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Avvenire – Repole: siamo tutti bisognosi della cura del Signore

Di seguito, l’articolo di Marina Lomunno su Avvenire sulle parole dell’arcivescovo di Torino, Roberto Repole, al termine della processione di Maria Ausiliatrice.

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«C’è un virus che si insinua dentro la mentalità del nostro mondo che ci fa pensare che ciascuno di noi si fa da solo, è artefice di sé stesso. Ma la malattia che questo virus porta è la solitudine. Quando noi pensiamo e viviamo così siamo destinati a essere soli, soprattutto nel momento del bisogno, in cui avremmo necessità della cura degli altri, perché – se ognuno si fa da sé nessuno può contare su nessuno. È molto bella la festa di Maria Ausiliatrice, auxilium christianorum , che – attraverso don Bosco e la Famiglia salesiana è la festa della nostra Chiesa, di questa città, perché dice qualcosa di chi siamo noi: non donne e uomini che si fanno da soli, ma bisognosi di cura, sempre, in qualunque momento. Nessuno di noi sopravvive senza cura. E la festa di Maria Ausiliatrice ci dice che abbiamo bisogno della cura per essere donne e uomini, anzitutto della cura di Dio, che si fa presente a noi e vicino a noi con la sua tenerezza, anche con gli occhi e con lo sguardo di Maria». Sono le parole dell’arcivescovo di Torino, Roberto Repole, che ha concluso sul sagrato della Basilica, nella serata di mercoledì 24, la lunga giornata della festa liturgica di Maria Ausiliatrice, al termine della processione con la statua della Madonna coperta per l’occasione da una campana di vetro.

«Per proteggerla dalla pioggia battente» ha spiegato il salesiano don Michele Viviano, rettore della Basilica all’inizio del cammino, che non ha scoraggiato migliaia di fedeli in preghiera lungo le vie percorse da don Bosco nel quartiere Valdocco. La processione, presente il sindaco Stefano Lo Russo, «è uscita dalla Basilica nonostante il maltempo anche in segno di vicinanza alle persone alluvionate dell’Emilia Romagna che hanno perso famigliari, casa e tutti i loro averi» ha proseguito il rettore. «La nostra preghiera all’Ausiliatrice va anche per loro oltre che per affidare a Maria la Giornata mondiale della Gioventù di Lisbona e il Sinodo che si celebrerà ad ottobre». Accanto a Repole, il rettor maggiore dei salesiani lo spagnolo don Angel Fernández Artime. Prima della benedizione, don Leonardo Mancini, ispettore dei Salesiani del Piemonte, ha invitato la piazza gremita di ombrelli a pregare per la comunità cristiana cinese: il 24 maggio, dal 2007 per volere di Papa Benedetto XVI, si celebra anche la Giornata mondiale di Preghiera per la Chiesa Cattolica in Cina dove Maria Ausiliatrice è venerata nel Santuario di Nostra Signora di Sheshan, a Shanghai.

Il Rettor Maggiore, così come fece Don Bosco, visita il carcere minorile – Avvenire

Il giornale “Avvenire” ha riportato una notizia, a cura di Marina Lomunno, sulla storica visita del Rettor Maggiore ai ragazzi dell’Istituto penitenziario minorile (Ipm) “Ferrante Aporti” di corso Unione Sovietica a Torino, lo scorso mercoledì 1 febbraio. Di seguito l’articolo.

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Al riformatorio “La Generala”, oggi l’istituto penale minorile (Ipm) “Ferrante Aporti”, don Giovanni Bosco inventò il suo sistema preventivo e gli oratori visitando, su invito del suo padre spirituale don Giuseppe Cafasso, i ragazzi «discoli e pericolanti» della Torino dell’Ottocento.

«Se questi giovanetti avessero fuori un amico che si prendesse cura di loro chissà che non possano tenersi lontani dalla rovina o almeno diminuire il numero di coloro che ritornano in carcere?»

scriveva nel 1855 nelle sue «Memorie dell’oratorio». Parole che possono essere prese a prestito per raccontare i 34 giovani «pericolanti» detenuti oggi al “Ferrante Aporti”, per la maggior parte stranieri, alcuni figli di immigrati di seconda generazione, altri non accompagnati. Come ai tempi di don Bosco, le presenze nel carcere sono lo specchio del disagio giovanile. Ma come nell’Ottocento la soluzione all’emarginazione e alla recidiva anche oggi sono le opportunità di reinserimento nella società “sana” dopo aver scontato la pena. Ed ecco perché non c’è luogo più significativo del carcere minorile torinese per capire l’attualità della mission di don Bosco: «Mi basta che siate giovani perché io vi ami assai».

Lo sa bene il rettor maggiore dei salesiani, don Ángel Fernàdez Ártime, che nella mattinata di mercoledì 1 febbraio, ha voluto concludere le celebrazioni della festa del santo proprio al “Ferrante Aporti”. Una visita storica perché mai, dopo don Bosco, era entrato nell’Ipm torinese un suo successore (don Ángel è il 10°), anche se il carisma salesiano tra queste mura non è mai venuto meno: una targa ricorda le sue visite alla «Generala» e qui è tradizione che i cappellani siano salesiani perché il “Ferrante” per i figli di don Bosco è un «oratorio dietro le sbarre». Tra i cappellani storici, è stato ricordato dal rettor maggiore don Domenico Ricca, andato in pensione lo scorso anno dopo oltre 40 anni di servizio, che ha riaperto la cappella del “Ferrante” a cui alcuni benefattori hanno donato le statue di don Bosco e di Maria Ausiliatrice. A don Ricca è subentrato il confratello don Silvano Oni, che ha organizzato la visita del rettor maggiore in collaborazione con la vicedirettrice Gabriella Picco, i formatori, gli insegnanti e gli educatori.

«In questi giorni spediremo una lettera a papa Francesco – annuncia don Silvano – con le foto del presepe che a Natale abbiamo allestito con i ragazzi, la maggior parte musulmani: è una natività in cui i personaggi di cartone non hanno volto: sopra Gesù Bambino una luce illumina la notte e un soccorritore e un medico attendono un barcone carico di giovani migranti come alcuni dei nostri giovani che hanno lasciato la loro terra e qui sono soli e preda dell’illegalità. Il loro salvagente per ora siamo noi».

Don Ángel, salutando uno per uno i ragazzi, si è informato sulla loro storia e provenienza: «io sono rumeno», «io egiziano» «io di Tangeri». «Sono stato nei vostri bellissimi Paesi a visitare le nostre comunità e i nostri oratori. Conosco qualche parola delle vostre lingue: io sono spagnolo, sono nato in Galizia, figlio di un pescatore. Ho studiato teologia e filosofia ma so molto di più della pesca che mi ha insegnato mio papà». Così si è presentato il rettor maggiore ai ragazzi radunati nel salone della ricreazione, dopo una danza e una scenetta su don Bosco animate dai novizi salesiani che ogni venerdì, accompagnati dal loro maestro don Enrico Ponte, animano l’oratorio del “Ferrante”.

«È per questo che ho scelto di diventare salesiano, 43 anni fa – ha continuato don Ángel –. Volevo fare il medico ma poi ho capito che don Bosco mi chiamava a curare le anime dei più giovani perché non ci sono buoni e cattivi ma ragazzi e ragazze che hanno avuto di meno e, come diceva il nostro santo, “in ogni giovane, anche il più disgraziato, c’è un punto accessibile al bene e dovere primo dell’educatore è di cercare questo punto, questa corda sensibile del cuore e di trarne profitto”. Tutti possiamo sbagliare ma se credete in voi stessi, vi fidate dei vostri educatori uscirete di qui migliori. Il mio sogno è di incontrarvi tutti a Valdocco con i giovani che ho incontrato ieri alla festa del nostro santo».

Quando la visita è finita, i ragazzi commossi hanno chiesto a don Ángel: «Quando torni?».

-Marina Lomunno

Avvenire

Rettor Maggiore: “La missione dei salesiani è stare sempre accanto ai giovani” – Avvenire

Il Rettor Maggiore, don Ángel Fernández Artime, è stato intervistato da Avvenire sull’impegno pastorale dei salesiani e la realtà della congregazione oggi. Di seguito l’articolo.

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Artime: «La missione dei salesiani è stare sempre accanto ai giovani»

Il Rettor Maggiore illustra l’impegno pastorale della congregazione. «Anche un solo caso di abuso è terribile. Siamo vicini alle vittime»

 

L’8 dicembre 1844, don Giovanni Bosco, fondatore della Congregazione salesiana, inaugurava nella periferia di Torino un “oratorio” dedicato proprio a san Francesco di Sales.

Era il nucleo di quella che è diventata la “cittadella” di Valdocco. Dove “tutto è cominciato”. Qui un gruppo di giornalisti incontra il decimo successore del grande santo dei giovani, don Ángel Fernández Artime, spagnolo delle Asturie, figlio di pescatori.

Vengono da Roma grazie all’iniziativa di don Giuseppe Costa, segretario del rettor maggiore e co-portavoce della Congregazione, e sotto la sapiente guida di don Mike Pace visiteranno i luoghi più cari al mondo salesiano, Valdocco appunto con l’annesso Museo Casa don Bosco rinnovato di recente, poi Castelnuovo d’Asti oggi Castelnuovo don Bosco, dove Giovannino venne battezzato nella stessa chiesa dove ricevettero il primo Sacramento anche san Giuseppe Cafasso e il beato Giuseppe Allamano, e quindi il monumentale complesso a Colle don Bosco, edificato dove nacque il santo e dove si sono formate generazioni e generazioni di missionari poi partiti per ogni angolo del mondo.

«In quasi nove anni, gran parte dei quali trascorsi in giro per il mondo, a visitare le missioni, – esordisce don Angel – ho potuto toccare con mano il bene grandissimo che i nostri confratelli fanno, insieme con tutta la Chiesa e con tante persone di buona volontà. Lo dico senza trionfalismi: credo che oggi siamo una congregazione serena, che può guardare al futuro con speranza».

Lo confortano alcuni dati. Attualmente sono 14.000 i Salesiani di don Bosco, presenti in 134 Paesi, che presto diventeranno 136. Sono tra i 440 e i 460 i novizi che ogni anno pronunciano la prima Professione, con un rapporto «molto buono» di un giovane in formazione ogni 4,2 salesiani.

Don Angel parla della presenza della Congregazione in Ucraina sia nella comunità di rito latino che in quella di rito greco-cattolico. In quest’anno di guerra, racconta,

«i nostri confratelli in Ucraina sono molto coraggiosi, alcuni di loro sono sempre alle frontiere e in prima linea, per portare medicinali e aiuti. Non abbiamo perso nessun salesiano, ma la realtà è durissima. A novembre ho potuto visionare le foto della prima linea di guerra: non posso immaginare come nel XXI secolo si possa causare tanto danno umano».

Il Rettor Maggiore fa cenno anche alla presenza, discreta, nella Cina continentale dove vi sono «alcuni salesiani», conosciuti come tali dalle autorità, che svolgono una attività professionale.

«Ad esempio – specifica – abbiamo un italiano che da anni lavora con i lebbrosi e un eccellente professore di lettere classiche che vive in un campus universitario».

Durante l’incontro c’è spazio anche per particolarmente temi delicati, come il triste fenomeno degli abusi sui minori. Don Angel è chiaro e netto:

«per noi che abbiamo promesso a Dio e pubblicamente di consegnare la nostra vita per il bene dei ragazzi, anche soltanto un caso di abuso è terribile. Per quanto riguarda noi salesiani, qualunque caso che ci arriva non lo lasciamo dormire: si fa subito un processo sul posto in cui è accaduto per chiarire. Poi si presenta il caso alle autorità di Roma».

Detto questo il rettor maggiore aggiunge:

«È importante assicurare la giustizia per le vittime, ma se una persona è innocente gettarlo in pasto al pubblico è radicalmente ingiusto, perché la sua reputazione non sarà più come prima. Noi crediamo tantissimo nella giustizia riparativa: bisogna incontrare le vittime, vedere i loro bisogni e qual è la loro richieste di giustizia».

Interpellato su quelle che Papa Francesco definisce le “colonizzazione ideologiche” e sul tema del “gender”, il rettor maggiore dei Salesiani ha ricordato che

«la cosa più importante è il rispetto della persona. Non si possono trattare questi temi così delicati in un modo superficiale. La persona è la realtà più sacra che abbiamo: la Chiesa deve essere capace di misericordia, di ascolto, di accoglienza, di comprensione, il che non significa benedire o giustificare tutto».

Riguardo alla questione di come trasmettere la fede alle giovani generazioni, don Angel osserva:

«Rispetto al tempo di don Bosco, tutto è cambiato, ma, nello stesso tempo, nulla è cambiato». Dunque, anche in una società profondamente diversa sa quella di metà Ottocento, «non muta il nostro centro: una fede vissuta nella trasparenza, con declinazioni che, naturalmente, mutano da realtà a realtà».

Senza cadere nel proselitismo, d’altronde impossibile in realtà come i Paesi musulmani e induisti, ma senza rinunciare a proporre la propria testimonianza di fede.

«L’importante – rimarca – è che non ci vergognamo di fare proposte. Poi ciascuno, secondo la propria libertà e interesse, sceglie. Quando questo accade, a me dà tanta tranquillità».

Infine don Angel sottolinea che il lavoro dei salesiani si svolge non solo nel classico oratorio ma anche con altre modalità, determinate dalla realtà. Con i centri giovanili e con le scuole, con le case per i ragazzi di strada e per le ragazze sfruttate sessualmente, nelle 2800 parrocchie affidate alla Congregazione, in 92 istituzioni universitarie. E anche, ci tiene a sottolinearlo, nei campi profughi come quelli di Kakuma in Kenya, di Palabek in Uganda e di Juba in Sud Sudan:

«Lavoriamo per la formazione professionale dei giovani, perché non rimangano lì ma imparino un mestiere e appena possibile possano lasciare quei campi».

Avvenire

Formazione professionale: crescono le iscrizioni al sistema duale – AVVENIRE

Secondo il XIX rapporto di monitoraggio del sistema di istruzione e formazione professionale e dei percorsi in duale nella Iefp a.f. 2019-2020 (INAPP) risultano cresciute le iscrizioni al sistema duale.

Di seguito l’articolo riportato su Avvenire a cura di Maurizio Carucci (6/07/2022).

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In tre anni si è passati da 18mila a 37mila. La nuova sussidiarietà raggiunge le 18mila unità. Un Osservatorio interattivo per il monitoraggio delle politiche attive

Nel 2020 la partecipazione alla filiera Iefp-Istruzione e formazione professionale portata avanti dai centri accreditati registra una lenta e costante progressione (+1,1%), crolla quella degli Istituti professionali (-29,8%). Vola il sistema duale che in tre anni raddoppia le iscrizioni, passando da oltre 18mila a oltre 37mila e superando poi le 42 mila unità per l’anno 2020-2021. La sussidiarietà complementare va progressivamente scomparendo, sostituita dalla nuova sussidiarietà, che raggiunge le 18mila unità. È quanto emerge dal XIX Rapporto di monitoraggio del sistema di istruzione e formazione professionale e dei percorsi in duale nella Iefp a.f. 2019-2020 realizzato dall’Inapp-Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche per conto del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. «In tale contesto – spiega Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp – il gap tra domanda e offerta di competenze delle professioni riconducibili alle qualifiche e diplomi Iefp rappresenta un elemento di criticità nello sviluppo del sistema. Pur con le dovute cautele legate al raffronto di dati di natura differente, secondo le ultime stime persiste uno scarto molto pronunciato tra fabbisogno ed offerta. Tale dato, allarmante per molti versi, evidenzia da un lato le grandi potenzialità, ma d’altro lato la necessità di profondi aggiustamenti nel sistema Iefp e nella filiera lunga della formazione tecnico-professionale. Per consentire un miglioramento degli esiti occupazionali a conclusione di tali percorsi formativi occorrerebbe maggior ossigeno al sistema, in termini di risorse finanziarie; una forte assunzione di responsabilità da parte delle Amministrazioni nell’adeguare l’offerta formativa rispetto alle figure più richieste dal mercato e un efficiente sistema di orientamento coerente con l’evoluzione dei fabbisogni di competenze emergenti da uno scenario economico e sociale in rapida trasformazione». Il totale di iscritti ai percorsi di Iefp, nel triennio e quarto anno, è pari a 250.194 unità, con una flessione della partecipazione del 13,1% rispetto all’anno formativo precedente. Tendenza che si conferma anche rispetto al solo triennio, le cui iscrizioni ammontano a 230.811 (-14,3%). In continuità con i dati dell’anno precedente, la riduzione della partecipazione al sistema di Iefp è esclusivamente a carico dei percorsi attivati all’interno degli Istituti professionali, dove si registra una flessione del 30,3%. Particolarmente colpite risultano le due tipologie tradizionali di sussidiarietà, quella integrativa che diminuisce del 41,7% e la complementare (-48,4%). Quest’ultima, com’era nelle intenzioni del legislatore, si estingue progressivamente, sostituita dalla nuova sussidiarietà (ex decreto n. 61/2017), che supera le 18mila unità. Si conferma il divario territoriale che caratterizza il sistema Iefp, con le regioni del Nord dove prevalgono le iscrizioni presso i centri accreditati, e quelle del Centro, Sud e Isole dove prevalgono i percorsi attivati negli Istituti professionali. La scelta degli iscritti ai percorsi di Iefp realizzati in modalità “ordinaria” premia ancora la qualifica di operatore alla ristorazione (52.802 iscritti) seguita dall’operatore del benessere (41.117 iscritti), di seguito con ampio distacco si collocano quella di operatore meccanico (16.704 iscritti), operatore elettrico (15.497 iscritti) e operatore per la riparazione dei veicoli a motore (14.595 iscritti). Il numero complessivo dei qualificati è stato pari a 66.105 unità (dato fornito successivamente alla pubblicazione del rapporto, grazie ad una seconda rilevazione che ha acquisito le informazioni sugli esami svoltisi in grande ritardo a causa dell’emergenza pandemica). Il dato comprende 34.677 giovani qualificati nei centri di formazione professionale, 27.374 negli Istituti Professionali in modalità integrativa e 4.054 in modalità complementare. La distribuzione dei qualificati per figura professionale conferma l’ordine rilevato nelle precedenti rilevazioni: operatore della ristorazione (25,4% del totale dei qualificati), operatore del benessere (16,4%) e operatore meccanico (8,6%). I diplomati sono invece 15.250, di cui quasi 14 mila (13.695) nelle Istituzioni formative e 1.555 in sussidiarietà complementare. La ripartizione per figura professionale si mostra in linea con gli anni precedenti: al primo posto, il tecnico dell’acconciatura, al secondo posto il tecnico dei trattamenti estetici, al terzo posto il tecnico della cucina.

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Avvenire – a Testaccio “Braccia larghe per accogliere tutti”

La parrocchia di Santa Maria Liberatrice a Testaccio accoglie il cardinale vicario Angelo De Donatis a chiusura di una settimana di festeggiamenti e iniziative per la festa patronale. Di seguito la notizia pubblicata su Avvenire.

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Attenzione ai giovani e agli studenti, da vero spirito salesiano, ma anche carità, vicinanza agli anziani e contatto stretto con il territorio. È la parrocchia di Santa Maria Liberatrice, nel cuore di Testaccio, che accoglie oggi il cardinale vicario Angelo De Donatis a chiusura di una settimana di festeggiamenti e iniziative per la festa patronale.

Il territorio è vasto e permette alla parrocchia di avere circa 80 ragazzi «per prima comunione e cresima», spiega il parroco don Maurizio Spreafico. Numerosi anche i due gruppi per adulti: uno riunisce i lettori e prevedere un percorso di formazione per il servizio nella proclamazione della Parola, mentre l’altro riunisce circa 45 uomini nella confraternita di Santa Maria Liberatrice, che svolgono servizio liturgico durante la festa patronale. Il punto nevralgico dell’intera parrocchia, come ci tiene a sottolineare don Spreafico, è però l’oratorio.

«Da buoni salesiani è per noi parte integrante della chiesa e del territorio. Aperto tutti i giorni, coinvolge quotidianamente un centinaio di adolescenti e pre-adolescenti con attività libere ma anche gruppi dedicati a calcio, basket, karate, danza, musica e teatro».

Lo sport è stato al centro anche di questa settimana di fesa con i tornei dei bambini lunedì e giovedì, la partita di calcio tra “Oratoriani adulti” e confraternita e la “Maratonina testaccina” di questa mattina per i bambini dai 5 ai 12 anni. La comunità salesiana, inoltre, è presente nei locali della parrocchia con uno studentato che ospita «39 confratelli – racconta il sacerdote – provenienti da 14 Paesi e arrivati a Roma per frequentare le varie università Pontificie».

L’altra grande dimensione della parrocchia è la solidarietà, con la «Caritas che segue sistematicamente una quarantina di famiglie bisognose e altrettanti senzatetto», spiega Maria Laura Butterone, una storica parrocchiana. Ai clochard della zona la Caritas assicura due volte a settimana la distribuzione di cibo, vestiario e un buono pasto da consumare presso la mensa del Circolo S. Pietro a via Mastro Giorgio. Un’attenzione verso i più bisognosi che prosegue anche con le attività per gli anziani, «con corsi di pittura e musica – racconta don Spreafico – e con il gruppo di mutuo aiuto».

Quest’ultimo, con l’associazione Riconoscere, porta avanti attività per le persone con disturbi d’ansia, da stress o da depressione. La presenza della parrocchia, come sottolinea Maria Laura Butterone, nel quartiere è quindi

«molto sentita e apprezzata nonostante sia un territorio spesso politicamente schierato e con molte persone lontane dalla Chiesa. Noi testaccini siamo molto particolari e possiamo essere inizialmente diffidenti, ma poi la gente si affeziona e ci tiene a ciò che accade in parrocchia».

Anche la visita di monsignor De Donatis si inserisce «in questo spirito di accoglienza. Nei decenni abbiamo ricevuto la visita praticamente di tutti i cardinali vicari e dei Papi, vissute sempre con gioia perché – afferma con una punta di sano orgoglio – Testaccio ha le braccia larghe per accogliere sempre tutti».

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Il primo contratto di apprendistato compie 170 anni. “Imparare facendo”: don Bosco precursore – Avvenire

170 anni fa, esattamente l’8 febbraio 1852, don Bosco firmava a Torino il primo contratto di apprendistato: Giuseppe Bertolino, “mastro minutiere”, si “obbligava” ad insegnare “l’arte di falegname” al giovane Giuseppe Odasso fornendo “le necessarie istruzioni e le migliori regole onde ben imparare ed esercitare l’arte suddetta”. Di seguito l’articolo pubblicato oggi su Avvenire, a cura di Andrea Zaghi.

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IL PRIMO CONTRATTO DI APPRENDISTATO COMPIE 170 ANNI

Imparare facendo Don Bosco precursore

Imparare lavorando e lavorare per imparare meglio. Senza essere sfruttati. E in sicurezza. Protetti dalle leggi ma, prima ancora, dall’attenzione degli insegnanti dentro e fuori l’azienda e con la famiglia accanto. Con un patto: impegnarsi reciprocamente a crescere. Sono gli obiettivi ai quali guarda Giovanni Bosco (prete e santo) firmando a Torino l’8 febbraio 1852 quello che molti indicano come il primo contratto di apprendistato. Sono passati centosettanta anni, ma quell’accordo è ancora valido e attuale nei suoi contenuti di fondo. E può dire molto – soprattutto in un periodo come questo –, sul valore non solo dell’apprendistato, ma più in generale della formazione in “assetto di lavoro”, della formazione duale e della necessaria collaborazione tra scuole e imprese.

A ricordare il documento, tirato fuori per l’occasione dagli archivi della congregazione, sono i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice con tutti i formatori CNOS e CIOFS che spiegano come «la possibilità che i giovani possano vivere l’alternanza scuola-lavoro, in un contesto protetto e in stretta collaborazione con i centri di formazione, rappresenti una preziosa opportunità». Sempre che tutti facciano le cose per bene. E su come farle, proprio quanto scritto da don Bosco appare essere la sintesi migliore e più efficace. Ad iniziare dal sancire «un’alleanza – viene sottolineato –, che è ancora oggi di ispirazione per l’opera dei formatori: quella tra il datore di lavoro, il lavoratore, la famiglia dell’apprendista e l’educatore».

Un “accordo” scandito da parole precise, che 170 anni fa, come oggi, hanno un peso. E che ancora si possono leggere messe nero su bianco con una scrittura nitida e in buon italiano. Così a Torino in quel febbraio del 1852, Giuseppe Bertolino, “mastro minutiere”, si “obbliga” ad insegnare “l’arte di falegname” al giovane Giuseppe Odasso “per lo spazio di due anni”, fornendo “le necessarie istruzioni e le migliori regole onde ben imparare ed esercitare l’arte suddetta”. E l’allievo “si obbliga” anche lui ad avere “prontezza assiduità e attenzione” nell’imparare. Il lavoro sarà pagato, il giovane sarà “schiettamente” giudicato per quello che fa e per come si comporta; ma Bertolino ha il dovere anche di trattare bene il suo allievo seguendolo e dandogli “quegli opportuni salutari avvisi che darebbe un buon padre al proprio figlio”. Quattro pagine di contratto con quattro firme al fondo: il datore di lavoro, l’apprendista, il padre di lui e Giovanni Bosco.

La parola-chiave pare essere “collaborazione”. Oppure “alleanza”. E vale nel 1852 come nel 2022. Certo, 170 anni fa come oggi, il percorso dalla scuola al lavoro è duro e in salita.

La strada da fare è lunga per tutti, per Giuseppe Odasso un tempo e per le migliaia di giovani oggi: basta intraprenderla nel modo giusto.

ANDREA ZAGHI

Avvenire – Don Chavez: La “lezione” di Don Bosco, trarre occasioni da avversità

Da Avvenire, intervista a don Pascual Chavez Villanueva.

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Pochi giorni fa il messicano don Pascual Chavez Villanueva, 74 anni, rettor maggiore emerito della Congregazione dei salesiani (che ha guidato dal 2002 al 2014) ha tenuto all’Istituto Maria Ausiliatrice di Lecco una conferenza su “Educare all’ottimismo”. Lo abbiamo
intervistato, in vista della festa di san Giovanni Bosco che si celebra il prossimo lunedì, a partire da questa intuizione.

Perché è importante oggi educare all’ottimismo e alla speranza?
La pandemia ci ha preso alla sprovvista. Eravamo convinti di essere nel tempo dell’ Homo Deus di cui parla lo storico israeliano Yuval Noah Harari, l’uomo che si crede immortale. E invece abbiamo toccato con mano la fragilità. Non avremmo mai pensato che una molecola avrebbe messo in ginocchio l’intera umanità. A questa crisi sanitaria ne sta seguendo una economica, con effetti devastanti, e un forte disagio sociale. In questo contesto dilagano rassegnazione, pessimismo e disperazione.

Cosa farebbe oggi don Bosco, in tempi di pandemia?
Le giovani generazioni non hanno conosciuto la guerra o la fame; erano abituate a misurarsi solo con virus informatici, per i quali esistono molti antivirus. Di qui lo choc. Io seguo in Rete molti youbuters e influencer: durante il lockdown erano letteralmente ammutoliti. Perché? Non erano preparati per affrontare gli eventi negativi, trasformandoli in piattaforme per un rilancio, che è proprio quanto ha fatto don Bosco. Le condizioni avverse per don Bosco (e quante ne ha sperimentate nella sua vita!) si sono rivelate occasioni per dare il meglio di sé, reagendo con resilienza. Una grande lezione per l’oggi.

Che differenza c’è tra un ottimismo generico e la speranza cristianamente intesa?
Il primo è espressione di un sentimento umano, lo sforzo, talvolta velleitario, di chi cerca vie d’uscita nel buio. La speranza del cristiano, invece, si fonda sul fatto che c’è stato Uno, una sola persona nella lunga storia dell’umanità, che ha vinto la morte. Non l’ha fatto con la tecnologia, non è ricorso alla clonazione, ma con l’unica energia capace di vincere la morte: l’amore. Il fatto che Dio Padre abbia resuscitato Gesù ci dà la speranza che nessun male è definitivo. E questo mette il cristiano nelle condizioni di uscire da sé, dalla sua autoreferenzialità, per vivere a servizio degli altri.

I giovani però si trovano a vivere in un mondo segnato da consumismo ed egoismo…
Educare alla speranza ci permette di affrontare le sfide della pandemia ma, soprattutto, il problema più grave in assoluto: l’immanentismo. Avendo chiuso l’uomo nell’aldiqua, non ci dobbiamo stupire se i ragazzi si accontentano di vivacchiare, sprecando la loro esistenza e se fanno tanta resistenza a prendere impegni definitivi, optando per scelte continuamente reversibili. Si vive l’oggi, senza una prospettiva di lungo termine. Per me questa è la sfida più impegnativa: c’è bisogno di educare all’Assoluto. Altrimenti, si riduce la vita a un mero ciclo biologico senza che abbia un senso.

Molti giovani, dopo aver ricevuto un’educazione cattolica, lasciano la Chiesa e prendono altri sentieri. Perché avviene questo e come si risponde a tale fenomeno?
I ragazzi stanno abbandonando la Chiesa perché non ne capiscono più il linguaggio e i riti. C’è bisogno un grande cambiamento nell’itinerario alla fede. Abbiamo seguito fin qui un percorso di tipo “cronologico”, proponendo via via la catechesi per fasce d’età, ma oggi questo schema non funziona più. Si deve passare ad un approccio “kairologico”, che mette al centro il “kairòs”, ossia situazioni ed esperienze che toccano i ragazzi nel profondo e sollevano interrogativi. È questo il motivo per il quale hanno molto successo i vari “Cammini”. Del resto, il modello-principe per educare alla fede è più che mai quello di Emmaus.

In che senso?
Gesù vede i discepoli disincantati, delusi. E cosa fa? Cammina con loro. Non rimprovera e non dà lezioni, ma ascolta. Il guaio, come educatori, è che spesso diamo ai giovani risposte a domande che non hanno, mentre fatichiamo ad ascoltarli davvero. Da dove si comincia? Un tempo si partiva dalla testa per arrivare al cuore, ora dobbiamo fare il contrario, stimolando l’immaginazione. Vale anche per l’educazione alla fede. L’ultima cosa che adolescenti e giovani oggi vogliono è che si tarpi le ali ai loro desideri e ai loro sogni. Don Bosco era maestro in questo e dobbiamo ispirarci a lui.

AVVENIRE – Don Bosco, l’opera di Alassio comunità educante

Da Avvenire, un articolo sulla nuova comunità educante di Alassio. Di Gianmaria Mandara.

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Sono passati 151 anni da quando san Giovanni Bosco ha fondato ad Alassio la prima scuola salesiana fuori dal Piemonte e da allora tante generazioni di studenti e insegnanti si sono avvicendate sui banchi di scuola ma la bussola continua ad essere il carisma salesiano. Molte delle intuizioni pedagogiche di don Bosco sono ora condivise in tanti contesti educativi ma quel felice connubio tra ragione, religione e amorevolezza, pilastri del sistema preventivo pensato dal santo torinese, si possono ritrovare e respirare solamente in una scuola salesiana. In tutti questi anni, inevitabilmente molte cose sono cambiate ma c’è un filo rosso che accompagna la storia del “Don Bosco” di Alassio: la presenza di una bella comunità educativa che quotidianamente sa mettersi in gioco, accogliendo con speranza le sfide del tempo presente. Ne è prova la decisione della circoscrizione salesiana dell’Italia centrale di attuare un rinnovamento delle modalità organizzative e gestionali, affidando l’Opera di Alassio ad un gruppo di laici corresponsabili, sotto la diretta responsabilità e l’accompagnamento della Circoscrizione e confermando la presenza dei salesiani. Pertanto ad affiancare questo cammino ricco di novità ci saranno le storiche presenze di don Giulivo Torri, don Natale Tedoldi, don Mario Perinati e Sandro Mariotti, luminose testimonianze di salesiani innamorati di Cristo, e la persona di don Karim Madjidi, già direttore dell’Istituto di Roma e Firenze e ora direttore a Vallecrosia. A conferma di questa vitalità ed entusiasmo nella Comunità Educativa Pastorale ci sono le tante attività proposte in queste prime due settimane di scuola agli studenti delle medie e delle superiori in aggiunta alle ore di lezione: “scuola in campo”, una esperienza di tre giorni a contatto con la natura nella casa alpina di Nava vissuta all’insegna del gioco, della responsabilità condivisa e della conoscenza reciproca tra studenti e insegnanti; la messa di inizio anno celebrata da don Karim lunedì 20 settembre, proprio nella ricorrenza della fondazione della casa ad opera di don Bosco; il “buongiorno”, un breve spunto di riflessione che quotidianamente apre le giornate a scuola secondo una felice intuizione di Mamma Margherita, e infine l’open day tutti i giorni per permettere a chiunque di “venire e
vedere” e scegliere di poter entrare nella grande famiglia salesiana.

Pagina FB Alassio

 

Avvenire, i ragazzi riscattati dall’accoglienza

Sull’edizione odierna di Avvenire, un articolo di Nello Scavo racconta la storia di uno dei giovani migranti accolti in Sicilia grazie al progetto “Usaid” di Vis, Salesiani per il Sociale e Cnos Fap.

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Gli avessero chiesto di mettersi al timone di un incrociatore, di una petroliera, di un veliero o di un gozzo, Musa avrebbe detto di sì. Non solo per il fucile puntato alla testa. Ma perché avrebbe fatto qualunque cosa per andarsene dalla Libia e non metterci mai più piede. Per questo Musa era stato arrestato. Uno scafista per caso, sbarcato minorenne in Italia tra la riconoscenza dei suoi compagni di sventura che aveva condotto al largo e in salvo. Ma la legge è legge. E al timone del gommone c’era lui. Era l’unico a sapere che se afferri il manubrio del motore ad elica devi spingerlo a destra per virare a sinistra, e il contrario per andare dalla parte opposta. Gli altri hanno testimoniato che a mettercelo erano stati i trafficanti, perché lui non aveva soldi per pagarsi il viaggio.

È così che Musa ha scontato la pena in un carcere siciliano. Senza odio né rancore: «Meglio un carcere in Italia che restare in Libia». Nel 2020, ormai maggiorenne, è stato scarcerato. Che poi vuol dire finire sulla strada. Era dicembre. Si è trovato, raccontano gli operatori del Vis, l’organizzazione internazionale del volontariato salesiano, «senza fissa dimora e senza lavoro, situazione resa
ancora più grave a causa della pandemia». Ma è stato proprio l’incontro con il movimento dei Salesiani di Sicilia che Musa non si è perso un’altra volta. Si è iscritto all’Istituto superiore “Fermi – Eredia” di Catania, per poter proseguire gli studi e ottenere il diploma. Poi è stato ammesso al progetto Sai (Sistema di accoglienza e integrazione) nel comune di Aidone, Enna. Qui i migranti non vivono in un centro collettivo, ma in una comunità diffusa, grazie a vari appartamenti messi a disposizione nel centro storico, facilitando il ripopolamento di aree desertificate dall’emigrazione e sviluppando progetti di inclusione sociale. È qui, tra i vicoli stretti e le improvvise piazzette di pietra, che si può incontrare Omar, gambiano, classe 2001. Anche lui senza familiari né legami in Italia. Aidone, terra di papi, generali, politici ed emigranti in ogni continente, ha un rapporto innato con i forestieri. Il santo protettore è l’apostolo Filippo, che nel 1801 fu fatto scolpire su un tronco d’Ebano. Lo chiamano ” ‘u niuru “, il santo nero che secondo la tradizione concederebbe più facilmente miracoli ai forestieri. E Omar, in fondo, si sente un miracolato. Era faticosamente riuscito ad integrarsi e a trovare un lavoro in un rinomato bar nel centro di San Cataldo, poco lontano da Caltanissetta. Ma quando il Covid ha messo in ginocchio il titolare, Omar non ha potuto più pagare l’affitto. È se ne è andato per strada, senza un tetto. Poi anche lui ha conosciuto il Vis e gli si sono aperte le porte della scuola superiore.

La gente di Aidone lo conosce per quel temperamento mite e i modi sempre cortesi. A tratti cerimoniosi. Continua a studiare e quando può si arrangia con qualche lavoro. Il merito, strano a dirsi, è anche di Donald Trump. Era stata proprio l’amministrazione dell’allora presidente Usa, campione del sovranismo e delle campagne anti immigrazione, a finanziare nel 2020 un progetto proposto dal Vis e finanziato da Usaid (l’agenzia Usa per la cooperazione internazionale) con l’obiettivo di mitigare le conseguenze della pandemia sui soggetti vulnerabili, migranti compresi. Non di rado Omar ricambia collaborando con il centro estivo salesiano sulla spiaggia di Catania, ritrovo per villeggianti e  gruppi estivi che arrivano dalle parrocchie di mezza Sicilia. Il Vis ha all’attivo nell’isola 6 centri di accoglienza nei comuni di Aidone, Piazza Armerina e Pietraperzia in provincia di Enna, la Colonia “Don Bosco” a Catania (lido per turisti gestito da alcuni ragazzi migranti), nel comune di Ragusa e nei locali confiscati alla mafia a Villarosa (Enna), sede del progetto “Sud Arte & Design”, da cui è nato il brand “Beteyà” che produce una linea di abbigliamento per uomo e donna, realizzata da ragazzi siciliani e migranti in strutture confiscate alla mafia.

Caserta, l’oratorio resta aperto: la mobilitazione ha funzionato

Dal quotidiano Avvenire.

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Ha funzionato la protesta per non far chiudere completamente l’oratorio salesiano di Caserta, accusato da alcuni vicini di fare rumore. Per difenderlo sono scesi in piazza «tutti gli uomini dell’oratorio»: attori, musicisti, sportivi e rappresentanti delle istituzioni. E così, nell’ultima decisione prima dell’estate, il giudice civile del tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha respinto tutte le richieste incidentali di abbattimento del palatenda o di stop delle attività oratoriane nei cortili interni; restano validi solo i blocchi già stabiliti negli anni passati. Una vittoria momentanea, perché il giudice ha rinviato tutto alla chiusura del processo (la prossima udienza si terrà a fine anno); ma intanto le attività andranno avanti – se non fosse per il covid che ne ha bloccata una parte, momentaneamente, per alcuni contagi. Nello stesso tempo il Coordinamento civico per l’oratorio non si ferma, organizzando per l’autunno nuove clamorose iniziative. «Ci stiamo preparando – conferma Mauro Giaquinto, responsabile del Coordinamento – per spiegare l’importanza dell’oratorio a tutti i casertani». Si è mobilitato addirittura l’attore Toni Servillo, principe del teatro e del cinema italiano nonché ex allievo dei salesiani di Caserta: «In questo oratorio – ha spiegato Servillo in un video – ho visto i primi film importanti della mia vita: da Tarkovskij a Rossellini, Bergman, Pasolini. E grazie a chi favoriva la musica, il teatro e il cinema ho avuto le mie prime esperienze in palcoscenico». Anche Franco Marcelletti, l’unico allenatore di basket italiano ad aver vinto uno scudetto con una squadra del Sud (la JuveCaserta, allora Phonola) viene da qui: «Gran parte della mia adolescenza – racconta – l’ho trascorsa ai salesiani da convittore. È stato il periodo più impegnativo della mia vita, segnato da sacerdoti fondamentali per la mia crescita e la mia educazione. Lo studio era molto selettivo, ma non abbiamo fatto mai assenze a scuola, proprio perché ci sentivamo parte di un progetto». E poi il questore di Roma, Carmine Esposito, è stato un ragazzo dell’oratorio di Caserta: «Nell’istituto Sacro Cuore di Maria ho trascorso un tempo felice tra entusiasmo e interminabili tornei di calcio. Quanta serenità c’era tra noi, con sentimenti di cristiana fraternità. Il campetto di sola terra battuta ha lasciato spazio ad altre importanti strutture, ma con lo stesso valore. L’oratorio è anche luogo di studio e preghiera: un presidio contro l’illegalità». A spendere la voce per i ragazzi che vogliono continuare a giocare e crescere nell’oratorio anche Peppe Servillo, fratello di Toni e vincitore con gli Avion Travel del Festival di Sanremo 2000: «Lo ricordo come un’esperienza importante e complessa per me. Intorno a don Alfonso Alfano si raccolse la migliore gioventù casertana di quel tempo e con lui diede vita a un’intensa attività sportiva, musicale e culturale. Ci è stato insegnato soprattutto un valore in particolare: l’arte della condivisione e del saper ascoltare gli altri». Sulla pagina Fb del Coordinamento civico altri interventi di uomini delle istituzioni come Gerardo Bianco, ex ministro dell’Istruzione, e di tante altre
“normali”. «Abbiamo ricevuto tanto affetto. E tanto ne restituiremo», assicura don Antonio D’Angelo, direttore dell’Istituto.