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Note di Pastorale Giovanile di Febbraio 2021 – Oratori e territori

Nel numero di febbraio della rivista di NPGnote di pastorale giovanile– viene presentata una ricerca qualitativa sui mutamenti delle realtà oratoriane nei territori milanesi nella contemporaneità.

Lo studio è stato condotto da Francesca Cattoni, Stefania Giacalone e Chiara Passerini. Queste le quattro grandi parti in cui la ricerca si articola:

  1. Tema, obiettivi, metodologia
  2. Analisi dei dati: tensioni emerse
  3. Approfondimenti
  4. Riflessioni conclusive

Di seguito un breve estratto dell’articolo sullo studio sugli oratori dei territori milanesi e la possibilità di visualizzarlo integralmente in PDF cliccando sul pulsante, ed il link con tutte le novità del numero di febbraio della rivista di Note di Pastorale Giovanile:

All’interno dell’orizzonte di senso della pedagogia sociale, che innanzitutto è «sapere inerente il rapporto tra educazione e società», il primo obiettivo della ricerca è di indagare come i mutamenti che stanno caratterizzando la contemporaneità trovino manifestazione anche all’interno dell’ecosistema oratoriano, nella sua identità, nell’azione quotidiana che lo contraddistingue, nel suo ruolo educativo.
NPG – Oratori e territori Febbario 2021

 

 

Il tempo del quarto sigillo

di don Rossano Sala

L’avvento del cavallo verdastro

L’anno scorso, di questi tempi, eravamo in pieno decollo. Avevamo appena terminato l’entusiasmante processo sinodale con e per i giovani, avevamo appena messo in circolo le Linee progettuali della pastorale giovanile italiana preparate con cura dal Servizio Nazionale di Pastorale Giovanile della Conferenza Episcopale Italiana, si stava riaccendendo l’entusiasmo per il rinnovamento della pastorale giovanile, stavamo facendo i primi passi in vista della Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona, prevista per l’estate del 2022. E poi tanto altro ancora…
Avevamo anche impostato il decennio 2020-2030 con un Dossier programmatico di apertura sulla “sinodalità missionaria”, quello pubblicato nel gennaio 2020, esattamente un anno fa. Stavamo quindi ragionando sulle prospettive del Sinodo sia a breve che a medio termine. Il tutto ci portava a sognare la Chiesa in cammino con i giovani verso le periferie del mondo. Direi che, dai tetti in giù, le cose stavano andando bene per la pastorale giovanile. Certo, il cammino non sarebbe stato facile, infatti il Dossier di apertura aveva come sottotitolo parole assai impegnative: “Cammini di conversione spirituali, formativi e pastorali”.
E poi è arrivato l’evento della pandemia. Perché di “evento” nel significato teologale del termine si tratta. Nel senso di qualcosa che nessuno di noi ha pensato, né programmato, né pianificato. Un’esperienza del tutto imprevista nel nostro contesto globalizzato. Possiamo dire che proprio partendo da qui abbiamo fatto diverse esperienze in un certo senso “nuove”: da una parte molta solitudine e sofferenza, e siamo venuti a contatto ravvicinato con la realtà della morte; dall’altra altrettanta solidarietà e condivisione, perché ci siamo sentiti partecipi di un destino comune. Non sappiamo se ciò che sta accadendo nel suo insieme ci migliorerà o ci peggiorerà, certamente non potrà lasciarci indifferenti. Ogni nuova dinamica di vita sfida la nostra libertà e ci chiede di schierarci e di riposizionarci.
Nemmeno lo avremmo immaginato, questo evento davvero “apocalittico”, cioè – nel suo senso genuino – rivelativo. Chi l’avrebbe mai detto che questo sarebbe stato per noi il tempo dell’apertura del “quarto sigillo” da parte dell’agnello immolato fin dalla fondazione del mondo:

Quando l’Agnello aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: “Vieni”. E vidi: ecco, un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli inferi lo seguivano. Fu dato loro potere sopra un quarto della terra, per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra (Ap 6,7-8).

 

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Introduzione al dossier “Onora l’adulto che è in te”

Armando Matteo

Il tema al centro di questo Dossier di NPG è quello dell’adulto. L’orizzonte specifico, a partire dal quale un tale argomento verrà trattato, sarà quello di una sempre più diffusa e consistente “crisi” che investe sia coloro che sono adulti sia il concetto stesso di “adultità”. Si tratta di una crisi dalle vaste e molto gravi conseguenze: quando, infatti, gli adulti non fanno gli adulti e quando la categoria dell’adultità non costituisce più uno dei riferimenti fondamentali dell’esistenza umana, sono proprie le nuove generazioni quelle destinate a dover pagare un prezzo molto alto.
D’altro canto, non è per nulla difficile intuire quanto sia decisivo il ruolo delle generazioni adulte per la vita buona di quelle giovani. Si pensi semplicemente alla questione educativa o ancora a quella della trasmissione della fede. Senza adulti, infatti, cioè senza il contatto con uomini e donne adulti (e ovviamente tali non solo in senso cronologico, come si avrà modo di verificare di seguito), che si offrano quale meta del cammino proprio dell’essere di ogni giovane, non vengono al mondo altri adulti (e ovviamente anche in questo caso non solo in senso cronologico). Qualcosa di simile vale anche per la questione della maturazione della fede dei bambini e dei ragazzi: la testimonianza di fede, da parte dei propri genitori, e dunque di adulti, costituisce sempre l’innesco fondamentale del passaggio da un credere da bambini ad un credere da adulti.
Né più in generale si può dimenticare quanto sia preziosa l’opera delle generazioni adulte nel promuovere il passaggio di testimone, nella regia delle sorti del mondo, a quelle più giovani e dunque l’impegno concreto delle prime per una società capace di garantire le condizioni economiche per un’adeguata formazione delle seconde, per un loro inserimento nel mondo lavorativo precoce e dignitoso e, non da ultimo, per la realizzazione dei loro progetti di coppia e di famiglia. E qui accenniamo solo velocemente a tutto il tema della responsabilità adulta per quel che riguarda l’ecologia e la manutenzione politica di una convivenza pacifica di tutti gli abitanti della terra.
Si potrebbe, infine, parlare di una certa centralità dell’adulto anche per quel che riguarda la vita buona delle comunità cristiane e dunque delle parrocchie, dei movimenti, delle associazioni e delle tante realtà religiose e monastiche che costituiscono l’universo cattolico. Ebbene, da tempo assistiamo all’accrescimento della popolazione anziana e molto anziana in tutte queste realtà, che molto difficilmente sarà in grado di trascinare, nell’ambito di coloro che le tengono in vita e ne portano avanti le attività, i rappresentanti delle nuove generazioni. Qualsiasi realtà eccessivamente disertata dagli adulti non risulterà mai particolarmente appetibile a coloro che si preparano a diventare adulti a propria volta, ovvero ai giovani.
Per questo, allora, una rivista dedicata alla pastorale giovanile non può non interessarsi di ciò che capita all’adulto. Vi è, infatti, una regola base della vita umana che queste pagine spesso lasceranno trapelare: solo quando gli adulti fanno gli adulti, i giovani possono fare i giovani.

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Europa e ambiente

di Renato Cursi

Il 24 maggio scorso, nel giorno in cui si celebra la memoria liturgica di Maria Aiuto dei Cristiani, la pastorale giovanile e tutta la Chiesa italiana sono potute tornare a celebrare l’Eucaristia domenicale con il popolo, dopo oltre due mesi di sospensione per prevenire il contagio pandemico. In tale data ricorreva, inoltre, il quinto anniversario della prima Lettera Enciclica di Papa Francesco: Laudato si’, sulla cura della casa comune. Questa coincidenza provvidenziale ha probabilmente aiutato molte persone a fare sintesi tra il desiderio di un nuovo inizio, pur tra nuove e non semplici sfide, e il richiamo alla cura del creato. Questo richiamo è risuonato in questi mesi tanto nelle iniziative intraprese a più livelli per celebrare il quinto anniversario di quest’Enciclica, quanto nelle immagini che molti di noi hanno ammirato a distanza nei giorni dell’isolamento forzato: immagini di un ambiente e di una natura che tornavano a respirare dopo anni di sofferenza sotto i colpi della progressiva antropizzazione del pianeta. Acque di nuovo limpide, animali a loro agio negli spazi urbani, immagini satellitari ripulite dalle nuvole dell’inquinamento atmosferico.

A sostegno di questo appello alle nostre coscienze, sono poi stati pubblicati diversi studi scientifici internazionali che hanno certificato la correlazione tra inquinamento dell’aria e diffusione del contagio del coronavirus. Tutto ciò faceva sperare che avremmo imparato la lezione. “Andrà tutto bene”, “questa crisi è un’opportunità”, “ne usciremo migliori”, ci ripetevamo nelle settimane di isolamento domestico. Eppure appena si è potuti ripartire, in Italia abbiamo preferito, per fare un esempio tra i tanti possibili, la produzione all’educazione. Molte fabbriche sono tornate a produrre senza tradurre questo tempo in un’opportunità di conversione ecologica, mentre milioni di studenti, docenti ed educatori sono rimasti a casa senza indicazioni chiare per una ripartenza. Diversi fiumi sono tornati ad essere inquinati, code chilometriche di macchine si sono riproposte in luoghi di consumo non sostenibile e alcune altre brutte abitudini sono riemerse.

Guardando oltre queste prime reazioni, tuttavia, possiamo riconoscere di avere imparato qualcosa. Volenti o nolenti, abbiamo constatato di essere impreparati, in Italia come altrove, a sfide globali come questa. Abbiamo appurato che la globalizzazione comporta anche la condivisione mondiale dei rischi di uno sviluppo incurante di quelli che etichetta come “effetti collaterali”. Una volta di più, l’Italia e gli altri Stati Membri dell’Unione Europea hanno risposto inizialmente in ordine sparso, mostrando la debolezza e le contraddizioni di un’Unione fondata quasi unicamente sui valori del mercato. Non paghi, quando hanno compreso di dover rispondere insieme, è ancora all’economia e alla finanza che questi Stati hanno voluto affidare la cosiddetta “ripresa” (“Recovery”), concetto peraltro che guarda ad un ritorno al passato piuttosto che “ricostruire” o “ripensare” il futuro.

 

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Ovunque nella vita. Testimonianze di giovani

Sarah Bortolato

«Testimoniare il Vangelo ovunque nella propria vita» (ChV 175)

Abbiamo chiesto ad alcuni giovani di consegnarci qualche vissuto o visione di “Chiesa in uscita” a partire dalla rilettura della loro esperienza di vita. Sono emerse prospettive interessanti, parole sorgive che indicano aperture convergenti e rinnovate prospettive… espressione di un sentire che dall’ascoltarsi dentro punta ad un orizzonte ampio come l’ecumene. Desideriamo lasciare spazio alla loro voce per coglierne le suggestioni, consapevoli che il “prossimo passo da compiere”, frutto del discernimento in comune, nasce sempre da sguardi che lo Spirito intreccia.
La nota più ricorrente che i giovani, esprimendosi sulla Chiesa, ci consegnano è quello di una decisiva e concreta apertura al mondo. Una chiesa che riduce le proprie zone comfort e si spinge ad abitare altri luoghi dell’interagire umano, fiduciosa che anche dalle eventuali ferite dell’incontro continua a scaturire un’umanità rinnovata.

A tal proposito Rossella P., giovane laureata in economia, afferma: «Mi piace molto l’idea dello stare nel mondo senza essere del mondo. Mi spiego: pensando ad un’immagine di chiesa, mi viene subito in mente o quella inquadrata nelle realtà “consacrate” (chiese, oratori, scuole cattoliche, diocesi, ecc.) o quella totalmente dedicata al Terzo Settore (tutte le realtà “no profit” e le varie iniziative sociali rivolte ai poveri materiali). Sento che manca una presenza di rilievo nella porzione di mondo “normale”, fatta dai “poveri del terzo millennio” – come li chiamo io – che poi sono i ricchi materiali, ma poveri di spirito. Non quelli delle beatitudini, ma coloro che si ritrovano poveri interiormente perché hanno perso la profondità e la gioia. La concretezza della chiesa che desidero passa proprio dallo stare nel loro mondo: quello delle aziende, del commercio, dell’industria, del digitale, delle nuove frontiere di sviluppo…
Se penso alla realtà in cui mi trovo a vivere e lavorare, la città e l’università, attorno a me circolano potenti slogan: “non ci fermiamo”, “siamo l’eccellenza”, “siamo competitivi”, “siamo il traino del paese”. Valori sicuramente buoni, che tuttavia rischiano di essere enfatizzati fino al dis-umano. Mi piacerebbe una chiesa che provocasse maggiormente queste realtà, non per svilirle, ma per renderle più umane e vere. Farle “morire” nella loro superbia perché rinascano nella loro autenticità».

 

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La profezia dei giovani. Così la Chiesa riscopre la sua vocazione

Da NPG settembre/ottobre 2020

di Michele Gianola

Nel tempo dell’epidemia di COVID-19 tutti siamo stati costretti a confrontarci più o meno duramente con la realtà, tutti «ci siamo resi conto di trovarci tutti sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma allo stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda» (FRANCESCO, Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia, 27 marzo 2020) e tutti abbiamo vissuto lo spaesamento, la paura, il dolore e la speranza.
Laddove è stata sperimentata, questa immersione nella comune umanità ha offerto la possibilità di quella rinnovata postura ecclesiologica e pastorale sancita dal Concilio Ecumenico Vaticano II per il quale «la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e la sua storia» (Gaudium et spes, 1); nella lingua originale del testo, il sapore di questa solidarietà suona con il termine ‘coniugata’, il gusto sponsale del divenire una carne sola.

L’opera di Dio al modo di Dio

Intuisco la fecondità di questa prospettiva nella sua dirompente esigenza di conversione. Essa costringe, infatti, i credenti a non sentirsi ‘fuori’ o ‘di fronte’ al mondo, alla storia, alla società, ma a riconoscersi – umilmente – ‘dentro’. In fondo, è il medesimo sguardo a cui lo stesso papa Francesco ha invitato l’assemblea radunata al Circo Massimo nell’estate di un paio d’anni fa quando ha raccontato questo semplice aneddoto: «Una volta, un sacerdote mi ha fatto una domanda: “Mi dica, qual è il contrario di ‘io’?”. E io, ingenuo, sono scivolato nel tranello e ho detto: “Il contrario di ‘io’ è ‘tu’” – “No, Padre: questo è il seme della guerra. Il contrario di ‘io’ è ‘noi’”. Se io dico: il contrario sei tu, faccio la guerra; se io dico che il contrario dell’egoismo è ‘noi’, faccio la pace, faccio la comunità, porto avanti i sogni dell’amicizia, della pace. Pensate: i veri sogni sono i sogni del ‘noi’. I sogni grandi includono, coinvolgono, sono estroversi, condividono, generano nuova vita. E i sogni grandi, per restare tali, hanno bisogno di una sorgente inesauribile di speranza, di un Infinito che soffia dentro e li dilata» (FRANCESCO, Veglia di preghiera con i giovani italiani, 11 agosto 2018).

 

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Iperconnessi e vulnerabili: paradossi e rischi della crescita virtuale

Molte ricerche hanno evidenziato che più di un quarto degli adolescenti ha accesso a Internet nella solitudine della propria camera da letto. L’articolo di Alberto Pellai (Dipartimento di Scienze Bio-medicheDipartimento di Scienze Bio-ediche dell’Università degli Studi di Milano) per Note di Pastorale Giovanile è scaricabile dal link sotto al sommario.

SOMMARIO
1. Nativi o natanti digitali?
2. Iperconnessi: i numeri di un fenomeno globale
3. La fatica di chi vuole perseguire un progetto educativo
4. Gli iperconnessi: cosa dice la ricerca
5 L’isolamento sociale: una generazione di potenziali Hikikomori
6. La conferma delle neuroscienze
7. Una nuova educazione digitale diventa necessaria
8. Esiste un’età limite al di sotto della quale evitare l’accesso alla vita online?

 

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“PAROLE ADOLESCENTI”, il saluto di Virginia al prof. Pappalardo

Da NPG

Caro Prof,
lettera di “commiato” (che brutta parola)… ma penso che questa sia l’ultima lettera che le scrivo (anche se… mai dire mai). Adesso lei va in vacanza e anch’io, e chissà come saranno.
Poi riprenderemo a settembre, ognuno con i propri percorsi.
Mi sento diversa da quando abbiamo cominciato questo nostro dialogo. Mi sento cresciuta, maturata, certamente anche grazie a Lei.
Ci siamo scambiati un sacco di pensieri, mi sono sentita ascoltata e capita. Ho cercato (e spero di averlo fatto nel modo giusto) di interpretare i suoi pensieri. Spero anche, nel mio piccolo, di averle lasciato qualcosa. Perché Lei, a me, ha lasciato tante cose (e questo va oltre l’insegnare).
Mi ha accompagnata durante quasi un anno, e ha ascoltato tutto quello che mi passava per la testa (e il cuore), nonostante le mie idee siano spesso molto confuse, e questo è la cosa più bella.
Mi ha anche detto tante cose belle e importanti, che mi hanno aiutata a capire un pochino di più me, le cose, gli altri…Non mi ha detto quello che dicono tanti adulti: crescerai, sei giovane, sei idealista, stai coi piedi per terra… Magari le veniva anche voglia di dirmelo, ma mi ha ascoltata e ha preso sul serio quello che era serio per me. Ha cercato di vedere tutto anche dal mio punto di vista, di una ragazzina con tanti sogni e voglia di realizzarli. E io ho provato a fare lo stesso con Lei, guardando tutto dal punto di vista di un uomo che ha realizzato tanti dei suoi sogni e vuole aiutare gli altri a fare lo stesso (partendo dai ragazzi, come me). Lei è una persona che, col corso delle lettere, ho imparato a stimare e apprezzare sempre di più, una persona che non dimenticherò e che prenderò come spunto.
Io ho sempre avuto stima per i professori, so che fanno un lavoro ingrato, ma so che attraverso di loro imparo a imparare, non mi disperdo in fantasticherie o in cose inutili, mi tracciano una strada come i binari per un treno, e le mete sono bellissime.

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Cristiani nel mondo

Dall’ultimo numero di Note di Pastorale Giovanile, pubblichiamo una raccolta di testimonianze delle fatiche e delle gioie dei giovani a cura di Elena Marcandella.

***

“Si inizia per piacere, si continua per amore”
Serena Dal Pos 

Questa frase mi ha guidata quando ancora la strada non mi era chiara. Negli anni di animazione all’oratorio mi veniva spontaneo avvicinare in modo particolare i ragazzi più poveri, in tutte le sfaccettature della povertà. Mi dicevano che avevo una propensione speciale per ‘i casi difficili’ ma non lo capivo bene, perché mi veniva spontaneo, e non mi costava affatto fatica, anzi mi faceva piacere.
Così, finito il liceo, ho intrapreso gli studi universitari per diventare assistente sociale. Una decisione presa probabilmente con un pizzico di ingenuità, pensando di poter salvare il mondo, almeno quello più povero.
Ora lavoro presso un piccolo comune della provincia di Treviso. Essendo l’unica assistente sociale mi occupo di tutte le aree: minori, famiglie, anziani, stranieri, disabilità. Le povertà con cui mi scontro quotidianamente sono svariate. L’entusiasmo iniziale è ben presto svanito lasciando spazio a paure, incertezze, delusioni e fortunatamente da subito ho percepito un forte senso del mio limite. Ho capito che la professionalità acquisita negli studi e nei tirocini formativi e il mio desiderio (seppur buono) di voler essere d’aiuto, non bastavano ma era necessario andare oltre. Oggi mi è chiaro che non è possibile tenere separati il lavoro dal cammino cristiano che, seppur con le fragilità che vivo, mi permette di essere una professionista che – oltre a guardare il bisogno per cui la persona è in carico ai servizi sociali – tenta anche di avere uno sguardo “diverso” sul prossimo che mi ritrovo davanti. Qualche volta mi chiedo: come le guarderebbe Dio queste persone? Sono convinta che vivere cristianamente il proprio lavoro non significhi essere professionalmente più bravi di altri, ma avere appunto questo sguardo “diverso”, che guarda la persone nella loro interezza, che non si accontenta di offrire “solo” una risposta immediata ed efficace al bisogno espresso (che molte volte non è altro che la punta dell’iceberg), ma che ha a cuore la “salvezza” delle persone.
Penso alla storia di Paola (nome di fantasia) che un giorno si è presentata chiedendo informazioni per poter interrompere la gravidanza. In quel momento, se mi fossi basata solo ed esclusivamente sulla sua domanda, le avrei consegnato un depliant con le indicazioni che cercava. Ma la vita ha un valore inestimabile e non avrei mai potuto lasciarla uscire dall’ufficio solo con un depliant e le sue angosce. Da lì è nato un veloce percorso (veloce perché ci sono dei tempi precisi per poter scegliere di interrompere la gravidanza) di conoscenza, fiducia, dialogo, di incontri personali e telefonate. Paola aveva paura, aveva dentro di sé il terrore di non riuscire a dare al suo bambino ciò di cui aveva bisogno perché sia lei che il marito erano senza lavoro. Si vergognava a condividere la reale motivazione per la quale voleva abortire, il suo bisogno quindi non era l’interruzione di gravidanza ma trovare qualcuno che le dicesse che non era sola, di aver fiducia e che il loro bambino era (è!) una ricchezza superiore a qualsiasi conto bancario.
Nel mio lavoro c’è il rischio di diventare dei burocrati, di starsene dietro una scrivania compilando carte. Purtroppo servono anche quelle, e si può fare tanto da dietro una scrivania, ma si può fare ed essere molto di più in trincea, in prima linea. Lì sul fronte delle anime in tempesta, nei tumulti di cuori soli, sulle creste della sofferenza. Ed è lì che io voglio stare, è lì che sento di poter dare un po’ di me assieme al mio bagaglio di vita. Il mio cammino cristiano, la certezza dell’Amore del Signore che ci sostiene, mi aiuta anche a rischiare, a non rimanere riparata nel bivacco sicuro della mia postazione d’ufficio, distante dal cuore delle persone. Nel mio piccolo e con tutta l’umiltà di cui c’è bisogno.
Molte volte chiedo al Signore che ci sia Lui dove io, con la mia professionalità e con i miei limiti, non riesco ad arrivare; ciò non mi fa sentire “perdente” ma in cordata con Lui, consapevole del fatto che da sola non raggiungerei nessuna meta. In fondo si rimane in piedi grazie ad affetti veri e profondi, grazie a relazioni che si basano sulla Verità e che portano in sé l’intento reale della salvezza, e non perché si è forti. Le mie battaglie più grandi le vivo quando intuisco che il bene “vero” delle persone viene messo in secondo piano e viene data priorità a scelte più vantaggiose, quando la persona diventa un mezzo e non il fine. In quei momenti, più che mai, devo trovare la forza (e anche il coraggio) di espormi, costi quel che costi, cosciente del fatto che non vi è nulla di più importante e prezioso rispetto alla vita di una persona e alla sua dignità.

 

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“È risorto il terzo giorno”: rilettura biblica della pandemia da parte dei Vescovi

Da NPG

«Come cambieranno le cose? Come saremo? Il futuro sarà scandito ancora da abitudini reiterate? Come sarà la coscienza personale e collettiva? Cosa ci chiede il Signore in questo tempo? Perché un Dio buono permette tutto ciò ai suoi figli?
Sono alcune domande alle quali i Vescovi italiani cercano di rispondere, seppure brevemente, con la pubblicazione È RISORTO IL TERZO GIORNO (Roma, 23 giugno 2020).

Si tratta di una “rilettura biblico-spirituale dell’esperienza della pandemia”, destinata a credenti e non credenti, che prende le mosse da un ascolto attento delle paure, dei bisogni e delle attese delle persone che, nel proprio contesto e con i propri strumenti, si sono trovate ad affrontare l’emergenza sanitaria da Covid-19. Ad aprire il testo, infatti, sono le voci di un’impiegata, di uno studente, di un bambino, di un avvocato, di un cappellano, di un medico, di una casalinga, di un adolescente, di un volontario e di una segretaria. Pongono interrogativi sulla sofferenza, sul disorientamento e sulla morte, ma testimoniano anche la capacità di resilienza, la creatività e la riscoperta della dimensione domestica della fede.

Gli eventi recenti della pandemia sono posti sullo sfondo del mistero pasquale di Gesù: dal Venerdì della morte in croce sino alla Domenica di risurrezione, attraverso il Sabato della deposizione nel sepolcro, evidenziando in questo modo che “una lettura pasquale dell’esperienza della pandemia non può prospettare il semplice ritorno alla situazione di prima”. Infatti, “la croce e il sepolcro possono diventare cattedre che insegnano a tutti a cambiare, a convertirsi, a prestare orecchio e cuore ai drammi causati dall’ingiustizia e dalla violenza, a trovare il coraggio di porre gesti divini nelle relazioni umane: pace, equità, mitezza, carità”. Sono questi “i germi di risurrezione, i lampi della Domenica, che rendono concreto e credibile l’annuncio della vita eterna”. Ecco perché, nell’ascoltare e dare dignità all’umanità ferita, viene rilanciato l’invito di papa Francesco a raccogliere la sfida dell’audacia e della creatività nel “ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità”. Per ripartire “come comunità ecclesiale sui passi dell’uomo del nostro tempo, animati da tenerezza e comprensione, da una speranza che non delude”.

 

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