi ci presenta.

Siamo partiti con il primo passo, grazie alla relazione di Don Jesús Rojano, approfondendo il contesto socio-culturale odierno secolarizzato e pluralista pone alcune sfide per l’azione pastorale salesiana.

All’interno del seminario i giovani sono stati riconosciuti come produttori di cultura. Essi non sono solo ricettori di una situazione sociale, ma ne sono anche fautori e questo rappresenta una sfida per il carisma salesiano, il quale pone un forte accento sul protagonismo giovanile.

La posizione contemporanea dei giovani nei confronti della religione non assume (più) i caratteri di opposizione e di rifiuto tipici dei decenni passati, semmai i giovani appaiono piuttosto dubbiosi e scettici. Inoltre i confini tra credenti e non credenti si sono fatti più labili, soprattutto tra i giovani. Questo può rappresentare sia una preoccupazione sia un’opportunità pastorale.

L’Evangelii Nuntiandi di Paolo VI ha segnato il cammino post-conciliare della Chiesa circa la comprensione dell’evangelizzazione, Giovanni Paolo II ha rilanciato la tematica aprendo la riflessione circa la Nuova Evangelizzazione e Benedetto XVI ha colto il testimone istituendo e promuovendo il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Papa Francesco sceglie di connotare l’inizio del Suo Pontificato offrendo una riflessione sul tema dell’Evangelizzazione. Essa viene presentata nei suoi riflessi ecclesiali, nei suoi risvolti sociali e nelle sue esigenze spirituali e morali.

A livello salesiano, l’ultimo Capitolo Generale ha offerto alcune riflessioni circa il tema del nostro seminario:

Di fronte alla crisi globale dell’autorità, della tradizione e della trasmissione siamo sfidati sugli stili, sui contenuti e sulle modalità di annunciare Gesù Cristo, in quanto ci sentiamo tutti chiamati ad essere “missionari dei giovani”. Convinti della necessità di arrivare al loro cuore, sentiamo l’urgenza di proporre con più convinzione il primo annuncio, perché «non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio» (Christus vivit, n. 214)

Il secondo passo è stato offerto grazie a don Gustavo Cavagnari, che ha approfondito la missione evangelizzatrice della Chiesa come il compito principale e l’identità più profonda della Chiesa stessa. L’evangelizzazione, per dirla con le parole di San Paolo VI, “è un processo ricco, complesso e dinamico” e consiste nel realizzare con parole e opere la trasmissione del Vangelo, favorire l’incontro e la conoscenza con la Persona stessa di Cristo. L’evangelizzazione è un processo composto e articolato. Essa si realizza innanzitutto attraverso la testimonianza: non può esistere una evangelizzazione che non passi attraverso la testimonianza di vita cristiana dei fedeli, tutto nasce da un incontro, da una condivisione di vita.

La testimonianza però da sola risulta insufficiente: è necessario un annuncio esplicito della persona di Gesù, affinché possa essere svelato il mistero che abita la testimonianza di vita dei cristiani. Senza l’annuncio la testimonianza rischia di rimanere indecifrabile agli occhi e al cuore degli uomini del nostro tempo. Senza la testimonianza l’annuncio risulta vuoto e sterile. In questi giorni abbiamo imparato a riconoscere la testimonianza e l’annuncio come i due polmoni di un unico respiro.

Nel Seminario abbiamo anche riflettuto su alcune concretizzazioni pastorali legate all’accompagnamento, facendo un terzo passo grazie al contributo di don Koldo Gutierrez:

  1. Il Vangelo non è per alcuni, ma per tutti. Partiamo dalla consapevolezza che il Vangelo è per tutti, senza esclusione, perché il Signore ci manda a tutti. È quanto ha detto Papa Francesco ai giovani: “Non abbiate paura di andare a portare Cristo in qualsiasi ambiente, anche nelle periferie esistenziali, anche a coloro che sembrano i più lontani, i più indifferenti. Il Signore cerca tutti, vuole che tutti sentano il calore della sua misericordia e del suo amore” (ChV 177).
  2. La proposta pastorale non è tanto ciò che facciamo quanto un’espressione di ciò che siamo. La proposta pastorale, prima di essere intesa come azione, deve essere considerata come espressione di ciò che siamo. In questo senso, la prima cosa da affermare è che la nostra pastorale richiede di riconoscere che siamo comunità cristiane che hanno qualcosa da proporre ai giovani, anche a quelli che professano altre fedi o non ne professano affatto, e questa proposta pastorale si sostanzia nel Vangelo. Questo apre un interessante campo d’azione volto alla cura e alla formazione sia dei giovani che degli stessi operatori pastorali.
  3. Proporre una pastorale che tocchi il cuore del giovane e dell’evangelizzatore. Ciò significa riconoscere l’importanza della conversione: personale, intellettuale e religiosa. A tal fine, cerchiamo vie pedagogiche per suscitare e risvegliare il desiderio di fede, per avviare e accompagnare all’esperienza di Dio. I primi passi di questo processo mirano a risvegliare il desiderio di Dio, a rendere le persone consapevoli della propria interiorità, ad aiutarle a connettersi con le domande di senso, a riconoscere di essere abitate da una Presenza.
  4. Credere con il cuore e vivere con gioia. Nel testo della conversione dell’etiope negli Atti degli Apostoli, vediamo come la fede tocchi il suo cuore e poi si metta in cammino con gioia. L’eunuco, immagine di un uomo debole, crede di cuore. Qualcosa ha toccato il suo cuore e ha raggiunto le profondità della sua vita: Gesù stesso. La gioia è il frutto della fede.
  5. Dialogo e apprendimento. Annunciare il Vangelo ai giovani significa dialogare con loro, ma anche imparare da loro. Parlare ai giovani è possibile solo se prima li ascoltiamo. Dobbiamo prendere sul serio ciò che il Sinodo dice sui giovani quando afferma che i giovani sono un luogo teologico: “Il Sinodo ha cercato di guardare ai giovani con l’atteggiamento di Gesù, per discernere nella loro vita i segni dell’azione dello Spirito. Crediamo infatti che anche oggi Dio parli alla Chiesa e al mondo attraverso i giovani, la loro creatività e il loro impegno, così come le loro sofferenze e le loro richieste di aiuto” (FD 64).
  6. Una pastorale di crescita. Crescere significa andare avanti, andare oltre. Come accompagnatori, piantiamo semi di pienezza. I semi di pienezza aprono orizzonti ampi e ci fanno guardare oltre noi stessi. Molte delle nostre proposte pastorali si collocano in questa pastorale della crescita. In particolare, dobbiamo sottolineare l’importanza degli itinerari formativi, e soprattutto dell’itinerario di educazione alla fede, sapendo che la fede non è una conquista ma un dono che dobbiamo accogliere.
  7. Una pastorale della ricerca. Questa preoccupazione per la pastorale della ricerca è urgente, soprattutto in quei contesti dove le tracce religiose hanno perso forza e vigore, o nel contesto di minoranza religiosa. Saper comunicare con i cercatori significa aprire ponti di relazione; significa intendere il dialogo non solo come comunicazione di idee ma soprattutto di doni; significa curare i semi della Parola. In questi semi la Parola è già presente, anche se in forma incipiente, e la direzione verso cui puntano è la Parola.

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Fés. Una buona novella

La nuova rubrica online su NPG, “Voci dalle periferie” racconta cosa significa fare pastorale giovanile in territori della periferia, dove i soggetti vivono altre esperienze: “Vogliamo non certo mettere a confronto i diversi modi di pensare e fare pastorale giovanile, ma almeno vedere come ci vedono gli altri; magari ci può aiutare a calibrare, a rovesciare gerarchie di attenzioni, e forse ad aprire gli occhi sul mondo. In questo ci aiuteranno alcuni amici che vivono “altrove”, in zone particolarmente difficili perché segnate da povertà o guerra. Insomma, per una pastorale giovanile più missionaria, essenziale, evangelica. Con riflessioni, lettere, storie, racconti di iniziative”. 

Fés. Una buona novella

Testimonianza di don Matteo Revelli, Parroco di Fès *

Le attività dell’anno pastorale sono iniziate, tanti studenti africani che l’anno scorso erano qui e formavano il nerbo della comunità, dedicandosi con tutto il cuore al servizio della nostra chiesa, sono partiti. Altri studenti sono arrivati – da circa 25 Paesi africani diversi – per iniziare i loro studi universitari a Fes. Così, ogni tre anni la nostra comunità cristiana cambia volto, persone, storie… Alcuni studenti scherzando dicono che il nostro lavoro pastorale assomiglia a una catena di montaggio: non bisogna perdere il ritmo, altrimenti tutto si inceppa… Mi trovo qui a Fes da 24 anni, appassionato del lavoro apostolico di qui, così le nostre attività mi paiono quasi ovvie e scontate…
Per « rinnovare il mio sguardo », ho pensato di affidarmi allo sguardo nuovo di italiani, che in questi giorni sono venuti in Marocco per servizio o turismo: uno sguardo attento a questa Chiesa, che vive semplice e discreta, ma si percepisce viva e dinamica…
Un gruppo di pellegrini di Montegrotto Terme, accompagnato da Don Roberto, mi scrive: « Il nostro viaggio è stato un vero e proprio pellegrinaggio. Davvero viaggiare apre occhi e cuore e mette in crisi pregiudizi così tanto radicati nella mente e nella società. Siamo stati affascinati da questa Chiesa del dialogo, della sua prossimità come il buon Samaritano, mettendo in pratica il Vangelo senza porre etichette. Ci siamo scoperti cristiani autosufficienti e autoreferenziali tanto da perdere il senso della Missione e del Regno di Dio, che non è fatto di numeri o di organizzazione. »
Anche un piccolo gruppo della Comunità « Papa Giovanni » è venuto a svolgere un’attività di animazione in un villaggio berbero di montagna. Li ho accolti per una notte. Mariaserena, la portavoce, mi scrive « Provenienti da diversi Paesi del Mediterraneo, siamo partiti per una settimana di incontri, condivisione, fraternità nel cuore del Marocco.
In un piccolo villaggio tra le montagne dell’Atlante, tanti bambini e ragazzi aspettavano gioiosi la settimana della “colonie” per spezzare la routine del loro mondo. Dopo una settimana condivisa con le famiglie del villaggio berbero, sei parole ci risuonano: accoglienza, amicizia, gioia, semplicità, stupore e amore. Cioè è bello sperimentare il sentirsi accolti ancora prima di conoscersi, e la cura che queste persone hanno avuto per noi. Abbiamo sperimentato come l’amicizia sia un dono di Dio e come questa permetta di andare avanti. I bambini ci insegnavano a donare sorrisi e ad accogliere col cuore: questo genera gioia.
Gli uomini e le donne del villaggio vivono, poi, una vita molto semplice, fatta di cura della famiglia, della terra, degli animali, di preghiera e di vita comunitaria. I bambini vi crescono con una sensibilità al prossimo molto maggiore che in città. In fondo, non si può non rimanere sbalorditi dalle tante bellezze e novità che in ogni persona e in ogni cosa si possono trovare. Abbiamo sperimentato, insomma, il miracolo della fraternità: l’accogliere e il farsi accogliere.”
“La conoscenza di alcuni responsabili della catechesi e della Caritas della parrocchia di Fès – mi scrivono, invece, Luca e Claudio Margaria, due fratelli sacerdoti del Cuneese – hanno fatto apprezzare da un lato la capillarità della conoscenza delle persone e delle situazioni che vivono e, dall’altra, la mole di lavoro e di relazioni che, pur nel silenzio e nel nascondimento, vengono portate avanti alle volte con finanze inadeguate. Ci portiamo in cuore la testimonianza di una presenza cristiana che offre uno stimolo di profondità e di umiltà, nell’essere segni di Vangelo, soprattutto per chi è più fragile ».
Alla fine, tutti questi sguardi nuovi sulla nostra presenza cristiana, mi spingono a rinnovare il mio per portare avanti un’azione pastorale impegnata, efficace, ma leggera, senza il peso di grandi strutture. Una vera, buona Novella.

* Testimonianza raccolta da Renato Zilio, missionario in Marocco

Giubileo degli Adolescenti: le indicazioni per la partecipazione

Dal sito della CEI.

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Dal 25 al 27 aprile 2025 vivremo insieme il Giubileo degli Adolescenti.  Il pellegrinaggio giubilare, la compagnia degli amici del gruppo, il respiro della Chiesa universale, sono alcuni degli ingredienti dei giorni che vivremo assieme.

Il Giubileo a Roma sarà una parte del cammino. L’esperienza giubilare, infatti, inizia con il coinvolgimento, l’approfondimento, la preghiera prima della partenza a livello parrocchiale e Diocesano, nelle proposte delle Associazioni, dei Movimenti e degli Istituti di vita religiosa. Continua poi, una volta tornati a casa, con un momento di verifica e festa e con il racconto di ciascuno nel quotidiano.
Questo tempo di Grazia è un’occasione perché la misericordia di Dio e l’esperienza di Chiesa come popolo in cammino possa portare luce nelle scelte di tuti i giorni sia dei ragazzi e delle ragazze che vivranno questa esperienza, sia dei loro educatori e delle comunità che li accompagneranno.

LE ISCRIZIONI APRIRANNO A BREVE.

Negli allegati, che vi chiediamo di leggere attentamente, troverete:

-Note informative per la stampa “opuscolo” e/o per la stampa in A4 con all’interno le informazioni sulle iscrizioni e “pacchetti del pellegrino”, kit del pellegrino, alloggi, cibo, trasporti, assicurazione, vescovi, presbiteri, diaconi, programma di massima;

0Vademecum per l’uso degli allegati: informazioni e note per la compilazione degli allegati;
1. Nomina responsabile trattamento dati Diocesi;
2. Elenco partecipanti;
3. Iscrizione giubileo minorenne;
4. Iscrizione giubileo maggiorenne;

-I loghi scaricabili del “Giubileo degli Adolescenti”

Vai al sito

 

Disponibile il sussidio per vivere al meglio il Giubileo

È disponibile online il sussidio che ci accompagnerà a vivere al meglio l’esperienza del Giubileo.
All’interno un’introduzione, anche storica, all’evento, una parte dedicata al pellegrinaggio, una dedicata alla liturgia e la parte più corposa che approfondisce attraverso parole chiave, i tre momenti fondamentali del Giubileo: pellegrinaggio e professione di fede; passaggio dalla Porta Santa; Riconciliazione.

Qui una breve presentazione di don Riccardo Pincerato:
https://www.youtube.com/watch?time_continue=5&v=wR8n-8-wE6Q&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fgiovani.chiesacattolica.it%2F&source_ve_path=Mjg2NjY

Qui le immagini e il logo:
https://giovani.chiesacattolica.it/il-sussidio-per-prepararsi-al-giubileo-dei-giovani/

Indice ampio

I. Introduzione
II. Giovani pellegrini a caccia di stelle
III. Cenni storici sul Giubileo
IV. I cammini della Fede
V. I tre momenti del Giubileo e le parole chiave
VI. Proposte liturgiche
La prima parte fornisce uno schema per la celebrazione del sacramento della riconciliazione
La seconda parte, divisa in due grandi momenti, accompagnerà verso il cuore della pratica giubilare.

(SPECIFICHE)

IV. I cammini della Fede
la via Francigena del Nord e del Sud,
la via di Francesco,
la via Lauretana,
la via Amerina (o cammino della Luce),
la via Romea Strata
e la via Matildica

V. I tre momenti del Giubileo e le parole chiave

  • Pellegrinaggio e professione di fede
    1. Coraggio
    2. Abito
    3. Senso e Con-senso
    4. Popolo
  • Porta Santa
    5. Soglia
    6. Libertà/Responsabilità
    7. Scoperta
    8. Gioia piena
  • Riconciliazione
    9. Riscatto
    10. Coscienza
    11. Promessa
    12. Abbraccio

GLI SVILUPPI PER OGNUNA DELLE 12 VOCI

1.1. Orizzonte tematico
1.2. Domande per la riflessione
1.3. Lectio
1.4. Testimonianza
1.5. Selezioni musicali (CON ANALISI DEL TESTO)
1.6. Testi letterari
1.7. Composizioni artistiche
1.8. Filmografia
1.9. La Parola di Papa Francesco
1.10. Attività laboratoriali

Scarica il sussidio

RMG – Il Settore per la Pastorale Giovanile pubblica il documento finale del Sinodo Salesiano dei Giovani

Dall’agenzia ANS.

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(ANS – Roma) – A Valdocco e al Colle Don Bosco, dove è passata tanta storia e fedeltà salesiana, il Sinodo Salesiano dei Giovani ha studiato una proposta per tutto il mondo salesiano. A farlo sono stati 375 persone, per lo più giovani di 94 nazionalità, ragazzi e ragazze di età media di 23 anni, provenienti da tante nazioni, con culture e lingue diverse, ma tutti con la stessa fede e lo stesso intenso impegno per l’opera iniziata da Don Bosco.

Grazie al lavoro dei “circoli minori”, o gruppi linguistici, e dell’Assemblea, si è giunti al Documento Finale, che viene messo ora a disposizione di tutti. Esso guarda alla realtà dei giovani, del mondo e della Chiesa, individuando le percezioni, le emozioni e le aspettative dei giovani. Tale testo stimola tutti gli operatori pastorali a una riflessione serena e aperta: “Cosa dobbiamo cambiare perché i giovani passino da spettatori a protagonisti nella Chiesa e nella società? Cosa pensano, sentono e vogliono i giovani?”

“Forse dovremmo approfittare di quest’ora sinodale per puntare a una pastorale più mistagogica, che educhi all’interiorità e susciti l’esperienza di Dio in ogni momento, che aiuti a scoprire la propria vocazione e dia priorità all’accompagnamento pastorale”, sottolinea don Miguel Angel García Morcuende, Consigliere Generale per la Pastorale Giovanile salesiana.

Le proposte del Documento Finale approfondiscono l’esperienza della Spiritualità Giovanile Salesiana in una dimensione internazionale, trasformando queste pagine in una grande celebrazione del cammino di evangelizzazione compiuto in tutto il mondo salesiano. Esse aiutano a scoprire il cuore dei giovani per trovarvi quelle vibrazioni dello Spirito che aiutano a inventare nuovi percorsi e fonti di fede. “Non c’è nulla nelle culture giovanili che non risuoni nel nostro cuore” ribadisce don García Morcuende.

Al termine di queste giornate di grazia, i membri del Settore per la Pastorale Giovanile possono dire di essere stati presenti ad un appuntamento con la storia. “Siamo stati presenti a un momento indimenticabile – spiegano –. Al Sinodo siamo stati accompagnati dal sole estivo e dalla luce di quell’altro sole che sorge dall’alto e che ricevevamo ogni giorno nell’Eucaristia”.

Per chiunque vi abbia partecipato, è stato bello vedere che i giovani vogliono intraprendere la bella avventura di condurre a Gesù i loro compagni e amici, con i quali condividono grandi ideali, lotte e sconfitte nella ricerca dell’avvento della civiltà dell’amore, della solidarietà e della pace.

Nei dialoghi per giungere a queste conclusioni, è stato possibile vedere la diversità delle culture, delle realtà giovanili e della Chiesa, ma anche l’unità che il carisma di Don Bosco dona, permettendo di identificarsi negli stessi modi di assumere la vita e la fede. È stato motivo di grande gioia vedere la partecipazione, l’intesa e la comprensione, la capacità di lavoro e di discernimento e la condivisione di molti momenti di riflessione, di cultura, di preghiera e di proposta.

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