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Preghiera e quotidiano

Di Carmine di Sante

Premesse

Il titolo collega due termini (preghiera e quotidiano) che la tradizione generalmente ha tenuto distinti e separati: per pregare non bisogna allontanarsi dal quotidiano, ritirarsi “nel deserto”, fuggire dal mondo? Come è possibile pregare in mezzo alle “preoccupazioni ordinarie” (lavoro, casa, famiglia)?
Il collegamento che si intende stabilire tra preghiera e quotidiano è duplice: da una parte mostrare che la preghiera è legata agli eventi quotidiani (alzarsi, lavorare, mangiare e dormire), dall’altra rilevare che essa, mentre li assume, li trasfigura. La preghiera infatti ha il potere, per così dire, di trasfigurare l’ordinario in straordinario, non certo per virtù magica ma per la forza della fede che essa esprime.
I momenti principali e irriducibili dell’arco quotidiano sono quattro: il risveglio (al mattino), il lavoro (durante la giornata), il pasto (al mezzogiorno), il riposo (alla sera). Di ognuno di questi momenti si cercherà di vedere come si rapporta con la preghiera e come viene da questa risignificato.

Il risveglio

Svegliarsi è passare dal tempo del sonno al tempo della veglia, dalla morte dei sensi al risveglio della coscienza, non solo psicologica ma soprattutto etica. Ma questo passaggio – dal sonno alla veglia – non avviene per forza interna quanto piuttosto esterna. In realtà svegliarsi è essere svegliati, è essere visitati e incontrati dalle luce delle cose che, riaccedendo alla loro identità di figure compiute, “bussano” alla porta dei nostri sensi svegliandoci e richiamandoci al rapporto con la realtà.
Ma tornare al rapporto con la realtà è tornare alla percezione della sua complessità e ambiguità. Il mondo che si offre ai nostri sensi e che torna ad apparire entro l’orizzonte della coscienza non è solo un mondo bello e positivo che si offre come oggetto, ma un mondo problematico che chiama in causa e ci interpella. Per cui essere svegliati dalla luce delle cose è in realtà un essere interrogati dalla loro riapparizione e dalla loro presenza, e di fronte ad esse più che dominatori ci si scopre in situazione di recettività e di risposta. Esse, con il loro esserci e con la loro stesso silenzio, pongono domande alle quali non si può non rispondere.
Pregare al mattino (con un “segno di croce”, con un “Padre nostro”, con un salmo, con un canto o con formulari più ampi come la preghiera di lodi nelle comunità monastiche) è assumere e risignificare alla luce dell’amore di Dio l’evento coscienziale del passaggio dal sonno alla veglia. Pregare al mattino – sostando, sia pure per pochi istanti, dinanzi al miracolo del proprio risvegliarsi – è prendere coscienza che il mondo delle cose che la luce rigenera e ripropone ai sensi non è il mondo della pura e semplice fattualità, ma il mondo di Dio, cioè la creazione. Questa non consiste nel fatto che Dio ha prodotto le cose dal nulla, ma nel fatto che egli le dona e ridona ogni giorno all’uomo per amore. Un’immagine adeguata per capire il senso della creazione divina può essere quella della madre che ricama il lenzuolo per il suo bimbo o quella dell’artigiano che gli prepara la culla. In casi come questi, l’accento non cade né sulla fattualità dei due oggetti – l’esserci del lenzuolo e l’esserci della culla – né sulla loro produzione – il costruirle con o senza materiali precedenti – ma sull’atto di amore che in essi prende corpo e si rivela. Svegliarsi al mattino pregando è sentire – o predisporsi a sentire – che la luce che rigenera le cose è l’amore di Dio, la sua benevolenza per l’uomo, e che il mondo che ci attende non è né casualità né fatalità, ma l’incarnazione della sua tenerezza e della sua cura per tutti e ciascuno singolarmente.
Nella liturgia ebraica l’orante, quando si sveglia al mattino, prega con queste semplici parole: “Benedetto sei tu Signore che restituisci l’anima ai nostri corpi”. “Restituire l’anima ai corpi” è un’espressione che, in ebraico, vuol dire: risuscitare, ridonare la vita, far rivivere. Pregare è vedere ogni mattino come una nuova creazione, in cui Dio, come nel racconto della Genesi, ricostituisce, con il suo “alito”, ognuno come “essere di vita” (cfr Gn 1,7) e come “sua immagine e sua somiglianza” (cfr Gn 1,26), cioè custodi del mondo e suoi responsabili. Certo, la preghiera non ignora che il giorno che inizia è – come tutti i giorni – segnato dalla durezza del vivere e dalla minaccia della monotonia; ma essa, sintonizzandoci con il senso profondo della realtà che è l’amore di Dio e il suo perdono, offre la prospettiva ideale nella quale collocarsi e dalla quale derivare la forza e il coraggio per trasformarlo e viverlo secondo il disegno di Dio: “Il primo mattino è allora il tempo in cui il cuore credente si accorda sul cuore nascosto del mondo: ‘voglio cantare, a te voglio inneggiare: svegliati mio cuore, svegliatevi arpa e cetra, voglio svegliare l’aurora’ (Sal 57,9)” (A. Rizzi, Parola di Dio e vita quotidiana, Elledici 1998, p. 67).

Il lavoro

Il risveglio e il rapporto con le cose non è di tipo contemplativo ma trasformativo: il mondo, appressandosi all’uomo e richiamandolo in vita, gli si offre come compito per essere “eseguito”, come una pagina musicale o un’opera teatrale che esigono di essere attualizzati. Ciò vuol dire che è il lavoro e non la contemplazione il tipo di rapporto dominante con il mondo. E ciò spiega perché sia proprio il lavoro l’elemento qualificante il giorno al quale la preghiera del mattino introduce.
Ma quale lavoro? Il lavoro inteso e vissuto come dominio sulle cose ridotte a puro oggetto o il lavoro come collaborazione che le porta a compimento? Il lavoro come mezzo per la propria autorealizzazione o il lavoro come servizio per i fratelli? Il lavoro come espressione della propria volontà di progettazione e di affermazione o il lavoro come assecondamento e trasparenza dell’intenzionalità creatrice?
Collegare il lavoro alla preghiera (anche qui con modalità diverse che possono andare dal semplice segno della croce a una breve formula a testi ampiamente articolati) è operarne una rilettura liberante e originale alla luce dell’amore creatore colto nella prima alba del mattino.
Visto alla luce della fede – di cui la preghiera costituisce un’oggettivazione – il lavoro umano non è né puro dominio sul mondo né pura arbitrarietà su di esso, ma compito affidato che esige rispetto e collaborazione. Le cose che, nel corso della giornata, si offrono all’uomo per essere “lavorate”, non sono “oggetti” che egli può trasformare a piacimento, ma “segni” e “parole” che attendono di essere interpretati e portati a compimento. L’interpretazione è quell’attività peculiare nella quale si è contemporaneamente – come nella lettura di un testo – attivi e vincolati; attivi, perché solo attraverso e a misura della partecipazione del soggetto il testo parla e rivela la sua verità; vincolati perché tale “intervento”, lungi dall’imporsi al testo e violentarlo, si pone di fronte ad esso in un rapporto di obbedienza e di rispetto, il solo che permette di farlo essere.
Se le cose portano iscritto, nel loro cuore, l’amore di Dio per l’uomo e se esse sono creazione perché sorrette dalla logica del dono, rapportarsi ad esse nell’attività lavorativa – qualsiasi attività, sia manovale che “spirituale”, sia materiale che simbolica – è rispettare questo senso, vincolati alla sua oggettività e ponendosi a servizio della sua verità. Il lavoro diviene così incarico che Dio ci affida e con cui ciascuno diventa – in alleanza con lui – “con-creatore” del mondo. Concreatore: prima che a livello strumentale e operativo a livello intenzionale, che è quello della sua finalità e della sua destinazione. Con il suo “lavoro” l’uomo diventa con-creatore del mondo sposandone la logica di dono che lo sottende e ponendosene a servizio con il suo logos trasformativo. Pregare al mattino e durante la giornata è svegliarsi e risvegliarsi a questa responsabilità radicale che di ogni lavoro fa l’espressione di un duplice amore: a Dio – che, nell’obbedienza chiede di volere quello che lui vuole – e ai fratelli – amarli con lo stesso amore di gratuità con cui Dio li ama -. Qui la preghiera non opera né come strumento magico (il sogno utopistico di liberarsi dal lavoro) né come mezzo ideologico (legittimare il lavoro alienante come volontà di Dio), ma come momento di critica e di responsabilizzazione (assumere il lavoro immettendoci il giusto fine che dà la forza dì assumerlo e di redimerlo): “Non si tratta di cullarsi in infantili illusioni che pensano di poter trasformare interamente il lavoro in gioco o di poterlo sublimare integralmente in una specie di celebrazione cosmica. Il lavoro, come tutto l’umano, è sotto il duplice segno della grazia e del peccato, della creazione e della caduta, della gioiosa produttività e della pesante alienazione. La spiritualità del mattino è di disporsi al lavoro come dono attivo, dopo aver lodato Dio per il dono ricevuto; è di chiedere forza per portarne l’alienazione e luce per disalienarlo, energia per la fatica e passione per la creatività: che l’una non accasci e l’altra non esalti, ma ambedue siano comandate dall’obbedienza al progetto creatore e dall’amore ai fratelli” (A. Rizzi, cit., p. 69).

Il percorso formativo del “Gruppo Samuele”

di Marcello Scarpa

Nell’attuale società liquida, caratterizzata da scelte provvisorie e reversibili, incertezza del futuro e ristrettezza di orizzonti progettuali, non è facile proporre ai giovani né la ricerca di una forma di vita “solida” intorno a cui imperniare la propria esistenza, né parlare di “vocazione”, una parola che evoca l’esigenza di impegni definitivi che limitano la libertà della persona. Eppure, nonostante le intemperie dell’attuale cultura postmoderna, il termine “vocazione” non è estraneo al background culturale dei giovani d’oggi. Essi, infatti, sentendosi chiamati a prendere delle decisioni in ambito professionale, sociale, politico e affettivo, sono alla ricerca di una direzione da assegnare alla propria vita, di qualcuno con cui confrontarsi sul proprio futuro. Pertanto, è doveroso accompagnare i giovani nella ricerca della propria “vocazione”, ovvero del modo di collocarsi nel mondo con l’originalità e la specificità della propria esistenza.
Lungo il corso della storia ecclesiale il concetto di vocazione ha conosciuto differenti modalità di comprensione. Il Concilio Vaticano II ha recuperato il significato biblico della vocazione, Dio non solo ha creato l’uomo, ma l’ha pensato e amato sin dall’eternità, assegnandogli un nome preciso con il quale lo chiama ad entrare in comunione con Lui «per collaborare alla trasformazione del mondo» (CV 178); in tal senso, ogni vita umana ha un orizzonte vocazionale in rapporto a Dio. Al dato originario che la vita è vocazione, bisogna aggiungere un secondo elemento, il “come” rispondere alla vocazione della vita. Il cardinale Martini, che nell’anno pastorale 1990-1991 iniziò con alcuni giovani dai 17 ai 25 anni l’esperienza del Gruppo Samuele, spiegò loro che il senso della vocazione consisteva nell’«orientare la libertà verso la realizzazione del progetto di Dio sul mondo, per quella parte che mi riguarda». Nei suoi quarant’anni di storia, il Gruppo Samuele è stato insieme un cammino di grazia e libertà per molti giovani che, già familiari ad un annuncio minimale del Vangelo, «avvertivano il bisogno di un approfondimento serio della loro fede e la necessità di un itinerario concreto per scoprire la loro vocazione». Ancora oggi, «stupiscono la disponibilità dei giovani a intraprendere l’itinerario, la serietà e l’assiduità agli incontri mensili da novembre a giugno, la disponibilità a lasciarsi guidare dalla Parola del Signore in un discernimento reale della propria vita».

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Note di Pastorale Giovanile, gruppo di redazione al lavoro per il 2022

Il 21 giugno, nella casa del Sacro Cuore di Roma, si è ritrovato il gruppo di redazione di Note di pastorale Giovanile per il consueto appuntamento di discernimento e discussione sulla Rivista per il prossimo anno.

Dopo uno stop dovuto all’emergenza sanitaria che ha costretto al collegamento on line, la riunione si è svolta in presenza. La modalità di lavoro è stata quella del “discernimento generativo”, proprio per valorizzare la presenza e lo scambio di persona.

Don Michele Falabretti, vicedirettore di NPG e Responsabile del Servizio Nazionale per la pastorale giovanile, Ernesto Diaco, direttore dell’ufficio Scuola della CEI e don Rossano Sala, direttore di NPG e docente all’UPS hanno introdotto la giornata con una panoramica su quanto sta accadendo nella Chiesa italiana e universale.

C’è stato poi lo spazio per il discernimento generativo, con il contributo di tutti e con quanto ciò che si era ascoltato aveva suscitato in ciascuno dei presenti. Il cuore della discussione è stato proprio il cambiamento epocale che stiamo ancora vivendo, che è epocale non solo perché il mondo è diverso rispetto a un anno fa ma perché siamo dentro un sentimento forte. Come si può rispondere alle domande di senso che oggi risuonano nella vita di tanti? Sicuramente il cammino sinodale, sia come metodo di lavoro che come esercizio per mettere in campo azioni pastorali.

Dopo il pranzo, c’è stato il tempo della programmazione: ascoltate le riflessioni del mattino, i membri del gruppo di redazione hanno proposto temi per il prossimo anno di Note di Pastorale Giovanile, una rivista che cresce di anno in anno anche fuori dal mondo salesiano e che ormai è diventata punto di riferimento per la formazione e l’approfondimento della Pastorale Giovanile nella Chiesa italiana.

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Direttorio per la catechesi: una sezione dedicata nel sito di NPG

Nel sito di Note di Pastorale Giovanile è disponibile una sezione sulla catechesi, con articoli rivolti anzitutto agli animatori giovanili, perché siano catechisti e perché quanto di formativo viene proposto sia trasformato in catechesi genuina. A cura di Cesare Bissoli.

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Note di pastorale giovanile – Come stanno gli adolescenti?

Dal sito di Note di Pastorale Giovanile, una conversazione con Gustavo Pietropolli Charmet  di Anna Stefi (Doppio Zero Editoriale)

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Incontro Gustavo Pietropolli Charmet rigorosamente a distanza, come in dad, dietro a uno schermo. Non ha bisogno di grandi presentazioni: è noto il suo lavoro con gli adolescenti e i suoi libri credo siano lettura cui non possa sottrarsi chiunque lavori – insegnante, formatore, psicologo, educatore – con i ragazzi. Ho letto il suo Il motore del mondo, uscito ad agosto e già recensito su queste pagine, ma la ragione per cui gli domando un appuntamento è che, come ho raccontato, sono in un vuoto di senso che rende difficile il mio tempo in classe e mi fa pensare urgente la necessità di interrogare la scuola, quanto accaduto, dove siamo e cosa questo tempo ci ha mostrato in modo più evidente di prima.

AS: Professore, come stanno gli adolescenti? Come è stato questo tempo di restrizioni, di frequenza con i coetanei ridottissima, a stretto contatto con la famiglia: cosa ha determinato?
GPC: Come stanno? La pandemia ha fatto due vittime: gli anziani li ha fatti fuori, e gli adolescenti li ha malmenati. Non lei direttamente, ovviamente, perché gli adolescenti non hanno nemmeno visto la morte e la malattia atroce; in primo piano hanno visto le misure preventive, le restrizioni, le rinunce, tutte apparentemente rivolte a loro: calcio, concerti, sport. Ogni cosa. Chiusi in casa. Tutto questo, in una famiglia, generalmente si definisce “castigo”: impedire di uscire, impedire l’allenamento di calcio, il vedere gli amici, sono dei castighi. Castigo, dunque? E per che motivo? Non si trattava di un castigo, sono state date delle regole, apparentemente insensate, che dovevano essere seguite. Certo è che queste regole hanno comportato deprivazioni importanti e significative. In famiglia non mi sembra che ci siano stati problemi, globalmente, la famiglia contemporanea è una famiglia a scarso contenuto etico, prevale più l’attenzione alla relazione che la regola, l’occasione di conflitto è stata dunque tollerabile. Certo, c’è stato un lungo tempo nella cameretta e un riflusso verso attività di marca regressiva: cucina, recupero della gastronomia, giochi in scatole, repertorio di cose dismesse tornate di moda per il maggior tempo a disposizione.
Il gruppo è rimasto accessibile – per loro un amico virtuale è un amico reale – e con la famiglia è stata una sorta di tempo di vacanza prolungato, con genitori a casa tutto il giorno. Socialmente invece le privazioni sono state molte, gli è stato impedito il movimento, il divertimento, il ballo, ma anche cose importanti, iniziatiche: il concerto in centomila a San Siro è un’occasione importante, che reimmerge nel clima della propria generazione. La colonna sonora diventa un’esperienza reale, con la sua ritualità.

AS: E la scuola? Come hanno vissuto la dad? Ho faticato a capire i loro vissuti, del resto molto diversi tra loro. Credo tuttavia che non si possa negare che sia visibile, da che siamo rientrati, un generale smarrimento, anche in chi era ben contento di dormire un’ora in più e connettersi indossando una maglietta sopra il pigiama.
GPC: Sento sempre dire che la loro malinconia e la loro protesta dipendano dalla difficoltà dell’andare scuola: gli amici, il gruppo classe, la dad, il contatto artificiale con gli amici. In verità non credo che sia questo il tema: loro hanno la grande risorsa di poter avere, con la loro rete, ampi contatti di natura erotica, aggressiva, virtuale, di conoscenza. Quando entrano nella loro cameretta a noi pare che vadano a studiare e dormire, ma nei fatti entrano in un centro sociale, in un’agorà piena di occasioni. Non credo sia stato questo che li abbia fatti soffrire, credo che, molto indirettamente, li abbia fatti soffrire – senza che se ne possano troppo accorgere né lo possano ammettere – il fatto che la scuola, come tutte le organizzazioni di lavoro, in questo periodo ha traballato: chiusi, aperti, socchiusi, eccetera. Questo li ha messi in difficoltà coralmente: è vacillata la loro istituzione di lavoro, che garantisce ruolo sociale, identità, appartenenza, colonizzazione del futuro, fraternizzazione – mica poco! Si tratta di cose grosse, importanti, sono le cose che fa un’università o un luogo di lavoro, un’azienda, per un adulto, senza i quali è molto facile cadere in depressione: non si sa più chi si sia, non si hanno progetti, si perde valore sociale. Ecco la scuola è l’unico momento sociale che gli consentiamo di avere, ha una funzione di appartenenza, seppur precaria, ed è il luogo dove possono prendere minimamente contatto con la propria vocazione: cosa mi piace fare? Si tratta di un contatto vago, la scuola lo sappiamo non aiuta molto in questo senso, però ci prova, nel confronto con discipline diverse qualcosa di uno stile, di un gusto, si delinea. Questa secondo me è stata la perdita più grave: il loro lavoro, quello che dava loro una qualche forma di identità, è stato sottratto. Questo ha creato un’anomia e questa, sì, è una perdita reale. Son andati in “cassa integrazione” da questo punto di vista: studenti a mezzo servizio, con tutta la sottrazione di queste benemerenze che la scuola ha, indirettamente. La scuola consente a un adolescente di sapere perché è in colpa o perché si vergogna: se apre gli occhi la mattina un adolescente incontra interrogativi su compiti, interrogazioni, scadenze. La scuola è un grande organizzatore dei sentimenti, e questa è una funzione enorme. Se un adolescente deve per contro proprio la mattina decidere se è in colpa o meno, se si deve vergognare, rispetto a che cosa, è complicato! Il figlio dell’uomo, spontaneamente, prima di aver accesso alla gioia, è portato a liberarsi di colpa e vergogna, in agguato appena apriamo gli occhi.

AS: E il rapporto con gli insegnanti?
GPC: È andato male, purtroppo. Gli insegnanti, non addestrati a insegnare a distanza, hanno ripetuto la lezione che avevano preparato. Non viene bene, non funziona: le occasioni di distrazione in camera o in cucina – dove ad ascoltare c’è anche il nonno – sono troppe. La dad non può sostituire l’insegnamento tradizionale, è necessario che si proponga dell’altro, un altro modo. Il paese sta andando verso questo – si lavora da casa, l’università sarà a casa e forse anche la scuola. È necessario pensare a modalità nuove. Così è deludente. Quello che è venuto a mancare non è tanto l’apprendimento, o una modalità di fare cultura diversa da quella che si fa a scuola, è che la scuola è una liturgia, è entrare in Chiesa, è entrare in una istituzione, è la forte richiesta sulla soglia di uscire dal ruolo di adolescente e entrare in quello di studente, con una offerta di mediazioni, nei confronti dei compagni e dei docenti, importante. La dad non offre tutto questo.

AS: Si parla poi molto del rapporto di controllo: telecamere spente e accese; la mole di verifiche non appena si è tornati in classe; la rincorsa alla valutazione…
GPC: Ne sento parlare spesso dai ragazzi, mi sembra strano, ma è anche comprensibile: i docenti sono diventati molto sospettosi nei confronti dei ragazzi, sono ricorsi a verifiche, valutazioni continue. L’immagine della ragazza bendata coglieva nel segno. Diminuendo il controllo visivo aumenta una specie di controllo rafforzato, per vedere se effettivamente qualcosa è passato. Mi diceva il dirigente di un grande istituto che c’è il tema di verificare se si connettano davvero, se siano davanti allo schermo. Ovviamente ci sono stati docenti che si sono fatti in quattro per trovare modalità alternative, capire bisogni, intercettare modalità di relazione che siano contestualizzate al momento che i ragazzi vivono: in fondo alcuni docenti fanno lezione a ragazzi al primo anno di scuola che dunque non si conoscono nemmeno tra loro, al quinto anno c’è il tema della maturità, insomma ci sono situazioni differenti da considerare.

AS: La sensazione che ho, in classe, nell’assenza-presenza, è che il controllo, diventato delirio di controllo, sia esito di un vissuto dell’insegnante di grande solitudine, che non è data tanto dal tema della telecamera accesa o spenta, quando da interrogativi di senso rispetto al proprio operare. Si è interrotto un agire automatico che abitava la scuola, il “cerimoniale”, e si è persa un po’ la capacità di collocarsi. Mi è parso che questo sia accaduto da entrambi i lati. In un primo tempo, al rientro, i ragazzi portavano un desiderio di restare a casa, e mi pare che a dare corpo a questo desiderio contribuisse una sensazione si spaesamento: aprile sembra giugno, come ho scritto. Si è provvisori, come se l’anno fosse finito (o, forse, nemmeno iniziato).
GPC: In questo senso io non credo che sarà possibile recuperare la normalità. Siamo usciti dal setting. Vale anche nella mia professione: ho lavorato a distanza e ora raggiungere lo studio mi sembra un’impresa, mi sembra di essere meno protetto e meno competente. È un discorso complicato quello che andrebbe fatto, ma devo dire che sono stato molto colpito e ho cambiato alcune convinzioni. Ero prevenuto rispetto alla possibilità di costruire una relazione a distanza con i ragazzini, soprattutto quelli che stavano peggio. Ho invece avuto l’impressione che questo strumento consenta, se si vuole, un’intimità, una confidenza, e un approfondimento che nel mio mestiere sono valori di riferimento. Quello che ancora non so dire è quanto tale intimità, tale ‘serietà’ – che fa il mio gioco in questo lavoro –, dipenda dal fatto che fuori c’è la pandemia e dunque qualcosa arriva a loro della gravità della situazione.

AS: C’è dunque stato un incontro con la morte?
GPC: Percepire la serietà della situazione, cosa che è accaduta anche se non lo ammettono esplicitamente, non ha voluto dire che abbiano visto la malattia grave o la morte orrenda, non hanno visto il rischio della distruzione della specie umana, né che abbiano paura dell’una o dell’altra. E questo è stato un errore educativo grossolano che è stato fatto dal nostro paese. Ci siamo lasciati sfuggire una occasione, un’occasione per dire, con la morte lì, “parliamo di questa faccenda che corre insieme alla vita”. Letteratura, poesia, la morte imprigionata, risolta: siamo immersi nella morte, non sappiamo se la nostra specie sopravvivrà – e se non dovesse succedere? Perché non si è alzata una voce sobria, autorevole, comprensibile – ma anche un po’ stupefacente – per parlare ai ragazzi di tutto questo. È difficile parlare con loro della relazione con la morte eppure loro ci pensano, il 20% degli studenti liceali ha fantasie di suicidio, che non attueranno, ma è un passaggio obbligato.
È la scoperta della loro mortalità. Sono lasciati soli con tutto questo e abbiamo perso una grande occasione, perché per evitare che le fantasie diventino azioni bisogna che siano trasformate in parola. Loro hanno visto le misure, le regole, più delle ragioni che hanno determinato tali misure. Al più si è messo a tema il “non portare a casa il virus ai nonni”, mentre invece si sarebbe potuto convocare i ragazzi, responsabilizzarli, un grande volontariato nazionale, si sarebbe potuto trovare dei modi di coinvolgerli per portare il cibo, accompagnare per i vaccini, e soprattutto evitare i contagi con misure più significative, con un livello di responsabilità maggiore, non con una legge cieca. Il discorso sui nonni, paradossalmente, ha avvallato la loro immortalità: l’identikit della persona a rischio non erano loro. Ecco questo credo sia stato un grande errore, proprio adesso si poteva accogliere il loro: “mamma ma tu lo sapevi che sarei morto? E allora perché mi hai fatto nascere?”. Lo hanno questo problema in qualche modo, perché li abbiamo lasciati soli con questo?

AS: La scoperta della propria mortalità, dice, i fatti di cronaca registrano in questo ultimo anno un numero di passaggi all’atto che spaventa: è così o è la messa a fuoco dei media su questo che crea l’impressione che sia un fenomeno in aumento?
GPC: Credo si possa dire che, al di là dei dati statistici in questo ambito sempre opinabili a causa delle difficolta di registrazione, senza dubbio se ne parla di più di quanto accadeva un tempo. La “propria morte” è stata sdoganata, un adolescente in grave crisi sente che quella è una possibilità, si sente libro di scegliere la soluzione migliore al proprio dolore e il rifiuto di crescere è a portata di mano. Ecco perché parlo di occasione mancata, mi pare davvero fondamentale costruire una educazione sul tema della morte che non li lasci soli a decidere nel momento più cupo della loro vita.

AS: E per quel che riguarda l’esplosione del disagio psichico? Ho l’impressione che siano aumentati, almeno al mio sguardo, attacchi di panico, atti autolesivi, fenomeni di chiusura…
GPC: Non c’è dubbio che dalla pandemia sia venuta fuori una quantità notevole di ragazzi che stanno male. Ci sono indici di richieste di ricovero nelle neuropsichiatrie infantili, nei servizi di neuropsichiatria, che sono segnale del fatto che c’è davvero un esito cicatriziale di questo insieme di situazioni di malessere generalizzato e di mancanze. Attacchi di panico, disturbi della condotta alimentare, paradossalmente anche il ritiro sociale è esploso: i ragazzi lo facevano già prima, chiudersi nel virtuale, e si sono ancora più radicati. Sarà ancora più complicato tirarli fuori. C’è una relazione tra pandemia e aggravamento epidemiologico di situazioni di malessere abbastanza gravi, soprattutto – stranamente – fenomeni di autolesionismo. Le crisi di panico sono momenti orrendi, terrificanti – in quel momento sei morto o sei pazzo –: è una radicalizzazione della grande paura del figlio dell’uomo. Paradossalmente hanno una loro efficacia: hai paura ma non muori e non impazzisci, per quanto rimarrà il ricordo di quel momento davvero orribile. Nel consultorio gratuito dove lavoro abbiamo una richiesta importantissima di aiuto, strettamente correlata alla pandemia: molti sono i ragazzi traumatizzati dalla morte che hanno avuto in famiglia – spesso morti multiple, vista la contagiosità del virus. Complessivamente c’è sempre una frangia di ragazzi che sta male, potremmo dire per ragioni statistiche, ma ecco quello che vedo è che il disagio si è aggravato. Io ho scelto di lavorare con questi ragazzi: ritiro sociale, disturbi della condotta alimentare, atti autolesivi. Tutto questo quarant’anni fa, quando ho iniziato questo lavoro, non c’era. L’autolesionismo era allora un sintomo gravissimo di esordio psicotico, il corpo non si toccava era la casa del Signore o comunque apparteneva alla madre, sacro. L’uso del corpo per risolvere un problema della mente è nuovo e soprattutto è nuova l’intensità dei sentimenti violenti, intollerabili, in assenza di una diagnosi clinica. Questi cambiamenti sono un po’ sconcertanti, le metodologie sono sconcertanti: tagliarsi, digiunare, chiudersi nella stanza. Insomma rende la misura del dolore. Ma non è solo questo: c’è stato anche un ingigantirsi, a seguito della pandemia, di alcuni vissuti, come la noia e la tristezza. Questo ha prodotto depressione, apatia, perdita di progettualità, disinteresse, e poi soprattutto il disprezzo per chi prova ad avvicinarsi con proposte – sport, cultura, gastronomia – non interessanti. Gli adolescenti han molto sofferto, direi che si è slatentizzato qualcosa che era già presente, che è stato messo in forma dal periodo di pandemia ed è diventato qualcosa da curare, mentre prima si tendeva a ignorare.

AS: Dice di queste proposte che arrivano a loro: mai interessanti. Incontro questo, in classe. In Il motore del mondo (Solferino, 2020) lei scrive che la scuola non insegna il futuro, l’impressione che ho, in questo tempo, è che non solo la scuola non lo insegni ma che la fatica ora sia proprio reperirlo, un futuro. E dunque, come adulti, che si fa? Come ci rapportiamo, come rispondiamo a questa sfiducia, questa assenza di desiderio generalizzata.
GPC: Non c’è una risposta. Insomma come adulti con che faccia tosta ci presentiamo ai ragazzi vagheggiando il futuro come momento felice di realizzazione dei talenti? Siamo preoccupati, lo eravamo già prima di tutto questo. Sarebbe bello che la scuola potesse qualcosa, ma non è così. I docenti si ritrovano con una storia imponente da raccontare ai ragazzi, tutte le materie sono impregnate di questa storia, di come l’uomo ha costruito teoremi ed è arrivato su Marte. A forza di studiare il passato non si riesce a insegnare il futuro. È ovvio che si debba fare la storia, la storia della letteratura, ma qualcosa nell’impostazione attuale non aiuta a vedere il futuro, a dargli spazio. Forse mettere insieme le discipline in modo integrato, forse portare questo grande tema che li riguarda, il fatto che c’è da aggiustare la Terra, prima di tutto, aggiustare i rapporti umani, l’organizzazione sociale. Il lavoro che c’è da fare è il futuro, ma non si arriva a mettere a tema nella scuola. Si tratta di temi che possono essere affrontati solo in un dialogo tra diverse discipline e io credo che questo per i ragazzi sia molto importante: il disastro che è sotto i nostri occhi va messo a posto e c’è poco da fare, tocca a loro. Non è male come compito, è un compito eroico.

AS: Mi sembra tuttavia che più che il futuro i ragazzi soffrano della propria, singolare, inettitudine alla vita: in fondo io, nei loro discorsi, non sento che non c’è il futuro, sento che c’è la propria impotenza, il loro essere inadatti, come qualcosa di irredimibile. Forse è l’adolescenza, forse è stato così anche per noi, ho l’impressione – ma magari è il mio sguardo dimentico – che oggi sia più radicale. Non c’è modo di uscire dalla propria inettitudine alla vita.
GPC: È così. Se parliamo di futuro bisogna pensare che per loro il futuro è domenica. Sarò capace, domenica, di fare quel che non ho fatto? Se non sono capace sono inadeguato alla vita: mi ritiro, mi taglio, mi ammalo. Risolvono così l’inadeguatezza. Se però si accetta che al posto del padre siede il gruppo e che è il gruppo che decide cosa è importante o meno – esser bello? aver successo? occuparsi del pianeta? – il pensiero del gruppo può essere usato per accendere l’interesse, la vocazione. Il valore personale dell’insegnante è avere questo tesoro pazzesco di informazioni sul passato da trasmettere, ma parla del passato.

AS: Ma un po’ ci si illude che nel passato si trovi qualcosa di sé, in fondo mi pare che dire il passato sia trovare tracce, rendere complessa l’inadeguatezza, svelare che è fatto antico.
GPC: Non è semplice con gli adolescenti che ci troviamo davanti oggi. Quello che li attacca non è il vecchio e amabilissimo Super-Io, non è la legge morale, il parroco, il dovere. Il tema sono gli ideali della società dei consumi: la vergogna produce un sentimento di inadeguatezza irreparabile, crudele, non è come la colpa, che si ripara con la confessione. Chi è inadatto deve solo vergognarsi e scomparire, è più grave. Come fare a valorizzarli a fronte di esperienze personali mortificanti? Sono marginali, non riescono a essere popolari. Vivono in un cono d’ombra. Riuscire a tirarli fuori da tutto questo non è semplice: bisogna valorizzare la loro età, la loro generazione, la loro sottocultura. Non è impossibile, non è peggiore delle altre, ma è un compito difficili e bisogna fare attenzione; molti docenti amici, di grande volontà, rischiano di trasformare la scuola in un servizio: ma se la scuola è un servizio hai dei clienti e devi soddisfarne le esigenze, e dunque è finita l’educazione. I ragazzi oggi sono più vicini al disprezzo che all’aggressività. Una volta al docente disobbedivano, oggi lo disprezzano: non gliene frega niente. Quello che non riescono a fare è davvero indossare il ruolo di studente e restituire alla scuola un valore istituzionale ed etico. Sono in classe ma, anche nelle mura dell’aula, restano adolescenti e non studenti. Hai voglia tirarli dalla parte della cultura e della ricerca! A un adolescente non interessa, interessa a chi è entrato nel ruolo di studente, ma non è così scontato che questo accada. Bisognerebbe rendere il ruolo di studente molto accattivante, farne non solo un fatto di merito e votazione, ma promuovere ingegno, capacità, motivazione. Del resto gli allievi che portiamo avanti nei nostri studi sono persone ingegnose, creative, anche se – secondo me – con una coscienza sindacale esagerata! Ma è anche giusto, certo, fatto sta che spesso mi trovo da solo a lavorare e loro alle cinque sono andati a casa. Io ero l’ultimo a spegnere la luce quando c’era il Professore e ora accade lo stesso, sono sempre l’ultimo a uscire: sono il Professore e spengo la luce!

Ripartiamo da salute e cura

Da Note di Pastorale Giovanile

di Silvia Landra –  Psichiatra e responsabile della formazione presso la Casa della carità di Milano

Per lo meno da una prospettiva lombarda, l’esperienza della pandemia ci ha mostrato come paghiamo duramente le conseguenze di un’organizzazione sociosanitaria da tempo sbilanciata su eccellenze ed emergenze, e invece assai meno attenta a universalità e continuità delle cure a fronte di condizioni di malessere prolungate o invalidanti e di grave emarginazione. Sulla base dell’esperienza di questi mesi appare più condiviso quanto dicevamo da tempo, e cioè che la salute deve essere un criterio che guida e orienta le scelte programmatiche, non ultime quelle economiche, con riferimento all’uso del territorio e alle forme di scambio praticate nell’ambito della collettività. Attraverso la prospettiva della salute si evidenziano bisogni dei singoli e dei diversi gruppi sociali e si possono valorizzare le risorse comunitarie reali e potenziali, pubbliche e private, formali e informali.

Nella sua accezione di benessere globale del singolo e della comunità, la salute non è una merce da acquistare in un centro specializzato, ma un bene comune, qualcosa in cui è in gioco la ragion d’essere della comunità. Così, non può esserci un solo luogo a cui fare riferimento per la realizzazione del benessere di ciascuno, perché la salute, nella concezione dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) implica una molteplicità di dimensioni: ambiente, benessere fisico, psichico e spirituale, autonomia economica, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, relazioni sociali, sicurezza, ecc. La salute non è solo e tanto una questione individuale, ma una costruzione sociale, un bene da perseguire socialmente, l’esito di un preciso disegno di governo delle comunità. Per questo è un banco di prova per un rinnovato esercizio della politica, che la assuma come riferimento primario della propria azione, senza distinzioni di provenienza geografica, censo, genere, livello di istruzione, abilità.

In particolare, dare attuazione a questa idea di salute richiede la riorganizzazione della cura e lo sviluppo di un’azione politica, ecologica e solidale, che conduca a superare la cultura dello scarto, lo scandalo delle discariche fisiche e umane disseminate nel pianeta cui si continua a rispondere in termini esclusivamente assistenziali e riparativi. Non pensiamo solo a quei luoghi che sono diventati un esempio di degrado a livello globale, come le periferie delle megalopoli del Terzo mondo, ma anche a contesti istituzionali delle nostre città, persino puliti e organizzati, che tuttavia possono raccogliere la tendenza espulsiva di una collettività che estromette e dimentica alcuni dei suoi membri, al punto da non rendersi conto per tempo del rischio di mescolare soggetti sani e soggetti contagiati. È quello che è successo, in Lombardia e probabilmente non solo, a molti anziani o malati non autosufficienti con la cosiddetta “strage nelle RSA”.

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“Giovani, Chiesa e comune umanità”: il nuovo libro di Salvatore Currò

Dal sito di Note di Pastorale Giovanile, riportiamo la segnalazione del nuovo  libro di Salvatore Currò, “Giovani, Chiesa e comune umanità”.

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Il libro
Il percorso proposto, uno anche se si concretizza in percorsi diversificati («percorsi di teologia pratica sulla conversione pastorale»), è una scommessa e, insieme, una via da percorrere e una trasformazione da operare. Questa è, infatti, l’originalità del cammino proposto: trovare una base sufficientemente ampia nella quale tutti possano ritrovarsi (le «relazioni» e la «sincerità dell’umano»: I e II parte) e passarla al crogiolo della sua trasformazione per opera di Dio stesso (una pratica alla «misura della rivelazione» e la «conversione come trasfigurazione»: III e IV parte). L’opera è in sé stessa un itinerario, ma anche un cambio di paradigma. Quando si parla di educazione cristiana, di catechesi, di Scrittura o di Rivelazione, è sempre per situarsi nell’uomo e orientarsi verso Dio. La proposta prende le distanze da ogni ottimismo ingenuo (di chi pensa, ad es., che l’umanità sarebbe sempre in ricerca della divinità) e si misura con ciò che molti nostri contemporanei ormai sperimentano: la possibilità di fare a meno di Dio, e il fatto che non ci sarebbe più bisogno di invocarlo per vivere.
(Dalla Prefazione di Emmanuel Falque)

L’Autore
Salvatore Currò è religioso della Congregazione di San Giuseppe (Giuseppini del Murialdo). È docente e Direttore dell’Istituto di Teologia Pastorale dell’Università Pontificia Salesiana di Roma. Insegna anche all’Istituto Filosofico-Teologico San Pietro di Viterbo, di cui è stato Preside. È stato Presidente dell’Associazione Italiana Catecheti (AICA) e fa parte del Direttivo dell’Équipe Europea Catecheti (EEC). Ha partecipato, in qualità di esperto, al Sinodo dei Vescovi su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale” (2018). È Consigliere generale della sua Congregazione. Con Elledici ha pubblicato: Alterità e catechesi; Il senso umano del credere: pastorale dei giovani e sfida antropologica; Perché la Parola riprenda suono: considerazioni inattuali di catechetica.

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“Pedagogia salesiana dopo Don Bosco”: la ricerca di Michal Vojtáš

Sul sito di Note di Pastorale Giovanile sono pubblicati alcuni stralci della nuova ricerca sulla pedagogia salesiana dopo Don Bosco di don Michal Vojtáš , pubblicato dalla casa editrice LAS 2021.

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La pedagogia salesiana sviluppa riflessioni che superano la ricostruzione storica dei contesti, delle esperienze e delle visioni originarie di don Bosco sull’educazione. La ricerca di Michal Vojtáš pubblicata in questo volume, proseguendo su tale traiettoria, studia primariamente le formulazioni pedagogiche delle generazioni salesiane successive e, a livello di metodo, tenta di superare la sterilità delle pure ricostruzioni documentaristiche con un confronto sincronico e diacronico tra gli autori.

L’intenzione di connettere don Bosco con le sfide educative di oggi passa per il vissuto delle diverse epoche con i loro differenti modi di pensare. Queste mentalità rinforzano alcune nuove idee pedagogiche omettendone delle altre, preferiscono alcune modalità di azione, sviluppano delle riflessioni, alcune profetiche e coraggiose, altre piuttosto piegate alla mentalità corrente o a soluzioni di emergenza.

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Pensaci bene, pensati bene!

Dalla rubrica “16 anni, mestieri di vivere” di NPG, un articolo di Giorgia Cona, giovane studentessa dell’I.S. Majorana-Arcoleo di Caltagirone.

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Cogito ergo sum: “Penso e quindi esisto”. Queste parole di Cartesio, se decontestualizzate, hanno la capacità di essere molto attuali. Cosa intendo?
Noi ragazzi siamo invasi da dubbi esistenziali come “ho veri amici?”, “appaio alla gente come davvero sono o traspare altro di me?”, “sto facendo la cosa giusta per me?”, “cosa ne sarà del mio futuro ?”, ma soprattutto “chi sono?”.
Non credo che qualcuno riuscirà mai a trovare soluzione a tali questioni, ma forse Cartesio una strada la suggerisce. Calcutta in “Blue Jeans” canta che «delle volte per vederci chiaro, serve stare al buio, e per essere davvero sicuri, occorre avere un dubbio».
Sembra quasi un ossimoro quello di raggiungere sicurezza passando per le incertezze. Eppure puoi dubitare di tutto, ma ci sarà per forza qualcosa che non sarà scalfito da questo dubitare “metodologico” ovvero la tua esistenza e quindi l’esistenza, non tanto di te come corpo, ma dei tuoi pensieri. Una cosa è certa, e su questa devi fondare tutto il resto attorno, come dice Cartesio. Ciò che hai nella tua testa, in quanto essere pensante, quelle idee, quei contenuti mentali, quello sei tu. Allora apriti ad esperienze nuove e piene di vita, confrontati con altri, alimentati con l’arte, la cultura, la danza, la letteratura, la musica; rendi i tuoi pensieri forti, unici, indipendenti e liberi.
Trovare certezza in questo, porta a trovare delle sicurezze che ti permettono di conoscerti e di capire ciò di cui hai bisogno. Sei tu e solo tu con i tuoi pensieri e, se ti trovi nella confusione, in un mare di incertezze a cui non sembra esserci soluzione, riparti da lì, riparti da te. Pensa a ciò che è conforme con il tuo pensiero, ciò che è compatibile con te stesso, allora troverai le prime certezze. Questo genere di consapevolezza non è assolutamente facile da conseguire, ma è ciò che ti aiuta a rispondere a tutte quelle domande di cui ogni persona inizialmente non ha trovato risposta. Sei i tuoi pensieri: rispettali, curali, amali, perché solo questi ti porteranno lontano e grideranno al mondo chi sei.

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Lettere europee: Europa o digitale?

di Renato Cursi

Meglio scrivere di propria mano al termine di un lungo discernimento o affidarsi ad un algoritmo professionale, dopo aver scelto qualche parola chiave e un obiettivo di fondo? Lo scopriremo solo leggendo. Certo, sembra improbabile che un algoritmo esegua il compito di redigere una riflessione sulle sfide digitali che ci troviamo a vivere oggi come umanità intera e, nel nostro caso, in Europa, ponendo una domanda del genere in apertura, sollevando sin dall’inizio dubbi sull’autenticità dell’autore del testo stesso.
Il solo fatto che una tale domanda sia oggi possibile ci mostra la complessità della condizione che ci troviamo a vivere. Non viviamo più solo uno stato di connessione intermittente (online/offline), bensì una condizione “onlife”, come descrive il filosofo Luciano Floridi. Vale a dire, una vita in continua interazione tra la realtà materiale e analogica e la realtà virtuale e interattiva. “Figitale”, direbbero altri, anche se in Italia non è ancora diffuso questo neologismo, frutto di una crasi volta a sottolineare la continua interazione tra realtà fisica e digitale.
Una condizione instauratasi progressivamente nel corso degli ultimi tre decenni, ma sicuramente amplificata dalla pandemia di covid-19. Nella definizione di “onlife” illustrata sopra, la parola chiave è l’aggettivo “continua”. Il riferimento alla (quasi?) totale assenza di interruzioni nella nostra interazione tra realtà materiale e analogica, da una parte, e realtà virtuale e interattiva, dall’altra. Questa continuità si è consolidata con l’ingresso nelle nostre vite dei dispositivi tecnologici portatili, nonché con il loro rendersi più potenti e più indispensabili. Le limitazioni all’interazione fisica tra persone, rese necessarie dalle misure di contrasto alla diffusione del virus, hanno quindi amplificato questo processo già da tempo in atto.
Alla dipendenza da schermi e al mal di riunioni e lezioni digitali, nei giovani sembrano accompagnarsi, tra le altre, due tendenze apparentemente contraddittorie. Da una parte, si avverte un certo fatalismo, un senso di impotenza e passività nei confronti di tutto ciò che è o in qualche modo dipende dal digitale. D’altra parte, si intravede un affidamento fideistico agli strumenti offerti dalle tecnologie digitali per cercare le risposte a bisogni e aspirazioni di ogni tipo. La condizione espressa dalla prima tendenza è quella che viene definita “powerlessness by design”, cioè la condizione di chi si sente progettato all’impotenza, consapevole ma costretto alla condizione di ingranaggio o variabile trascurabile di un grande algoritmo o di un’intelligenza artificiale progettati da altri. La seconda tendenza assume varie forme, tra cui quella descritta dall’antropologo Yuval Noah Harari con il nome di “dataismo”. Questa visione del mondo, che riconosce negli algoritmi e nei dati le uniche fonti di autorità in grado di sintetizzare criteri capaci di fondare e orientare le scelte delle persone, nelle sue forme più estreme arriva a concepire l’intero universo come un flusso di dati e la vita stessa come un mero algoritmo biochimico.

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