Storia di volontari: la rubrica di Salesiani per il Sociale

Dal sito di Note di Pastorale Giovanile.

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Raccontare storie è un compito ineludibile nell’educazione, perché attraverso esse viene comunicato e rinsaldato il senso personale e collettivo del vivere.
Raccontare belle storie è un aiuto alla identificazione, alla condivisione, all’assimilazione di valori.
Quando poi sono i giovani a raccontare queste storie, allora (anche) si apre uno squarcio su un mondo conosciuto soltanto in parte e perlopiù attraverso stereotipi, disinformazione, luoghi comuni.
In questa rubrica diamo spazio e voci ai giovani e alle loro storie di vita, a quelli che stanno vivendo un’esperienza non di passaggio ma significativa per la loro crescita e per la crescita di una cultura di solidarietà e integrazione. Storie di volontariato.

Quasi “corredo” biografico a quanto il Presidente Mattarella ha espresso più volte nei suoi messaggi in occasione delle Giornata Internazionale del Volontariato, anche con senso di gratitudine da parte dei beneficiari: 
«Il volontariato è una straordinaria energia civile che aiuta le comunità ad affrontare le sfide del tempo e le sue difficoltà. Rinsalda i legami tra le persone, è vicino a chi si trova nel bisogno, riduce i divari sociali, promuove l’accoglienza e la sostenibilità» (05/12/2021).
«L’ampia e spontanea mobilitazione in aiuto delle comunità colpite da eventi calamitosi ne è testimonianza. Il volontariato costituisce, altresì, una risorsa preziosa per le istituzioni che, con la valorizzazione della partecipazione della società civile, possono adottare misure più efficaci e vicine ai bisogni e alle attese delle persone» (05/12/2022).
«La dedizione dei volontari è una componente imprescindibile per affrontare anche le sfide globali che mettono a dura prova Stati e società, al fine di trasmettere alle future generazioni un mondo migliore» (05/12/2023).

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Il sole nel cuore di un volontario

Evisa Feleqi
(26 anni, nata in Albania ma da lungo tempo in Italia dove si è laureata in scienze politiche con speciale attenzione alla programmazione sociale, in cui ha anche ottenuto un Master europeo. Dopo l’anno di volontariato sociale, al momento lavora presso l’Associazione SxS, dove conta di mettere a servizio dei giovani in difficoltà le sue competenze e la sua umanità, basata sull’empatia e sul potere della parola e del dialogo)

Il sorriso di una persona è il raggio più caldo che può toccare il cuore. E io sono un po’ così, sempre ottimista e sorridente, perché nella vita si deve essere felici per poter coltivare felicità. Ne sono assolutamente convinta: siamo al mondo per essere felici, e il sorriso ne è la prima traccia.
Sto parlando della mia esperienza di volontariato, in un impegno di servizio civile che mi ha profondamente coinvolta. E intendo parlarne non a partire da speciali competenze o speciali ambiti di azione, ma a partire “dall’anima”. Sì, perché l’anima del volontario è importante, il suo spirito libero e credente (di qualunque tipo sia la sua fede) fanno sorgere delle emozioni indescrivibili. Tanto più quando – per il riferimento della mia associazione di volontariato (salesiano) – l’educativo, i ragazzi, l’amorevolezza sono parole chiave.
Essere volontario salesiano vuol dire nutrire e sfamare amore, entrare nello spirito di un bambino per fargli sentire calore, accettazione e speranza. L’essenza del lavoro di volontariato è proprio quella di “organizzare” (ricostruire, condividere, alimentare…) la speranza di chi nella vita non vede sorgere delle opportunità. Io ho voluto intraprendere l’attività di volontariato proprio perché volevo toccare delle realtà difficili, disperate e in urgente bisogno di aiuto. Ho scelto i Salesiani, ed è stata la migliore scelta della mia vita, sono riuscita a lavorare con i bambini e i giovani.
A volte mi sono chiesta se si nasce volontari o lo si diventa… Non è una domanda sciocca, perché sento dentro di me naturale l’empatia, la condivisione, il desiderio di aiuto… ma so anche che occorre formarsi, per essere “meglio”. Per me è stato così: un momento molto importante è stato propria la formazione, cruciale direi, e quando la sede di appartenenza riesce a preparare il proprio volontario, rendendolo consapevole della realtà che troverà e il lavoro che dovrà svolgere, allora il volontario potrà preparare se stesso al lavoro che l’aspetta. Il mio momento di formazione fu costruttivo, ho colto con cura ogni momento e ho fatto tesoro delle attività svolte. E non dico solo a livello di “competenze” e tecniche o metodologie di azione, ma anche per conoscere meglio me stessa, mettere a nudo le mie motivazioni, imparare a collaborare, a partecipare, ad avere anche – perché non dirlo? – uno sguardo “politico”.
Sono partita per Albania nel giugno del 2022, con la macchina da Roma a Bari, ho imbarcato la macchina in nave, sono arrivata a Durazzo il mattino seguente, e dopo un paio d’ore stavo a Tirana. Ancora sento il cuore battere forte quando ricordo le emozioni di quel giorno: era un sogno che si stava realizzando.

Il problema degli altri è uguale al mio

Dal numero di marzo/aprile di Note di Pastorale Giovanile.

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di Michele Pitino

«Dimmi e dimenticherò, insegnami e forse ricorderò, coinvolgimi e imparerò» (Benjamin Franklin). È iniziato tutto così e forse per questo ha funzionato bene. Non era un tempo che prometteva bene: primavera 2020. Eravamo chiusi in casa per il lockdown, vivevamo nella paura di ciò che accadeva e si soffriva il peso della solitudine. Allo stesso tempo, si avvertiva il bisogno dell’incontro, la spinta ad un impegno di maggiore solidarietà, il sogno (o l’illusione?) di un possibile futuro più buono. “Saremo migliori”, dicevamo.
Tutto è iniziato con un invito. La proposta di incontrarci in videochiamata per qualche chiacchierata su ciò che stava accadendo e per discutere insieme le questioni sociali e politiche che si rivelavano urgenti in quel nuovo contesto. Non tutti si conoscevano già. Io ho solo preso l’iniziativa, ma poi tutto è andato avanti da solo con la forza dell’amicizia, radice e insieme frutto più bello di questo percorso condiviso. Definirlo “corso di formazione socio-politica” è forse troppo per come è iniziato. Più semplicemente, desideravo far incontrare tra loro alcuni giovani che avevo conosciuto negli anni: universitari, ricercatori o da poco avviati ad una prima esperienza di lavoro. Conoscevo la loro passione ed entusiasmo, i diversi campi di impegno e competenza e, soprattutto, la condivisione di valori intorno ai quali poterci ritrovare (la pace e la cura dell’ambiente, la giustizia sociale e la sostenibilità, la difesa della dignità della vita di ogni persona, specialmente se fragile ed esclusa, il sogno europeo…). Il gruppo, pur destinato ad allargarsi, nasceva volutamente ristretto (inizialmente otto) per mantenere un numero adatto al confronto e al dialogo. L’invito aveva la forma dell’impegno: non solo: “Vieni per ascoltare, perché hai qualcosa da imparare”, ma anche: “Vieni, perché hai qualcosa da dire, vogliamo ascoltare la tua passione, la tua competenza, i tuoi studi”. Un percorso di formazione che ha dato vita a una bellissima esperienza educativa.
Da quella primavera abbiamo iniziato ad incontrarci con ritmo settimanale. Due persone alla volta proponevano un tema, a seguire si dialogava e insieme si arrivava a delle buone sintesi. Nessun argomento era tabù, ciascuno proponeva varie tematiche legate alla politica e al bene comune, e così abbiamo parlato di diritto alla salute e di scuola, di educazione e di città più verdi e sostenibili, di urbanistica e di informazione, di divario di genere, di immigrazione e interculturalità… Ci hanno accompagnato, come utili tracce, l’agenda ONU 2030 e la Costituzione Italiana. Gli incontri sono proseguiti online per due mesi, poi finalmente è stato possibile incontrarsi di persona. Tra un incontro e l’altro l’amicizia cresceva e si allargava. Nell’estate 2020 abbiamo anche avviato la tradizione di organizzare campi formativi in montagna aperti a tutti.
Pur con l’allargarsi dei partecipanti e l’evolversi dell’esperienza, una cosa è sempre stata chiara: il focus del gruppo doveva essere la formazione alla “politica”, come parola buona che esprime un servizio al bene comune. Tutti i giovani del gruppo sono impegnati in diversi campi di impegno e volontariato, la prospettiva politica li ha uniti in una visione più ampia. Avvertendone l’assenza, ci siamo esercitarci a maturare quel “pensiero politico” che prova a tenere insieme temi e obiettivi, sogni e visioni, considerando sempre la complessità degli elementi in gioco. Qualcosa di controcorrente rispetto alle semplificazioni riduttive dei populismi che impediscono il dialogo e trasformano tutto in slogan inutili che riempiono di applausi, ma svuotano le teste. Siamo anche consapevoli che il pensiero politico deve tendere all’azione politica che coinvolge tutti senza esclusioni, pur nella pluralità di forme con cui questa si può esprimere. Il contrario – il disimpegno – ci sembra essere il nemico più insidioso. Ci guidano le parole di un grande maestro, don Milani, che scriveva: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne da soli è avarizia, sortirne insieme è la politica” (Lettera a una professoressa). Più volte ci siamo chiesti: “Chi siamo?”. Ci ha aiutato papa Francesco che provocatoriamente si rivolge ai giovani, dicendo: «Tante volte, nella vita, perdiamo tempo a domandarci: “Ma chi sono io?”. Tu puoi domandarti chi sei tu e fare tutta una vita cercando chi sei tu. Ma domandati: “Per chi sono io?”» (Christus Vivit, 286). Questa conversione non riguarda solo le singole persone, ma anche i gruppi e ancor di più chi si dedica all’impegno politico. Scrive ancora papa Francesco in Laudato si’: “Occorre prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare” (n. 19).
Da questa rinnovata consapevolezza, è nato il desiderio di mettere per iscritto quanto emerso e così abbiamo iniziato una nuova avventura. Riprendendo le varie tematiche affrontate, ci siamo accorti che, più che i singoli contenuti, erano importanti alcuni “fili rossi” che sempre ritornavano. Si tratta di alcuni stili e obiettivi che crediamo necessari, affinché il pensiero e l’azione politica possano essere liberati da molte attuali storture. Inizialmente scrivevamo per noi stessi, per aiutarci a riordinare i pensieri, e non avremmo immaginato che questo lavoro potesse diventare un libro. Interessante è stato anche il metodo di scrittura che ci ha visti dividerci in gruppetti, poi rimescolati per ulteriori e costanti revisioni. Così facendo il tempo si è allungato, ma il risultato è un’opera collettiva per cui tutti possiamo sentirci autori dell’intero libro, senza suddivisioni tra i diversi capitoli. Il libro, dal titolo È ancora possibile una buona politica? Stili e obiettivi (Paoline 2023), crediamo possa essere un valido strumento per continuare a creare occasioni di formazione per noi e per altri gruppi e persone. In particolare, è pensato per supportare il lavoro di educatori e insegnanti. Pur con un contenuto denso e impegnativo, è volutamente scritto con un linguaggio semplice e chiaro, accessibile a tutti. Il volume si arricchisce di diversi elementi, tra cui molte citazioni, una sintesi dell’agenda ONU 2030 e una postfazione del cardinal Oscar Cantoni, vescovo di Como, che ci ha sempre sostenuti e incoraggiati. Oggi desideriamo diffondere il messaggio contenuto nel libro, poiché crediamo che la politica – “sortire insieme” – possa davvero essere una forma di servizio attraverso cui realizzare valori che contribuiscono a far crescere le persone e le comunità. Crediamo che educare sia soprattutto questo: aiutarci, insieme, ad essere migliori.

* Responsabile pastorale vocazionale e universitaria della diocesi di Como.
Coautore del libro È ancora possibile una buona politica? (Paoline, 2023)

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Comunità corresponsabili

Pubblichiamo il nuovo editoriale a firma di don Rossano Sala del numero di marzo/aprile di Note di Pastorale Giovanile.

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Dopo aver impostato l’anno 2024 con il primo editoriale puntato sull’identità missionaria ed evangelizzatrice della Chiesa e sulla conseguente identità discepolare e missionaria del cristiano[1], proviamo, rimanendo in continuità con quanto già detto, a fare un passo in avanti.
Concentriamo ora la nostra attenzione ora sulla forma relazionale della Chiesa che siamo chiamati a perseguire e sullo stile operativo che il cammino attuale ci chiede di assumere.
Sempre con l’intenzione di accompagnare il processo di preparazione alla seconda sessione del Sinodo universale sulla sinodalità, parto dalla Chiesa come comunità fraterna: qui siamo spinti a riscoprire un volto familiare e fraterno di Chiesa. Declino poi il tema dell’operatività concreta nella logica di una corresponsabilità missionaria.

Verso una riforma familiare e fraterna della Chiesa

Se guardiamo alla qualità relazionale media delle nostre comunità cristiane e alla loro capacità di accoglienza sentiamo che talvolta la fraternità stenta a decollare. “Tessere legami e costruire comunità”[2] non è esattamente il nostro forte, almeno di questi tempi! Quello della fatica della fraternità è un sintomo ecclesiale da non sottovalutare e su cui interrogarsi con coraggio e determinazione.
La tesi che rilancio qui ancora una volta – Repetita iuvant, dicevano i nostri antichi padri latini – è in sé molto semplice, quasi scontata: ogni tema sinodale è un sintomo ecclesiale. Fare un Sinodo universale sulla sinodalità – allo stesso modo di un Sinodo sulla regione panamazzonica, sui giovani, sulla famiglia, sulla nuova evangelizzazione o sulla parola di Dio, per citare solo i temi sinodali trattati negli ultimi 15 anni – è una vera e propria urgenza ecclesiale: non possiamo negare che viviamo una forte fatica relazionale interna ed esterna; che arranchiamo su alcuni fondamentali del dialogo e dell’ascolto; che assistiamo a una conflittualità e a una mancanza di rispetto che a volte ci fanno vergognare; che fatichiamo a vivere e lavorare insieme; che la fraternità stenta a emergere nonostante il desiderio sincero di molti. Abbiamo certo qualche bella “oasi di fraternità”, ma all’interno di uno spazio popolato da tanto individualismo.
Al di là di varie dichiarazioni di principio (la sinodalità come “teoria ecclesiale” innovativa), la prassi sinodale fatica a emergere (cioè mancano autentiche e durature esperienze di sinodalità sul campo). Il passaggio auspicato dal primato delle strutture a quello delle relazioni non si sta ancora realizzando, e in questo modo la Chiesa non riesce a lasciarsi dietro il suo volto freddo e burocratico, e nemmeno quello litigioso e oscuro. Tutti invece sentono il bisogno di vivere in una Chiesa più familiare e amichevole, intessuta di confidenza e buona relazioni, facendo vedere nei fatti che una comunità è prima di tutto una casa serena, ospitale e vivibile per tutti, nessuno escluso.
Eppure su questo il Vangelo è limpido e trasparente. Esso testimonia il primato di un “noi” che diventa forma specifica della testimonianza ecclesiale. È l’agape evangelica che si fa corpo nella relazione fraterna dei credenti, che nel Nuovo Testamento porta il nome di koinonia.
La koinonia è comunione plenaria con i fratelli che hanno accolto la salvezza, che sono entrati nel ritmo del discepolato e che sono chiamati alla medesima vocazione apostolica. L’amore reciproco pare essere la condizione di possibilità di ogni testimonianza che voglia proporsi in modo plausibile, perché un discepolato fraterno rimanda alla sua radice cristologica e rende sincero l’annuncio dell’agape di Dio: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, così siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato»[3]. Come dire: senza questa comunione tra di noi non vi è credibilità della nostra azione pastorale.
Il segno di riconoscimento dell’agape che viene da Dio non è un amore per Gesù e nemmeno un semplice amore per quelli di fuori, ma l’amore reciproco, perché propriamente è questo il “comandamento nuovo”, lasciato da Gesù nel momento centrale della sua vita: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri»[4]. L’amore fraterno appare il primo frutto dell’appropriazione della salvezza, quindi è la fonte e la radice della missione di annuncio dell’Evangelo di Dio: gli altri gesti della fede “testimoniale” avranno senso e saranno efficaci solo se avranno questo come fondamento. Lo splendore della vita cristiana si fa visibile e attraente proprio a partire dalla koinonia in atto così come è mirabilmente descritta nella vita della prima comunità cristiana[5].
Arriviamo a noi. I giovani, durante il cammino sinodale, in molti modi ci hanno sfidato sulla revisione della forma della Chiesa, chiedendoci di renderla sempre più fraterna e familiare. Questo ha prodotto, da una parte, la spinta verso la “sinodalità missionaria”, che ha messo le basi per l’attuale cammino sinodale; dall’altra ci sfida a livello locale a riconoscere che «l’esperienza comunitaria rimane essenziale per i giovani: se da una parte essi hanno “allergia alle istituzioni”, è altrettanto vero che sono alla ricerca di relazioni significative in “comunità autentiche” e di contatti personali con “testimoni luminosi e coerenti”»[6].
Nell’ascolto del popolo di Dio in vista del Sinodo sui giovani le cose erano per me assai chiare e spingevano in tale direzione. Basti, in questa sede, rileggere un numero sintetico dell’Instrumentum laboris sulla questione, che pone l’attenzione al legame tra la riscoperta dell’indole familiare della Chiesa e la sua stessa riforma:

Un’esperienza familiare di Chiesa
Uno degli esiti più fecondi emersi dalla rinnovata attenzione pastorale alla famiglia vissuta in questi ultimi anni è stata la riscoperta dell’indole familiare della Chiesa. L’affermazione che Chiesa e parrocchia sono «famiglia di famiglie» (cfr. Amoris laetitia, nn. 87.202) è forte e orientativa rispetto alla sua forma. Ci si riferisce a stili relazionali, dove la famiglia fa da matrice all’esperienza stessa della Chiesa; a modelli formativi di natura spirituale che toccano gli affetti, generano legami e convertono il cuore; a percorsi educativi che impegnano nella difficile ed entusiasmante arte dell’accompagnamento delle giovani generazioni e delle famiglie stesse; alla qualificazione delle celebrazioni, perché nella liturgia si manifesta lo stile di una Chiesa convocata da Dio per essere sua famiglia. Molte Conferenze Episcopali desiderano superare la difficoltà a vivere relazioni significative nella comunità cristiana e chiedono che il Sinodo offra elementi concreti in questa direzione. Una Conferenza Episcopale afferma che «nel bel mezzo della vita rumorosa e caotica molti giovani chiedono alla Chiesa di essere una casa spirituale». Aiutare i giovani a unificare la loro vita continuamente minacciata dall’incertezza, dalla frammentazione e dalla fragilità è oggi decisivo. Per molti giovani che vivono in famiglie fragili e disagiate, è importante che essi percepiscano la Chiesa come una vera famiglia in grado di “adottarli” come figli propri[7].

Ecco allora una prima serie di domande: stiamo lavorando nelle nostre comunità perché siano sempre più familiari e fraterne? Quali passi siamo chiamati a compiere perché esse siano sempre più una casa accogliente, in cui gli affetti e i legami siano vissuti con semplicità e letizia?

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Il Filo di Arianna della politica: Maggioranza/minoranza

da Note di Pastorale Giovanile.

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di Raffaele Mantegazza

Il principio di maggioranza è fondamentale per il funzionamento di una democrazia. All’interno di qualunque sistema democratico e di qualunque sua istituzione è solo la maggioranza a poter decidere della legittimità di una decisione. Occorre però essere molto chiari su questa questione, perché come già il padre della riflessione filosofica sulla democrazia, Alexis de Tocqueville, aveva sottolineato, il rischio di una cosiddetta dittatura della maggioranza è presente anche in un ambito democratico
Cominciamo col dire che una decisione presa a maggioranza è legittima, il che non significa che sia automaticamente giusta in senso morale. Coloro che si trovano in minoranza devono poter continuare non solo a mantenere la loro idea ma anche a poterla diffondere, anche se non possono mettere in dubbio la legittimità della decisione presa. Proprio per questo motivo in alcune situazioni è stato previsto l’istituto dell’obiezione di coscienza, che non mette in discussione la legittimità di una legge, ma permette al singolo in casi particolari di disobbedire.
Dunque occorre che ogni cittadino e cittadina si ponga le seguenti domande: Quando siamo in maggioranza riusciamo ad accettare il parere e le critiche della minoranza? Quando siamo in minoranza riusciamo ad accettare il fatto che la maggioranza ha deciso qualcosa che noi non condividiamo?
Molto spesso nell’azione politica quotidiana, nelle sedi decisionali come ad esempio i consigli comunali, si verifica una dinamica decisamente poco democratica, secondo la quale qualunque suggerimento o consiglio o critica provenga dall’opposizione deve essere squalificata a priori proprio perché viene considerata automaticamente contraria all’idea della maggioranza. Un paese maturo, una democrazia compiuta dovrebbe al contrario prevedere la possibilità di fare proprie le idee della minoranza, ovviamente se sono coerenti col proprio progetto politico e col programma di governo, mostrando come in realtà proprio l’ascolto di chi sta all’opposizione è un elevato elemento di democrazia
Quando però si sta insegnando la democrazia ai ragazzi e ai giovani occorre anche una riflessione ulteriore. È del tutto ovvio che una classe deve decidere democraticamente il proprio rappresentante o una squadra di calcio il proprio capitano e che gli insegnanti o educatori devono tenerne conto; però, a differenza che nella democrazia compiuta e adulta, si può provare a fare una riflessione insieme ai ragazzi sulle modalità decisionali, sui motivi che li hanno portati a scegliere proprio quella persona, sulla eventuale presenza di condizionamenti che li hanno portati ad esprimere un determinato voto. Insomma imparare la democrazia non significa praticarla in maniera diretta e compiuta, ma imparare a riflettere su di essa

Cosa fare

Si provi a discutere il seguente caso.
Siete insegnanti in una scuola superiore. Avete partecipato a un lungo e burrascoso consiglio di classe della II A nel quale si è stabilito a maggioranza che i ragazzi non potranno più recarsi in bagno nelle prime 3 ore di lezione perché si sono resi colpevoli di danneggiamenti alle suppellettili dei bagni. Il collega Rossi è stato il più nettamente contrario alla decisione e dopo due ore di discussione il provvedimento è passato a maggioranza. Il giorno successivo arrivate a scuola alle 8.45 e vedete due alunni della classe uscire dal bagno, chiedete loro che lezione abbiano e loro rispondono “il prof. Rossi”.
– Che cosa prova il protagonista in questa situazione?
– Qual è il messaggio che passa ai ragazzi?
– Quali comportamenti alternativi poteva scegliere il prof. B?

Come pensare

Giorgio Gaber
La collana

Su, venite tutti qua che facciamo un gioco Giochiamo al gioco della collana Per essere bello devono giocare tutti, eh? Adesso ve lo spiego: uno di noi alla volta terrà al collo questa collana e dirà agli altri quello che devono fare e gli altri la ubbidiranno Poi quando gli altri ne avranno voglia diranno a quello che comanda il gioco di togliersi la collana e di darlo a un altro e così via, eh?
Allora vediamo un po’ chi comincia Comincio io per primo che conosco il gioco?
Allora, avanti tutti insieme dite: “Pa-ra-pa” (“Pa-ra-pa”)
Bravi. Adesso dite: “Pi-ri-pi” (“Pi-ri-pi”)
Benissimo. E adesso dite: “Po-ro-po”
(“Po-ro-po” No basta no no No senti non ci divertiamo. Tu ci stai facendo fare delle cose completamente imbecilli!)
Accetto volentieri le critiche. Quindi se lo desiderate cambio discorso Dunque: “Pe-re-pe” “Pu-ru-pu”
(Buh ma basta no basta No senti, avevi detto che quando gli altri volevano potevano farti togliere la collana e questo è il momento!)
Certo. Se lo volete dovete allora decidere a chi andrà la collana Fatelo con calma e pensateci bene. E in questa fase di preparazione guardate attentamente la lucina, ecco questa lucina, la vedete? Pensate, concentratevi, pensate liberamente, non lasciatevi condizionare così, bravi, ecco, così!
Avete deciso?
(Abbiamo deciso, votiamo per te!)
Grazie signori! Sono contento della stima e della fiducia che ancora una volta ci avete concesso. Il nostro governo opera con il consenso del popolo per il bene del popolo
Orsù, tutti insieme verso un mondo migliore: “Pa-ra-pa” (“Pa-ra-pa”) “Pe-re-pe” (“Pe-re-pe”) “Pa-ra-pa”, “pe-re-pe” (“Pa-ra-pa”, “pe-re-pe”)

La lettura e/o l’ascolto di questo testo di Gaber può portare a interessanti riflessioni sulla libertà di voto. È vero ovviamente che in democrazia il voto è libero, ma quali sono i condizionamenti che la stampa e i mass-media, la propaganda, il sistema comunicativo possono operare sul soggetto elettore, senza spesso che questi ne sia del tutto consapevole?

Come provare

Attività: “Election Day”

L’esperienza di eleggere un proprio rappresentante nelle dinamiche di una scuola o di una classe è un valido pretesto per un assaggio di democrazia rappresentativa. Peccato che i decreti delegati permettano ai ragazzi di eleggere propri rappresentanti solamente a partire dalla scuola superiore, escludendone la scuola media inferiore. Ma è possibile far eleggere ai ragazzi un capoclasse o meglio ancora farli riflettere sulle dinamiche di gruppo attraverso la seguente attività.
Si forniscono ad ogni ragazzo quattro bigliettini chiarendo che le risposte sono del tutto anonime. Si procede poi a formulare la prima domanda, la cui risposta deve essere scritta sul primo bigliettino:
in caso di una gita scolastica con quale compagno divideresti la stanza d’albergo per una notte?
Ritirati e non letti i bigliettini si procede con le altre domande:
– un professore ha dato alla classe una punizione ingiusta; a quale compagno assegneresti il compito di andargli a parlare per convincerlo a ritirare la punizione?
– la classe ha fatto una colletta per un acquisto comune; a quale compagno affideresti per tre giorni la cassa di 1000 euro?
– a quale compagno chiederesti aiuto per un compito in classe di (…)
Solo a questo punto si proceda a leggere i bigliettini stipulando la classifica delle preferenze. Ovviamente questo gioco ha come obiettivo il reperimento di quattro differenti figure di leader, e precisamente:
– il leader amicale, ovvero il ragazzo che è maggiormente in grado di tessere relazioni umane nel gruppo;
– il leader “politico”, ovvero il ragazzo rispetto al quale la squadra si sente rappresentata in situazioni difficili;
– il leader “affidabile” ovvero il ragazzo di cui ci si fida per onestà e soprattutto per serietà;
– il leader per competenze.

È da considerare significativa da parte di un singolo ragazzo una raccolta di preferenze pari a ¼ del gruppo. Ovviamente è possibile che non tutti i quattro ruoli siano ricoperti in modo preponderante da qualcuno (può darsi una dispersione di voti), come è possibile che una sola persona possa avere la predominanza su più aree (è assai difficile però che un ragazzo conquisti la maggioranza dei voti su tre aree). Questo gioco è molto utile anche per la scelta del capoclasse: in questo caso ricordando che il capoclasse deve esser espresso dalla classe e non dal docente, può esser utile chiedere in anticipo ai ragazzi quale area ritengano più significativa per la scelta del capoclasse, e dunque fare una specie di “scaletta”.

Cosa domandarsi

Anche a partire dall’esempio sopra riportato un gruppo di educatori potrebbe chiedersi:
– quante decisioni vengono veramente prese a maggioranza?
– quanto tempo dedichiamo alla discussione prendendo in considerazione i suggerimenti di tutti?
– come si comporta un educatore quando non condivide una decisione presa dalla maggioranza, ma in qualche modo è chiamato a renderla operativa con i ragazzi?

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Don Bosco: una giovinezza fatta da tanti no e altrettanti sì

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Francesco Motto

Di don Bosco si è scritto e si continua a scrivere che “tutto cominciò da un sogno” e con tale espressione sovente si lascia intendere che egli non fece altro che seguire un itinerario di vita indicatogli fin da fanciullo e ripreso in qualche modo anche più avanti negli anni.
Non è proprio così. A parte il fatto che storicamente il famoso sogno dei nove anni dovette essere poco più che un lampo – e non certo quell’ampio resoconto da lui tracciato 50 anni dopo quando si era in gran parte realizzato (ne abbiamo trattato su questa stessa rivista), – una simile narrazione entra direttamente in conflitto con degli eventi assodati: nell’età delle scelte, vale a dire nella giovinezza e nella prima maturità, Giovanni Bosco si trovò di fronte a delle alternative, dovette operare delle opzioni, prese delle decisioni, senza alcuna certezza di fare quella giusta, quella semplicemente intuita nel sogno infantile.

Adolescente, giovane, respinge concrete possibilità di vita e di futuro

Figlio di contadini, orfano di padre fin dalla prima infanzia, Giovanni Bosco era naturalmente destinato al lavoro nei campi, cui in effetti si avviò quanto prima sia in famiglia, sia nel breve lasso di tempo da preadolescente passato alla cascina Moglia come garzone di stalla. Il fratellastro Antonio non aveva tutti i torti a sostenere che, come futuro contadino, non aveva bisogno di tanti studi. Ma il gusto naturale della lettura e dello studio, la fortuna di incontrare un buon prete di campagna che ne intuì le doti intellettuali, una mamma che aspirava a qualcosa di meglio della vita dei campi per il suo ultimo figlio permisero a Giovannino Bosco di strappare qualche ora al lavoro nei campi per dedicarsi agli studi, ovviamente a prezzo di grandi sacrifici.
Nell’anno trascorso come studente a Castelnuovo (1830-1831) in casa del sarto Roberto Giovanni gli venne offerta la possibilità di rimanere con lui, apprendere bene il mestiere e così un domani prendere il suo posto e con esso la possibilità di essere di eventuale sostegno alla madre anziana. Ma d’accordo con lei respinse la proposta e preferì continuare gli studi a Chieri, a 16 km dal proprio paese. Non era una scelta facile: allontanarsi da casa, ricorrere all’elemosina per pagarsi gli studi, adattarsi a vivere ospite in casa altrui, offrire servizi vari per pagarsi la pigione… Anche a Chieri gli si aprì la strada di poter gestire un domani un esercizio commerciale. Nuovamente rifiutò per il suo desiderio di continuare gli studi.

La scelta dello “stato” di vita

Giunto al loro termine, il diciannovenne Giovanni dovette ancora una volta decidere “cosa fare da grande”. Si sentiva chiamato alla vita sacerdotale, come intuiva dal sogno che si ripeteva, ma “la mia maniera di vivere, certe abitudini del mio cuore e la mancanza assoluta delle virtù necessarie a questo stato”, rendevano dubbiosa e assai difficile quella deliberazione”.
Optò allora per la vita consacrata; si sottopose all’esame di vocazione presso il convento dei frati Minori Riformati della Madonna degli Angeli a Torino, fu accettato ed era pronto ad entrare in noviziato al convento della Pace in Chieri quando uno strano sogno sulla difficoltà di vivere in un convento lo mise in crisi. Ne uscì a seguito del parere dello zio (sacerdote) dell’amico Comollo con cui si era confidato: rinunciare ad entrare in convento e invece iniziare gli studi in seminario in attesa di conoscere meglio “quello che Dio vuole da lui”.
Superamento l’esame finale di retorica nelle scuole di Chieri, si sottopose ad un nuovo esame, quello per la vestizione clericale. Lo superò e così andò serenamente in vacanza in famiglia a prepararsi alla nuova fase di vita che si apriva davanti a lui. Nell’ottobre ricevette la vestizione clericale dal proprio prevosto ed il 30 ottobre entrò in seminario a Chieri. Aveva vent’anni, aveva ormai scelto di diventare sacerdote, la strada sembrava tracciata… Non poteva certo immaginare quante altre scelte impegnative avrebbe dovuto fare.

Quale missione sacerdotale? nessuna per ora (1841-1844)

Trascorse oltre 5 anni di studio e di formazione in seminario (novembre 1835-maggio 1841), non senza coltivare qualche dubbio sulla sua vocazione sacerdotale, subito fugato dal suo direttore spirituale, amico e conterraneo, don Giuseppe Cafasso.
Ordinato sacerdote nel giugno 1841, dopo l’estate trascorsa in paese gli vennero subito offerte tre possibilità: una, lontano dal paese, a Genova, come maestro-precettore in casa di un ricco signore con l’ottimo stipendio di mille lire annue; e due vicino a casa: cappellano di Murialdo con doppio stipendio rispetto al solito o vicecurato a Castelnuovo. Lo zelante neosacerdote non sapeva che fare, per cui ancora una volta andò a consigliarsi a Torino da don Cafasso. Questi udite tre le proposte le scartò tutte dicendo: “Voi avete bisogno di studiare la morale e la predicazione. Venite con me al convitto di Torino”. A 26 anni compiuti don Bosco, pieno di giovanile entusiasmo sacerdotale, doveva dunque sospendere ogni progetto apostolico coltivato lungo gli anni di seminario per dedicarsi ad ulteriori studi teologici.

La proposta decisiva

Lungo il triennio di studio al Convitto (1841-1844) ebbe modo di fare varie esperienze sacerdotali sotto la guida di don Cafasso. Due in particolare: al Convitto venne ad insediarsi presto attorno a lui una sorta di oratorio festivo di qualche decina di ragazzi lavoratori, che poi nei giorni feriali lui visitava sul posto di lavoro; di sabato poi si recava personalmente nelle carceri minorili sempre con piccoli doni da distribuire (dolci, frutta, immaginette). Il tutto sotto lo sguardo attento di don Cafasso, che evidentemente era molto interessato al futuro del giovane compaesano.
I problemi si posero al termine del triennio di studio. L’anziano don Giuseppe Comollo, con il parere favorevole dell’arcivescovo Fransoni, lo chiese come economo-amministratore della propria parrocchia. Come dire di no al proprio vescovo? A toglierlo dagli impicci ci pensò il rettore del Convitto, il teologo Luigi Guala, che gli dettò personalmente la lettera di rinuncia.
Gli si avanzarono allora tre altre proposte: vicecurato di Buttigliera d’Asti, oppure ripetitore di morale al Convitto, oppure direttore stipendiato dell’erigendo piccolo ospedaletto accanto al Rifugio, fondato e mantenuto dalla ricca marchesa Barolo per centinaia di “ragazze a rischio”. Non sapeva che fare: solo sentiva il bisogno di non abbandonare i suoi “poveri giovani” che continuamente lo cercavano. Ora questo gli sarebbe stato possibile solo accettando la terza proposta: infatti la predicazione e le confessioni delle ragazze del Rifugio prima e la direzione dell’Ospedaletto poi gli avrebbero concesso spazi di tempo libero per i suoi giovani. Come suo solito si confidò con don Cafasso che però prese tempo: avrebbe deciso dopo le vacanze estive.
Passarono rapidamente e don Cafasso non gli suggeriva nulla. Don Bosco si fece allora coraggio e gli chiese espressamente il suo parere, che avrebbe ritenuto “volontà di Dio “. Don Cafasso gli consigliò di accettare la direzione dell’Ospedaletto, sotto la responsabilità del direttore spirituale delle varie istituzioni della marchesa, don Giovanni Borel, che per altro aveva fatto alla marchesa proprio il suo nome per il suddetto ruolo.

La decisione sofferta

Don Bosco non si allontanava così da Torino, aveva un stipendio sicuro con cui mantenersi, ma per l’assistenza ai suoi giovani, tanto per incominciare mancava un luogo in cui radunarli. Con il consenso della marchesa iniziò con la sua camera (il corridoio e le scale) al Rifugio, ma fu subito chiaro che colà non c’era posto per contenere i ragazzi che aumentavano ogni domenica. Don Borel chiese allora altro spazio alla marchesa che generosamente lo concesse non essendo ancora in funzione l’ospedaletto. L’arcivescovo acconsentì che un locale venisse trasformato in cappella (8 dicembre 1844).
Ma era evidente che era tutto provvisorio. In effetti vari mesi dopo, in prossimità dell’apertura dell’ospedaletto (10 agosto 1845) dovette cercare altro luogo per radunare i giovani. Dal maggio al dicembre peregrinò prima al vicino cimitero di S. Pietro e poi ai Mulini Dora in città. Scacciato da entrambi i posti, dal gennaio all’aprile 1846 fu la volta di casa Moretta e prato Filippi a Valdocco, finché in aprile approdò alla sede definitiva, casa Pinardi a Valdocco. L’Oratorio itinerante dei mesi precedenti aveva trovato una sede stabile
Ma furono mesi di grande impegno anche fisico per don Bosco: svolgere i suoi compiti di cappellano dell’Ospedaletto ma nello stesso tempo cercare ogni domenica nuove chiese dove portare la massa dei suoi giovani a messa; trovare spazio per far loro catechismo e farli giocare; visitarne alcuni lungo la settimana sul luogo di lavoro; pubblicare qualche libretto devozionale ed anche una Storia ecclesiastica di ben 400 pagine ecc. La salute ne risentì tanto che ad inizio gennaio la marchesa, preoccupata, chiese a don Borel di farlo riposare fuori città. Ma i ragazzi non potevano fare a meno del loro don Bosco: andavano da lui a frotte a confessarsi, costringendolo poi a riportarli in città.

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Messaggi del Rettor Maggiore ai giovani del Movimento Giovanile Salesiano

Da Note di Pastorale Giovanile, la nuova rubrica: Messaggi del Rettor Maggiore ai giovani del Movimento Giovanile Salesiano.

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Da alcuni anni il Rettor Maggiore dei Salesiani, in occasione della festa di don Bosco, il 31 gennaio, manda una “lettera” ai giovani del Movimento Giovanile Salesiano (del mondo, ovviamente), come un saluto, un momento di cordialità, uno scambiarsi gli auguri. In genere tale messaggio origina dal tema della Strenna  (l’impegno che ogni anno viene lanciato ai membri della Famiglia Salesiana), oppure da qualche evento di Congregazione e di Chiesa, come la GMG, l’Anno Santo, il Sinodo sui giovani, o qualche speciale anniversario salesiano. Tale messaggio “circola” nei nostri ambienti non solo come “parola” che indirizza, ma anche e soprattutto come segno di famiglia, appunto per la speciale predilezione per i giovani che nel nome di don Bosco tutti i suoi Successori hanno.
E allora raccogliamo qui la documentazione che siamo riusciti a reperire. Al momento non riusciamo ad andare indietro al 2000; chissà che qualche ricercatore o salesiano o giovane di buona memoria possa completare questo lavoro.
Sarà poi nostra cura trovare e mettere on line, prima che il tempo ingoi tutto, il materiale prodotto dei vari Confronti internazionali, Incontro Europei, Assemblee nazionali, Forum e quant’altro che riguarda il Movimento Giovanile Salesiano. Ma anche le pagine che i vari Rettori Maggiori nelle loro Circolari o gli stessi Atti dei Capitoli Generali hanno scritto.
Il MGS è – anche nelle parole dei Rettori Maggiori – la sintesi e il modello operativo della nostra Pastorale Giovanile, nell’intreccio della dimensione del coinvolgimento-partecipazione dei giovani, della spiritualità che proviene dall’azione dello Spirito in don Bosco, della cura formativa e “missionaria” che ne ha la comunità “salesiana” allargata nella sua missione educativa-pastorale.

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Don Bosco: una giovinezza fatta da tanti no e altrettanti sì

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Francesco Motto

Di don Bosco si è scritto e si continua a scrivere che “tutto cominciò da un sogno” e con tale espressione sovente si lascia intendere che egli non fece altro che seguire un itinerario di vita indicatogli fin da fanciullo e ripreso in qualche modo anche più avanti negli anni.
Non è proprio così. A parte il fatto che storicamente il famoso sogno dei nove anni dovette essere poco più che un lampo – e non certo quell’ampio resoconto da lui tracciato 50 anni dopo quando si era in gran parte realizzato (ne abbiamo trattato su questa stessa rivista), – una simile narrazione entra direttamente in conflitto con degli eventi assodati: nell’età delle scelte, vale a dire nella giovinezza e nella prima maturità, Giovanni Bosco si trovò di fronte a delle alternative, dovette operare delle opzioni, prese delle decisioni, senza alcuna certezza di fare quella giusta, quella semplicemente intuita nel sogno infantile.

Adolescente, giovane, respinge concrete possibilità di vita e di futuro

Figlio di contadini, orfano di padre fin dalla prima infanzia, Giovanni Bosco era naturalmente destinato al lavoro nei campi, cui in effetti si avviò quanto prima sia in famiglia, sia nel breve lasso di tempo da preadolescente passato alla cascina Moglia come garzone di stalla. Il fratellastro Antonio non aveva tutti i torti a sostenere che, come futuro contadino, non aveva bisogno di tanti studi. Ma il gusto naturale della lettura e dello studio, la fortuna di incontrare un buon prete di campagna che ne intuì le doti intellettuali, una mamma che aspirava a qualcosa di meglio della vita dei campi per il suo ultimo figlio permisero a Giovannino Bosco di strappare qualche ora al lavoro nei campi per dedicarsi agli studi, ovviamente a prezzo di grandi sacrifici.
Nell’anno trascorso come studente a Castelnuovo (1830-1831) in casa del sarto Roberto Giovanni gli venne offerta la possibilità di rimanere con lui, apprendere bene il mestiere e così un domani prendere il suo posto e con esso la possibilità di essere di eventuale sostegno alla madre anziana. Ma d’accordo con lei respinse la proposta e preferì continuare gli studi a Chieri, a 16 km dal proprio paese. Non era una scelta facile: allontanarsi da casa, ricorrere all’elemosina per pagarsi gli studi, adattarsi a vivere ospite in casa altrui, offrire servizi vari per pagarsi la pigione… Anche a Chieri gli si aprì la strada di poter gestire un domani un esercizio commerciale. Nuovamente rifiutò per il suo desiderio di continuare gli studi.

La scelta dello “stato” di vita

Giunto al loro termine, il diciannovenne Giovanni dovette ancora una volta decidere “cosa fare da grande”. Si sentiva chiamato alla vita sacerdotale, come intuiva dal sogno che si ripeteva, ma “la mia maniera di vivere, certe abitudini del mio cuore e la mancanza assoluta delle virtù necessarie a questo stato”, rendevano dubbiosa e assai difficile quella deliberazione”.
Optò allora per la vita consacrata; si sottopose all’esame di vocazione presso il convento dei frati Minori Riformati della Madonna degli Angeli a Torino, fu accettato ed era pronto ad entrare in noviziato al convento della Pace in Chieri quando uno strano sogno sulla difficoltà di vivere in un convento lo mise in crisi. Ne uscì a seguito del parere dello zio (sacerdote) dell’amico Comollo con cui si era confidato: rinunciare ad entrare in convento e invece iniziare gli studi in seminario in attesa di conoscere meglio “quello che Dio vuole da lui”.
Superamento l’esame finale di retorica nelle scuole di Chieri, si sottopose ad un nuovo esame, quello per la vestizione clericale. Lo superò e così andò serenamente in vacanza in famiglia a prepararsi alla nuova fase di vita che si apriva davanti a lui. Nell’ottobre ricevette la vestizione clericale dal proprio prevosto ed il 30 ottobre entrò in seminario a Chieri. Aveva vent’anni, aveva ormai scelto di diventare sacerdote, la strada sembrava tracciata… Non poteva certo immaginare quante altre scelte impegnative avrebbe dovuto fare.

Quale missione sacerdotale? nessuna per ora (1841-1844)

Trascorse oltre 5 anni di studio e di formazione in seminario (novembre 1835-maggio 1841), non senza coltivare qualche dubbio sulla sua vocazione sacerdotale, subito fugato dal suo direttore spirituale, amico e conterraneo, don Giuseppe Cafasso.
Ordinato sacerdote nel giugno 1841, dopo l’estate trascorsa in paese gli vennero subito offerte tre possibilità: una, lontano dal paese, a Genova, come maestro-precettore in casa di un ricco signore con l’ottimo stipendio di mille lire annue; e due vicino a casa: cappellano di Murialdo con doppio stipendio rispetto al solito o vicecurato a Castelnuovo. Lo zelante neosacerdote non sapeva che fare, per cui ancora una volta andò a consigliarsi a Torino da don Cafasso. Questi udite tre le proposte le scartò tutte dicendo: “Voi avete bisogno di studiare la morale e la predicazione. Venite con me al convitto di Torino”. A 26 anni compiuti don Bosco, pieno di giovanile entusiasmo sacerdotale, doveva dunque sospendere ogni progetto apostolico coltivato lungo gli anni di seminario per dedicarsi ad ulteriori studi teologici.

La proposta decisiva

Lungo il triennio di studio al Convitto (1841-1844) ebbe modo di fare varie esperienze sacerdotali sotto la guida di don Cafasso. Due in particolare: al Convitto venne ad insediarsi presto attorno a lui una sorta di oratorio festivo di qualche decina di ragazzi lavoratori, che poi nei giorni feriali lui visitava sul posto di lavoro; di sabato poi si recava personalmente nelle carceri minorili sempre con piccoli doni da distribuire (dolci, frutta, immaginette). Il tutto sotto lo sguardo attento di don Cafasso, che evidentemente era molto interessato al futuro del giovane compaesano.
I problemi si posero al termine del triennio di studio. L’anziano don Giuseppe Comollo, con il parere favorevole dell’arcivescovo Fransoni, lo chiese come economo-amministratore della propria parrocchia. Come dire di no al proprio vescovo? A toglierlo dagli impicci ci pensò il rettore del Convitto, il teologo Luigi Guala, che gli dettò personalmente la lettera di rinuncia.
Gli si avanzarono allora tre altre proposte: vicecurato di Buttigliera d’Asti, oppure ripetitore di morale al Convitto, oppure direttore stipendiato dell’erigendo piccolo ospedaletto accanto al Rifugio, fondato e mantenuto dalla ricca marchesa Barolo per centinaia di “ragazze a rischio”. Non sapeva che fare: solo sentiva il bisogno di non abbandonare i suoi “poveri giovani” che continuamente lo cercavano. Ora questo gli sarebbe stato possibile solo accettando la terza proposta: infatti la predicazione e le confessioni delle ragazze del Rifugio prima e la direzione dell’Ospedaletto poi gli avrebbero concesso spazi di tempo libero per i suoi giovani. Come suo solito si confidò con don Cafasso che però prese tempo: avrebbe deciso dopo le vacanze estive.
Passarono rapidamente e don Cafasso non gli suggeriva nulla. Don Bosco si fece allora coraggio e gli chiese espressamente il suo parere, che avrebbe ritenuto “volontà di Dio “. Don Cafasso gli consigliò di accettare la direzione dell’Ospedaletto, sotto la responsabilità del direttore spirituale delle varie istituzioni della marchesa, don Giovanni Borel, che per altro aveva fatto alla marchesa proprio il suo nome per il suddetto ruolo.

La decisione sofferta

Don Bosco non si allontanava così da Torino, aveva un stipendio sicuro con cui mantenersi, ma per l’assistenza ai suoi giovani, tanto per incominciare mancava un luogo in cui radunarli. Con il consenso della marchesa iniziò con la sua camera (il corridoio e le scale) al Rifugio, ma fu subito chiaro che colà non c’era posto per contenere i ragazzi che aumentavano ogni domenica. Don Borel chiese allora altro spazio alla marchesa che generosamente lo concesse non essendo ancora in funzione l’ospedaletto. L’arcivescovo acconsentì che un locale venisse trasformato in cappella (8 dicembre 1844).
Ma era evidente che era tutto provvisorio. In effetti vari mesi dopo, in prossimità dell’apertura dell’ospedaletto (10 agosto 1845) dovette cercare altro luogo per radunare i giovani. Dal maggio al dicembre peregrinò prima al vicino cimitero di S. Pietro e poi ai Mulini Dora in città. Scacciato da entrambi i posti, dal gennaio all’aprile 1846 fu la volta di casa Moretta e prato Filippi a Valdocco, finché in aprile approdò alla sede definitiva, casa Pinardi a Valdocco. L’Oratorio itinerante dei mesi precedenti aveva trovato una sede stabile
Ma furono mesi di grande impegno anche fisico per don Bosco: svolgere i suoi compiti di cappellano dell’Ospedaletto ma nello stesso tempo cercare ogni domenica nuove chiese dove portare la massa dei suoi giovani a messa; trovare spazio per far loro catechismo e farli giocare; visitarne alcuni lungo la settimana sul luogo di lavoro; pubblicare qualche libretto devozionale ed anche una Storia ecclesiastica di ben 400 pagine ecc. La salute ne risentì tanto che ad inizio gennaio la marchesa, preoccupata, chiese a don Borel di farlo riposare fuori città. Ma i ragazzi non potevano fare a meno del loro don Bosco: andavano da lui a frotte a confessarsi, costringendolo poi a riportarli in città.

La scelta definitiva

Presa in affitto parte di casa Pinardi nell’aprile 1846, don Bosco poteva in certo modo dirsi soddisfatto, anche se c’erano molti lavori da fare per adattarla alle esigenze dei suoi giovani oratoriani e dunque ulteriori spese da sostenere. Ma una nuova tegola gli stava cadendo in testa. A metà maggio la marchesa scriveva a don Borel che stimava moltissimo la persona di don Bosco, che apprezzava oltre ogni dire il lavoro spirituale che egli faceva, ma proprio per questo, vedendolo stanchissimo, chiedeva che si mettesse immediatamente a riposo se voleva continuare a svolgere il suo servizio di cappellano dell’Ospedaletto. Ma aggiungeva una richiesta pesantissima: don Bosco doveva proibire ai suoi giovani di venire ad attenderlo quando usciva dalla sua camera al Rifugio, stante il pericolo di inopportuni incontri con le “figlie di mala vita” colà da lei accolte.
Non aveva tutti i torti la marchesa, ci teneva alle sue opere di carità materiale e spirituale, ma per il trentunenne sacerdote era un autentico aut aut: o con la marchesa e le sue ragazze con tanto di sicuro stipendio, ovvero scindere a fine luglio il contratto “professionale” e dedicarsi a tempo pieno ai suoi giovani oratoriani, cercando altrove i mezzi di sussistenza. A quanto scrive lui stesso, non dovette pensarci su troppo: scelse i suoi “poveri giovani” cui nessuno si interessava, con la conseguenza che mentre la ricca marchesa avrebbe facilmente trovato un sostituto di don Bosco, questi da agosto si sarebbe trovato senza stipendio.
I due mesi di maggio e di giugno 1846 furono molto impegnativi per don Bosco. La stanchezza accumulatosi lo portò ai primi di luglio allo sfinimento. Una probabile polmonite lo inchiodò al letto per tutto il mese, riducendolo in fin di vita, fra la costernazione dei suoi giovani che con le loro preghiere – avrebbe detto don Bosco – la strapparono dalla morte sicura. Nella guarigione don Bosco lesse la volontà di Dio di dedicare la sua vita ai giovani e così, dopo aver trascorso al paese tre mesi di convalescenza con mamma Margherita, con la stessa mamma ai primi di novembre ritornò a casa Pinardi, dove don Borel in agosto aveva fatto trasportare dalla cameretta del Rifugio i suoi effetti personali.

Ma non era ancora finita!

Si potrebbe pensare che, pagato in giugno l’affitto di casa Pinardi e con la mamma accanto, nell’autunno 1846 il futuro potesse apparire meno oscuro, forse anche roseo. Ma non fu proprio così. I secondi anni quaranta furono gravidi di problemi. Anzitutto rimaneva costante il problema economico, nonostante l’aiuto di don Borel, di don Cafasso, della mamma e forse anche – ma don Bosco non lo scrisse mai – della stessa generosa marchesa. Sorse poi presto la difficoltà di trovare dei collaboratori, sacerdoti e laici, stabili per il suo oratorio “festivo” tutto da inventare e che presto si arricchì di scuole serali, con un piccolo internato per giovani senza tetto. Emerse in tempi brevi il problema di farsi accettare dal clero locale che vedevano don Bosco come colui che sottraeva i giovani dalle loro parrocchie. Scoppiò il problema giovanile con molti dei suoi oratoriani e collaboratori che autonomamente si coinvolsero direttamente nelle battaglie risorgimentali e poi lo lasciarono praticamente solo. Spuntò prepotentemente il problema sociale per cui raggruppamenti giovanili potevano essere pericolosi nel caldo clima risorgimentale che annunziava il ‘quarantotto”.
E a seguire, il problema politico della nascita del Regno d’Italiain opposizione allo Stato Pontificio, che l’anno 1860 aveva provocato una dura perquisizione domiciliare a Valdocco per sospetti intrallazzi con la Santa Sede; negli anni sessanta la difficoltà per don Bosco di farsi approvare la società salesiana e le sue costituzioni; negli anni settanta la lunga e dolorosa incomprensione con mons. Gastaldi; negli anni ottanta il complicato insediamento delle missioni in Patagonia…
Pensare che don Bosco abbia avuto una giovinezza facile per cui aveva davanti una sorta di autostrada da percorrere, quella del sogno, senza dover fare delle continue e non facili scelte lungo gli anni, è porsi fuori dalla storia. Così come tradire la storia è pensare che da giovane sacerdote (ma anche più avanti negli anni come si è appena accennato) di fronte a tante difficoltà non si sia mai posto la domanda se “continuare o lasciare” il suo Oratorio.
Se don Bosco è diventato quello che tutti conosciamo, se poi ha raggiunto la gloria degli altari è perché nella giovinezza e nella prima età adulta, sempre ben consigliato da adulti, ha saputo dire tanti no ed altrettanti sì; e questi sì non ha avuto paura a pagarli a caro prezzo, convinto che fosse la volontà di Dio. Solo pochi mesi prima di morire si rese conto che il sogno infantile si era realizzato e scoppiò in pianto. Ne aveva tutte le ragioni.

PS. Con questo intervento sulla giovinezza di don Bosco si chiude la serie di profili della rubrica SANTI GIOVANI E GIOVINEZZA DI SANTI che abbiamo lanciato nel 2019. Amiamo pensare che siano stati occasione, per i giovani lettori ed educatori, di attente riflessioni su come e quando Dio chiama ad una vita di santità da altare (o almeno della porta accanto come direbbe papa Francesco). Ci torna gradito in questo momento il fatto che fra i patroni per la giornata della GMG di Lisbona 2023 siano stati scelti, fra gli altri, don Bosco “educatore di santi” e i beati Pier Giorgio Frassati, Marcel Callo, Chiara Badano e Caro Acutis”, tutti personaggi di cui abbiamo narrato vita e santità in questa rubrica.

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Alcune premesse e chiavi di lettura (del dossier “FARE. DISFARE. RIFARE L’ORATORIO?”)

Dal

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Stefano Guidi *

L’introduzione che apre questo dossier intende offrire – in premessa – la chiave di lettura dell’intero lavoro. Qui non intendiamo proporre soluzioni a buon mercato, rapide e sicure. Vorremmo invitare ad iniziare un percorso di rinnovamento della forma dell’oratorio che – includendo anche la dimensione immobiliare – lavora sul nucleo essenziale della sua proposta.
Tale introduzione tocca tre punti. Il primo richiama le ragioni che hanno guidato la realizzazione di questo dossier. Il secondo richiama la necessità di collocare la riflessione sulla struttura dell’oratorio all’interno di una revisione sostanziale del progetto educativo dell’oratorio, che prende le mosse dall’incontro con il destinatario e dallo studio del contesto territoriale. Il terzo punto accenna molto brevemente ai criteri qualificanti del discernimento ecclesiale.

Sul primo punto è sufficiente dire questo: il dossier segna un iniziale passo esplicito di riflessione attorno ad un tema che agita e preoccupa molti. Non è forse un caso che la Rivista abbia deciso di affidare questa riflessione iniziale alle diocesi lombarde. Infatti, proprio l’oratorio lombardo rappresenta un caso interessante. Esso si presenta anche (soprattutto) esteriormente come un ambiente riconoscibile, codificato e strutturato. Strettamente connesso al vissuto sia della parrocchia che della comunità civile, e parte integrante della trama che costituisce il tessuto della comunità locale.
Vogliamo quindi aprire esplicitamente la riflessione sull’oratorio inteso come edificio e come struttura visibile, riconoscibile, identificabile. Questa scelta è mossa a sua volta da una constatazione che sta maturando da diversi anni. E cioè: che – sotto il profilo quantitativo – gli oratori lombardi siano sproporzionati e non sempre adeguati. Qualche parola di spiegazione e di approfondimento.
Sono sproporzionati sia rispetto alla popolazione giovanile della regione, sia rispetto alle modalità e ai tempi di socializzazione che questa generazione esprime, sia rispetto alla partecipazione alla vita della comunità religiosa locale che questa generazione pratica. Si avverte poi una certa sproporzione sia rispetto alle energie educative che la parrocchia riesce effettivamente a mettere a disposizione, non solo per l’attività gestionale, ma – punto assai più delicato – per l’attività progettuale, sia rispetto alle forze presbiterali, religiose e laiche effettivamente disponibili al servizio educativo. Precisiamo che questa riflessione si basa non solo o non tanto su sensazioni raccolte dal territorio e dagli operatori, ma più seriamente su studi e ricerche che la giustificano. Studi e ricerche che in parte sono già state svolte e in parte sono in fase di avvio. Va anche detto che la diffusione capillare impressionante degli oratori in Lombardia non risponde ad una logica di affluenza e di riempimento ma di proposta. L’oratorio è indubbiamente tra le espressioni più riuscite e longeve del cattolicesimo popolare nel territorio lombardo, espressione di una Chiesa che si pensa di tutti e per tutti, e che per questo propone a tutti l’esperienza elementare del Vangelo. Occorre cautela e prudenza rispetto all’istinto prevalente – anche tra gli addetti ai lavori – che talvolta tende a liquidare troppo frettolosamente questa modalità ecclesiale definendola come ormai del tutto superata.
Al senso di sproporzione (detto in una parola con una espressione rapida: sono troppi, e sono alternativamente pieni e vuoti) si aggiunge l’intuizione di una certa inadeguatezza. Sul piano specificamente spaziale, l’oratorio lombardo somma in un’unica sede almeno due tipologie di strutture: l’edificio scolastico e l’impianto sportivo. Di cui il primo – per necessità – esprime esplicitamente l’idea di una formazione catechistica statica, razionale e di stampo scolastico. Da fare in un’aula. Come a scuola. Il canone scolastico-sportivo ha avuto l’ovvio vantaggio di integrare con un certo successo altre dimensioni altrettanto costitutive dell’esperienza oratoriana: penso alle esperienze espressive e artistiche (quanti piccoli e grandi teatri praticamente presenti in ogni parrocchia e oratorio!) e a quella di socializzazione e ricreativa, fino ad integrare quella abitativa (le esperienze di vita comune dei giovani).
Questa forma di oratorio, pensato come dispositivo educativo integrato, con il suo impianto complessivo e articolato, ha risposto adeguatamente per decenni a molteplici esigenze educative, sia famigliari che sociali, e soprattutto ecclesiali. La continuità tra l’oratorio e la Chiesa, ossia tra la dimensione educativa-ricreativa e la dimensione religiosa personale e sociale, sembrava essere garantita anche dalla continuità spaziale. Se non sotto il profilo propriamente personale credente, almeno sotto il profilo della intuizione di senso soggiacente a tale esperienza.

* Direttore Fondazione diocesana per gli oratori milanesi; Coordinatore Oratori diocesi lombarde.

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Sguardi in sala. Percorsi educativi e ricerca di senso tra Cinema e Teatro

Di seguito la presentazione della nuova rubrica su NPG a cura del CGS – Cinecircoli Giovanili Socioculturali.

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A partire da gennaio 2024, grazie alla collaborazione tra l’associazione Cinecircoli Giovanili Socioculturali APS e la rivista Note di Pastorale Giovanile, è disponibile on-line la rubrica “Sguardi in sala: percorsi educativi e ricerca di senso tra Cinema e Teatro”.

L’iniziativa editoriale ha l’obiettivo di mostrare come alcuni film recenti e opere teatrali possono illuminare, far capire e mettere in scena temi, personaggi e situazioni che ormai fanno parte della cultura e sensibilità di oggi, o modi di rivedere temi passati: giovani e adolescenti, famiglie, figli, identità personale (sociale, sessuale…), relazioni uomo-donna, ambiente, povertà, migrazioni, territorio, pace, intelligenza artificiale, fantasia, immaginazione, amore, morte… Le diverse uscite (cinque a tema cinema e cinque a tema teatro) prenderanno in considerazione film e spettacoli di facile reperibilità online, offrendo anche spunti a chi volesse utilizzarli per qualche attività educativa, o magari invitare gli stessi autori per una presentazione o un dialogo sul tema specifico.

Destinatari della rubrica sono prima di tutto gli educatori e i docenti alle prese con ragazzi e adolescenti, nelle varie circostanze e nei vari ambienti in cui tale metodologia può essere impiegata: a scuola, in incontri formativi, per incontri spirituali…

Ciascun articolo è costituito da una breve sinossi, da un’analisi / recensione con orientamento tematico, dove lo sguardo cinematografico o teatrale fa emergere le domande di senso suggerite dalla pellicola o dallo spettacolo sulle tematiche proposte, e si chiude con alcuni suggerimenti e piste di laboratorio per uno sviluppo pratico ai fini educativi.

Gli articoli saranno curati di volta in volta da persone diverse, giovani e adulti dei circoli CGS più ferrati in materia, con un coordinamento a cura del Consiglio direttivo nazionale.

Prima uscita: Vite indegne di vita – Lo sterminio dei disabili nel racconto teatrale di Marco Paolini, a cura di Myriam Leone e Gianpaolo Bellanca.

 

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Un anno per pensare

Editoriale del numero gennaio/febbraio 2024 di Note di Pastorale Giovanile.

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di don Rossano Sala

Il 2023 è passato molto velocemente. Per la pastorale giovanile certamente sarà ricordato per la Giornata Mondiale della Gioventù. Lisbona è stato un momento importante per la Chiesa tutta dopo la pandemia, perché ha segnato il passo verso un rilancio dell’esperienza di fede condivisa. La Chiesa può davvero essere una Chiesa di tutti e per tutti, come papa Francesco ha detto più volte durante quei giorni in terra lusitana.
La sfida della Giornata Mondiale della Gioventù è quella di mettere a frutto nel quotidiano quell’esperienza di fede attraverso scelte concrete e possibili di appartenenza e impegno come discepoli missionari del Signore Gesù nella propria Chiesa locale. Tutto nella GMG è predisposto perché si diventi sempre più discepoli e sempre meglio apostoli del Signore. Quell’esperienza va fatta fiorire e fruttificare.
Sappiamo che ciò non è scontato.
Per la Chiesa tutta poi c’è stato un momento importante di convocazione, quello della prima sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi dal tema Per una Chiesa sinodale. Comunione, partecipazione, missione. Abbiamo visto com’è andata: c’è stato il tempo per dialogare e ascoltarsi, con la partecipazione di diversi membri del popolo di Dio che hanno potuto portare il loro apporto al discernimento in atto. Abbiamo un Documento di sintesi votato dall’assemblea interessante, anche se ancora interlocutorio.
A questa prima sessione ne seguirà un’altra nell’ottobre del 2024, che certamente sarà chiamata a focalizzare meglio almeno alcune questioni e offrire su di esse orientamenti più puntuali e precisi. Certamente il tempo intermedio tra la prima e la seconda sessione – che è sostanzialmente quest’anno 2024 – non è un tempo vuoto. Sappiamo per esempio che il Concilio Vaticano II si è svolto in quattro sessioni e ha avuto quindi tre momenti intermedi molto fecondi: tempo di approfondimento teologico delle tematiche in discussione, tempo per il confronto tra le diverse parti in campo, tempo di sedimentazione e di preghiera rispetto ai compiti della Chiesa, tempo per fare proposte e per ascoltarsi reciprocamente.
Penso che il 2024 sia un anno di approfondimento ecclesiale, anche perché non ci sono all’orizzonte particolari eventi che in un certo senso potrebbero “disturbare” la pastorale ordinaria e il discernimento sinodale. È un tempo dedicato ad andare in profondità: ci vogliono attenzione e concentrazione, preghiera e studio, intimità e contemplazione. Si tratta di cogliere quali sono le vie verso cui il Signore ci vuole condurre per rimanere all’altezza della nostra chiamata ad essere luce del mondo e sale della terra.
Vorrei in questo editoriale di inizio anno soffermarmi su due aspetti che meritano attenzione specifica e approfondimento necessario. Li considero i due temi fondamentali per il presente e il futuro della Chiesa: il primo verte sull’identità della Chiesa, il secondo su quella del cristiano.

L’identità della Chiesa: missionaria ed evangelizzatrice

La prima, principale e forse l’unica parola dell’attuale pontificato consiste sostanzialmente nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. Per molti aspetti quanto è seguito a questo importante documento è un insieme di sviluppi coerenti, specificazioni particolari e realizzazioni più o meno complete di questa ispirazione di fondo, che rimane come scenario del pontificato e diapason permanente per ogni successivo passo e decisione.
Penso in maniera specifica al tema fondamentale della conversione missionaria e della svolta evangelizzatrice della Chiesa, che porta con sé ogni altra cosa, perché è uno stile di Chiesa che ne esprime la sua identità propria:

Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, “ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale”[1].

Il nucleo rovente di questa proposta affonda le sue radici nel Vangelo: uno ritrova se stesso proprio nel momento in cui perde se stesso attraverso il dono di se stesso. È proprio uscendo da se stessa che la Chiesa ritrova la sua identità più profonda. Di Gesù dicevano che era «fuori di sé»[2], ma se ci pensiamo bene questa affermazione coincide con la pienezza della sua identità, che è perfettamente decentrata e completamente radicata nel Padre suo. Gesù è se stesso solo nella relazione e nel legame con il suo Abbà, nel suo riceversi continuo. La dimensione estatica è quella che gli offre contenuto, sostanza e consistenza.
Solo uscendo da me stesso divento me stesso, questa è la verità del mio essere! Ecco il senso dell’invito fatto ai giovani in Christus vivit, quando vengono spinti a uscire da loro stessi per andare incontro agli altri: «Che tu possa vivere sempre più quella “estasi” che consiste nell’uscire da te stesso per cercare il bene degli altri, fino a dare la vita. Quando un incontro con Dio si chiama “estasi”, è perché ci tira fuori da noi stessi e ci eleva, catturati dall’amore e dalla bellezza di Dio»[3].
Nel tempo del narcisismo generalizzato – vero virus che contagia giovani e adulti, società civile ed ecclesiale, comunità religiose e istituzioni di ogni tipo – l’invito è, non semplicemente, a tirar fuori il meglio di sé, ma ad uscire da se stessi, abbandonando il proprio “io” egoistico e autoreferenziale. È doveroso pensare oggi all’educazione in questo senso: uscire da se stessi, più che tirar fuori il meglio da se stessi!
Tanti documenti cercano poi di realizzare questo nei diversi ambiti della vita della Chiesa. Faccio solo tre esempi, tra i tanti possibili. Primo, la Costituzione apostolica Veritatis gaudium sulle Università e le Facoltà ecclesiastiche. Lì si dice con chiarezza che il motore del rinnovamento nasce dalla necessità di «imprimere agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa “in uscita”»[4]. Secondo, la Costituzione apostolica Episcopalis communio sul Sinodo dei Vescovi, che con la medesima chiarezza afferma che

in un momento storico in cui la Chiesa si introduce in una nuova tappa evangelizzatrice, che le chiede di costituirsi in tutte le regioni della terra in uno “stato permanente di missione”, il Sinodo dei Vescovi è chiamato, come ogni altra istituzione ecclesiastica, a diventare sempre più un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. Soprattutto, come auspicava già il Concilio, è necessario che il Sinodo, nella consapevolezza che il compito di annunciare dappertutto nel mondo il Vangelo riguarda primariamente il Corpo episcopale, si impegni a promuovere con particolare sollecitudine l’attività missionaria, che è il dovere più alto e più sacro della Chiesa[5].

Infine, la Costituzione apostolica Praedicate Evangelium sulla riforma della curia romana, in cui si dice che «nel contesto della missionarietà della Chiesa si pone anche la riforma della Curia Romana» e che «questa nuova Costituzione apostolica si propone di meglio armonizzare l’esercizio odierno del servizio della Curia col cammino di evangelizzazione, che la Chiesa, soprattutto in questa stagione, sta vivendo»[6].
In tre ambiti strategici – quello della cultura, quello della sinodalità e quello dell’organizzazione della Curia Romana – è il principio della missione evangelizzatrice che ispira il rinnovamento, spinge alla conversione, propone i cambiamenti necessari. La teologia stessa, secondo Francesco, ha il compito di ripensarsi in ottica missionaria ed evangelizzatrice, perché «a una Chiesa sinodale, missionaria e “in uscita” non può che corrispondere una teologia “in uscita”»[7].
La prima grande domanda a cui rispondere sembra essere questa: quanto e in che modo ci stiamo impegnando per riscoprire l’identità missionaria della Chiesa e il suo compito prioritario, che è l’evangelizzazione?

L’identità del cristiano: discepolo e missionario

Per rimettere al centro il volto missionario della Chiesa e il suo compito essenziale, che è quello dell’evangelizzazione, bisogna che ci impegniamo con serietà nella riscoperta dell’identità propria del cristiano. In sintesi diciamo, con una formula sintetica: siamo “discepoli-missionari”, siamo “tutti discepoli, tutti missionari”, e tutto ciò a partire dalla piattaforma battesimale. Questo lo leggiamo a chiare lettere in un famoso passaggio dell’Evangelii gaudium:

In virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati[8].

Nella mia esperienza accademica e pastorale di questi ultimi anni vedo che l’accento sul binomio identitario del cristiano è tutto spostato verso la seconda parte. Ovvero si sottolinea con forza, ma a mio parere in forma spesso unilaterale, la dimensione missionaria dell’identità cristiana e si dimentica facilmente il lato del discepolato[9]. Il risultato è che manchiamo di profondità e non abbiamo una base solida per sostenere adeguatamente il nostro apostolato.
Penso che la trasformazione missionaria della Chiesa sarà un’illusione se non ripartiamo dal discepolato. L’identità del cristiano – come quella di Gesù – è prima di tutto filiale e quindi discepolare. Come Gesù è figlio e discepolo del Padre suo, così il cristiano lo è di Gesù. Egli rimane «il primo e il più grande evangelizzatore»[10] e quindi il modello a cui ispirarsi sempre di nuovo quando si tratta di ripartire o di dare slancio al proprio cammino di discepoli missionari.
Non possiamo pensare che la questione contemplativa – e anche quella dell’adorazione, su cui papa Francesco ha richiamato diverse volte l’attenzione proprio durante il cammino sinodale in atto – sia altro rispetto alla questione pastorale: è invece da ritenersi fondamentale che per essere efficaci animatori pastorali sia necessario prima essere degli autentici discepoli: è sempre dietro l’angolo il rischio di pensarsi apostoli del Signore senza prima essere suoi discepoli! Ecco perché è necessario uno spirito contemplativo: capace di rimanere ammirato davanti all’Evangelo, sempre stupito di fronte alle opere di Gesù e continuamente rapito dal suo stile unico. Contemplare insieme, seppur brevemente, il suo rapporto con il Padre, la sua vita nascosta a Nazareth e lo stile della sua missione ci offre elementi di rinnovamento sempre antichi e sempre nuovi.
Gesù è amico e confidente del Padre suo che è nei cieli. Il segreto profondo della vita di Gesù sta nel suo rapporto con il Padre, che egli chiama volentieri Abbà. Il punto di osservazione privilegiato, la chiave di volta decisiva, il centro prospettico strategico dei Vangeli è la relazione tra Gesù e il Padre. Spiega J. Ratzinger, introducendo il primo volume del suo Gesù di Nazareth, che

“Senza il radicamento in Dio la persona di Gesù rimane fuggevole, irreale e inspiegabile” (R. Schnackenburg). Questo è anche il punto di appoggio su cui si basa questo mio libro: considera Gesù a partire dalla sua comunione con il Padre. Questo è il vero centro della sua personalità. Senza questa comunione non si può capire niente e partendo da essa Egli si fa presente a noi anche oggi[11].

La relazione incomparabile di Gesù con il suo Abbà illumina e spiega la novità inaudita del suo insegnamento e il coinvolgimento dei discepoli, che propriamente saranno chiamati ad entrare anch’essi, per grazia, in questa filialità: figli nel Figlio. Non sarebbe possibile, eliminando questo legame o mettendolo in disparte, cogliere l’originalità di Gesù, che si può invece percepire in ogni pagina di Vangelo. Per questo Francesco ci invita con forza ad abbeverarci alla fonte della Parola di Dio, perché

tutta l’evangelizzazione è fondata su di essa, ascoltata, meditata, vissuta, celebrata e testimoniata. La Sacra Scrittura è fonte dell’evangelizzazione. Pertanto, bisogna formarsi continuamente all’ascolto della Parola. La Chiesa non evangelizza se non si lascia continuamente evangelizzare. È indispensabile che la Parola di Dio “diventi sempre più il cuore di ogni attività ecclesiale”.
L’evangelizzazione richiede la familiarità con la Parola di Dio e questo esige che le diocesi, le parrocchie e tutte le aggregazioni cattoliche propongano uno studio serio e perseverante della Bibbia, come pure ne promuovano la lettura orante personale e comunitaria. Noi non cerchiamo brancolando nel buio, né dobbiamo attendere che Dio ci rivolga la parola, perché realmente “Dio ha parlato, non è più il grande sconosciuto, ma ha mostrato se stesso”. Accogliamo il sublime tesoro della Parola rivelata[12].

Per essere missionari bisogna prima mettersi alla scuola del Signore Gesù: è questo in fondo il senso proprio del discepolato! La missione cristiana non s’improvvisa e senza un’adeguata contemplazione e formazione non siamo altro che dei “dilettanti allo sbaraglio”, missionari senza radicamento in Dio, annunciatori di qualcosa che non abbiamo accolto né assimilato!
L’evangelizzazione – che viene concretizzata storicamente dall’azione pastorale – non è solo in continuità storica rispetto alla rivelazione, ma è generata da quest’ultima. La rivelazione non è solo il suo inizio contingente, ma la sua origine permanente. Ciò significa che non è mai possibile essere missionari separandosi dallo stile, dal metodo e dai contenuti della rivelazione cristologica. Per questo la pastorale, se non affonda le sue radici nella spiritualità e non si sostiene al tronco della formazione, è un albero che non potrà mai portare frutto.
Ecco allora una seconda domanda importante che condivido con i lettori, e da cui invito a partire in questo anno 2024: siamo una comunità che si lascia evangelizzare, prima di divenire evangelizzatrice? Oppure presumiamo di essere missionari senza essere discepoli, ovvero senza un serio cammino di contemplazione, conversione e formazione?

NOTE

[1] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 27.
[2] Cfr. Mc 3,21; Gv 10,20.
[3] Francesco, Esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit del 25 marzo 2019, nn. 163-164.
[4] Francesco, Costituzione apostolica Veritatis gaudium del 27 dicembre 2017, n. 3.
[5] Francesco, Costituzione apostolica Episcopalis communio del 15 settembre 2018, n. 1.
[6] Francesco, Costituzione apostolica Praedicate Evangelium del 27 dicembre 2022, n. 3.
[7] Francesco, Lettera apostolica in forma di “motu proprio” Ad theologiam promovendam del 1 novembre 2023. «Si tratta del “timbro” pastorale che la teologia nel suo insieme, e non solo in un suo ambito peculiare, deve assumere: senza contrapporre teoria e pratica, la riflessione teologica è sollecitata a svilupparsi con un metodo induttivo, che parta dai diversi contesti e dalle concrete situazioni in cui i popoli sono inseriti, lasciandosi interpellare seriamente dalla realtà, per divenire discernimento dei “segni dei tempi” nell’annuncio dell’evento salvifico del Dio-agape, comunicatosi in Gesù Cristo» (ivi).
[8] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 120.
[9] Come esempio recente ci basti vedere, anche solo a livello statistico, come nella Relazione di sintesi della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi al termine della Prima Sessione (4-29 ottobre 2023), compaiano per circa 110 volte i termini che si riferiscono alla missione e invece meno di 15 volte quelli che si riferiscono al discepolato.
[10] Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, dell’8 dicembre 1975, n. 9; Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 12.
[11] J. Ratzinger, Gesù di Nazareth, Rizzoli, Milano 2007, 10.
[12] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, nn. 174.175.

 

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