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Tornare a camminare con i giovani

Di Valerio Corradi

Dossier Note di Pastorale Giovanile – novembre 2021

«La passione per cercare la verità, lo stupore di fronte alla bellezza del Signore, la capacità di condividere e la gioia dell’annuncio vivono anche oggi nel cuore di tanti giovani che sono membra vive della Chiesa. Non si tratta dunque di fare soltanto qualcosa “per loro”, ma di vivere in comunione “con loro”, crescendo insieme nella comprensione del Vangelo e nella ricerca delle forme più autentiche per viverlo e testimoniarlo. La partecipazione responsabile dei giovani alla vita della Chiesa non è opzionale, ma un’esigenza della vita battesimale e un elemento indispensabile per la vita di ogni comunità. Le fatiche e fragilità dei giovani ci aiutano a essere migliori, le loro domande ci sfidano, i loro dubbi ci interpellano sulla qualità della nostra fede. Anche le loro critiche ci sono necessarie, perché non di rado attraverso di esse ascoltiamo la voce del Signore che ci chiede conversione del cuore e rinnovamento delle strutture».
(Sinodo sui giovani, Documento finale, n. 116)

Gli appunti esposti in questo dossier sono dei tentativi di riflessione sul “cambiamento d’epoca” che stiamo vivendo e che possiamo osservare nel nuovo rapporto che i giovani intrattengono con la sfera religiosa e con le comunità ecclesiali.
Quella giovanile appare una religiosità in movimento nella quale sono presenti orientamenti che, anche in base all’età, si allontanano o si riavvicinano al solco della tradizione, ma molto diffusi sono anche gli atteggiamenti a-religiosi e manifestamente anti-religiosi.
Ad un’analisi più approfondita emerge che il credere o il non credere è sempre più una questione privata relativa solo al proprio “Io” che non riconosce “mediatori” tra sé e la dimensione trascendente. Questo atteggiamento definibile “monoteismo del sé” (Sequeri 2017) è basato su un culto ossessivo dell’identità personale con l’assolutizzazione della libertà, dei diritti e dei desideri dell’individuo.
Questa religiosità informe, è comunque portatrice di domande profonde e forse di un disagio latente dovuto allo smarrimento alimentato nei giovani da una società postmoderna che non offre punti di riferimento, ed è sempre più segnata da un senso di precarietà e da incertezze che esigono il ritorno a una visione della vita più ampia, condivisa e totalizzante.
Ben sapendo della crescente mole di contributi che cercano di affrontare questo tema, sono stati esplorati alcuni itinerari che aiutano a riavviare la speranza e a prendere familiarità col recupero del senso religioso che si esprime all’interno di campi emergenti dell’impegno giovanile (ambiente, politica, cooperazione). Oggi siamo chiamati a ripartire da un cristianesimo giovane, e a ritrovare un fiducioso orientamento verso il futuro che non è generico ottimismo, ma è la certezza della vicinanza di Dio e della sua grande misericordia che non lascia inascoltato l’uomo e veglia sempre su di lui. Del resto, trasformare l’angoscia e la paura in pace e gioia è una delle sfide della vita cristiana.

Segnali di una religiosità dinamica

Da Note di pastorale giovanile di novembre, dal dossier ITINERARI EMERGENTI NEL RAPPORTO TRA GIOVANI E SFERA RELIGIOSA.

di Valerio Corradi

«Anche quando sono molto critici, in fondo, i giovani chiedono che la Chiesa sia un’istituzione che brilli per esemplarità, competenza, corresponsabilità e solidità culturale. Una Conferenza Episcopale afferma che “i giovani vogliono vedere una Chiesa che condivide la loro situazione di vita alla luce del Vangelo piuttosto che fare prediche”! In maniera sintetica, i giovani così si sono espressi: “I giovani di oggi desiderano una Chiesa autentica. Con questo vogliamo esprimere, in particolar modo alla gerarchia ecclesiastica, la nostra richiesta per una comunità trasparente, accogliente, onesta, attraente, comunicativa, accessibile, gioiosa e interattiva”.
(Sinodo sui giovani, Instrumenum laboris, n. 67)

Le profonde trasformazioni che hanno interessato la nostra società negli ultimi anni hanno avuto delle inevitabili ricadute anche sulla sfera della religiosità giovanile, in alcuni casi rafforzando tendenze già in atto da tempo, in altri casi facendone emergere di nuove e inattese. In riferimento ai processi di transizione più recenti, nel Dossier Giovani e religiosità. Verso un cambio di paradigma (NPG 3/2015) e in successive pubblicazioni (Corradi 2016, 2017, 2018, 2021), si è insistito sulla necessità di favorire un cambio di prospettiva, di categorie e di concetti allo scopo di strutturare un nuovo modo di comprendere la religiosità dei giovani e di riorientare l’azione in ambito educativo e pastorale.
Il carattere “post-secolare” dell’epoca attuale, segnata al contempo da a-religiosità, riflessività, pluralismo, individualizzazione del credere e da differenziati “stati d’animo” religiosi, richiede un graduale cambio di prospettiva sul piano “cognitivo” e sul piano “operativo”, che consenta di dotarsi di strumenti adeguati per rendere i giovani sempre più protagonisti, e risorse per i contesti ecclesiali.
Questo scenario multiforme necessita di essere compreso anche alla luce delle importanti sfide che si stanno faticosamente affrontando all’interno della Chiesa, sempre più chiamata, da parte sua, a rinnovare le proprie strutture e le modalità di esercizio della propria azione pastorale. In un tempo segnato dall’incertezza, dalla precarietà, dall’insicurezza viene così da chiedersi, da una parte, che cosa significhi per la Chiesa accompagnare i giovani verso una religiosità matura, e dall’altra parte, come la domanda di religiosità possa trovare in ambito ecclesiale uno spazio per essere capita e per esprimersi, dando vita a percorsi individuali e comunitari arricchenti.
Questo doppio movimento è stato ben espresso nelle indicazioni scaturite dal Sinodo sui giovani, la fede e il discernimento vocazionale (2018), che hanno ribadito con chiarezza che i giovani chiedono “a gran voce una Chiesa autentica, luminosa, trasparente, gioiosa” e che i giovani sono portatori di bisogni che vanno soddisfatti, di aspettative che non vanno deluse e di una tensione spirituale che non va svilita, ma sostenuta e fatta sbocciare.
Nella storia di un giovane chiamato a vivere negli anni ‘20 del 2000, si intersecano sempre più linee di pensiero e di azione diverse che mostrano la vicinanza (a volte la con-fusione) di sensibilità apparentemente distanti e non conciliabili, come la spinta alla secolarizzazione e la riscoperta della spiritualità, l’ingresso in uno scenario post-cristiano e forme di risveglio religioso che recuperano contenuti e simboli della tradizione. In ragione di queste “ibridazioni”, interrogarsi sull’esperienza religiosa dei giovani di oggi significa andare oltre le etichette e le categorizzazioni sociologiche, ma anche oltre il riduzionismo statistico che riconduce tutto a un problema di quantità e di presenze, per comprendere, anzitutto, la fenomenologia del rapporto che i giovani intrattengono con la dimensione dei significati ultimi.
Alla luce di questa premessa e della ineliminabile interconnessione tra religiosità, vocazioni, esperienza e appartenenza ecclesiale, si cercherà di riflettere sulla ricerca religiosa dei giovani in termini qualitativi, sottolineando la necessità metodologica di “leggere” la religiosità giovanile alla luce di alcune trasformazioni che stanno mutando radicalmente il mondo dei giovani (es. nuove tecnologie, mobilità, nuove appartenenze, fragilità territoriali). Al contempo si condurrà una lettura volta a cogliere sia la cosiddetta religiosità ecclesiasticamente orientata, sia le aree nelle quali si possono rinvenire tracce di religiosità de-istituzionalizzata. L’attenzione si soffermerà quindi anche su alcuni campi di espressione della sensibilità giovanile (ambiente, volontariato, politica, territorio) che contengono in nuce una ricchezza e una vitalità che li portano ad essere possibili punti di partenza per realizzare itinerari pastorali e vocazionali rivolti ai giovani. Infine, nell’ultima parte del contributo, saranno condivise alcune proposte utili a propiziare, nei contesti ecclesiali, positivi percorsi di maturazione del rapporto tra giovani e sfera religiosa.

In piena metamorfosi. Dalla ricerca allo smarrimento e ritorno

Da Note di Pastorale Giovanile, di don Rossano Sala.

***

Sono passati sei o sessant’anni?

L’universo giovanile è magmatico, allo stesso modo della storicità sociale dell’umanità, da sempre in perenne movimento. Le diversità sono sempre più grandi e lo scambio dinamico tra globale e locale si fa sempre più animato. Non c’è altro modo di conoscere questo mondo che frequentarlo quotidianamente. Insieme poi si può anche studiarlo con passione.
Siamo molto grati a Valerio Corradi, sociologo attento e intelligente, che con una certa scadenza ci aiuta a considerare con interesse e interpretare con sapienza i cambiamenti in atto nella religiosità dei giovani. Lo aveva fatto per noi sei anni fa nell’accattivante Dossier di marzo 2015 (Giovani e religiosità. Verso un cambio di paradigma) e ci ripropone un aggiornamento in questo numero di NPG.
Facciamo un piccolo esperimento. Proviamo a pensare al 2015, partendo dalla nostra esperienza e dalla nostra memoria personale, e anche dalla considerazione di che cosa è cambiato nella pratica della pastorale giovanile, nell’immaginario ecclesiale e nella vita della società in questa piccola manciata di anni.
L’enciclica Laudato sì’ sulla cura del creato (2015), il bicentenario della nascita di don Bosco (2015), la conclusione del Sinodo sulla famiglia con la pubblicazione di Amoris laetitia (2016), la Giornata Mondiale della Gioventù di Cracovia e di Panama (2016 e 2019), l’entusiasmante cammino sinodale con e per i giovani (2016-19), il Sinodo della regione Panamazzonica (2019) e poi l’avvento della pandemia, che ha rapidizzato i cambiamenti in atto, oltre che aggiungerne degli altri. Pensiamo ai repentini mutamenti climatici, alla sempre più critica situazione politica internazionale, all’aumento esponenziale del fenomeno delle migrazioni. È tutto un movimento magmatico che si fa sempre più liquido e più rapido. Fratelli tutti (2020) raccoglie alcune delle sfide globali più importanti e delicate del momento.
Talvolta mi chiedo se sono passati, dal 2015, sei o sessant’anni. Perché effettivamente i fondamentali su cui ragionavamo in quegli anni appaiono radicalmente mutati.

Decifrare la religiosità giovanile con categorie nuove

Verso la fine del Dossier Valerio Corradi definisce la nostra come “un’epoca di smarrimento”. Mi pare azzeccata questa proposta, legata sia alla condizione dei giovani che a quella degli adulti. Alcuni “fondamentali” appaiono perduti, sembrano mancare dei “punti fermi” prima assodati e siamo alla ricerca di “nuovi punti fermi” che non si intravedono ancora all’orizzonte.
Qualcuno parla di “fragilizzazione” di tutte le posizioni, perché nessuno è più così tanto sicuro delle proprie convinzioni. Questo è un elemento che ha il vantaggio di farci diventare tutti un po’ più umili e rispettosi delle posizioni e delle convinzioni altrui. Altri annotano che i percorsi sono sempre più personali. Difficile cercare di standardizzare e omologare le esperienze – soprattutto in ambito religioso giovanile – in quanto “il tempo dell’autenticità” che stiamo attraversando impone ad ognuno di cercare la sua personale via per affrontare le sfide e il senso dell’esistenza. Ancora altri avvertono i segnali una rinnovata “fioritura” della ricerca spirituale, che però non sappiamo bene dove ci porterà, perché spesso slegata da percorsi istituzionali e quindi di breve e incerta durata. La pandemia, che ha bloccato l’espressione istituzionale della preghiera (pensiamo alla partecipazione liturgica), ha aperto il campo per la ricerca di nuove soluzioni creative e tendenzialmente individuali.
L’evento pandemico globale che stiamo ancora attraversando ha segnato una certa irrilevanza della proposta ecclesiale di senso e una rinnovata fiducia nella scienza, che attraverso i vaccini appare l’unica forza che sembra essere in grado di contrapporsi alla virulenza in atto. Che la ricerca si sia tramutata in smarrimento deve farci pensare. Soprattutto se questo non riguarda semplicemente i giovani – tutto sommato è abbastanza normale che le giovani generazioni, per definizione in ricerca, abbiamo dei momenti di smarrimento – ma la società civile nel suo insieme, e anche la Chiesa. Certo, ci sono dei segnali inequivocabili che anche la nostra amata Chiesa, di cui con gioia ci sentiamo parte viva, stia attraversando alcuni momenti di disorientamento.
Una delle tante positività del Dossier di Valerio Corradi è l’invito a decifrare la religiosità giovanile con categorie nuove. Nel proporre un’analisi di alcuni campi di espressione della religiosità giovanile odierna avanza, alla fine, alcune proposte per sintonizzarsi con la sensibilità dei giovani d’oggi e per agganciare la sempre viva domanda di senso che attraversa l’universo giovanile. Quindi lo smarrimento non è l’ultima parola, perché tra le nebbie del nostro tempo si intravedono alcuni punti luce su cui far leva per il rinnovamento.

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Cattedrali gotiche d’Europa

Da Note di Pastorale Giovanile.

Al di fuori della Francia è l’Inghilterra a recepire per prima lo stile gotico, apportandovi però una serie di varianti: attenzione alla decorazione, specialmente sulla facciata; lo sviluppo orizzontale delle facciate stesse; presenza del transetto incrociato al centro della navata; mancanza del deambulatorio absidale e delle cappelle radiali.
Ai lettori di Follett, ricordiamo la cattedrale di Peterborough, che ha ispirato I pilastri della terra.

Queste le periodizzazioni del gotico inglese: Early English (1170/1300 ca.); Decorated English (1300-1375 ca.); Perpendicular English (1375-1500 ca.)

Ecco una pubblicazione di Maria Rattà sulle Cattedrali Gotiche d’Europa con un focus sul Gotico inglese

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Europa e laicità

Di Renato Cursi

La parola “laicità”, tra le più abusate del nostro tempo, è radicata nell’idea di popolo. Sul piano etimologico, è laico ciò che è del popolo, di tutto il popolo, in contrapposizione a ciò che appartiene ad una o più parti separate dal resto. Se è in pericolo la laicità, è in pericolo l’esistenza stessa del popolo che la esprime.
I popoli europei hanno imparato a conoscere interpretazioni diverse di questo concetto nel corso della storia, con particolare riferimento al rapporto tra religioso e civile nell’ordinamento giuridico e nella vita sociale e politica. In questo percorso storico, certamente la parola di Gesù nel Vangelo (Mt 22,21; Mc 12,17; Lc 20,25) segna una forte discontinuità con il passato (come testimoniato da alcune descrizioni della vita delle prime comunità cristiane, non ultima la cosiddetta Lettera a Diogneto), anche se lo stesso non si può sempre dire delle sue interpretazioni e applicazioni successive da parte degli stessi cristiani.

Oggi la laicità in Europa è in pericolo, sotto i colpi di opposti fondamentalismi che fingono di combattersi per alimentarsi a vicenda. Una laicità di Stato che nega il diritto dei cittadini a vivere e testimoniare una fede trascendente o che comunque relega queste persone ad una cittadinanza di livello inferiore rispetto agli altri, è infatti la migliore alleata dei fondamentalismi religiosi. Non a caso, papa Francesco nel suo messaggio per le celebrazioni del 40° anniversario della Commissione degli Episcopati dell’Unione Europea (COMECE), ha affermato di sognare “un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti. Una terra aperta alla trascendenza, in cui chi è credente sia libero di professare pubblicamente la fede e di proporre il proprio punto di vista nella società”. Papa Francesco afferma inoltre di sperare che sia finito, con il tempo dei confessionalismi, “anche quello di un certo laicismo che chiude le porte verso gli altri e soprattutto verso Dio, poiché è evidente che una cultura o un sistema politico che non rispetti l’apertura alla trascendenza, non rispetta adeguatamente la persona umana”. Una laicità atea non è laica: divide il popolo in se stesso e lo lacera.

Non si tratta quindi di abbracciare mode e ideologie dell’ultima ora, volte a negare acriticamente le radici per darsi slanci illusori con ali di cera. La sfida della cancel culture, ad esempio, forma moderna di ostracismo neopuritano, impone di educare al pensiero critico e ad una “coscienza storica”, come leggiamo nella Lettera Enciclica Fratelli Tutti (FT) dedicata da papa Francesco alla fraternità e all’amicizia sociale (FT 13-14). In quest’Enciclica papa Francesco rivolge due appelli fondamentali ai giovani, entrambi connessi esplicitamente con l’Esortazione Apostolica Christus Vivit. Il primo di questi due appelli è dedicato esattamente al tema che stiamo affrontando: «Se una persona vi fa una proposta e vi dice di ignorare la storia, di non fare tesoro dell’esperienza degli anziani, di disprezzare tutto ciò che è passato e guardare solo al futuro che lui vi offre, non è forse questo un modo facile di attirarvi con la sua proposta per farvi fare solo quello che lui vi dice? Quella persona ha bisogno che siate vuoti, sradicati, diffidenti di tutto, perché possiate fidarvi solo delle sue promesse e sottomettervi ai suoi piani. È così che funzionano le ideologie di diversi colori, che distruggono (o de-costruiscono) tutto ciò che è diverso e in questo modo possono dominare senza opposizioni. A tale scopo hanno bisogno di giovani che disprezzino la storia, che rifiutino la ricchezza spirituale e umana che è stata tramandata attraverso le generazioni, che ignorino tutto ciò che li ha preceduti» (FT 13, ChV 181).

 

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Filosofia e promozione dell’umano

Da Note di Pastorale Giovanile.

di Angelo Tumminelli (PhD in Filosofia Morale – Università La Sapienza di Roma – Docente di Filosofia e storia nei licei)

La filosofia come prassi esistenziale

Un chiarimento metodologico si impone a chi intende porsi la domanda sulla praticabilità della filosofia oggi, in un contesto culturale e mediatico pervaso dalla velocità e dall’incapacità di fermarsi a ponderare sulle questioni essenziali dell’esistenza: il chiarimento riguarda la filosofia come prassi la quale non può coincidere, come un comune pregiudizio la intende, con una diatriba accademica riservata a pochi iniziati o, ancora peggio, con un esercizio di speculazione logica volto a potenziare l’intelletto a scapito di coloro che non hanno ancora raggiunto il medesimo livello di comprensione della realtà. In tal caso, la filosofia si trasforma in gnosi, in una mera eristica fine a se stessa che snatura e soffoca quella originaria dimensione di meraviglia che, secondo Aristotele, sta alla base di ogni atteggiamento autenticamente filosofico. In realtà, la filosofia è ben altro: essa è anzitutto prassi esistenziale animata all’interno di una continua condivisione comunitaria fatta di scambi reciproci, di confronto e di dialogo. Basti guardare alle prime scuole filosofiche greche che si costituiscono come comunità di vita nelle quali ciò che conta veramente non è tanto il grado di conoscenza raggiunto quanto piuttosto la disposizione al dialogo, la vita comunitaria e l’ascolto del maestro. Dunque, non si può pensare alla filosofia come qualcosa di avulso dal reale e totalmente astratto: si deve guardare ad essa come ad una fondamentale possibilità dell’umano o, per dirla con Pierre Hadot, come a quell’esercizio spirituale che attesta per ogni singola persona la possibilità di aprirsi ad un senso esistenziale. Ciò richiede l’atteggiamento dello stupore insieme alla capacità della condivisione con la quale soltanto diviene possibile tradurre il pensiero in uno stile di vita, in una prassi personale. Si dice opportunamente che chi pratica la filosofia esercita il Logos: per la filosofia, tuttavia, il Logos non è fine ma strumento, non destinazione ma ponte. Il Logos è la via filosofica che media tra l’amore personale e la sapienza, tra la dimensione affettiva e quella conoscitiva nelle quali si costituisce la persona. Il Logos filosofico è il mezzo dell’incontro tra il Filein e la Sophia, tra la tensione desiderativa dell’essere umano e quella pienezza conoscitiva destinata a rimanere mai definitivamente conquistabile. Oggi più che mai si può e si deve praticare la filosofia come possibilità dell’incarnazione del Logos ovvero come via maestra per trasformare la conoscenza in sapienza, l’oggettività del sapere in vita che pullula di desideri e affetti. In questo senso, la pratica filosofica attesta la proiezione umana verso una ragione esistenziale nella cui ricerca si inverano le possibilità più proprie dell’umanità.
Tornare a praticare la filosofia, all’interno di un orizzonte comunitario di condivisione e attesa comune, può ricondurre l’uomo alla sua verità vitale distogliendolo così dalle più disparate forme di alienazione e di schiavitù che rischiano di mortificarne l’essenza.

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Rubrica 16 anni, conclusione…ma non del tutto!

Di Marco Pappalardo

Poco meno di un anno fa abbiamo scommesso sulla rubrica “Sedici anni” e sul fatto che non fosse un adulto a scrivere le riflessioni, ma gli stessi adolescenti. Saranno volubili, indecisi, svogliati, in mezzo alla tempesta, immersi nei social, disorientati dai primi amori, eppure sei adolescenti dell’Istituto Superiore Majorana-Arcoleo di Caltagirone, in provincia di Catania, ci hanno fatto vincere la scommessa!

Giorgia, Chiara, Adele, Sofia, Gloria e Stela meritano di essere chiamate per nome e di essere ringraziate per aver aperto il loro cuore ai lettori, in un anno decisamente difficile, quando sarebbe stato più facile tenersi tutto dentro. Non c’è pastorale efficace che non parta dalla realtà, che non emerga dalla fragilità, che non si immerga nel mare della vita per portare alla luce le domande vere e le ipotesi di risposte su cui costruire uno o più progetti; al contrario, eccetto intuizione sante o geniali, il rischio è di dare risposte (anche giuste e interessanti) a domande mai poste. Se pensiamo proprio agli adolescenti, considerata la naturale indisponibilità all’ascolto degli adulti, svolgeremmo un enorme lavoro finendo però per raggiungere pochi, i soliti o nessuno. Da educatori non dobbiamo e non possiamo accontentarci, e anche per questo le nostre autrici non sono state scelte (è facile e scontato fare squadra con chi ci viene dietro sempre e comunque!), ma hanno ricevuto insieme a tanti altri una proposta, dicendo “sì” chi subito, chi tra mille incertezze. Inoltre, la loro voce non ci è giunta da contesti “protetti” e “religiosamente certificati” come parrocchie, oratori, movimenti, associazioni ecclesiali, bensì da una scuola statale di provincia, proprio per avere una prospettiva di “periferia” e “fuori le mura”.

Ogni tanto ci hanno fatto attendere un po’ di più prima di inviare la riflessione, altre volte le abbiamo sollecitate per non saltare l’appuntamento, altre ancora ci hanno chiesto giustamente il perché di qualche correzione al loro testo, ma in fondo è tutto normale quando quotidianamente si sta accanto a loro. Ci hanno lasciato una piccola grande eredità e tanti temi che non si chiudono con questa rubrica, anzi ci aprono la strada per riflettere, confrontarci e agire, quasi un “abbozzo pastorale” da trasformare in “disegno” insieme ai nostri adolescenti e poi in “progetto” nelle comunità.

Preghiera e quotidiano

Di Carmine di Sante

Premesse

Il titolo collega due termini (preghiera e quotidiano) che la tradizione generalmente ha tenuto distinti e separati: per pregare non bisogna allontanarsi dal quotidiano, ritirarsi “nel deserto”, fuggire dal mondo? Come è possibile pregare in mezzo alle “preoccupazioni ordinarie” (lavoro, casa, famiglia)?
Il collegamento che si intende stabilire tra preghiera e quotidiano è duplice: da una parte mostrare che la preghiera è legata agli eventi quotidiani (alzarsi, lavorare, mangiare e dormire), dall’altra rilevare che essa, mentre li assume, li trasfigura. La preghiera infatti ha il potere, per così dire, di trasfigurare l’ordinario in straordinario, non certo per virtù magica ma per la forza della fede che essa esprime.
I momenti principali e irriducibili dell’arco quotidiano sono quattro: il risveglio (al mattino), il lavoro (durante la giornata), il pasto (al mezzogiorno), il riposo (alla sera). Di ognuno di questi momenti si cercherà di vedere come si rapporta con la preghiera e come viene da questa risignificato.

Il risveglio

Svegliarsi è passare dal tempo del sonno al tempo della veglia, dalla morte dei sensi al risveglio della coscienza, non solo psicologica ma soprattutto etica. Ma questo passaggio – dal sonno alla veglia – non avviene per forza interna quanto piuttosto esterna. In realtà svegliarsi è essere svegliati, è essere visitati e incontrati dalle luce delle cose che, riaccedendo alla loro identità di figure compiute, “bussano” alla porta dei nostri sensi svegliandoci e richiamandoci al rapporto con la realtà.
Ma tornare al rapporto con la realtà è tornare alla percezione della sua complessità e ambiguità. Il mondo che si offre ai nostri sensi e che torna ad apparire entro l’orizzonte della coscienza non è solo un mondo bello e positivo che si offre come oggetto, ma un mondo problematico che chiama in causa e ci interpella. Per cui essere svegliati dalla luce delle cose è in realtà un essere interrogati dalla loro riapparizione e dalla loro presenza, e di fronte ad esse più che dominatori ci si scopre in situazione di recettività e di risposta. Esse, con il loro esserci e con la loro stesso silenzio, pongono domande alle quali non si può non rispondere.
Pregare al mattino (con un “segno di croce”, con un “Padre nostro”, con un salmo, con un canto o con formulari più ampi come la preghiera di lodi nelle comunità monastiche) è assumere e risignificare alla luce dell’amore di Dio l’evento coscienziale del passaggio dal sonno alla veglia. Pregare al mattino – sostando, sia pure per pochi istanti, dinanzi al miracolo del proprio risvegliarsi – è prendere coscienza che il mondo delle cose che la luce rigenera e ripropone ai sensi non è il mondo della pura e semplice fattualità, ma il mondo di Dio, cioè la creazione. Questa non consiste nel fatto che Dio ha prodotto le cose dal nulla, ma nel fatto che egli le dona e ridona ogni giorno all’uomo per amore. Un’immagine adeguata per capire il senso della creazione divina può essere quella della madre che ricama il lenzuolo per il suo bimbo o quella dell’artigiano che gli prepara la culla. In casi come questi, l’accento non cade né sulla fattualità dei due oggetti – l’esserci del lenzuolo e l’esserci della culla – né sulla loro produzione – il costruirle con o senza materiali precedenti – ma sull’atto di amore che in essi prende corpo e si rivela. Svegliarsi al mattino pregando è sentire – o predisporsi a sentire – che la luce che rigenera le cose è l’amore di Dio, la sua benevolenza per l’uomo, e che il mondo che ci attende non è né casualità né fatalità, ma l’incarnazione della sua tenerezza e della sua cura per tutti e ciascuno singolarmente.
Nella liturgia ebraica l’orante, quando si sveglia al mattino, prega con queste semplici parole: “Benedetto sei tu Signore che restituisci l’anima ai nostri corpi”. “Restituire l’anima ai corpi” è un’espressione che, in ebraico, vuol dire: risuscitare, ridonare la vita, far rivivere. Pregare è vedere ogni mattino come una nuova creazione, in cui Dio, come nel racconto della Genesi, ricostituisce, con il suo “alito”, ognuno come “essere di vita” (cfr Gn 1,7) e come “sua immagine e sua somiglianza” (cfr Gn 1,26), cioè custodi del mondo e suoi responsabili. Certo, la preghiera non ignora che il giorno che inizia è – come tutti i giorni – segnato dalla durezza del vivere e dalla minaccia della monotonia; ma essa, sintonizzandoci con il senso profondo della realtà che è l’amore di Dio e il suo perdono, offre la prospettiva ideale nella quale collocarsi e dalla quale derivare la forza e il coraggio per trasformarlo e viverlo secondo il disegno di Dio: “Il primo mattino è allora il tempo in cui il cuore credente si accorda sul cuore nascosto del mondo: ‘voglio cantare, a te voglio inneggiare: svegliati mio cuore, svegliatevi arpa e cetra, voglio svegliare l’aurora’ (Sal 57,9)” (A. Rizzi, Parola di Dio e vita quotidiana, Elledici 1998, p. 67).

Il lavoro

Il risveglio e il rapporto con le cose non è di tipo contemplativo ma trasformativo: il mondo, appressandosi all’uomo e richiamandolo in vita, gli si offre come compito per essere “eseguito”, come una pagina musicale o un’opera teatrale che esigono di essere attualizzati. Ciò vuol dire che è il lavoro e non la contemplazione il tipo di rapporto dominante con il mondo. E ciò spiega perché sia proprio il lavoro l’elemento qualificante il giorno al quale la preghiera del mattino introduce.
Ma quale lavoro? Il lavoro inteso e vissuto come dominio sulle cose ridotte a puro oggetto o il lavoro come collaborazione che le porta a compimento? Il lavoro come mezzo per la propria autorealizzazione o il lavoro come servizio per i fratelli? Il lavoro come espressione della propria volontà di progettazione e di affermazione o il lavoro come assecondamento e trasparenza dell’intenzionalità creatrice?
Collegare il lavoro alla preghiera (anche qui con modalità diverse che possono andare dal semplice segno della croce a una breve formula a testi ampiamente articolati) è operarne una rilettura liberante e originale alla luce dell’amore creatore colto nella prima alba del mattino.
Visto alla luce della fede – di cui la preghiera costituisce un’oggettivazione – il lavoro umano non è né puro dominio sul mondo né pura arbitrarietà su di esso, ma compito affidato che esige rispetto e collaborazione. Le cose che, nel corso della giornata, si offrono all’uomo per essere “lavorate”, non sono “oggetti” che egli può trasformare a piacimento, ma “segni” e “parole” che attendono di essere interpretati e portati a compimento. L’interpretazione è quell’attività peculiare nella quale si è contemporaneamente – come nella lettura di un testo – attivi e vincolati; attivi, perché solo attraverso e a misura della partecipazione del soggetto il testo parla e rivela la sua verità; vincolati perché tale “intervento”, lungi dall’imporsi al testo e violentarlo, si pone di fronte ad esso in un rapporto di obbedienza e di rispetto, il solo che permette di farlo essere.
Se le cose portano iscritto, nel loro cuore, l’amore di Dio per l’uomo e se esse sono creazione perché sorrette dalla logica del dono, rapportarsi ad esse nell’attività lavorativa – qualsiasi attività, sia manovale che “spirituale”, sia materiale che simbolica – è rispettare questo senso, vincolati alla sua oggettività e ponendosi a servizio della sua verità. Il lavoro diviene così incarico che Dio ci affida e con cui ciascuno diventa – in alleanza con lui – “con-creatore” del mondo. Concreatore: prima che a livello strumentale e operativo a livello intenzionale, che è quello della sua finalità e della sua destinazione. Con il suo “lavoro” l’uomo diventa con-creatore del mondo sposandone la logica di dono che lo sottende e ponendosene a servizio con il suo logos trasformativo. Pregare al mattino e durante la giornata è svegliarsi e risvegliarsi a questa responsabilità radicale che di ogni lavoro fa l’espressione di un duplice amore: a Dio – che, nell’obbedienza chiede di volere quello che lui vuole – e ai fratelli – amarli con lo stesso amore di gratuità con cui Dio li ama -. Qui la preghiera non opera né come strumento magico (il sogno utopistico di liberarsi dal lavoro) né come mezzo ideologico (legittimare il lavoro alienante come volontà di Dio), ma come momento di critica e di responsabilizzazione (assumere il lavoro immettendoci il giusto fine che dà la forza dì assumerlo e di redimerlo): “Non si tratta di cullarsi in infantili illusioni che pensano di poter trasformare interamente il lavoro in gioco o di poterlo sublimare integralmente in una specie di celebrazione cosmica. Il lavoro, come tutto l’umano, è sotto il duplice segno della grazia e del peccato, della creazione e della caduta, della gioiosa produttività e della pesante alienazione. La spiritualità del mattino è di disporsi al lavoro come dono attivo, dopo aver lodato Dio per il dono ricevuto; è di chiedere forza per portarne l’alienazione e luce per disalienarlo, energia per la fatica e passione per la creatività: che l’una non accasci e l’altra non esalti, ma ambedue siano comandate dall’obbedienza al progetto creatore e dall’amore ai fratelli” (A. Rizzi, cit., p. 69).

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Il percorso formativo del “Gruppo Samuele”

di Marcello Scarpa

Nell’attuale società liquida, caratterizzata da scelte provvisorie e reversibili, incertezza del futuro e ristrettezza di orizzonti progettuali, non è facile proporre ai giovani né la ricerca di una forma di vita “solida” intorno a cui imperniare la propria esistenza, né parlare di “vocazione”, una parola che evoca l’esigenza di impegni definitivi che limitano la libertà della persona. Eppure, nonostante le intemperie dell’attuale cultura postmoderna, il termine “vocazione” non è estraneo al background culturale dei giovani d’oggi. Essi, infatti, sentendosi chiamati a prendere delle decisioni in ambito professionale, sociale, politico e affettivo, sono alla ricerca di una direzione da assegnare alla propria vita, di qualcuno con cui confrontarsi sul proprio futuro. Pertanto, è doveroso accompagnare i giovani nella ricerca della propria “vocazione”, ovvero del modo di collocarsi nel mondo con l’originalità e la specificità della propria esistenza.
Lungo il corso della storia ecclesiale il concetto di vocazione ha conosciuto differenti modalità di comprensione. Il Concilio Vaticano II ha recuperato il significato biblico della vocazione, Dio non solo ha creato l’uomo, ma l’ha pensato e amato sin dall’eternità, assegnandogli un nome preciso con il quale lo chiama ad entrare in comunione con Lui «per collaborare alla trasformazione del mondo» (CV 178); in tal senso, ogni vita umana ha un orizzonte vocazionale in rapporto a Dio. Al dato originario che la vita è vocazione, bisogna aggiungere un secondo elemento, il “come” rispondere alla vocazione della vita. Il cardinale Martini, che nell’anno pastorale 1990-1991 iniziò con alcuni giovani dai 17 ai 25 anni l’esperienza del Gruppo Samuele, spiegò loro che il senso della vocazione consisteva nell’«orientare la libertà verso la realizzazione del progetto di Dio sul mondo, per quella parte che mi riguarda». Nei suoi quarant’anni di storia, il Gruppo Samuele è stato insieme un cammino di grazia e libertà per molti giovani che, già familiari ad un annuncio minimale del Vangelo, «avvertivano il bisogno di un approfondimento serio della loro fede e la necessità di un itinerario concreto per scoprire la loro vocazione». Ancora oggi, «stupiscono la disponibilità dei giovani a intraprendere l’itinerario, la serietà e l’assiduità agli incontri mensili da novembre a giugno, la disponibilità a lasciarsi guidare dalla Parola del Signore in un discernimento reale della propria vita».

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Note di Pastorale Giovanile, gruppo di redazione al lavoro per il 2022

Il 21 giugno, nella casa del Sacro Cuore di Roma, si è ritrovato il gruppo di redazione di Note di pastorale Giovanile per il consueto appuntamento di discernimento e discussione sulla Rivista per il prossimo anno.

Dopo uno stop dovuto all’emergenza sanitaria che ha costretto al collegamento on line, la riunione si è svolta in presenza. La modalità di lavoro è stata quella del “discernimento generativo”, proprio per valorizzare la presenza e lo scambio di persona.

Don Michele Falabretti, vicedirettore di NPG e Responsabile del Servizio Nazionale per la pastorale giovanile, Ernesto Diaco, direttore dell’ufficio Scuola della CEI e don Rossano Sala, direttore di NPG e docente all’UPS hanno introdotto la giornata con una panoramica su quanto sta accadendo nella Chiesa italiana e universale.

C’è stato poi lo spazio per il discernimento generativo, con il contributo di tutti e con quanto ciò che si era ascoltato aveva suscitato in ciascuno dei presenti. Il cuore della discussione è stato proprio il cambiamento epocale che stiamo ancora vivendo, che è epocale non solo perché il mondo è diverso rispetto a un anno fa ma perché siamo dentro un sentimento forte. Come si può rispondere alle domande di senso che oggi risuonano nella vita di tanti? Sicuramente il cammino sinodale, sia come metodo di lavoro che come esercizio per mettere in campo azioni pastorali.

Dopo il pranzo, c’è stato il tempo della programmazione: ascoltate le riflessioni del mattino, i membri del gruppo di redazione hanno proposto temi per il prossimo anno di Note di Pastorale Giovanile, una rivista che cresce di anno in anno anche fuori dal mondo salesiano e che ormai è diventata punto di riferimento per la formazione e l’approfondimento della Pastorale Giovanile nella Chiesa italiana.

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