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Comunità corresponsabili

Pubblichiamo il nuovo editoriale a firma di don Rossano Sala del numero di marzo/aprile di Note di Pastorale Giovanile.

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Dopo aver impostato l’anno 2024 con il primo editoriale puntato sull’identità missionaria ed evangelizzatrice della Chiesa e sulla conseguente identità discepolare e missionaria del cristiano[1], proviamo, rimanendo in continuità con quanto già detto, a fare un passo in avanti.
Concentriamo ora la nostra attenzione ora sulla forma relazionale della Chiesa che siamo chiamati a perseguire e sullo stile operativo che il cammino attuale ci chiede di assumere.
Sempre con l’intenzione di accompagnare il processo di preparazione alla seconda sessione del Sinodo universale sulla sinodalità, parto dalla Chiesa come comunità fraterna: qui siamo spinti a riscoprire un volto familiare e fraterno di Chiesa. Declino poi il tema dell’operatività concreta nella logica di una corresponsabilità missionaria.

Verso una riforma familiare e fraterna della Chiesa

Se guardiamo alla qualità relazionale media delle nostre comunità cristiane e alla loro capacità di accoglienza sentiamo che talvolta la fraternità stenta a decollare. “Tessere legami e costruire comunità”[2] non è esattamente il nostro forte, almeno di questi tempi! Quello della fatica della fraternità è un sintomo ecclesiale da non sottovalutare e su cui interrogarsi con coraggio e determinazione.
La tesi che rilancio qui ancora una volta – Repetita iuvant, dicevano i nostri antichi padri latini – è in sé molto semplice, quasi scontata: ogni tema sinodale è un sintomo ecclesiale. Fare un Sinodo universale sulla sinodalità – allo stesso modo di un Sinodo sulla regione panamazzonica, sui giovani, sulla famiglia, sulla nuova evangelizzazione o sulla parola di Dio, per citare solo i temi sinodali trattati negli ultimi 15 anni – è una vera e propria urgenza ecclesiale: non possiamo negare che viviamo una forte fatica relazionale interna ed esterna; che arranchiamo su alcuni fondamentali del dialogo e dell’ascolto; che assistiamo a una conflittualità e a una mancanza di rispetto che a volte ci fanno vergognare; che fatichiamo a vivere e lavorare insieme; che la fraternità stenta a emergere nonostante il desiderio sincero di molti. Abbiamo certo qualche bella “oasi di fraternità”, ma all’interno di uno spazio popolato da tanto individualismo.
Al di là di varie dichiarazioni di principio (la sinodalità come “teoria ecclesiale” innovativa), la prassi sinodale fatica a emergere (cioè mancano autentiche e durature esperienze di sinodalità sul campo). Il passaggio auspicato dal primato delle strutture a quello delle relazioni non si sta ancora realizzando, e in questo modo la Chiesa non riesce a lasciarsi dietro il suo volto freddo e burocratico, e nemmeno quello litigioso e oscuro. Tutti invece sentono il bisogno di vivere in una Chiesa più familiare e amichevole, intessuta di confidenza e buona relazioni, facendo vedere nei fatti che una comunità è prima di tutto una casa serena, ospitale e vivibile per tutti, nessuno escluso.
Eppure su questo il Vangelo è limpido e trasparente. Esso testimonia il primato di un “noi” che diventa forma specifica della testimonianza ecclesiale. È l’agape evangelica che si fa corpo nella relazione fraterna dei credenti, che nel Nuovo Testamento porta il nome di koinonia.
La koinonia è comunione plenaria con i fratelli che hanno accolto la salvezza, che sono entrati nel ritmo del discepolato e che sono chiamati alla medesima vocazione apostolica. L’amore reciproco pare essere la condizione di possibilità di ogni testimonianza che voglia proporsi in modo plausibile, perché un discepolato fraterno rimanda alla sua radice cristologica e rende sincero l’annuncio dell’agape di Dio: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, così siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato»[3]. Come dire: senza questa comunione tra di noi non vi è credibilità della nostra azione pastorale.
Il segno di riconoscimento dell’agape che viene da Dio non è un amore per Gesù e nemmeno un semplice amore per quelli di fuori, ma l’amore reciproco, perché propriamente è questo il “comandamento nuovo”, lasciato da Gesù nel momento centrale della sua vita: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri»[4]. L’amore fraterno appare il primo frutto dell’appropriazione della salvezza, quindi è la fonte e la radice della missione di annuncio dell’Evangelo di Dio: gli altri gesti della fede “testimoniale” avranno senso e saranno efficaci solo se avranno questo come fondamento. Lo splendore della vita cristiana si fa visibile e attraente proprio a partire dalla koinonia in atto così come è mirabilmente descritta nella vita della prima comunità cristiana[5].
Arriviamo a noi. I giovani, durante il cammino sinodale, in molti modi ci hanno sfidato sulla revisione della forma della Chiesa, chiedendoci di renderla sempre più fraterna e familiare. Questo ha prodotto, da una parte, la spinta verso la “sinodalità missionaria”, che ha messo le basi per l’attuale cammino sinodale; dall’altra ci sfida a livello locale a riconoscere che «l’esperienza comunitaria rimane essenziale per i giovani: se da una parte essi hanno “allergia alle istituzioni”, è altrettanto vero che sono alla ricerca di relazioni significative in “comunità autentiche” e di contatti personali con “testimoni luminosi e coerenti”»[6].
Nell’ascolto del popolo di Dio in vista del Sinodo sui giovani le cose erano per me assai chiare e spingevano in tale direzione. Basti, in questa sede, rileggere un numero sintetico dell’Instrumentum laboris sulla questione, che pone l’attenzione al legame tra la riscoperta dell’indole familiare della Chiesa e la sua stessa riforma:

Un’esperienza familiare di Chiesa
Uno degli esiti più fecondi emersi dalla rinnovata attenzione pastorale alla famiglia vissuta in questi ultimi anni è stata la riscoperta dell’indole familiare della Chiesa. L’affermazione che Chiesa e parrocchia sono «famiglia di famiglie» (cfr. Amoris laetitia, nn. 87.202) è forte e orientativa rispetto alla sua forma. Ci si riferisce a stili relazionali, dove la famiglia fa da matrice all’esperienza stessa della Chiesa; a modelli formativi di natura spirituale che toccano gli affetti, generano legami e convertono il cuore; a percorsi educativi che impegnano nella difficile ed entusiasmante arte dell’accompagnamento delle giovani generazioni e delle famiglie stesse; alla qualificazione delle celebrazioni, perché nella liturgia si manifesta lo stile di una Chiesa convocata da Dio per essere sua famiglia. Molte Conferenze Episcopali desiderano superare la difficoltà a vivere relazioni significative nella comunità cristiana e chiedono che il Sinodo offra elementi concreti in questa direzione. Una Conferenza Episcopale afferma che «nel bel mezzo della vita rumorosa e caotica molti giovani chiedono alla Chiesa di essere una casa spirituale». Aiutare i giovani a unificare la loro vita continuamente minacciata dall’incertezza, dalla frammentazione e dalla fragilità è oggi decisivo. Per molti giovani che vivono in famiglie fragili e disagiate, è importante che essi percepiscano la Chiesa come una vera famiglia in grado di “adottarli” come figli propri[7].

Ecco allora una prima serie di domande: stiamo lavorando nelle nostre comunità perché siano sempre più familiari e fraterne? Quali passi siamo chiamati a compiere perché esse siano sempre più una casa accogliente, in cui gli affetti e i legami siano vissuti con semplicità e letizia?

Alcune premesse e chiavi di lettura (del dossier “FARE. DISFARE. RIFARE L’ORATORIO?”)

Dal

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Stefano Guidi *

L’introduzione che apre questo dossier intende offrire – in premessa – la chiave di lettura dell’intero lavoro. Qui non intendiamo proporre soluzioni a buon mercato, rapide e sicure. Vorremmo invitare ad iniziare un percorso di rinnovamento della forma dell’oratorio che – includendo anche la dimensione immobiliare – lavora sul nucleo essenziale della sua proposta.
Tale introduzione tocca tre punti. Il primo richiama le ragioni che hanno guidato la realizzazione di questo dossier. Il secondo richiama la necessità di collocare la riflessione sulla struttura dell’oratorio all’interno di una revisione sostanziale del progetto educativo dell’oratorio, che prende le mosse dall’incontro con il destinatario e dallo studio del contesto territoriale. Il terzo punto accenna molto brevemente ai criteri qualificanti del discernimento ecclesiale.

Sul primo punto è sufficiente dire questo: il dossier segna un iniziale passo esplicito di riflessione attorno ad un tema che agita e preoccupa molti. Non è forse un caso che la Rivista abbia deciso di affidare questa riflessione iniziale alle diocesi lombarde. Infatti, proprio l’oratorio lombardo rappresenta un caso interessante. Esso si presenta anche (soprattutto) esteriormente come un ambiente riconoscibile, codificato e strutturato. Strettamente connesso al vissuto sia della parrocchia che della comunità civile, e parte integrante della trama che costituisce il tessuto della comunità locale.
Vogliamo quindi aprire esplicitamente la riflessione sull’oratorio inteso come edificio e come struttura visibile, riconoscibile, identificabile. Questa scelta è mossa a sua volta da una constatazione che sta maturando da diversi anni. E cioè: che – sotto il profilo quantitativo – gli oratori lombardi siano sproporzionati e non sempre adeguati. Qualche parola di spiegazione e di approfondimento.
Sono sproporzionati sia rispetto alla popolazione giovanile della regione, sia rispetto alle modalità e ai tempi di socializzazione che questa generazione esprime, sia rispetto alla partecipazione alla vita della comunità religiosa locale che questa generazione pratica. Si avverte poi una certa sproporzione sia rispetto alle energie educative che la parrocchia riesce effettivamente a mettere a disposizione, non solo per l’attività gestionale, ma – punto assai più delicato – per l’attività progettuale, sia rispetto alle forze presbiterali, religiose e laiche effettivamente disponibili al servizio educativo. Precisiamo che questa riflessione si basa non solo o non tanto su sensazioni raccolte dal territorio e dagli operatori, ma più seriamente su studi e ricerche che la giustificano. Studi e ricerche che in parte sono già state svolte e in parte sono in fase di avvio. Va anche detto che la diffusione capillare impressionante degli oratori in Lombardia non risponde ad una logica di affluenza e di riempimento ma di proposta. L’oratorio è indubbiamente tra le espressioni più riuscite e longeve del cattolicesimo popolare nel territorio lombardo, espressione di una Chiesa che si pensa di tutti e per tutti, e che per questo propone a tutti l’esperienza elementare del Vangelo. Occorre cautela e prudenza rispetto all’istinto prevalente – anche tra gli addetti ai lavori – che talvolta tende a liquidare troppo frettolosamente questa modalità ecclesiale definendola come ormai del tutto superata.
Al senso di sproporzione (detto in una parola con una espressione rapida: sono troppi, e sono alternativamente pieni e vuoti) si aggiunge l’intuizione di una certa inadeguatezza. Sul piano specificamente spaziale, l’oratorio lombardo somma in un’unica sede almeno due tipologie di strutture: l’edificio scolastico e l’impianto sportivo. Di cui il primo – per necessità – esprime esplicitamente l’idea di una formazione catechistica statica, razionale e di stampo scolastico. Da fare in un’aula. Come a scuola. Il canone scolastico-sportivo ha avuto l’ovvio vantaggio di integrare con un certo successo altre dimensioni altrettanto costitutive dell’esperienza oratoriana: penso alle esperienze espressive e artistiche (quanti piccoli e grandi teatri praticamente presenti in ogni parrocchia e oratorio!) e a quella di socializzazione e ricreativa, fino ad integrare quella abitativa (le esperienze di vita comune dei giovani).
Questa forma di oratorio, pensato come dispositivo educativo integrato, con il suo impianto complessivo e articolato, ha risposto adeguatamente per decenni a molteplici esigenze educative, sia famigliari che sociali, e soprattutto ecclesiali. La continuità tra l’oratorio e la Chiesa, ossia tra la dimensione educativa-ricreativa e la dimensione religiosa personale e sociale, sembrava essere garantita anche dalla continuità spaziale. Se non sotto il profilo propriamente personale credente, almeno sotto il profilo della intuizione di senso soggiacente a tale esperienza.

* Direttore Fondazione diocesana per gli oratori milanesi; Coordinatore Oratori diocesi lombarde.

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Un anno per pensare

Editoriale del numero gennaio/febbraio 2024 di Note di Pastorale Giovanile.

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di don Rossano Sala

Il 2023 è passato molto velocemente. Per la pastorale giovanile certamente sarà ricordato per la Giornata Mondiale della Gioventù. Lisbona è stato un momento importante per la Chiesa tutta dopo la pandemia, perché ha segnato il passo verso un rilancio dell’esperienza di fede condivisa. La Chiesa può davvero essere una Chiesa di tutti e per tutti, come papa Francesco ha detto più volte durante quei giorni in terra lusitana.
La sfida della Giornata Mondiale della Gioventù è quella di mettere a frutto nel quotidiano quell’esperienza di fede attraverso scelte concrete e possibili di appartenenza e impegno come discepoli missionari del Signore Gesù nella propria Chiesa locale. Tutto nella GMG è predisposto perché si diventi sempre più discepoli e sempre meglio apostoli del Signore. Quell’esperienza va fatta fiorire e fruttificare.
Sappiamo che ciò non è scontato.
Per la Chiesa tutta poi c’è stato un momento importante di convocazione, quello della prima sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi dal tema Per una Chiesa sinodale. Comunione, partecipazione, missione. Abbiamo visto com’è andata: c’è stato il tempo per dialogare e ascoltarsi, con la partecipazione di diversi membri del popolo di Dio che hanno potuto portare il loro apporto al discernimento in atto. Abbiamo un Documento di sintesi votato dall’assemblea interessante, anche se ancora interlocutorio.
A questa prima sessione ne seguirà un’altra nell’ottobre del 2024, che certamente sarà chiamata a focalizzare meglio almeno alcune questioni e offrire su di esse orientamenti più puntuali e precisi. Certamente il tempo intermedio tra la prima e la seconda sessione – che è sostanzialmente quest’anno 2024 – non è un tempo vuoto. Sappiamo per esempio che il Concilio Vaticano II si è svolto in quattro sessioni e ha avuto quindi tre momenti intermedi molto fecondi: tempo di approfondimento teologico delle tematiche in discussione, tempo per il confronto tra le diverse parti in campo, tempo di sedimentazione e di preghiera rispetto ai compiti della Chiesa, tempo per fare proposte e per ascoltarsi reciprocamente.
Penso che il 2024 sia un anno di approfondimento ecclesiale, anche perché non ci sono all’orizzonte particolari eventi che in un certo senso potrebbero “disturbare” la pastorale ordinaria e il discernimento sinodale. È un tempo dedicato ad andare in profondità: ci vogliono attenzione e concentrazione, preghiera e studio, intimità e contemplazione. Si tratta di cogliere quali sono le vie verso cui il Signore ci vuole condurre per rimanere all’altezza della nostra chiamata ad essere luce del mondo e sale della terra.
Vorrei in questo editoriale di inizio anno soffermarmi su due aspetti che meritano attenzione specifica e approfondimento necessario. Li considero i due temi fondamentali per il presente e il futuro della Chiesa: il primo verte sull’identità della Chiesa, il secondo su quella del cristiano.

L’identità della Chiesa: missionaria ed evangelizzatrice

La prima, principale e forse l’unica parola dell’attuale pontificato consiste sostanzialmente nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. Per molti aspetti quanto è seguito a questo importante documento è un insieme di sviluppi coerenti, specificazioni particolari e realizzazioni più o meno complete di questa ispirazione di fondo, che rimane come scenario del pontificato e diapason permanente per ogni successivo passo e decisione.
Penso in maniera specifica al tema fondamentale della conversione missionaria e della svolta evangelizzatrice della Chiesa, che porta con sé ogni altra cosa, perché è uno stile di Chiesa che ne esprime la sua identità propria:

Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, “ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale”[1].

Il nucleo rovente di questa proposta affonda le sue radici nel Vangelo: uno ritrova se stesso proprio nel momento in cui perde se stesso attraverso il dono di se stesso. È proprio uscendo da se stessa che la Chiesa ritrova la sua identità più profonda. Di Gesù dicevano che era «fuori di sé»[2], ma se ci pensiamo bene questa affermazione coincide con la pienezza della sua identità, che è perfettamente decentrata e completamente radicata nel Padre suo. Gesù è se stesso solo nella relazione e nel legame con il suo Abbà, nel suo riceversi continuo. La dimensione estatica è quella che gli offre contenuto, sostanza e consistenza.
Solo uscendo da me stesso divento me stesso, questa è la verità del mio essere! Ecco il senso dell’invito fatto ai giovani in Christus vivit, quando vengono spinti a uscire da loro stessi per andare incontro agli altri: «Che tu possa vivere sempre più quella “estasi” che consiste nell’uscire da te stesso per cercare il bene degli altri, fino a dare la vita. Quando un incontro con Dio si chiama “estasi”, è perché ci tira fuori da noi stessi e ci eleva, catturati dall’amore e dalla bellezza di Dio»[3].
Nel tempo del narcisismo generalizzato – vero virus che contagia giovani e adulti, società civile ed ecclesiale, comunità religiose e istituzioni di ogni tipo – l’invito è, non semplicemente, a tirar fuori il meglio di sé, ma ad uscire da se stessi, abbandonando il proprio “io” egoistico e autoreferenziale. È doveroso pensare oggi all’educazione in questo senso: uscire da se stessi, più che tirar fuori il meglio da se stessi!
Tanti documenti cercano poi di realizzare questo nei diversi ambiti della vita della Chiesa. Faccio solo tre esempi, tra i tanti possibili. Primo, la Costituzione apostolica Veritatis gaudium sulle Università e le Facoltà ecclesiastiche. Lì si dice con chiarezza che il motore del rinnovamento nasce dalla necessità di «imprimere agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa “in uscita”»[4]. Secondo, la Costituzione apostolica Episcopalis communio sul Sinodo dei Vescovi, che con la medesima chiarezza afferma che

in un momento storico in cui la Chiesa si introduce in una nuova tappa evangelizzatrice, che le chiede di costituirsi in tutte le regioni della terra in uno “stato permanente di missione”, il Sinodo dei Vescovi è chiamato, come ogni altra istituzione ecclesiastica, a diventare sempre più un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. Soprattutto, come auspicava già il Concilio, è necessario che il Sinodo, nella consapevolezza che il compito di annunciare dappertutto nel mondo il Vangelo riguarda primariamente il Corpo episcopale, si impegni a promuovere con particolare sollecitudine l’attività missionaria, che è il dovere più alto e più sacro della Chiesa[5].

Infine, la Costituzione apostolica Praedicate Evangelium sulla riforma della curia romana, in cui si dice che «nel contesto della missionarietà della Chiesa si pone anche la riforma della Curia Romana» e che «questa nuova Costituzione apostolica si propone di meglio armonizzare l’esercizio odierno del servizio della Curia col cammino di evangelizzazione, che la Chiesa, soprattutto in questa stagione, sta vivendo»[6].
In tre ambiti strategici – quello della cultura, quello della sinodalità e quello dell’organizzazione della Curia Romana – è il principio della missione evangelizzatrice che ispira il rinnovamento, spinge alla conversione, propone i cambiamenti necessari. La teologia stessa, secondo Francesco, ha il compito di ripensarsi in ottica missionaria ed evangelizzatrice, perché «a una Chiesa sinodale, missionaria e “in uscita” non può che corrispondere una teologia “in uscita”»[7].
La prima grande domanda a cui rispondere sembra essere questa: quanto e in che modo ci stiamo impegnando per riscoprire l’identità missionaria della Chiesa e il suo compito prioritario, che è l’evangelizzazione?

L’identità del cristiano: discepolo e missionario

Per rimettere al centro il volto missionario della Chiesa e il suo compito essenziale, che è quello dell’evangelizzazione, bisogna che ci impegniamo con serietà nella riscoperta dell’identità propria del cristiano. In sintesi diciamo, con una formula sintetica: siamo “discepoli-missionari”, siamo “tutti discepoli, tutti missionari”, e tutto ciò a partire dalla piattaforma battesimale. Questo lo leggiamo a chiare lettere in un famoso passaggio dell’Evangelii gaudium:

In virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati[8].

Nella mia esperienza accademica e pastorale di questi ultimi anni vedo che l’accento sul binomio identitario del cristiano è tutto spostato verso la seconda parte. Ovvero si sottolinea con forza, ma a mio parere in forma spesso unilaterale, la dimensione missionaria dell’identità cristiana e si dimentica facilmente il lato del discepolato[9]. Il risultato è che manchiamo di profondità e non abbiamo una base solida per sostenere adeguatamente il nostro apostolato.
Penso che la trasformazione missionaria della Chiesa sarà un’illusione se non ripartiamo dal discepolato. L’identità del cristiano – come quella di Gesù – è prima di tutto filiale e quindi discepolare. Come Gesù è figlio e discepolo del Padre suo, così il cristiano lo è di Gesù. Egli rimane «il primo e il più grande evangelizzatore»[10] e quindi il modello a cui ispirarsi sempre di nuovo quando si tratta di ripartire o di dare slancio al proprio cammino di discepoli missionari.
Non possiamo pensare che la questione contemplativa – e anche quella dell’adorazione, su cui papa Francesco ha richiamato diverse volte l’attenzione proprio durante il cammino sinodale in atto – sia altro rispetto alla questione pastorale: è invece da ritenersi fondamentale che per essere efficaci animatori pastorali sia necessario prima essere degli autentici discepoli: è sempre dietro l’angolo il rischio di pensarsi apostoli del Signore senza prima essere suoi discepoli! Ecco perché è necessario uno spirito contemplativo: capace di rimanere ammirato davanti all’Evangelo, sempre stupito di fronte alle opere di Gesù e continuamente rapito dal suo stile unico. Contemplare insieme, seppur brevemente, il suo rapporto con il Padre, la sua vita nascosta a Nazareth e lo stile della sua missione ci offre elementi di rinnovamento sempre antichi e sempre nuovi.
Gesù è amico e confidente del Padre suo che è nei cieli. Il segreto profondo della vita di Gesù sta nel suo rapporto con il Padre, che egli chiama volentieri Abbà. Il punto di osservazione privilegiato, la chiave di volta decisiva, il centro prospettico strategico dei Vangeli è la relazione tra Gesù e il Padre. Spiega J. Ratzinger, introducendo il primo volume del suo Gesù di Nazareth, che

“Senza il radicamento in Dio la persona di Gesù rimane fuggevole, irreale e inspiegabile” (R. Schnackenburg). Questo è anche il punto di appoggio su cui si basa questo mio libro: considera Gesù a partire dalla sua comunione con il Padre. Questo è il vero centro della sua personalità. Senza questa comunione non si può capire niente e partendo da essa Egli si fa presente a noi anche oggi[11].

La relazione incomparabile di Gesù con il suo Abbà illumina e spiega la novità inaudita del suo insegnamento e il coinvolgimento dei discepoli, che propriamente saranno chiamati ad entrare anch’essi, per grazia, in questa filialità: figli nel Figlio. Non sarebbe possibile, eliminando questo legame o mettendolo in disparte, cogliere l’originalità di Gesù, che si può invece percepire in ogni pagina di Vangelo. Per questo Francesco ci invita con forza ad abbeverarci alla fonte della Parola di Dio, perché

tutta l’evangelizzazione è fondata su di essa, ascoltata, meditata, vissuta, celebrata e testimoniata. La Sacra Scrittura è fonte dell’evangelizzazione. Pertanto, bisogna formarsi continuamente all’ascolto della Parola. La Chiesa non evangelizza se non si lascia continuamente evangelizzare. È indispensabile che la Parola di Dio “diventi sempre più il cuore di ogni attività ecclesiale”.
L’evangelizzazione richiede la familiarità con la Parola di Dio e questo esige che le diocesi, le parrocchie e tutte le aggregazioni cattoliche propongano uno studio serio e perseverante della Bibbia, come pure ne promuovano la lettura orante personale e comunitaria. Noi non cerchiamo brancolando nel buio, né dobbiamo attendere che Dio ci rivolga la parola, perché realmente “Dio ha parlato, non è più il grande sconosciuto, ma ha mostrato se stesso”. Accogliamo il sublime tesoro della Parola rivelata[12].

Per essere missionari bisogna prima mettersi alla scuola del Signore Gesù: è questo in fondo il senso proprio del discepolato! La missione cristiana non s’improvvisa e senza un’adeguata contemplazione e formazione non siamo altro che dei “dilettanti allo sbaraglio”, missionari senza radicamento in Dio, annunciatori di qualcosa che non abbiamo accolto né assimilato!
L’evangelizzazione – che viene concretizzata storicamente dall’azione pastorale – non è solo in continuità storica rispetto alla rivelazione, ma è generata da quest’ultima. La rivelazione non è solo il suo inizio contingente, ma la sua origine permanente. Ciò significa che non è mai possibile essere missionari separandosi dallo stile, dal metodo e dai contenuti della rivelazione cristologica. Per questo la pastorale, se non affonda le sue radici nella spiritualità e non si sostiene al tronco della formazione, è un albero che non potrà mai portare frutto.
Ecco allora una seconda domanda importante che condivido con i lettori, e da cui invito a partire in questo anno 2024: siamo una comunità che si lascia evangelizzare, prima di divenire evangelizzatrice? Oppure presumiamo di essere missionari senza essere discepoli, ovvero senza un serio cammino di contemplazione, conversione e formazione?

NOTE

[1] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 27.
[2] Cfr. Mc 3,21; Gv 10,20.
[3] Francesco, Esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit del 25 marzo 2019, nn. 163-164.
[4] Francesco, Costituzione apostolica Veritatis gaudium del 27 dicembre 2017, n. 3.
[5] Francesco, Costituzione apostolica Episcopalis communio del 15 settembre 2018, n. 1.
[6] Francesco, Costituzione apostolica Praedicate Evangelium del 27 dicembre 2022, n. 3.
[7] Francesco, Lettera apostolica in forma di “motu proprio” Ad theologiam promovendam del 1 novembre 2023. «Si tratta del “timbro” pastorale che la teologia nel suo insieme, e non solo in un suo ambito peculiare, deve assumere: senza contrapporre teoria e pratica, la riflessione teologica è sollecitata a svilupparsi con un metodo induttivo, che parta dai diversi contesti e dalle concrete situazioni in cui i popoli sono inseriti, lasciandosi interpellare seriamente dalla realtà, per divenire discernimento dei “segni dei tempi” nell’annuncio dell’evento salvifico del Dio-agape, comunicatosi in Gesù Cristo» (ivi).
[8] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 120.
[9] Come esempio recente ci basti vedere, anche solo a livello statistico, come nella Relazione di sintesi della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi al termine della Prima Sessione (4-29 ottobre 2023), compaiano per circa 110 volte i termini che si riferiscono alla missione e invece meno di 15 volte quelli che si riferiscono al discepolato.
[10] Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, dell’8 dicembre 1975, n. 9; Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 12.
[11] J. Ratzinger, Gesù di Nazareth, Rizzoli, Milano 2007, 10.
[12] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, nn. 174.175.

 

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Note di Pastorale Giovanile: le nuove rubriche 2024

Un primo assaggio delle nuove rubriche per il 2024 di Note di Pastorale Giovanile.

I sogni dei giovani per una Chiesa sinodale
Luigi Amendolagine

Come ci ha insegnato il Sinodo del 2018, la parola dei giovani è anche oggi, all’interno della Chiesa, l’opportunità di mettersi in ascolto di Dio, per rinnovare le pratiche pastorali ed essere all’altezza dei cambiamenti che lo Spirito chiede alla Sposa di Cristo. Affermare che i giovani sono un “luogo teologico” ci impegna, anche dal punto di vista scientifico, ad ascoltare la voce dei giovani e a riflettere sulle loro parole.
Nella rubrica “I sogni dei giovani per una Chiesa sinodale” nei primi tre articoli presenterò in maniera sintetica quello che i giovani del Sinodo, in particolare della Riunione presinodale, hanno voluto comunicare ai padri sinodali, la loro visione di Chiesa, i loro desideri, le loro aspettative. Negli altri cinque articoli invece proverò, sulla base delle provocazioni offerte dai giovani della Riunione, ad immaginare la necessaria conversione ecclesiale che possa consentire oggi alla Chiesa di essere autenticamente a servizio con e per i giovani.
Ecco il percorso che faremo insieme:

1. Sfide e opportunità dei giovani nel mondo di oggi
2. Fede e vocazione, discernimento e accompagnamento
3. L’azione educativa e pastorale della Chiesa
4. Conversione educativa della nostra azione ecclesiale
5. Conversione evangelizzatrice della nostra azione educativa
6. Conversione sinodale della nostra azione evangelizzatrice
7. Conversione vocazionale della nostra azione sinodale
8. Conversione spirituale della nostra azione vocazionale

Strumenti e metodi per formare ancora
Gigi Cotichella – Agoformazione

Il tema della formazione è quanto mai particolare nel nostro mondo. Tutto in fondo, è formativo. Eppure, sembra sempre più difficile trovare studi, appunti, strumenti sulla formazione proprio per il nostro mondo.
Vogliamo provarci noi, con un taglio esistenziale che metta insieme teoria e prassi, riflessione e azione, in modo che ognuno prenda quello che gli serve in base a ciò di cui ha bisogno.

1. La formazione nella pastorale
2. Formare con il gioco e con i giochi
3. Formare con le immagini
4. Formare con la scrittura
5. Formare con le arti sceniche
6. Formare con la manualità
7. Formare con i film e con le serie
8. Formare adolescenti, formare giovani

Saper essere: le competenze trasversali nei contesti educativi
A cura di Alessandra Augelli

In un incrocio tra cosiddette soft skills e life skills, verranno analizzate le capacità dell’educatore (e del “pastore”) nell’incontro e cura delle persone e delle situazioni usuali e quotidiane della vita.

0. La trama invisibile: le competenze trasversali nella formazione
1. Consapevolezza di sé – fiducia in se stessi
2. Gestione delle emozioni
3. Gestione dello stress
4. Comunicazione efficace e ascolto attivo
5. Empatia
6. Creatività e pensiero divergente – flessibilità
7. Pensiero critico – Spirito di iniziativa – leadership
8. Decision making – autonomia
9. Problem solving – Pianificare e organizzare
10. Riflessività, apertura alla ricerca, apprendimento in itinere
11. Valutare e riconoscere le competenze trasversali in oratorio e nelle comunità pastorali

Per una “buona” politica
A cura del Gruppo “Strade e pensieri per il domani”
(giovani di Como, Milano, Valtellina) *

0. Formarsi alla politica
1. Riscattiamo la politica
2. Leggere la complessità
3. Pensare globale e agire locale
4. Sguardo dal basso
5. Dialogo e non violenza
6. Sviluppo sostenibile
7. Informazione pulita

* Autori del libro È ancora possibile una buona politica? Stili e obiettivi (Paoline, 2023)

Ricchezza e problematicità dell’umano nella letteratura contemporanea
Giuseppe Savagnone

Da sempre la letteratura è uno specchio significativo della ricchezza e della problematicità della vita umana.
Ed è sotto questo profilo, piuttosto che dal punto di vista meramente estetico, che noi ci accosteremo ad alcune delle opere letterarie che ci sembrano particolarmente significative per il nostro tempo. Il nostro tentativo sarà, in primo luogo, di comprendere meglio, attraverso di esse, noi stessi, la nostra vita.
Perciò nello sceglierle non ci ha guidato altro criterio che la loro capacità parlare della nostra esperienza di uomini e donne di questo tempo e di illuminarne il significato, nella fiducia che in questo specchio possiamo comprendere un po’ meglio di ciò che siamo e viviamo.
– Cominceremo con un romanzo che ha avuta un enorme successo alla fine del Novecento e che si presenta come un “manifesto” dell’epoca post-moderna di cui siamo protagonisti, L’insostenibile leggerezza dell’essere, di Milan Kundera.
– Passeremo poi a un’opera del tutto diversa, Il mondo nuovo, di Aldous Huxley, che, scritto nel 1932, costituisce una straordinaria profezia del volto che la nostra società ha assunto.
– Continueremo con un romanzo che risale alla fine dell’Ottocento, Delitto e castigo, il cui autore, Fëdor Dostoevskij, è unanimemente considerato, oltre che uno dei massimi geni della storia della letteratura mondiale, un anticipatore dei problemi e della sensibilità della nostra epoca attuale.
– Saranno poi le vostre reazioni a guidarci nella scelta dei testi successivi. Per adesso, buona lettura.

 

(prosegue)
Abitare la Parola ‒ incontrare Gesù

Guido Benzi

Desideriamo indagare, attraverso il Vangelo, cosa significa un autentico «incontro con Cristo»; seguiremo dunque Gesù e analizzeremo il suo stile, il suo modo di incontrare diversi tipi di persone, mescolandoci tra di loro per poter così fare anche noi il «nostro» incontro con Lui.

1. Giovanni il Battista incontra Gesù (Gv 1,19-36)
2. Andrea, Pietro, Filippo e Natanaele incontrano Gesù (Gv 1,35-51)
3. Nicodemo incontra Gesù (Gv 3,1-21)
4. La samaritana incontra Gesù (Gv 4,1-30)
5. Il funzionario del re ed il suo bambino incontrano Gesù (Gv 4,46-54)
6. Il paralitico incontra Gesù (Gv 5,1-18)
7. La folla incontra Gesù (Gv 6,1-15)
8. L’adultera incontra Gesù (Gv 8,1-11)


(prosegue)
Pastorale giovanile come apprendistato alla vita cristiana

Marcello Scarpa

Viviamo un tempo di rapide trasformazioni culturali, sociali, mediatiche, un cambiamento d’epoca segnato dalla fine del cristianesimo “sociologico”, dal passaggio da un cristianesimo di “tradizione” a uno di “convinzione”. La famiglia, la scuola e la società non sono più il grembo generatore della fede dei ragazzi; i giovani, anche se hanno frequentato i percorsi d’iniziazione cristiana, non conoscono più i codici linguistici della fede, vivono un analfabetismo religioso sproporzionato rispetto al tempo passato al catechismo e agli anni di formazione.
Consapevoli che qualsiasi proposta pastorale non può mai essere completa ed esaustiva, nella rubrica si proporrà un percorso di re-iniziazione dei giovani alla fede cristiana che si articola in otto punti. Dopo un primo numero d’introduzione al tema, si lascia spazio alle parole di papa Francesco che “annunciano” la possibilità di una vita diversa, perché ispirata dal Vangelo. Nei numeri successivi proporremo alcune esperienze di vita cristiana che ruotano intorno

– alla Scrittura
– al linguaggio liturgico
– a quello della carità
– della custodia del creato
– alle responsabilità della vita adulta
– e della missione

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Presentazione della rubrica “Ricchezza e problematicità dell’umano nella letteratura contemporanea”

Da Note di Pastorale Giovanile di dicembre.

***

di Giuseppe Savagnone

Da sempre la letteratura è uno specchio significativo della ricchezza e della problematicità della vita umana.
Naturalmente non è solo questo. In essa si esprime una dimensione estetica che la collega all’esperienza sempre nuova della bellezza e della creatività artistica. Ciò che accomuna le diverse forme letterarie – dal teatro, alla poesia, al romanzo – è la forza creatrice della parola che evoca dal nulla stati d’animo, personaggi, eventi, facendo acquistare loro una esistenza diversa, ma non meno reale, di quella che hanno gli esseri della natura.
Se la bellezza è «lo splendore dell’essere», come pensavano i medievali, la parola ha fin dalle origini dell’universo uno stretto rapporto con la sua luminosità. Nel racconto della Genesi la prima parola di Dio risuona nelle tenebre: «Sia la luce!», dice il Creatore. «E la luce fu» (Gn 1,3). «Solo nella creazione della luce Dio comincia a parlare» (H. G. Gadamer). E la sua Parola illumina il mondo e lo riempie di bellezza
Ma, grazie alla luce, si manifesta ciò che è nascosto. La parola umana, riflesso creato del Verbo divino, ha una relazione, perciò, oltre che con la bellezza, anche con la verità, in modo particolare con quella del soggetto che, immagine di Dio, in essa “dice” sempre, col mondo, innanzitutto se stesso.
Nella letteratura, evidentemente, ciò avviene in modo molto diverso che nella filosofia o nelle scienze umane. In un romanzo, in un testo teatrale, in una poesia, non si dovrà mai cercare una mera elaborazione concettuale. L’opera d’arte dev’essere valutata innanzi tutto sotto il profilo della bellezza. Ma, proprio attraverso la sua bellezza, essa è in grado di mettere in luce le profondità dell’anima umana, le domande che la inquietano, le vette di grandezza e gli abissi di miseria che la caratterizzano.
Ed è sotto questo profilo, piuttosto che dal punto di vista meramente estetico, che noi ci accosteremo ad alcune delle opere letterarie che ci sembrano particolarmente significative per il nostro tempo. Il nostro tentativo sarà, in primo luogo, di comprendere meglio, attraverso di esse, noi stessi, la nostra vita.
Perciò nello sceglierle non ci ha guidato altro criterio che la loro capacità parlare della nostra esperienza di uomini e donne di questo tempo e di illuminarne il significato, nella fiducia che in questo specchio possiamo comprendere un po’ meglio ciò che siamo e viviamo.
Cominceremo con un romanzo che ha avuta un enorme successo alla fine del Novecento e che si presenta come un “manifesto” dell’epoca post-moderna di cui siamo protagonisti, L’insostenibile leggerezza dell’essere, di Milan Kundera.
Passeremo poi a un’opera del tutto diversa, Il mondo nuovo, di Aldous Huxley, che, scritto nel 1932, costituisce una straordinaria profezia del volto che la nostra società ha assunto.
Continueremo con un romanzo che risale alla fine dell’Ottocento, Delitto e castigo, il cui autore, Fëdor Dostoevskij, è unanimemente considerato, oltre che uno dei massimi geni della storia della letteratura mondiale, un anticipatore dei problemi e della sensibilità della nostra epoca attuale.
Saranno poi le vostre reazioni a guidarci nella scelta dei testi successivi. Per adesso, buona lettura.

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Oratorio, una luce nel quotidiano Storia di Sofia (e anche mia)

Dalla rubrica “Ritratti di adolescenti” di Note di Pastorale Giovanile.

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di Maria Gloria Assenza *

“Beatus qui invenit amicum verum”, vorrei cominciare così, con un tocco quel latino che sto studiando adesso all’Università, la mia testimonianza, che spero possa essere – per te che leggi – stimolo di speranza e di consapevolezza che per ognuno di noi c’è un progetto, che giorno dopo giorno si costruisce grazie ai segni che Dio dona attraverso gli incontri. È davvero la mia esperienza, da un anno a questa parte, per cui non ho mai smesso di ringraziarLo per avermi aperto il cuore all’incontro con il mondo salesiano. In realtà, sin da piccola ho frequentato l’istituto, avendo fatto lì la scuola materna, crescendo però mi sono allontanata, in inverno non frequentavo mai l’oratorio poiché non sentendomi motivata, preferivo dedicarmi ad altro. Eppure, mi domandavo spesso cosa spingesse gli altri a donare parte del loro tempo per i piccoli e soprattutto mi stupiva il fatto che ci tenessero così tanto. Fin quando arriva luglio del 2022: ammetto che d’estate, finita la scuola, ho sempre dato un aiuto, ma quella estate aveva un sapore diverso. Cominciavo in effetti a vedere i primi segni, ad avere vicino determinati volti che sarebbero diventati parte essenziale della mia vita.
Lo racconto in breve. Accade che la nostra coordinatrice è in dolce attesa e noi animatori più grandi, tra diciassette e diciotto anni, capiamo che è giunto il momento di divenire più responsabili, poiché se non portiamo avanti noi la realtà, questa rischia di spegnersi. Così cominciamo a trascorrere ogni pomeriggio in oratorio a immagnare, progettare e preparare le giornate di grest; e al termine di ogni giorno, notavo che il legame in questo piccolo gruppo di animatori si intensificava. Vedevo in tutti una luce, una voglia di mettersi al servizio che mi meravigliava sempre di più e non lo davo affatto per scontato, visti tutti i giudizi “autorevoli” sul mondo giovanile.
All’interno di questo gruppo c’era una ragazza, Sofia, animatrice dal 2017, che aveva qualcosa di speciale, un amore verso l’oratorio che non mi riuscivo a spiegare, e proprio lei qualche anno prima mi aveva suscitato quelle domande. Decido allora di avvicinarmi, con la mia usuale timidezza, ma in realtà è come se lei mi stesse aspettando da sempre, poiché sin dal primo momento ho sentito che la nostra amicizia andava oltre le domande e le risposte del cuore, ma avesse origine da qualcosa più grande… probabilmente don Bosco ma forse anche qualcosa più su… Ma ciò che ancor più mi suscitava gratitudine era aver trovato qualcuno della mia stessa età, che avrebbe condiviso i travagli e le speranze della vita di un giovane. Piano piano procediamo nella nostra conoscenza reciproca, fin quando arriva un giorno – che oggi ci piace definire l’inizio della nostra amicizia – in cui io confido a lei una mia nascosta fragilità… e mentre temevo di deluderla e di segnare così la fine dell’amicizia, proprio in quel momento vedo davanti a me un cuore sciogliersi e un volto bagnarsi. Così capisco davvero il senso di “beato chi trova un amico vero”, come dicevo all’inizio. Avevo trovato una persona semplice ma di un cuore così grande, che non immaginavo possibile. E da quel giorno non ha mai smesso di essere presente nella mia vita, di sostenermi e aiutarmi. La mia “confessione” ha preceduto un pellegrinaggio che avremmo fatto a Torino ad agosto del 2022. Questo è stata la svolta per entrambe. Sia per la bella scoperta del carisma salesiano, quello a cui ci ispiriamo nell’oratorio e con i ragazzi, che una scoperta ancora più profonda e vera di lei. Ricordo che – sedute nel gradino dell’urna di don Bosco – mi ha parlato di sé e io l’ho accolta (protetta?) con quei pochi strumenti che possedevo: l’abbraccio accogliente, il sorriso, il cuore. Qui finalmente ricevo la risposta alle domande che mi aveva suscitato al tempo, ciò che in fondo l’aveva sempre spinta a continuare questo cammino. E cioè che l’oratorio per lei è sempre stato famiglia, luogo di relazioni sane, dove si è sempre sentita accettata, senza giudizi e pregiudizi. Ama definirlo, “il faro della sua esistenza”. Luogo dove ha ritrovato se stessa, dove ha scoperto talenti che non credeva di avere. In ogni tappa della sua vita è sempre stato presente e, in modo particolare, ricorda un avvenimento, risalente al 2018, dove per la prima volta ha sperimentato il significato concreto dell’amore, grazie al dono di una giovane suora, che in un momento non semplice della sua vita le è rimasta vicino prendendosi cura.
Ma all’inizio di questo pellegrinaggio, eravamo completamente ignare di ciò che sarebbe accaduto solo un mese dopo. Torino è stato per noi il centro del cambiamento, perché dopo quella tappa abbiamo compreso che in fondo dietro l’oratorio c’è qualcosa di più profondo, di vero, o meglio Qualcuno, che poi è il vero centro. Grazie a questo viaggio Sofia cambia prospettiva, comincia a comprendere la ragione profonda del suo servizio, comincia a spendersi con più entusiasmo e si nota in lei una luce diversa. Ma in questo processo di cambiamento, non era sola, penso che la frase di Don Pino Puglisi qui calzi pienamente: ‘’Dio ti ama ma sempre tramite qualcuno”, e davvero ha sentito sulla sua pelle questo, poiché proprio in questa esperienza ha trovato un punto di riferimento nella fede, la sua guida. E mentre lei proseguiva nel suo cammino, mi rendevo conto che ci ritrovavamo a condividere le stesse tappe di vita, come il dono della guida, l’inizio di un cammino di fede con essa, le scelte difficili e importanti e le responsabilità in oratorio.
Terminato il viaggio, torniamo a casa pieni di luce, di vita e di forza. Toccata nel profondo da questa esperienza, anch’io prendo a cuore l’oratorio, e capisco che ciò che stava spingendo tutto era l’amore. A tal proposito ricordo proprio la frase dell’inno MGS di quell’anno, dal titolo “Share the dream”: ‘’perché è solo se ti senti amato che ami e dici sì”. E riconosco che Sofia è stata sin da piccola testimonianza ed esempio per me di quest’amore, e tutt’ora se continuo a esserci, è perché mi sento chiamata a testimoniare e a donare questo amore che ricevo da Lui, attraverso i salesiani che mi guidano nel cammino di fede, don Bosco e i ragazzi dell’oratorio.
Così, da un anno a questa parte, siamo in cammino, ogni sabato curiamo l’oratorio, animati sempre da quella forza e cerchiamo nel nostro piccolo di trasmettere quanto ci viene donato dalla sorgente più grande. Stare con i bambini, vedere come i ragazzi cominciano ad appassionarsi sempre di più, accompagnarli nella crescita sull’esempio di don Bosco, ci riempie di gratitudine e ci ripaga da tutta la fatica.
Nella speranza di tener vivo questo sogno, ci auguriamo di continuare a testimoniare la bellezza dell’amore.

* 19 anni, vive a Pozzallo, dove continua il suo impegno in oratorio, presso l’istituto delle FMA. Segue all’interno dell’MGS i cammini formativi. Frequenta il primo anno di Lettere Classiche presso l’università di Catania

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Attraverso mille bisticci: storia di Francesco

Da Note di Pastorale Giovanile, rubrica “Ritratti di adolescenti”.

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di AnnaClaudia Losacco *

Credere in qualcosa o in qualcuno è così complicato che, quando lo fai, sei pieno di gratitudine. E per quanto il mio servizio in oratorio non mi abbia mai stancata, c’è sempre “un motore” che mi spinge ad andare avanti: il gruppo che mi è stato affidato qualche anno fa.
Ci troviamo al quartiere Libertà: un quartiere di Bari difficile, denigrato da molti (soprattutto da quelli che non ci vivono), ma che è ricco di persone piene di speranze di vita e di tanti “ragazzini per strada” ricchi di sogni. Quei sogni che per loro è difficile poter realizzare, se non sono propriamente guidati da qualcuno che ci crede.
E se dovessi fare mente locale proprio a quel giorno in cui mi è stato chiesto di seguire quel gruppo di preadolescenti, potrei dire con certezza che non avrei mai scommesso un euro su tutto quello che di lì a poco si sarebbe creato.
È vero, tra i ragazzi non si fa alcuna distinzione. Ma, fra tutte le loro storie, c’è da sempre una che, rispetto alle altre, mi ha particolarmente colpita: la storia di Francesco (nome di fantasia).
Quando l’ho conosciuto per la prima volta aveva soltanto undici anni e la cosa che mi impressionava era proprio il suo modo di relazionarsi con gli altri. Infatti, quando lui conosce persone nuove, non cerca di capire com’è fatto l’altro o tantomeno di intraprendere una conversazione, bensì decide subito di infastidirti e provocarti anche con frasi sgradevoli. In realtà, però, sta solamente cercando di capire com’è fatto l’altro e vedere se questa persona possa essergli simpatica o meno.
Allo stesso tempo, però, sapevo in cuor mio che il suo mondo era più grande di quello in cui si trovavano gli altri e che lui avesse quel qualcosa in più che avrebbe potuto arricchire la mia vita e per questo motivo io avevo il compito di dover capire quale fosse il suo “punto accessibile al bene”.
Francesco sotto tanti aspetti si può ritenere un ragazzo abbastanza fortunato, al quale basta avere un pallone tra i piedi per migliorare la giornata, ma che vive parecchie difficoltà dovute anche dall’età e dal contesto familiare in cui si trova, che non è per niente facile. Perché diciamocelo, essere genitori sarà anche il lavoro più bello e difficile del mondo, ma dover educare un ragazzo sapendo che nessuno in lui ci crede o che un giorno potrebbe diventare lo specchio di ciò che nella realtà dovrebbe evitare… beh, per me è stato un lavoro davvero complicato.
Un episodio che ha rafforzato il nostro legame è stato proprio durante un’esperienza estiva. Dopo un litigio che si sarebbe rivelato il primo di una lunga serie, era arrivato il momento del gioco e, ad un certo punto, mi accorgo che lui decide di estraniarsi dagli altri e di mettersi seduto in disparte. Così, dopo aver notato questo dettaglio, decido di sedermi accanto a lui per poter capire cosa stesse passando in quel momento nella sua testa e poterci fare una lunga chiacchierata. La sua risposta “Ho deciso di mettermi in castigo da solo” mi ha fatto riflettere e tanto pensare a quanta sofferenza lui possa provare nella sua giovane vita, a quante mancanze deve dare peso e a quante cavolate è costretto a fare per poter colmare questi vuoti o per farsi accettare dagli altri e, di conseguenza, mostrarsi per quello che realmente non è. Ed infatti, dopo averlo guardato negli occhi ed avergli chiesto con molta calma un semplice “Come stai?”, Francesco ha esternato tutto il suo mondo e la sua rabbia, piangendo o rimanendo tante volte in silenzio perché preferiva riflettere sulle sue azioni, piuttosto che dire qualcosa di non giusto scaturito dal momento di rabbia e vergogna.
Ora Francesco ha quattordici anni, frequenta il primo anno in una scuola superiore e a breve inizierà il percorso per poter diventare pre-animatore. E per me, non c’è vittoria più bella di questa. Vedere un ragazzo che, attraverso i tuoi gesti ed insegnamenti, prova a mettere in pratica il bene dimostratogli.
E non a caso, ho deciso di iniziare quest’articolo con la citazione di Jovanotti perché, se c’è una cosa che ho capito grazie a lui è che tante volte denigrare o lasciare fuori un ragazzo che talvolta riteniamo “attivo” o “fuori luogo”, in realtà è solo una scusa per chi non ha voglia di perdere tempo per il bene di un giovane. Spingersi altrove, dedicare del tempo, prestare ascolto o attenzione può davvero salvare una vita. Perché è proprio attraverso loro che la mia vita si è riempita di gioia, gratitudine, ricchezza e meraviglia. Perché nei loro occhi e negli occhi di Francesco, Dio mi parla continuamente e quotidianamente mi ricorda che quel “cento volte tanto” mi ha dato solo il coraggio di aiutare e di donare vita a loro e, attraverso loro, a me stessa.

* 23 anni, animatrice dell’oratorio salesiano Redentore di Bari e studentessa in Scienze della Comunicazione all’Università degli studi Aldo Moro di Bari.

Abbandono, conforto, ascolto: storie di Mussa, Angelica, Mariana

Dalla rubrica Ritratti di adolescenti su NPG, a cura dei giovani del MGS.

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Raccontare di un giovane, di un adolescente o di un bambino, significa dipingere quel ritratto che ha caratterizzato la vita di ognuno di noi. E allora partirei proprio da questo, dal ritratto di me, per poi arrivare a quei tanti volti che nel corso della mia vita, attraverso le esperienze oratoriane, hanno aiutato a comprendere chi fossi, i miei sogni, aspirazioni, paure, insicurezze e obiettivi. Volti, occhi e sguardi che mi hanno fatto guardare al mondo da diverse prospettive, giovani che hanno reso e rendono la mia vita qualcosa di unico, nonostante tutto.
Fin da piccola ho sempre amato lo sport e il movimento nella sua complessità e, nonostante l’impossibilità di una pratica agonistica, ho sempre utilizzato questo mezzo per fuggire da ciò che mi facesse male, per evadere da quelle situazioni che non mi facevano stare tranquilla, per trovare conforto, per riscattarmi, per scoprire il mio io. La corsa che tanto amavo, come pratica individuale rispondeva in parte a questo scopo, però non mi bastava, avevo bisogno di comunità, di calore fraterno, di gruppo, di unione, di sorrisi, di condivisione. L’oratorio è stato questo, ha saputo mettere insieme due elementi essenziali che credo siano indispensabili per ogni essere umano, ovvero la voglia di scoprire se stessi e trovare equilibrio psico-fisico, ma anche la costante voglia di non sentirsi soli ed abbandonati.
Le tante esperienze vissute in oratorio, attraverso l’animazione missionaria, le esperienze estive in contesto povero, le esperienze per le strade della mia città, mi hanno aiutata a capire quanto ognuno di noi nella propria diversità è simile. I tanti volti, sguardi incontrati e le tante parole ascoltate, e soprattutto le tante parole non dette, mi hanno aiutato a comprendere quanto ognuno di noi sia accomunato dalla sofferenza che aiuta a cambiare, e dalla voglia di sentirsi accettati e ascoltati, dalla voglia di sentirsi abbracciati. Ecco che in queste righe non voglio raccontare la storia di una singola persona conosciuta, perché sono davvero tante, ma ci tengo a trasmetterti – a te che stai leggendo – che la mia storia di animatrice, educatrice, ragazza è forse molto simile alla tua, anzi è molto simile in alcune sfaccettature a quella dei tanti giovani incontrati durante il mio percorso di vita. Io così come i tanti giovani conosciuti mi sono sentita persa, non accettata, non compresa, usata, ho sempre pensato di non valere nulla, ma ad oggi sono consapevole che grazie a voi giovani mi sento cambiata, maturata, ho potuto capire il significato di quel “punto accessibile al bene” di cui tanto parlava Don Bosco, ho riscoperto me stessa, ma soprattutto ho imparato ad accettare la diversità, le povertà, le tante personalità che ognuno di noi vive quotidianamente.
Ecco che in queste righe dopo averti raccontato una piccola parte di me voglio farti conoscere alcuni volti conosciuti durante la mia vita da oratoriana, ragazzi e ragazze, bambini e bambine, che ad oggi sono la fonte del mio cambiamento, fonte essenziale che giorno per giorno continuano a motivarmi nel mio percorso di studi, formativo e di vita, giovani che mi ricordano che la strada che ho intrapreso possa/debba nel futuro essere messa al loro servizio grazie al valore dello sport.
Mussa, 18 anni; lui mi ricorda i volti dei tanti migranti che hanno lasciato la propria terra, e che sono arrivati sulle coste delle nostre spiagge, lui rappresenta anche il volto di quei tanti senza fissa dimora che occupano le nostre strade, ritrovandosi in contesti disumani. Con Mussa e con tanti altri migranti ho avuto modo di dialogare, scambi di commozione e di occhi lucidi, di sofferenza, di voglia di vivere. Loro mi ricordano quanto possa essere importante lottare per ciò che si crede, per i propri obiettivi. È impressa nella mia mente una frase di Mussa: “Perché il mondo è grandissimo e possiamo starci tutti senza problemi”, ogni volta me la ripeto, quando penso che tutto quello che sto facendo sia inutile, e invece no! C’è posto anche per me, c’è posto per tutti. Mussa mi ricorda la parola ABBANDONO.
Angelica, 7 anni; lei è il volto dell’accoglienza, del prendersi cura. In un momento di pura difficoltà in Guatemala, lei ha saputo tendermi la sua piccola mano, mi è stata accanto, ha saputo comunicare nonostante la difficoltà linguistica. Non mi ha lasciata mai sola, aveva percepito che avevo bisogno di aiuto, e così in maniera silenziosa ha saputo colmare il mio vuoto. Angelica mi ricorda la parola CONFORTO.
Mariana, 19 anni; lei è “amicizia” nata nel momento del racconto, dell’ascolto della propria storia di vita, dove ci si mette a nudo, in cui le proprie fragilità vengono consegnate nelle mani di chi sa ascoltare. Con lei si è creata connessione, spesso tra educatore ed educando ci si ritrova in sintonia perché magari simili in alcuni aspetti, con lei è stato così, ha saputo “tirar fuori” come un’educatrice, una parte di me nascosta. Mariana mi ricorda la parola ASCOLTO.
Abbandono, conforto e ascolto, forse possono essere tre elementi che caratterizzano i giovani di oggi. Nel momento in cui ci si sente soli ed abbandonati si ha semplicemente bisogno di ascolto e conforto. Io nel mio piccolo non ho utilizzato tante parole, perché forse non bastano, ma attraverso uno sguardo come presenza e un abbraccio sono riuscita ad entrate in connessione con loro, ma soprattutto l’approccio di Mussa, Angelica e Mariana dovrebbero essere da esempio anche per noi educatori.
Concludo queste mie riflessioni, come vedi più su di me che su giovani di cui tracciare un ritratto, ma ti ho voluto mostrare, e farti conoscere attraverso piccoli ricordi, tre giovani completamente diversi ma inevitabilmente vicini, tre giovani che hanno saputo colmare i miei vuoti – dalla solitudine, al senso di inadeguatezza, alle incomprensioni, alla mancanza di ascolto – in momenti differenti del mio percorso di educatore, animatore.
All’inizio del mio percorso di animazione pensavo di salvare il mondo o di essere da esempio per tanti giovani, non so se questo sia successo nel corso del tempo, ma ciò che rimane certo è che i tanti giovani conosciuti dai più piccoli ai più grandi, dalle zone di periferia, ai villaggi, alla mia città, sono stati loro il mio più grande esempio. Attraverso di loro ho saputo riconoscere il volto di Cristo: mi hanno aiutata a comprendere la bellezza di una vita degna di essere accolta, vissuta e amata.

* 25 anni, di Salerno, laureata in scienze motorie e attualmente sta concludendo il percorso di studi magistrali. Frequenta l’oratorio salesiano di Salerno da quando è nata, e al suo interno è animatrice della fascia di 4° superiore (gruppo che segue dalla prima elementare) e animatrice del gruppo missionario VIS Pangea (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo).

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Un sogno che vola Storia di Anita, Giulia, Sofia, Giulia e Veronica

Pubblichiamo una nuova puntata della rubrica: Ritratti di adolescenti, a cura dei giovani del Movimento Giovanile Salesiano.

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Di Anita Marton *

Risuona spesso in me una frase. La tengo appesa sopra la scrivania, è tratta da una poesia di Pedro Salinas; recita: “Quando ti doni, riconquisti te stessa, ti volgi in dentro, cresci”. Mi ricorda che, se vale più dare che ricevere, si riceve sempre più di quanto si dona.
Le ho conosciute al Meeting dei Giovani del Triveneto, a Mestre, appuntamento per tutti gli animatori delle superiori. Io ero lì come accompagnatrice dei ragazzi della mia realtà, loro avevano appena terminato la prima estate da animatrici. Il Don mi ha fatto incontrare un piccolo gruppo di ragazze: avrei dato loro una piccola testimonianza di come ho vissuto e come vivo le mie amicizie, soprattutto nell’impegno del dono verso gli altri. Non sapevo cosa aspettarmi e nemmeno cosa avrei detto, ma quando abbiamo iniziato a parlare, mi sono accorta che erano loro a darmi una bellissima testimonianza di amicizia: avevano una luce che brillava negli occhi, un fuoco nel petto. Mi sono rimaste aggrappate al cuore e non se ne sono andate più. Ci siamo trovate di nuovo, abbiamo parlato ancora, abbiamo condiviso le nostre esperienze, risate, studio e biscotti. E mi hanno raccontato la loro storia, che inizia da un sogno in cordata.

La missione di Anita, Giulia, Sofia, Giulia e Veronica nasce da un desiderio condiviso, germogliato tra i banchi di scuola quando erano in terza media. La realtà da cui provengono è l’Istituto Salesiano “E. Sardagna” di Castello di Godego, in provincia di Treviso, dove convivono l’oratorio e la scuola, primaria e secondaria di primo grado. Come in molti oratori, ci sono gruppi di animazione, ma esiste anche un gruppo di chierichetti, il Santissimo Sacramento, rivolto solo ai ragazzi. Per le ragazze non c’era altro. Per le cinque amiche era bello e stimolante frequentare la scuola e l’oratorio, ma sentivano di dover fare di più, desideravano fare del bene, servire nella misura in cui potevano, nelle cose pratiche e nello sguardo buono verso i compagni. Volevano avere uno spazio e un tempo per vivere più intensamente nella realtà in cui si trovavano, così come già faceva il Santissimo Sacramento. Per quattro mesi hanno custodito questo desiderio nel cuore, si sono confrontate tra loro e con il Don, e piano piano, dal basso e in silenzio, è nata Opzione Mornese. Il nome l’aveva suggerito il don, facendo scoprire alle ragazze la figura di Madre Mazzarello e delle giovani di Mornese, che come loro si davano da fare per gli altri. Il primo anno è stato di attesa e lentezza, era da tracciare la giusta rotta, c’era l’ardore di fare una buona cosa e la paura che tutto si sgretolasse da un momento all’altro. Una piccola stanza, a volte il cortile, diventava il luogo dove incontrarsi: parlavano della loro vita, delle fatiche e delle gioie quotidiane, del loro gruppo, degli amici e dei compagni. Il Don, sempre vigile e presente, le aiutava a navigare. Ogni tanto, invitavano le ragazze di seconda media, perché quel loro desiderio non rimanesse come il lume sotto al giaciglio, ma potesse intercettare altri animi tesi alla ricerca di qualcosa di più. Poi, nell’estate tra la loro terza media e la prima superiore, il gruppo ha preso forma, e a settembre Opzione Mornese è cresciuto. Quelle ragazze di seconda media sono entrate a far parte del gruppo, e a loro volta hanno invitato le ragazze più piccole a parlare con loro, a condividere. Le ragazze di terza media avevano organizzato la raccolta di cibo e beni di prima necessità per l’Ucraina, insieme al Santissimo Sacramento avevano allestito il presepe. Un circolo di bene.

Ora sono in seconda superiore. Da quando hanno finito le medie, non studiano più al Sardagna e frequentano scuole diverse. Adesso è più difficile, perché si cresce, si cambia scuola e incontrarsi tra loro diventa una scelta che costa tempo, rinunce e impegno. Anche portare avanti il gruppo non è semplice, sono ormai tante le ragazze che hanno seguito questo desiderio, e nonostante ci sia il Don e una ragazza più grande che le accompagnano, “è nelle nostre mani, nessuno tira se non tiriamo noi”, mi dicono. Camminare con Opzione Mornese dipende da loro, responsabilizza, mette alla prova quando si presentano solo tre persone agli incontri. Perché rimaniamo? Se nessuno viene, qual è il senso? Ma il sogno nato ormai tre anni fa continua a vivere, e già è partito un nuovo gruppo alle medie, sempre più ragazze si lasciano affascinare da questa missione fatta di amicizia e dono gratuito. Non smettono di sognare in grande: desiderano andare a Mornese, conoscere meglio la storia di Madre Domenica Mazzarello, tornare a casa e trovare un gruppo grande di ragazze che vanno avanti da sole, senza che per forza ci siano loro a guidare. Un desiderio che cammina con i piedi per terra e gli occhi rivolti al cielo.

Le ho viste di nuovo al Meeting MGS la settimana scorsa, a un anno esatto dal nostro primo incontro. Quando ci siamo salutate, ho pensato che averle conosciute è stata una grazia. Vedere delle ragazze così giovani dare vita a un gruppo come Opzione Mornese con le loro mani, mettersi in gioco e continuare a sognare nonostante le fatiche e i momenti di sconforto, mi dà fiducia. Significa che il Signore ancora lavora nei cuori dei ragazzi, che le amicizie belle e al servizio degli altri esistono e crescono, se custodite e donate. Significa che è molto semplice lamentarsi e molto coraggioso fare un passo per costruire qualcosa. Significa che nelle mie amicizie gli ingredienti devono tornare ad essere correzione fraterna, il sostegno reciproco, essere matite nelle mani di Dio per gli altri; avere quel loro sorriso palpitante nel cuore. È lì che è nato questo sogno. Un sogno che vola, ancora.

* 24 anni, laureanda in Lettere Classiche presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Appassionata di disegno, scrittura e teatro. Da tempo legata ai salesiani del Triveneto; attualmente fa animazione a un gruppo di ragazzi del triennio delle superiori ed è impegnata nell’MGS Ispettoriale.

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Il filo di Arianna della politica – Propoaganda

di Raffaele Mantegazza

Come parlare 

“Quando il partito dice che il bianco è nero bisogna convincersi che lo è davvero”: che sia una battuta, un aneddoto, una leggenda metropolitana, questa frase è di volta in volta attribuito a demagoghi di destra o di sinistra per mostrare come la propaganda sappia mettere in discussione qualunque verità, ovviamente non dal punto di vista oggettivo ma da quello soggettivo di chi si autoconvince della verità di ciò che viene propagandato.
A rigore ovviamente la propaganda si rivolge a persone adulte, perché ha bisogno comunque di un minimo di base di conoscenza da parte dell’interlocutore. Ma altrettanto ovviamente, più si abbassa il livello culturale di quest’ultimo, più la propaganda diventa becera, rozza, schematica. Forse una visione in bianco e nero del mondo è molto più accettabile da parte di persone semplici e in un effetto circolare disincentiva la loro capacità critiche e la loro ricerca di informazioni verificabili.
In ambito politico però almeno a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo la propaganda è stata sostituita o perlomeno affiancata da qualcosa di molto più subdolo: si inizia infatti ben presto, fin dalla più tenera età, a sottoporre i bambini e le bambine a messaggi iper-semplificati, che colpiscono direttamente le emozioni senza permettere una crescita razionale. A rigore non si tratta più nemmeno di propaganda ma di mero condizionamento, che bypassa quasi completamente il livello della coscienza e dello spirito critico. Stiamo dunque parlando di messaggi molto subdoli, che oltretutto conferiscono all’ascoltatore una specie di senso di superiorità. Si è sentito molto spesso dire a proposito del terrapiattismo o della polemica contro i vaccini che solo coloro che predicavano queste pseudo-verità erano i veri saggi, che tutti gli altri erano ignoranti, schiavi del sistema, squalificati nella loro intelligenza per il semplice fatto di non condividere le idee di questa specie di nuovi profeti.
Questo tipo di propaganda, che a rigore non si potrebbe nemmeno definire tale tanto è ancora più pervasiva della propaganda classica, va dunque a sollecitare e solleticare l’amor proprio e il narcisismo di coloro a cui si rivolge. Ed è ovviamente molto difficile di fronte a un discorso che scavalca totalmente la ragione affrontare queste persone con le armi del ragionamento, delle statistiche, delle cifre, delle prove scientifiche.

Come pensare 

Opere analizzate
– Peter Bichsel, “Un tavolo è un tavolo”, da “Storie per bambini”;
– Hans Magnus Enzensberger, “Ulteriori motivi per cui i poeti mentono”, da “La fine del Titanic”;
– Cesar Vallejo, “Un uomo passa”, da “Spagna allontana da me questo calice”.

La propaganda si serve del linguaggio, e lo fa spesso rimanendo all’interno del linguaggio stesso, come se non le importasse nulla della verità delle proprie affermazioni e del rapporto con la realtà.
Il racconto di Bichsel prova a capire cosa accadrebbe a una persona che pensasse davvero che basti cambiare il nome a un oggetto per cambiare l’identità dell’oggetto stesso. Il delirio raccontato dal narratore è interessante perché molto simile ai discorsi della propaganda che appaiono estremamente seducenti quando modificano le parole quotidiane (basti pensare alle strategie di rinominazione operate da tutti i totalitarismi, nei confronti delle parole straniere, dei nomi di città, dei cognomi, ecc.). Bichsel va fino in fondo nell’illusione di un discorso autoreferenziale che alla fine porta alla totale solitudine
La poesia di Enzensberger invece opera un continuo va-e-vieni tra linguaggio e realtà mostrando come il primo ha un senso solo se in qualche modo fa i conti con la durezza della seconda e non ne rifugge; la stessa cosa avviene nella poesia di Vallejo nella quale la povertà, il dolore, la morte si trovano escluse da un discorso filosofico che non ha alcun altro scopo che non sia celebrare se stesso.

Cosa fare 

Oltre a far discutere i ragazzi sui grandi temi della politica sarebbe opportuno anche abituarli a proteggersi dalla demagogia e dalla propaganda a proposito della loro vita quotidiana. Dunque si potrebbe organizzare un ciclo di comizi tenuti da loro nei panni degli insegnanti, dei professori e dei genitori sui temi:
– È possibile una scuola senza voti?
– Le interrogazioni sono l’unico modo per verificare la preparazione?
– Ha ancora senso l’esame di maturità?
– Le note disciplinari sono uno strumento utile?

Matteo Leone, studente universitario dello IULM di Milano, mi segnala che per l’esame di Public speaking vengono assegnati ai ragazzi alcuni temi sui quali strutturare un breve discorso:
– Gli asparagi e l’immortalità dell’anima
– 4 + 4 = 9
– La cura dell’uva
– Perché seppie con piselli

Come provare

Il “debate” è una metodologia molto usata in ambito scolastico. Come è noto si tratta di proporre ai ragazzi alcuni argomenti sui quali operare prima di tutto una ricerca e una riflessione critica, e poi presentare davanti ai compagni di classe o di istituto un dibattito nel quale ogni squadra di ragazzi ha il compito di illustrare le tesi a favore o contro l’argomento scelto. Si tratta sicuramente di una tecnica interessante, ma il limite che personalmente ne vedo è che troppo spesso l’aspetto competitivo ha la meglio sui contenuti, per cui la discussione spesso si riduce a uno sfoggio di mezzi sofisticati dal punto di vista dialettico ma non a un reale approfondimento. Occorrerebbe in realtà far riflettere i ragazzi sulle procedure utilizzate per arrivare a proporre un discorso e sulle strategie comunicative utilizzate senza necessariamente procedere alla fine a proclamare un vincitore.
Inoltre le regole del gioco prevedono che l’assegnazione delle posizioni pro o contro il tema ai gruppi di ragazzi sia fatta per sorteggio. Se le ragioni di questa scelta hanno un senso (cioè chiedere ai giovani di provare a mettersi nei panni dell’altro) occorre essere molto cauti soprattutto con i ragazzi più giovani proprio perché, come detto sopra, questa operazione può ridursi semplicemente a una ricerca di strategie dialettiche e sofistiche. Forse sarebbe meglio partire dalle reali opinioni dei ragazzi e solo successivamente, dopo aver testato questo metodo, passare alla richiesta di cercare motivazioni per l’idea opposta alla propria.

Cosa domandarsi 

I ragazzi sono esposti alla logica della propaganda soprattutto nelle sue versioni più subdole e sottili, ma sono anche a volte in grado di raccogliere e criticare informazioni vere e autentiche. Occorre che gli adulti si pongano qualche domanda in proposito:
– Quali sono le principali fonti di informazione alle quali accedono i giovani?
– Cosa significa per loro che una informazione è “vera”?
– Quali sono le strategie di verifica delle informazioni che essi usano?
– Qual è la differenza tra una notizia vera e una notizia popolare?
– Qual è il tasso di penetrazione dell’atteggiamento misterico e narcisistico di posizioni come quelle dei terrapiattisti secondo i quali solo chi crede nelle loro affermazioni è saggio e dunque non c’è bisogno di alcuna dimostrazione?
– Qual è il lavoro di rielaborazione critica di una informazione compiuto dai ragazzi prima di comunicarla ad altri?
– Come le risposte alle domande di cui sopra mutano (o meno) a seconda del mutare dello strumento di accesso alle informazioni (fonti orali, fonti cartacee, digitale, ecc.)?
– …

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