Dossier Catechista: la sfida del digitale

Si riporta la notizia proveniente da “La voce e il tempo” a cura di don Valter RossiDirettore di Dossier Catechista – riguardo la grande sfida che, l’Editrice Elledicì e lApostolato digitale, hanno scelto di affrontare: il digitale.

Dossier Catechista la «sfida» del digitale con l’équipe dell’Apostolato

La collaborazione tra l’équipe dell’Apostolato digitale e la rivista della Elledici Dossier Catechista inizia in un momento ben preciso ed importante. Coincide (casualmente?) con l’uscita del Nuovo Diretto-rio per la catechesi, redatto dal Pontificio Consiglio per la Promozione della nuova evangelizzazione. Il documento, approvato da Papa Francesco il 23 marzo 2020, memoria liturgica di San Turibio di Mogrovejo che, nel XVI secolo, diede forte impulso all’evangelizzazione e alla catechesi, sarebbe stato pubblicato nel mese di giugno, ma il testo iniziava a circolare nella nostra redazione. Erano i giorni del primo lockdown e scoprivamo che la tecnologia ci dava la possibilità di vederci e lavorare restando comodamente seduti sul divano.

Un Meet ci unì, e iniziammo a scambiarci idee ed intuizioni proprio su un punto che stava segnando la novità di quel Direttorio così innovativo: il digitale. Lo confesso, avevo la consapevolezza di parlare con un esperto (don Luca Peyron – coordinatore del Servizio per l’apostolato digitale), per cui mi limitavo ad annuire e confermare, ma dentro di me cresceva la convinzione che le riflessioni che stavamo facendo di fronte ai primi segnali di una «rivoluzione Covidiana» ormai iniziata non potevano fermarsi chiudendo quella conversazione virtuale (ma assai reale). E le parole del Direttorio che stavo leggendo avevano un peso eccezionale: l’educazione al buon uso del digitale, l’accompagnamento nel mondo virtuale, l’esigenza di essere presenti testimoniando i valori del Vangelo… Mi chiedevo: «Ma i nostri catechisti e le nostre catechiste sono pronte ad affrontare questa sfida?».

Non solo per quanto riguarda l’aspetto tecnico-pratico(per quello basta forse un nipote con molta pazienza e un proposito quaresimale), quanto piuttosto per un approccio mentale nuovo, non terrorizzato, né ingenuo, ma sapienziale e fruttuoso. Non potevo lasciarmi scappare l’occasione di incastrare don Luca e la sua équipe nella redazione della rivista, e così arrivammo al dunque. Si trattava di fare un po’ di spazio nella rivista per una riflessione slegata dalla praticità del «fotocopia, distribuisci e colora» che rende tanto felici catechisti e bambini. Due pagine di riflessione e di formazione al digitale, ma non per questo meno utili, anzi indispensabili. Una nuova rubrica che desse punti di riferimento e rispondesse alle richieste del Nuovo Diretto-rio di far crescere «una più profonda comprensione della cultura digitale, aiutando a discernere gli aspetti positivi da quelli ambigui» (n° 216). A mio parere si trattava di una sfida. Non tanto per l’indubbia capacità dell’Apostolato Digitale di centrare i problemi importanti, quanto piuttosto per le difficoltà di coinvolgere nella riflessione «il grande pubblico», soprattutto in un momento in cui si speravano soluzioni immediate a problemi complessi e a sfide che ci avevano volto, come comunità ecclesiali, impreparati.

La sospensione delle Messe persino a Pasqua, la chiusura degli oratori, l’interruzione della catechesi, la socialità ridotta, il distanziamento non potevano trovare risposte a basso prezzo ma chiedevano un surplus di faticosa riflessione. Ora stiamo impaginando l’ultimo numero di questa faticosa annata che ci ha tolto molto catechismo in presenza ma ci ha dato l’occasione di pensare, e viene naturale provare a fare sintesi. Ci siamo riuniti nel consiglio di redazione e ci siamo chiesti quanto siano stati apprezzati questi articoli. Forse non abbastanza, ma un primo percorso è iniziato e non intendiamo fermarci. Anche noi rischiamo di diventare prigionieri della «cultura dell’istantaneo». «La sfida dell’evangelizzazione comporta quella dell’inculturazione nel continente digitale» (372), afferma il Direttorio, ribadendo l’importanza di offrire spazi di esperienza di fede autentica, capaci di fornire chiavi interpretative per temi forti, come la corporeità, l’affettività, la giustizia e la pace. Come salesiani, proprio nei dintorni della festa nostro santo fondatore, ribadiamo che: «Quando si tratta di qualche cosa che riguarda la grande causa del bene, Don Bosco vuol essere sempre all’avanguardia del progresso».

Avvenire – Mostra dedicata a don Paolo Albera, secondo successore di Don Bosco

Su Avvenire è uscito un articolo a firma di Antonio Carriero sulla mostra dedicata a don Paolo Albera al “Museo Casa Don Bosco” di Valdocco.

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In occasione del primo centenario della morte di don Paolo Albera (1921-2021), secondo successore di don Bosco, “Museo Casa Don Bosco” di Valdocco (Torino) ha organizzato la mostra “Il mondo negli occhi”, composta di 29 postazioni espositive, 17 tra lettere e documenti e 26 foto. «Non appena si alza il velo della storia e si inizia a diventare più familiari con i tratti della vita e della eredità carismatico-spirituale del ” petit don Bosco “, come lo chiamavano in Francia, Paolo Albera conquista per la sua modernità», racconta don Silvio Roggia, che insieme a don Aldo Giraudo e Paolo Vaschetto ha curato i testi e le ricerche per la mostra. Don Albera è stato tra i primi salesiani a vedere don Bosco all’opera. Divenuto rettor maggiore dei salesiani, viaggiando in nave, in carrozza, a cavallo e in automobile, ha potuto rendersi conto dell’espansione dello spirito di don Bosco ai quattro angoli del mondo, dall’America alla Terra Santa al Nord Europa. «È stato sorprendentemente internazionale per i suoi tempi – prosegue don Roggia -. Apre una presenza salesiana in Francia; affronta un lungo viaggio di tre anni per visitare tutte realtà missionarie salesiane in America, dalla Terra del Fuoco a New York e, successivamente, la Palestina e molti Paesi europei. Parla e scrive correntemente in francese e dai sessant’anni in poi anche in inglese. Durante la prima guerra
mondiale, che arruola circa la metà dei salesiani sui vari fronti, intrattiene una corrispondenza intensissima con loro, moltiplicando le forze con quelli rimasti per prendersi cura dei tanti orfani, qualunque sia la loro nazionalità». Don Albera è stato un testimone oculare del passaggio tra il XIX e il XX secolo, un momento delicato per la sua Congregazione, la Chiesa e il mondo intero, che culminerà con la Grande Guerra, uno degli spartiacque più drammatici della storia contemporanea. Attualmente, e per tutto l’anno centenario, la mostra è su www.donalbera.museocasadonbosco.it e, in presenza, non appena si potrà circolare liberamente.

Palermo Ranchibile, le attività in sicurezza per offrire ai ragazzi un ambiente educativo

Riportiamo la notizia delle attività in corso al “Don Bosco Ranchibile” di Palermo che continuano a offrire, in sicurezza, un ambiente educativo.

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La comunità dell’Istituto Salesiano “Don Bosco Ranchibile” di Palermo, nonostante il difficile momento attraversato a causa della pandemia, si è adoperata per mantenere le attività iniziate in precedenza secondo le norme previste dai vari DPCM: Basket, Volley, Calcio, Tiro con l’arco, Hwa Rang Do, Balli di gruppo, Chitarra, Ginnastica ritmica, Danza moderna, Capoeira, Ginnastica posturale, Pianoforte.

Conformemente a quanto stabilito dai vari decreti le varie attività vengono svolte all’aperto, con il mantenimento della distanza di sicurezza, in modo da offrire ai ragazzi l’opportunità di crescere e di sviluppare le proprie passioni in un ambiente educativo come il nostro.

Inoltre è consuetudine nel nostro oratorio tenere degli incontri di formazione tramite cui riflettere sulla propria fede e sull’appartenenza ad una comunità, garantendo una crescita spirituale e umana inerente al sistema educativo di don Bosco; anche ciò rientra nel rispetto delle direttive previste.

Un’altra iniziativa portata avanti dal nostro Istituto è il recupero scolastico (doposcuola) dedito ai ragazzi che frequentano la scuola primaria e secondaria di primo grado. In particolare questa proposta è estesa agli allievi del biennio della nostra scuola (liceo) che manifestano delle difficoltà; pertanto viene insegnato un metodo di studio valido ed efficace per l’apprendimento.

In conclusione i salesiani del “Don Bosco Ranchibile” assicurano ai ragazzi una crescita omnicomprensiva, per essere, come voleva Don Bosco, buoni cristiani, onesti cittadini e degni abitatori del cielo.

Marta Manzella e don Gabriele Cardaciotto, sdb

 

Sito della ISI

Borgo Ragazzi don Bosco: la pandemia e la “sfida” della comunione

Su Roma Sette, la giornalista Roberta Pumpo racconta il rapporto “Nessuna casa è lontana” del Borgo Ragazzi Don Bosco di Roma.

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Un seme di speranza gettato nei mesi più bui, quelli del lockdown, che delineavano lo sconquasso economico derivato dalla pandemia. Il Covid-19 con i suoi silenzi, i suoi dolori, le sue imposizioni, le nuove norme di comportamento ha consolidato il valore di comunità tra operatori, volontari, donatori, famiglie e giovani del Borgo Ragazzi don Bosco. Dai corsi del centro di formazione professionale all’oratorio, dal centro di accoglienza per minori al sostegno scolastico, dalla semiresidenzialità alla casa famiglia, sono decine le attività quotidianamente rivolte a centinaia di giovani. «Nell’ordinario può capitare che ogni area educativa segua una propria strada – spiega il direttore don Daniele Merlini -. Nell’emergenza, invece, ci siamo sentiti uniti: una comunità di comunità dove nessuno è stato lasciato solo ma tutti hanno condiviso le stesse preoccupazioni, rivolgendo costante attenzione ai più fragili».

L’operato di queste realtà intrinsecamente legate emerge nel nuovo report del Borgo intitolato “Nessuna casa è lontana” pubblicato ieri, 31 gennaio, festa di san Giovanni Bosco, fondatore delle congregazioni dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Gli operatori in pochi giorni si sono trasformati in esperti informatici «mettendo in campo la propria creatività per andare a cercare i ragazzi attraverso qualsiasi canale», racconta il sacerdote. Alle tante famiglie dotate solo di un cellulare sono stati donati tablet, pc portatili e connessioni internet per poter svolgere incontri online ma anche trascorrere qualche ora di allegria con mini tornei di “nomi, cose e città”. La preoccupazione più grande era non abbandonare i giovani, «specie quelli più timidi e introversi con i quali era iniziato un percorso che li stava portando ad aprirsi – precisa Simona Arena, operatrice di 25 anni -. Dopo il lockdown con qualcuno è stato necessario ricominciare tutto dall’inizio». Come nel caso di Maria 18enne nata a Roma da genitori di origine asiatica con i quali ha un rapporto molto conflittuale. Il suo desiderio di occidentalizzarsi, di adottare anche cibi italiani, «si scontra con la volontà della famiglia che vuole mantenere le proprie tradizioni – spiega Simona -. Dopo quattro anni in semiresidenzialità si stava aprendo, stava stringendo amicizie ma poi gli oltre due mesi trascorsi in famiglia l’hanno come resettata».

In altre circostanze il lavoro più duro degli operatori è stato convincere i ragazzi a uscire di casa quando le restrizioni si sono allentate. Simona ricorda le lunghe ore trascorse sulla piattaforma Zoom a dialogare con Massimo, 17 anni, un rapporto già difficile con la mamma ora terrorizzata dal contagio. «Ha trasmesso al ragazzo questa fobia – dice l’operatrice -. Abbiamo passato interi pomeriggi a mediare tra i due cercando di riportare un po’ di serenità nel loro rapporto». Per altri il coronavirus ha segnato la fine di un percorso lavorativo appena iniziato, accompagnato dall’impossibilità di sostenersi. La prima settimana di gennaio 2020 il Borgo aveva festeggiato la nuova vita di Francesco, 18enne nordafricano, che dopo 4 anni lasciava la casa famiglia e grazie al corso per pizzaiolo aveva trovato un lavoro e anche una camera in affitto. «In poche settimane ha perso l’impiego – ricorda don Daniele -. Non si è abbattuto perché sapeva che qui avrebbe trovato una famiglia pronta a sostenerlo». Francesco è tra i 20 ragazzi che gli operatori hanno accompagnato nella ricerca di un nuovo impiego e da qualche settimana ha iniziato a lavorare in un panificio.

Il Borgo in questi mesi ha sostenuto con pacchi alimentari e contributi in denaro 1.045 ragazzi e 389 famiglie, grazie «a uno straordinario concorso di generosità – aggiunge il direttore -. La cosa meravigliosa è che le donazioni si sono più che triplicate mentre il numero dei donatori è rimasto quasi invariato. Questo significa che si è subito percepito la gravità di quello che stava accadendo». Esattamente come l’affetto che percepiscono gli oltre 1.500 ragazzi che ogni anno frequentano l’oratorio, i corsi di formazione professionale o sono seguiti dall’area “Rimettere le Ali”. «In questi mesi – riferisce il sacerdote – tanti ragazzi che hanno frequentato il borgo negli anni scorsi si sono proposti come volontari o hanno fatto donazioni in denaro». Molti giovani con disagi conclamati e famiglie in grave difficoltà hanno fame di affetti autentici e la “mission” degli operatori, spiega Simona, «è quello di far comprendere loro cosa sia una comunità, cosa significhi vivere in armonia». Don Daniele, infine, non nasconde la preoccupazione «per il pesante contraccolpo educativo che avrà la pandemia. I ragazzi non sono spensierati e lo stress che oggi respirano in famiglia avrà delle ripercussioni».

 

 

 

Roma Sette

 

Dalla Sicilia, una riflessione che non ti aspetti: Don Bosco non esiste

Pubblichiamo la riflessione su Don Bosco di un salesiano della Sicilia, in occasione della festa del 31 gennaio.

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Don Bosco non esiste senza Dio, perché è grazie al Padre che in Giovannino troviamo questo splendido accordo di natura e di grazia, è per merito del Figlio che don Bosco ebbe un modello da seguire; grazie alla spinta dello Spirito che riuscì a fare cose che chi gli stava affianco non poteva neanche immaginare

Don Bosco non esiste senza Maria, perché lui stesso, quasi al termine della vita dice “ha fatto tutto Lei”; è Lei che gli fa da maestra nella missione affidatagli nel sogno di 9 anni ed è sempre Lei a proteggerlo sotto il suo manto anche nelle situazioni più difficili

Don Bosco non esiste senza Giuseppe, perché dal padre putativo di Gesù egli impara l’arte del lavoro e dell’umiltà

Don Bosco non esiste senza santi, perché li prende ad esempio come ha fatto con San Francesco di Sales, Filippo Neri e tanti altri. Da chi lo aveva preceduto nella santità, don Bosco prende i tratti, le virtù e ne chiede l’intercessione; consapevole che il Buon Dio poteva compiere in lui le stesse meraviglie che aveva compiuto in altri santi, se avesse risposto Si alla Sua chiamata.

Don Bosco non esiste senza la famiglia: senza mamma Margherita, papà Francesco, i fratelli Antonio e Giuseppe, perché è la family che lo fa crescere anche quando il clima non è dei migliori, anche quando è costretto e rimboccarsi le maniche alla morte del padre. In particolare sarà proprio mamma Margherita la prima a parlargli di quel Dio; che dopo deciderà di seguire per tutta la vita.

Don Bosco non esiste senza don Cafasso, perché ha chiaro fin da subito quanto sia importante avere una guida spirituale, un amico dell’anima che conosce la combinazione del tuo cuore e ne ha accesso.

Don Bosco non esiste senza la sua confessione quindicinale, perché sa che per poter salvare le anime altrui è necessario che egli lavori a salvare anche la sua, di anima. Sa che la confessione è il luogo d’incontro con quel Padre misericordioso sempre disposto a venirgli incontro anche e nonostante le sue mancanze.

Don Bosco non esiste senza il Papa e la Chiesa, perché sa che nella fedeltà al successore di Pietro, chiunque esso sia, ed alla Chiesa che Cristo ha costituito vi è la salvezza, anche quando vi sono incomprensioni.

Don Bosco non esiste senza i suoi sogni, perché sono essi, alle volte, a fargli da “apripista” nelle situazioni più difficili. Essi sono carezze del Buon Dio per lui, carezze che lo invitano a non fermarsi, a puntare in alto a sognare e a far sognare, oggi come allora.

Don Bosco non esiste senza le sue lacrime, perché la vita non gli ha sorriso sempre, ha vissuto momenti di sconforto e di abbandono ma non ha mai lasciato che le lacrime avessero l’ultima parola: questa spettava a Dio ed alla Sua Provvidenza, che non l’hanno mai lasciato.

Don Bosco non esiste senza la preghiera, perché come diranno molti suoi studiosi viveva “come se vedesse l’invisibile”; certo è che la sua preghiera non terminava in Chiesa, ma che si protraeva nel cortile dell’oratorio, a mensa, nei laboratori, a scuola. Era certo che Dio parla nelle situazioni del quotidiano ed è proprio in questo tratto che oggi lo possiamo chiamare “contemplativo nell’azione”.

Don Bosco non esiste senza i suoi salesiani, perché comprende che nella missione giovanile è necessario che ci sia una comunità che educhi e che testimoni la propria vita. Avere dei fratelli con cui condividere tutto, le gioie ed i dolori; consapevole che  vivere e lavorare insieme è un’esigenza fondamentale.

Don Bosco non esiste senza i suoi collaboratori siano essi sacerdoti o laici, perché il nostro Giovanni sa che ha bisogno di tutti, che da solo può fare molto ma che insieme può andare lontano. Non ha paura a chiedere una mano quando non ce la fa, anche se vuole dire umiliarsi.

Don Bosco non esiste senza i giovani, perché ad essi ha dedicato tutta la sua vita, per essi si è speso fino all’ultimo respiro senza sosta e sempre con gioia.

In questo giorni di gioia e di festa in cui ricordiamo il nostro padre don Bosco, non possiamo dimenticare che egli è stato “sarto” certamente, ma anche “stoffa” nelle mani del Buon Dio. Ricordare solo don Bosco sarebbe troppo riduttivo per noi, oggi suoi figli; egli con la sua vita ci stimola a fare altrettanto; ci stimola a fidarci e rispondere con cuore sincero al progetto d’amore che il Signore ha per ciascuno di noi e che potrà renderci veramente beati. Sia la festa di don Bosco non solo motivo di riconoscenza e affetto ma anche stimolo per camminare insieme a lui al seguito di Cristo verso il premio più importante da vincere in questa vita: il paradiso.

don Stefano Cortesiano, sdb

Video realizzato da don Alessio Tavilla, sdb

Sito della ISI

 

 

Schio, 120 anni fa arrivarono i salesiani

In occasione della Festa di Don Bosco, il Giornale di Vicenza dedica una pagina alla presenza dei Salesiani a Schio, arrivati nell’ottobre di 120 anni fa. Di Walter Ronzani.

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Il 27 ottobre 1901 giungono alla stazione ferroviaria di Schio quattro viaggiatori a lungo attesi. Sono i primi padri salesiani a mettere piede in città. Davanti ai loro occhi si dischiude un territorio che si è fortemente trasformato nel giro di pochi decenni. L’evoluzione dell’industria laniera innescata da Alessandro Rossi ha infatti cambiato il volto di Schio, che si è guadagnata l’appellativo di Manchester d’Italia e che ha attirato masse di lavoratori dalle campagne limitrofe. L’insediamento dei salesiani è stato fortemente voluto dal monsignor Francesco Panciera, definito il “padre della gioventù scledense” per la sua attività pedagogica nella congregazione di S. Luigi.

NUOVI APPROCCI. Nella seconda meta dell’Ottocento Panciera è tra i primi a cogliere le esigenze e difficoltà dei figli della sempre più numerosa classe operaia. Capisce inoltre che, per creare dei percorsi educativi adeguati al mutato contesto sociale, è necessario affidarsi ad esperti dotati di nuovi approcci pedagogici. La scelta ricade sui  salesiani per la loro capacità di coniugare catechismo, formazione e iniziative per il tempo libero. Nel 1890 inizia così una lunga mediazione con don Michele Rua, rettore maggiore dei salesiani e primo successore di don Bosco (oggi ricorre la festa del santo), che inizialmente nega la possibilità di inviare dei preti a Schio a causa della carenza di personale. Dopo diverse lettere e alcuni viaggi a Torino, Panciera riesce ad ottenere l’apertura dell’oratorio nel 1901, anno in cui i salesiani prendono possesso di un edificio progettato appositamente per loro dall’ing. Carlo Letter. Realizzato in meno di un anno, il fabbricato è dotato di una chiesa, un teatro e un ampio cortile. Il terreno su cui sorge è quello dell’ex brolo Garbin, acquistato grazie alle donazioni degli eredi del Senatore Rossi.

NASCE L’ORATORIO. Il primo direttore è don Callisto Mander, che mette in pratica la pedagogia salesiana, la quale prevede di conseguire l’educazione e l’aggregazione sociale attraverso delle attività ludiche come teatro, musica e sport. Si tratta di percorsi che possono essere seguiti sia da bambini, che da ragazzi più adulti. Le porte dell’istituto vengono così aperte a tutti, a patto di accettarne le regole di condotta. La prima attività a partire è quella della banda che raccoglie il testimone dalla formazione musicale della congregazione di S. Luigi. Di lì a poco nasce il circolo giovanile Concordia, formato da ragazzi volonterosi che diventano sempre più protagonisti dell’oratorio. L’atto ufficiale di fondazione avviene il 31 maggio 1903 durante la visita di don Michele Rua. Per l’occasione il circolo si dota anche di un vessillo, che diventa un forte simbolo di appartenenza. Il nome, ispirato alla virtù che dovrebbe animare i soci, identifica da quel momento in poi tutti i gruppi ricreativi. Nel teatro prendono vita le  rappresentazioni del circolo filodrammatico, mentre nell’ampio cortile si svolgono le attività sportive come la ginnastica e il calcio, che nel 1906 si fondono nell’Unione Sportiva Concordia. Il successo dell’attività educativa è immediato e per molti giovani l’oratorio diventa una seconda casa. Tuttavia a distanza di pochi anni la grande storia bussa alle porte dell’istituto. Il 13 giugno 1915 l’edificio viene infatti requisito dal Regio Esercito che lo trasforma nell’ospedale di guerra O73. Gli spazi interni vengono rivoluzionati per far posto alle brande e persino il teatro diventa una sala di degenza. I preti devono prima spostarsi nella sede provvisoria di San Giacomo e successivamente in un appartamento privato. Solo nell’agosto del 1919 riprendono possesso dell’oratorio. Nel periodo postbellico le attività ripartono con vigore e nel 1923 nascono i giovani esploratori cattolici, tuttavia già nel 1931 il clima politico cambia radicalmente. Infatti con la fascistizzazione del Paese vengono sciolte tutte le associazioni giovanili.

L’IRRUZIONE. Il 14 maggio di quell’anno le camicie nere fanno irruzione nell’istituto salesiano per impossessarsi del vessillo del circolo Concordia, appena soppresso. La bandiera però è stata messa in salvo e nascosta in un fienile poche ore prima, per cui i fascisti si devono limitare a sequestrare alcuni documenti tra cui gli elenchi dei soci. Nel corso degli anni Trenta, tra mille difficoltà, vengono avviate le prime classi elementari. Durante il conflitto l’istituto salesiano rimane aperto per offrire rifugio e protezione ai giovani e a chiunque ne avesse bisogno. Nel secondo dopoguerra l’oratorio conosce una crescita esponenziale delle proprie attività che si adeguano alle evoluzione della società. Gli spazi si espandono con il palazzetto dello sport e il nuovo complesso per la formazione professionale, continuando così un cammino iniziato 120 anni fa.

Bari Redentore, passa dal lavoro la rivincita dei ragazzi del Libertà

Eppure su queste strade un tempo i ragazzi morivano come mosche. Uccisi dalla droga o magari da proiettili esplosi da altri ragazzi, in egual misura condannati. Nel quartiere Libertà l’eco di quella «guerra» puoi ancora sentirla lì dove la memoria viene tenuta viva da chi nell’odio e nella violenza coltiva i propri affari illeciti. Ma la «resurrezione» è stata inesorabile e quotidiana, anche grazie a una coraggiosa operazione urbanistica che nella pedonalizzazione di alcune isole ha colto la scintilla della rinascita sociale. Il simbolo non a caso è il Redentore, la potente quinta urbana che chiude via Crisanzio, e tutto ciò che intorno all’istituto salesiano, fuori e dentro, Bari ha saputo imbastire. Oggi nel mosaico della speranza viene aggiunta un’altra tessera: la firma di un’intesa che porta nuova luce nella vita dei ragazzi del quartiere.
Il progetto prevede la realizzazione di corsi di formazione professionale in ambito ristorativo, mestieri come il pizzaiolo o il panettiere verranno insegnati ai giovani protagonisti del territorio anche con l’obiettivo di realizzare una impresa formativa, ragazzi che si metteranno a produrre taralli o pane o dolci da mettere poi in commercio. Un progetto ambizioso che ha già ottenuto il via libera del settore formazione professionale della Regione. Il cuore della
devianza minorile e dell’inesorabile reclutamento da parte delle famiglie di mafia, d’altronde, è sempre stato la mancanza di lavoro, di una occasione di vita alternativa e legale. Senza soldi, i figli delle famiglie più povere, sono stati (e sono ancora) il vivaio nel quale i clan hanno pescato per arruolare sentinelle, spacciatori, ragazzi/fondina. Oggi sappiamo che molti minorenni del quartiere continuano a “lavorare” per le organizzazioni criminali, 200 euro a
settimana per portare la droga in giro a bordo dei monopattini elettrici. E’ a questa generazione che il progetto del Redentore è rivolto sotto la sapiente regia di don Francesco Preite, direttore dell’istituto salesiano, un prete di frontiera, di trincea, si direbbe, sebbene sia un sacerdote ben lontano dalla retorica. Scendere da quei monopattini, entrare in una cucina e scoprire un’altra vita possibile: questa è la sfida. Il progetto per formare gli artigiani del cibo
prende forma grazie al sostegno degli imprenditori Sebastiano e Vito Ladisa e dei soci della Giusta Causa. Si cercano altri sostenitori e altre alleanze possibili intorno a un’iniziativa che mira a creare tutte le condizioni per un regolare inserimento nel mondo occupazionale. Accanto alla formazione, inoltre, una volta al mese, i ragazzi cucineranno per le famiglie in difficoltà, un’altra forma di aiuto, un aiuto che non è solo materiale (sfamare chi ha bisogno) ma anche culturale: dare il senso di comunità, di appartenenza e spezzare la condizione di solitudine che ha indotto tanti giovani a perdersi.

L’ultimo viaggio di Don Bosco a Milano e l’incontro con l’arcivescovo Nazari

Sull’inserto “Cultura e comunicazione in Diocesi” di Avvenire, è uscito un articolo il 31 gennaio che racconta dell’ultimo viaggio di Don Bosco a Milano e del suo incontro con l’arcivescovo Nazari. L’articolo è di Luca Frigerio.

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Nel 1886 don Giovanni Bosco aveva 71 anni. Non era molto anziano, secondo lo standard di oggi, ma i suoi stessi collaboratori ne constatavano impotenti il degrado fisico, per cui il sacerdote torinese appariva ormai «debole, cadente e quasi sfinito», stremato da una vita condotta senza risparmio, interamente dedicata a Dio e ai suoi ragazzi. Ma la lucidità e la determinazione erano quelle di sempre, e, nonostante il parere contrario dei medici, il santo aveva deciso: voleva andare ancora una volta a Milano. Nel capoluogo lombardo don Bosco era già stato in diverse occasioni. La prima volta nel 1850, quando era stato invitato a predicare nella parrocchia di San Simpliciano, e per spostarsi dal Piemonte alla Lombardia serviva ancora il passaporto: allora Giovanni si era fermato quasi tre settimane e ne aveva approfittato per studiare da vicino l’organizzazione ambrosiana degli oratori. Poi vi era tornato
a più riprese per incontrare amici e benefattori, laici e religiosi, anche per verificare la possibilità di aprire una casa salesiana all’ombra della Madonnina. Quel sogno, del resto, non si era ancora realizzato e certamente don Bosco desiderava ardentemente di recarsi a Milano, pur sapendo di affrontare una prova assai impegnativa per le sue condizioni di salute, per dimostrare la sua vicinanza ai suoi premurosi cooperatori meneghini.

Ma la prima e vera ragione di quel viaggio estremo era quella di portare la sua personale solidarietà e il suo autorevole sostegno  all’allora pastore della Chiesa ambrosiana: monsignor Luigi Nazari dei Conti di Calabiana, amico di lunga data. L’arcivescovo di Milano, infatti, nonostante fosse dotato delle migliori qualità che ne facevano una degna guida sulla cattedra di sant’Ambrogio e di san Carlo, in quel frangente storico post-unitario si trovava sottoposto a un tiro incrociato: da una parte attaccato dai circoli massonici e anticlericali; dall’altra contestato da quei cattolici intransigenti che non gli perdonavano la sua posizione «conciliatorista» e i suoi noti sentimenti patriottici. Giovanni Bosco e Luigi Nazari di Calabiana – il primo più giovane di sette anni del secondo – si erano conosciuti a Torino nel convitto ecclesiastico di San Francesco fondato da don Luigi Guala e poi diretto da un  santo sacerdote, Giuseppe Cafasso. La loro estrazione sociale era molto diversa, essendo Giovanni nato in una mode sta famiglia contadina fra le colline astigiane (orfano di padre a soli due anni), mentre Luigi era il rampollo di uno dei più nobili casati piemontesi (nominato vescovo di Casale Monferrato nel 1847, a 39 anni, e poco dopo senatore del Regno di Sardegna): ma fra i due uomini di Chiesa, autentici «operai nella vigna del Signore», nacque subito una solida intesa, alimentata dalla stima reciproca.

Fin dall’apertura dell’oratorio di Valdocco, infatti, monsignor Nazari affidò a don Bosco alcuni giovani della sua diocesi. E quando il sacerdote avviò una nuova opera salesiana a Mirabello fu proprio il vescovo di Casale a spianargli la strada, intervenendo presso l’autorità civile per evitargli ogni intralcio. Con la nascita del nuovo Regno, e l’inasprirsi della «questione romana», i rapporti fra lo Stato italiano e la Santa Sede si fecero assai problematici. Papa Pio IX si trovava in difficoltà nella nomina dei nuovi vescovi per il veto che il governo manifestava davanti ai nomi non graditi. In quel contesto don Bosco godeva ormai della piena fiducia del pontefice per le questioni sociali e politiche più delicate, essendo a sua volta ascoltato dal re e dai ministri e ricoprendo, di fatto, un importante ruolo di mediatore fra lo Stato e la Chiesa. Fu proprio lui, probabilmente, a suggerire monsignor Nazari di Calabiana per la diocesi di Milano (come lo stesso vescovo di Casale gli rimproverò amabilmente durante la visita a un istituto salesiano).

Don Bosco giunse a Milano in treno l’11 settembre 1886, accolto da una folla numerosa e da molti sacerdoti ambrosiani. Fra questi c’era anche don Achille Ratti, allora trentenne, già studioso apprezzato (ma non ancora cooptato in quella Biblioteca Ambrosiana di cui diventerà prefetto): sarà lui, quando salirà al soglio pontificio col nome di Pio XI, a dichiarare prima beato e poi santo don Giovanni Bosco, avendolo conosciuto personalmente, fin dalla frequentazione del suo oratorio a Torino. L’incontro tra il fondatore dei salesiani   l’arcivescovo di Milano avvenne in Curia (ricordato anche da un’epigrafe, fatta apporre cinquant’anni dopo dal cardinal Schuster): don Bosco, sfinito com’era, dovette essere portato su per lo scalone a braccia, ma tutti i presenti ne colsero «la vivacità dei suoi occhi e la lucidità dello spirito». I due amici si abbracciarono fraternamente e con commozione, scambiandosi la benedizione. Poi conversarono a lungo, rievocando ricordi passati e vicende recenti, sempre in dialetto piemontese. Furono tre giorni intensi per don Bosco, che partecipò alla conferenza dei cooperatori salesiani lombardi e alle celebrazioni nella basilica di Santa Maria delle Grazie, circondato dall’affetto e dall’ammirazione di tantissima gente, con il manifestarsi anche di segni prodigiosi: molti, del resto, già lo ritenevano santo.

 

Le nuove “generazioni verdi” cresciute all’ombra di Don Bosco

Su Famiglia Cristiana è uscito un articolo che riporta la ricerca “Youth for future” dell’ Istituto universitario salesiano di Venezia e Verona. L’articolo è firmato da Don Marco Sanavio.

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Sono le generazioni Zeta e Alpha, i post millenials e gli iperconnessi, stanno rivelando una sensibilità ambientale molto spiccata che approda spesso a buone abitudini e pratiche trasformative molto concrete. È questo il volto dei giovani italiani rilevato dalla ricerca “Youth for future” dell’ Istituto universitario salesiano di Venezia e Verona (Iusve) realizzata mediante una rilevazione affidata, via Cawi, alla società Demetra di Venezia tra il 25 maggio 2020 e il 30 ottobre 2020 su un campione di 1.821 ragazzi di età compresa tra i 14 e i 18 anni un secondo panel di 1.523 giovani adulti nati tra il 1991 e il 2001.

I risultati sono stati resi noti per la prima volta alla vigilia della festa di Don Bosco, patrono degli educatori. «Questa importante ricerca nazionale sulle rappresentazioni sociali degli adolescenti e dei giovani sulle tematiche ambientali –spiega don Nicola Giacopini, direttore dello Iusve – si inserisce all’ interno di una serie di eventi, di progetti, di pratiche trasformative per far crescere una cultura e una società sostenibile ed inclusiva». L’ indagine, infatti, si inserisce all’ interno de un progetto triennale “Ecologia integrale e nuovi stili di vita” che ha visto l’ ateneo veneto concentrarsi per il primo anno sul rilevare l’ esistente, prendendo come azione guida il “vedere”.

Nove giovani su dieci, per quanto riguarda entrambi i campioni, fanno attenzione alla raccolta differenziata e spengono la luce uscendo da una stanza ma sono anche attenti a non sprecare cibo, acqua e a riutilizzare i materiali. Se i giovani adulti utilizzano spesso l’ auto per gli spostamenti (36,8%), i ragazzi di età compresa tra i 14 e i 18 anni camminano volentieri (23,7%) o si spostano con autobus (15,1%) e treni (3,0%). La tv rimane il canale principale di informazione sui temi ambientali per i più piccoli (30,7%), mentre i loro fratelli maggiori attingono a siti internet diversi da quelli dei quotidiani (40,9%) e pongono in secondo piano le informazioni derivati dai social network (14,1%).

Il consumo di frutta e verdura prevale su quello di pasta e carne, mentre gli adolescenti del Nordest si rivelano tra i meno propensi a scegliere cibo biologico con una percentuale che si scosta quasi di venti punti dal reto della Penisola. «L’ indagine evidenzia tante luci, ma anche qualche ombra – spiega Davide Girardi, docente di sociologia allo Iusve che insieme alla docente di psicologia Anna Pileri ha progettato la ricerca – tra le prime, emerge chiaramente il potenziale ecologico dei giovani italiani, soprattutto di quelli che frequentano ancora la scuola. Così come la fiducia nel ruolo dei cittadini per affrontare efficacemente le questioni ambientali. Si stagliano però anche le preoccupazioni per il futuro, o il timore che molte persone non siano effettivamente interessate ai temi che riguardano l’ ecosistema».

“Youth for future” rappresenta, infatti, un importante segnale indicatore per il Paese, un invito a non dispendere il potenziale che le giovani generazioni possono rappresentare per la cura della casa comune. Una responsabilità che lo Iusve ha scelto di assumersi con notevole impegno, come conferma il suo direttore, don Nicola Giacopini: «Come Università abbiamo fatto nostro e accolto l’ accorato appello di Papa Francesco rivolto a tutto il mondo con l’ enciclica Laudato si’ , a custodire e prendersi cura della nostra casa comune, la terra. Il primo passo scientifico per rispondere alla sfida ambientale è rilevare, dare ascolto, vedere e capire in profondità le conoscenze, le opinioni, ma anche gli atteggiamenti e le pratiche quotidiane in particolare degli adolescenti e dei giovani, veri apripista e portavoce sociali. Solo così si potranno poi fornire interpretazioni, valutazioni e attivare percorsi e pratiche trasformative comuni».

Il sito di Famiglia Cristiana

“Educazione è cosa di cuore”: incontri di formazione e approfondimento della Famiglia Salesiana a Porto Recanati

Riceviamo e pubblichiamo il comunicato stampa del ciclo di incontri di formazione «Educazione è cosa di cuore», promosso dalla Famiglia Salesiana di Porto Recanati, con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale, in particolare l’Assessorato ai Servizi Sociali e le Politiche giovanili e Consulta dei giovani.

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Da sabato 6 febbraio tornano gli appuntamenti di «Educazione è cosa di cuore»: quattro incontri per “riflettere, capire e interrogarsi sull’educazione” e al contempo celebrare il carisma di San Giovanni Bosco tanto radicato in città. A promuoverli, per il quarto anno consecutivo, sono la Famiglia Salesiana presente a Porto Recanati, il Centro Salesiani Cooperatori “Giuseppe Panetti”, l’Unione Ex-Allievi, l’Unità Pastorale, l’Oratorio Don Bosco, con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale, in particolare l’Assessorato ai Servizi Sociali e le Politiche giovanili e Consulta dei giovani. L’iniziativa, inoltre, si avvale della collaborazione dell’Istituto Comprensivo “E. Medi”, al quale si affiancano altri sette Istituti del territorio che anche quest’anno riconosceranno crediti formativi ai docenti che parteciperanno.
Mai come adesso lo sguardo di Don Bosco rappresenta una “lente” preziosa attraverso la quale approfondire aspetti e problematiche che riguardano le giovani generazioni, che si sono trovate ad affrontare molteplici nuovi aspetti di una quotidianità stravolta e trasformata dall’emergenza causata dalla pandemia.
«L’accoglienza che “Educazione è cosa di cuore” ha ricevuto nelle prime edizioni ci ha dimostrato quanto sia un servizio apprezzato dalla comunità cittadina. Per questo, nonostante le restrizioni dovute alle misure anti-Covid, abbiamo voluto realizzare questa quarta edizione che sarà fruibile totalmente in streaming», spiega il coordinatore dei Salesiani Cooperatori Italo Canaletti. «Volendo ancora una volta focalizzarci sul carisma educativo di San Giovanni Bosco – continua Canaletti – abbiamo scelto quattro aspetti: la famiglia, così sotto pressione in questo periodo, i giovani, per cercare di capire come usciranno dalla pandemia, i social media e il web, dalla didattica a distanza a una presenza consapevole in rete».
Quello di «Educazione è cosa di cuore» è un cammino che accompagna i giovani ormai da diversi anni, sottolinea il consigliere con delega alle Politiche giovanili Emiliano Giorgetti, che esprime tutto l’entusiasmo suo e dell’Amministrazione nei confronti di un’iniziativa «di cui c’è un gran bisogno». «C’è soddisfazione per il fatto che si sia potuta realizzare un’altra edizione e c’è la volontà di andare avanti con tutto il supporto possibile», aggiunge Giorgetti, che inoltre ringrazia «i relatori delle scorse edizioni, coloro che interverranno quest’anno e tutto il gruppo di persone che hanno lavorato e lavorano perché questo progetto formativo continui ad essere la risorsa che rappresenta».
Protagonista dell’incontro d’esordio del 6 febbraio sarà la psicologa e psicoterapeuta Chiara Cottini, il cui intervento ha l’evocativo titolo «Risalire sulla barca rovesciata: riflessioni per r-esistere, nonostante tutto». L’informazione e in particolare il fenomeno delle fake news sarà al centro del contributo che porterà, sabato 13 febbraio, Marta Rossi, giornalista che presta il suo servizio nell’Ufficio comunicazione dei Salesiani in Italia. «Fragilità in corso: la sfida della famiglia per generare speranza» è il tema dell’appuntamento del 20 febbraio con i counsellor e operatori di pastorale familiare Loredana Simeone e Ruggiero Diella. A concludere, sabato 27, saranno Alfredo Petralia e Marco Pappalardo, il primo esperto in informatica applicata, il secondo giornalista pubblicista e docente di Lettere, che parleranno di «Educarsi ed educare al web. Nella rete ma non come pesci».
Tutti gli incontri si potranno seguire in diretta streaming sul canale Youtube dell’Unità Pastorale di Porto Recanati a partire dalle ore 16.30.