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L’eucaristia non è cosa per giovani (?)

Da Note di Pastorale Giovanile, aprile/maggio.

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di Manuel Belli

Nel piano pastorale di una diocesi ho letto che le persone avrebbero abbandonato la parrocchia tradizionale, che oggi entrerebbero in contatto con la chiesa in un modo diverso e in luoghi diversi, per esempio attraverso le scuole o le case di formazione, e che per molti un luogo di incontro sarebbe anche la celebrazione eucaristica domenicale. La partecipazione dei cattolici all’eucaristia scende sotto il 10% e tuttavia i responsabili continuano a scrivere che “per molti” un luogo di incontro con la chiesa sarebbe proprio la celebrazione eucaristica domenicale. Allora a partire da quale numero oseremo parlare di “poco”? Dobbiamo scendere ancora fino al per mille?[1]

Mi sono giocato ottocento dei caratteri che ho a disposizione con questa citazione, ma occorre partire da un sano “bagno” di realismo: tra coloro che si dicono cattolici, l’incontro con Cristo nell’eucaristia accade per una stretta minoranza di credenti, e le percentuali sono addirittura inferiori per la fascia di età tra i trenta e i quarant’anni. Se volessimo dirla senza girarci attorno e senza addolcire troppo la pillola, suonerebbe così: l’eucaristia non è un luogo in cui i giovani oggi incontrano il Signore, se non per una stretta minoranza. Valérie le Chevalier nelle sue pubblicazioni invita a superare l’identificazione del cattolico con il discepolo o con colui che partecipa ai riti, e statisticamente la questione è evidente: pochissimi giovani partecipano ai riti, ma in Italia poco più della metà non smette di dirsi cattolico[2]. Ben inteso: è un luogo di incontro con il Signore che vanta una partecipazione quattordici volte maggiore rispetto alle iniziative parrocchiali extra-liturgiche. Gli ultimi dati Istat dicono che il 14% dei giovani italiani va a messa circa una volta alla settimana, mentre circa l’1% transita con una certa regolarità negli ambienti parrocchiali[3]. Sviluppiamo allora alcuni pensieri in due direzioni: cosa succede per quel giovane e mezzo su dieci che viene a messa? Cosa potrebbe succedere per gli altri?

Per quell’uno e mezzo su dieci

Riformuliamo la questione: pochissimi giovani incontrano il Signore nell’eucaristia, tuttavia è probabilmente uno dei luoghi di incontro statisticamente più rilevante e teologicamente non vi è dubbio che sia il luogo più importante.
Ebbene: dopo Sacrosanctum Concilium la Chiesa ha corso il rischio di ritenere che anche quel giovane e mezzo su dieci che viene ai riti deve farlo attivamente, piamente e consapevolmente e non deve assistervi come muto o estraneo spettatore (SC 48). In effetti, nell’instrumentum laboris del Sinodo dei Vescovi del 2018 si fa riferimento al questionario a cui molti giovani hanno lavorato e si dice che «molte risposte al questionario segnalano che i giovani sono sensibili alla qualità della liturgia» (187). La sfida sembra molto interessante: i giovani vengono molto meno all’eucaristia, ma chi viene chiede un’alta qualità della celebrazione liturgica. Sembra che nella coscienza dei giovani sia stato definitivamente bandito l’assioma per cui la messa domenicale sia un precetto a cui assolvere, ma sia intervenuta l’idea che sia un luogo della fede importante e da curare.
Ma cosa significa questo maggiore desiderio di qualità nella celebrazione? Sempre nel testo preparatorio al Sinodo leggiamo:

I giovani più partecipi della vita della Chiesa hanno espresso varie richieste specifiche. Ritorna spesso il tema della liturgia, che vorrebbero viva e vicina, mentre spesso non consente di fare un’esperienza di «alcun senso di comunità o di famiglia in quanto Corpo di Cristo», e delle omelie, che molti ritengono inadeguate per accompagnarli nel discernimento della loro situazione alla luce del Vangelo. «I giovani sono attratti dalla gioia, che dovrebbe essere un segno distintivo della nostra fede», ma che spesso le comunità cristiane non sembrano in grado di trasmettere. (69)

I giovani interpellati in vista del Sinodo chiedevano dunque un maggiore senso comunitario. Si tratta di una richiesta da interpretare: se è palese la contestazione di celebrazioni minimali e incentrare sul minimo necessario per la celebrazione, evidente il gruppetto di giovani che partecipa ai riti sente una certa discrepanza tra le parole della celebrazione (spesso nell’area semantica dell’amore) e una certa freddezza dell’assemblea liturgica.
Il rito ha conosciuto un’importante sotto-determinazione nella storia della riflessione teologica, ed è stato non raramente relegato a condizione necessaria perché si diano le grazie tipiche dell’eucaristia, ossia la presenza reale di Cristo e il suo sacrificio. L’assemblea liturgica in questo contesto era semplicemente una questione di praticità: tra corpo eucaristico di Cristo e corpo ecclesiale non era evidente alcun nesso nella celebrazione. I pochi superstiti giovani alle celebrazioni chiedono un atto di reintegrazione: il rito non è solo l’occasione per avere l’eucaristia, ma è necessario che sia uno spazio celebrativo intonato sull’eucaristia. Sacrosanctum Concilium insegna che tra i riti, le preghiere e la presenza di Cristo nell’eucaristia non ci deve essere alterità.
La provocazione che raccogliamo dal mondo giovanile non è semplicemente la richiesta di messe più animate, più smart, più solenni, ma più vere. Ciò che viene celebrato e la qualità della celebrazione vivono di una dissonanza che chiede di essere colmata. Giraudo sottolinea come i liturgisti del II millennio

«ignorando del tutto i giochi di forze e la dinamica teologica degli elementi anaforici, si preoccupano unicamente del vano centrale della loro costruzione – fuori di metafora: la consacrazione –, e questo vano centrale, lo curano nei minimi particolari e lo caricano di addobbi, esattamente come la sala del cenacolo. Ne consegue che tale vano o elemento centrale, peraltro importante, risulta come librato in aria, senza più alcuna possibilità di accesso agli altri elementi della struttura»[4].

L’eucaristia non può essere celebrata con le uniche preoccupazioni della validità e della chiarezza del messaggio concettuale. Ciò che è non verbale, relazionale, bello, elegante, affettivamente non neutro deve essere recuperato e curato.

Per quegli otto e mezzo che non vengono

Accanto alla stretta minoranza di giovani cattolici che vengono a messa, la maggior parte non ha nessun rapporto con l’eucaristia. Secondo i dati Istat, sono in netta diminuzione anche coloro che partecipano all’eucaristia solo saltuariamente, come ad esempio Natale e Pasqua.
Paradossalmente forse ci stanno ricordando che l’eucaristia è fonte e culmine della vita della Chiesa, non tutta la vita della Chiesa. La pandemia ci ha mostrato piuttosto brutalmente che non raramente nelle nostre comunità l’unica reale proposta di preghiera è l’eucaristia, qualche volta il rosario. Abbiamo pensato che forse avrebbe anche potuto bastare, e quando abbiamo chiuso le chiese ci siamo un poco illusi che probabilmente alla riapertura sarebbero tornati in molti, magari scossi da quanto stava capitando. I vescovi italiani non hanno esitato a metterlo per scritto; il 26 aprile del 2020 la CEI scriveva: «Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale». In realtà nell’estate del 2020 diversi giovani si sono attivati per fare della attività con i più piccoli, ma non era poi così chiaro a tutti che lo facevano «nutriti dalla vita sacramentale»: a messa non ci sono tornati, in larga maggioranza. In rete circolava un video dove alcuni giovani chiedevano «una sola cosa: ridateci la santa messa». Forse i vescovi hanno ascoltato fin troppo: a messa ci sono tornati quelli che hanno girato il video, e pochi altri.
Ma il problema è la messa? Certamente no, ma la messa è qualcosa di molto complesso: è fonte e culmine. E quando in un fiume la fonte e la foce vanno a coincidere, diventa una palude. Occorre mettere in gioco delle mediazioni, dei cammini mistagogici. Nell’eucaristia c’è tutto il mistero di Cristo, tutta la storia della salvezza compendiata. Non è pensabile un accesso immediato. Non si tratta di avere delle spiegazioni sulla ritualità o di avere nozioni catechistiche, ma semplicemente di intuire perché potrebbe avere senso partecipare a un rito. Il rito ha una potenza più che verbale; ci sono però due modi per metterlo fuori uso: intellettualizzarlo e anestetizzarsi. Se ha ragione Armando Matteo, una delle caratteristiche dei giovani attuali non è tanto che non capiscono l’eucaristia o che sono contrari ad una visione di fede. Solamente che «hanno semplicemente imparato a cavarsela senza Dio e senza Chiesa»[5]. Non ce l’hanno con la Chiesa… verrebbe da dire: magari! Significherebbe una passione attiva da cui partire. All’eucaristia non associano alcuna passione, non vi trovano nulla di interessante, nemmeno che meriti un pensiero di ribellione.
Occorrerebbe tornare a Emmaus, su quella strada. Dove la frazione del pane arriva, ma alla fine. Lungo la strada il Cristo riattiva passioni, riaccende interessi, intercetta sofferenze, risignifica con i due viandanti delle ferite. Allora lo riconoscono. Non si può accorciare la strada di Emmaus. Non si può più evitare l’incontro personale, la condivisione delle ferite. Perché non è che questi che non vengono più in Chiesa stiano poi tanto bene: qualcuno sostiene che siamo nell’epoca delle passioni tristi, in cui «se le persone non trovano quello che desiderano, finiscono per desiderare quello che trovano»[6].
Su questa strada di Emmaus in cui tornare e in cui l’eucaristia arriva alla fine, occorre bandire la sistematicità. Non dobbiamo avere paura dell’incoerenza, del non “fare sistema”. Si tratta di realismo: accompagnare un adolescente o un giovane significa mettere in conto una multiformità di appartenenze, di domande, di convinzioni e di modelli che non sono facilmente armonizzabili. Il tempo presente non ci consente di evocare con troppa facilità il linguaggio “dell’entusiasmo”, “della freschezza”, “della novità”. E anche quando l’eucaristia potrebbe accadere nella vita di un giovane, potrebbe anche riscomparire, potrebbe non trovarvi ciò che il catechismo dice in tutta la sua totalità.
Sarebbe un’illusione pensare che abbiamo ormai raggiunto vette inarrivabili di riforma liturgica, solo che purtroppo gli adolescenti non vengono alle nostre celebrazioni. La verità è che spesso siamo tutti in affanno, e tra le tante cose affannose che gli adolescenti sentono attorno a sé non hanno sensi di colpa a lasciarne perdere almeno una, ossia la messa. Se per anni li abbiamo portati in chiesa con il precetto, ora ne fanno volentieri a meno. Ma, come ogni essere umano, sono sensibili alla bellezza. La domanda con cui concludere è cosa ci sia di bello nelle nostre celebrazioni.

NOTE

[1] T. Frings, Così non posso più fare il parroco. Vi racconto perché, Ancora, Milano 2018, 108.
[2] Cfr. V. Le Chevalier, Credenti non praticanti, Qiqajon, Magnano (BI) 2019.
[3] Cfr. Oratori Diocesi Lombarde (a cura di), Giovani e fede. Identità, appartenenza e pratica religiosa dei venti-trentenni, Litostampa, Bergamo 2013.
[4] C. Giraudo, In unum corpus. Trattato mistagogico sull’eucaristia, San Paolo, Roma 2001, 462.
[5] A. Matteo, La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede, ed. Rubettino, Soveria Mannelli 2010, 14.
[6] M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2013, 63.

Ciò che rende credibile un educatore

Dalla newsletter di Marzo di NPG.

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di Ernesto Diaco

È trascorso un intero secolo da quando, negli anni Venti del Novecento, Romano Guardini assumeva la guida del movimento giovanile Quickborn (fonte viva), facendo del castello di Rothenfels sul Meno, nel centro della Germania, un laboratorio di sperimentazione pedagogica, liturgica e artistica. Nonostante la distanza che ci separa da allora, il pensiero educativo maturato in quegli anni dal giovane teologo, a stretto contatto con la vita dei giovani e con i fermenti che animavano l’Europa del primo dopoguerra, resta di avvincente attualità.
Sono del 1928, ad esempio, le sei introduzioni preparate per un raduno di educatori e insegnanti a Rothenfels, raccolte e pubblicate in italiano con il titolo La credibilità dell’educatore[1]. Si tratta di riflessioni poste in apertura dei lavori quotidiani, dedicati a “percorsi e mete” del compito educativo. Il taglio è semplice e colloquiale, ma la proposta si indirizza decisa verso gli aspetti più essenziali e profondi.
Chiunque voglia educare – esordisce Guardini – si trova a fare i conti abbastanza presto con un interrogativo: da dove gli viene la possibilità (e il diritto) di educare un’altra persona? Come si può cercare di orientare qualcuno verso la sua realizzazione? Certo non basta riconoscersi ‘già educati’ per assumere una responsabilità nella crescita altrui: un uomo che pensasse così “non avrebbe compreso che noi non possiamo mai considerarci ‘a posto’, ma cresciamo e diveniamo continuamente. Sarebbe più giusta un’altra risposta: perché io stesso lotto per essere educato. Questa lotta mi conferisce credibilità come educatore; per il fatto che lo sguardo medesimo che si volge all’altra persona insieme è rivolto anche su di me”[2].
È la cura di sé, senza trascurare nessuno degli aspetti che compongono la propria personalità, che permette di potersi prendere cura anche di altri. Poiché educare significa aiutare una persona a “conquistare la libertà sua propria”, non basta avvalersi di discorsi, stimoli o “metodi d’ogni genere”. “La vita – spiega Guardini – viene destata e accesa solo dalla vita. La più potente ‘forza di educazione’ consiste nel fatto che io stesso in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere… È proprio il fatto che io lotti per migliorarmi ciò che dà credibilità alla mia sollecitudine pedagogica per l’altro… Siamo credibili solo nella misura in cui ci rendiamo conto che un’identica verifica etica attende me, e colui che deve essere educato. Innanzitutto, vogliamo entrambi diventare ciò che dobbiamo essere”[3].

Una sana inquietudine

Alla base dell’opera educativa – e non solo all’inizio, ma lungo tutta la sua durata – sta dunque una sana inquietudine, che consente di non sentirsi mai ‘arrivati’ senza per questo cadere preda del senso di incapacità e di insoddisfazione. Il fatto di riconoscersi “figure incompiute, soltanto abbozzate”, paradossalmente, è una risorsa necessaria ed efficace per l’educatore, che può avvicinarsi agli altri in maniera dignitosa e affidabile solo se sinceramente convinto di dover (e poter) in primo luogo educare se stesso. Due sono i pericoli che possono minacciare tale atteggiamento costruttivo: la presunzione di credersi infallibili e la disperazione di chi, davanti alle cadute e agli insuccessi, getta la spugna e rinuncia a educare.
Ma questo lavoro su se stesso come avviene? In primo luogo – risponde Guardini – serve il “dono del discernimento” di ciò che si muove nel nostro intimo. Dentro di noi convivono bene e male; vanno portati in superficie, nella lucidità della coscienza.
Vi è poi una seconda via, che egli definisce “esercizio”. Si tratta di scegliere ciò che porta la vita fuori dal caos e le dà ordine, inscrivendolo gradualmente “nelle fibre vive del nostro essere. Allora, l’esercizio ha raggiunto il suo scopo: la virtù. Virtù è ciò in cui ‘valgo’; in cui sono ‘attivo’ e ‘uno’ con me stesso”[4].
Questa unità interiore è frutto di un’opera paziente e costante che conduce al possesso di sé, in un piano profondo dell’esistenza, dove verità e amore coincidono. Educazione, dirà più avanti, “significa rafforzare tutto ciò che ha influsso benefico sulla persona e combattere ciò che è causa della sua distruzione”[5]. L’educatore credibile è quello che non attende i giovani al termine della strada che ha loro indicato, ma colui che la percorre con loro.

Conoscere e accettare se stessi

Se c’è un’esperienza che l’educatore non tarda a fare è quella dei propri limiti. Senza ingrandirli oltre misura – potrebbe essere una comoda via di fuga – occorre essere sinceri con se stessi e con gli altri, così che il proprio volto, il volto dell’educatore, non finisca per ridursi a una maschera. Accettare se stessi è l’unico modo per “rimanere” nelle relazioni educative anche quando si fanno particolarmente difficili ed esigenti. Senza uno spazio in cui stare bene con se stessi, non è possibile alcun rapporto autentico con gli altri.
Conoscere e accettare se stessi è un cammino lungo e difficile. Romano Guardini – in un altro scritto debitore agli anni del Quickborn – lo paragona al viaggio di Dante nell’oltretomba, che egli considera un’opera interiore e spirituale, dunque educativa, oltre che letteraria. Un percorso in cui “al viaggiatore viene rivelato il mistero di Cristo, attraverso il quale la nostra essenza umana viene accolta nell’esistenza del Figlio di Dio. Egli allora non solo comprende ciò che sta al di là d’ogni realtà terrena, bensì anche se stesso”[6].
Per il teologo italo-tedesco, una persona non può comprendere se stessa solo a partire da sé. Agli interrogativi sulla propria identità ed esistenza, non si può dare risposta prendendo le mosse dalla propria natura. Risposta ad essi la dà solo Dio. La via puramente etica o psicologica non bastano: per accettare davvero se stessi occorre entrare nel campo della fede, dove cogliamo che “l’uomo non viene dalla natura, bensì dalla conoscenza e dall’amore, il che però significa dalla responsabilità del Dio vivente”[7]. Scoprire di essere dati a noi stessi porta a guadagnare il rispetto di sé, perché “Dio ha questo rispetto”[8].
In questo movimento, conoscersi e accettarsi stanno in un rapporto di stretta reciprocità: l’una cosa presuppone l’altra. Ed entrambi sono possibili unicamente nell’amore. “C’è sapere solo dove c’è amore”. L’uomo si conosce e si accetta “solo in quella magnanimità e libertà che si chiama amore. Ma l’amore ha inizio in Dio: nel fatto ch’Egli mi ama e che io divengo capace d’amarlo; e che Gli sono grato per il suo primo dono che m’ha fatto, ossia: me stesso”[9].

* Direttore dell’Ufficio Nazionale per l’educazione, la scuola e l’università della CEI e responsabile del Servizio Nazionale per l’insegnamento della religione cattolica della CEI.

NOTE

[1] R. Guardini, La credibilità dell’educatore, in Id., Persona e Libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, La Scuola, Brescia 1987, pp. 221-236.
[2] Ivi, p. 222.
[3] Ivi, pp. 222-223.
[4] Ivi, p. 228.
[5] Ivi, p. 235.
[6] R. Guardini, Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia 1992, p. 29.
[7] Ivi, p. 24.
[8] Ivi, p. 25.
[9] Ivi, p. 30.

Note di Pastorale Giovanile: rubriche per il 2023

Per il 2023, la rivista Note di Pastorale Giovanile ha in cantiere diverse rubriche.

Abitare la Parola ‒ incontrare Gesù
Guido Benzi

Desideriamo indagare, attraverso il Vangelo, cosa significa un autentico «incontro con Cristo»; seguiremo dunque Gesù e analizzeremo il suo stile, il suo modo di incontrare diversi tipi di persone, mescolandoci tra di loro per poter così fare anche noi il «nostro» incontro con Lui.

1. Giovanni il Battista incontra Gesù (Gv 1,19-36)
2. Andrea, Pietro, Filippo e Natanaele incontrano Gesù (Gv 1,35-51)
3. Nicodemo incontra Gesù (Gv 3,1-21)
4. La samaritana incontra Gesù (Gv 4,1-30)
5. Il funzionario del re ed il suo bambino incontrano Gesù (Gv 4,46-54)
6. Il paralitico incontra Gesù (Gv 5,1-18)
7. La folla incontra Gesù (Gv 6,1-15)
8. L’adultera incontra Gesù (Gv 8,1-11)


Saper essere: le competenze trasversali nei contesti educativi

A cura di Alessandra Augelli

In un incrocio tra cosiddette soft skills e life skills, verranno analizzate le capacità dell’educatore (e del “pastore”) nell’incontro e cura delle persone e delle situazioni usuali e quotidiane della vita.

0. La trama invisibile: le competenze trasversali nella formazione
1. Consapevolezza di sé – fiducia in se stessi
2. Gestione delle emozioni
3. Gestione dello stress
4. Comunicazione efficace e ascolto attivo
5. Empatia
6. Creatività e pensiero divergente – flessibilità
7. Pensiero critico – Spirito di iniziativa – leadership
8. Decision making – autonomia
9. Problem solving – Pianificare e organizzare
10. Riflessività, apertura alla ricerca, apprendimento in itinere
11. Valutare e riconoscere le competenze trasversali in oratorio e nelle comunità pastorali


Dove possono i giovani oggi incontrare il Signore?

A cura di Elena Massimi

In collegamento e come riflesso della rubrica sopra riportata di Benzi, si tratta di fare un’operazione di concretizzazione e personalizzazione dell’incontro con Gesù. Nel quotidiano, nella vita, nelle esperienze che diversamente rischiano di risultare mute.

0. Premessa e orizzonti della rubrica
1. Nella Chiesa
2. Nella liturgia
3. Nell’Eucaristia
4. Nella Parola
5. Nella diakonia
6. Nell’annuncio/testimonianza
7. Nella sofferenza


Pastorale giovanile come apprendistato alla vita cristiana

Marcello Scarpa

Viviamo un tempo di rapide trasformazioni culturali, sociali, mediatiche, un cambiamento d’epoca segnato dalla fine del cristianesimo “sociologico”, dal passaggio da un cristianesimo di “tradizione” a uno di “convinzione”. La famiglia, la scuola e la società non sono più il grembo generatore della fede dei ragazzi; i giovani, anche se hanno frequentato i percorsi d’iniziazione cristiana, non conoscono più i codici linguistici della fede, vivono un analfabetismo religioso sproporzionato rispetto al tempo passato al catechismo e agli anni di formazione.
Consapevoli che qualsiasi proposta pastorale non può mai essere completa ed esaustiva, nella rubrica si proporrà un percorso di re-iniziazione dei giovani alla fede cristiana che si articola in otto punti. Dopo un primo numero d’introduzione al tema, si lascia spazio alle parole di papa Francesco che “annunciano” la possibilità di una vita diversa, perché ispirata dal Vangelo. Nei numeri successivi proporremo alcune esperienze di vita cristiana che ruotano intorno

– alla Scrittura
– al linguaggio liturgico
– a quello della carità
– della custodia del creato
– alle responsabilità della vita adulta
– e della missione


Ricchezza e problematicità dell’umano nella letteratura contemporanea
Giuseppe Savagnone

Da sempre la letteratura è uno specchio significativo della ricchezza e della problematicità della vita umana.
Ed è sotto questo profilo, piuttosto che dal punto di vista meramente estetico, che noi ci accosteremo ad alcune delle opere letterarie che ci sembrano particolarmente significative per il nostro tempo. Il nostro tentativo sarà, in primo luogo, di comprendere meglio, attraverso di esse, noi stessi, la nostra vita.
Perciò nello sceglierle non ci ha guidato altro criterio che la loro capacità parlare della nostra esperienza di uomini e donne di questo tempo e di illuminarne il significato, nella fiducia che in questo specchio possiamo comprendere un po’ meglio di ciò che siamo e viviamo.
– Cominceremo con un romanzo che ha avuta un enorme successo alla fine del Novecento e che si presenta come un “manifesto” dell’epoca post-moderna di cui siamo protagonisti, L’insostenibile leggerezza dell’essere, di Milan Kundera.
– Passeremo poi a un’opera del tutto diversa, Il mondo nuovo, di Aldous Huxley, che, scritto nel 1932, costituisce una straordinaria profezia del volto che la nostra società ha assunto.
– Continueremo con un romanzo che risale alla fine dell’Ottocento, Delitto e castigo, il cui autore, Fëdor Dostoevskij, è unanimemente considerato, oltre che uno dei massimi geni della storia della letteratura mondiale, un anticipatore dei problemi e della sensibilità della nostra epoca attuale.
– Saranno poi le vostre reazioni a guidarci nella scelta dei testi successivi. Per adesso, buona lettura.

Abbonamenti

Le esperienze estive post-COVID: educare i giovani in una Chiesa sinodale

Da Note di Pastorale Giovanile.

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Di Claudia Simonetto e Cristiano Vanin

Progettare esperienze estive in tempo di pandemia

Per due anni consecutivi (2019-2020) le linee guida nazionali e regionali di attuazione dei Centri estivi hanno chiesto a tutti coloro che si occupano di attività estive di ripensare le loro strutture e iniziative per contenere e ridurre le occasioni di contagio.

Quello che per molti anni ha alimentato le settimane di Grest e Centri estivi, ovvero la dinamica competitiva a grandi squadre fatta di gare, tornei e attività volte a guadagnare punti per decretare alla fine dell’esperienza un vincitore, non è stato più praticabile per il ridimensionamento drastico dell’interazione tra gruppi. Anche i molteplici sussidi già esistenti, che aiutavano sacerdoti, religiosi, religiose e laici nella progettazione e realizzazione di queste esperienze estive, durante le estati COVID sono risultati anacronistici e inutilizzabili a causa di modalità assembleari nei momenti di formazione o di preghiera e per la commistione di più gruppi nelle attività e laboratori. Impraticabili anche le sfilate, i tornei, le serate con i giovani animatori o con i genitori.

Tuttavia quello che inizialmente in queste estati COVID sembrava un vincolante limite al divertimento e alla condivisione si è trasformato in occasione di rinnovamento educativo. Protagoniste di questo sviluppo sono state le diverse parrocchie, case religiose e associazioni cristiane che, possedendo un minimo di risorse necessarie (educatori, volontari e spazi), hanno messo in discussione programmazioni ormai consolidate per dare la precedenza ad attività flessibili e modulari realizzate tra gruppi di coetanei.

Nonostante ciò si sia rivelato una promettente fucina di sperimentazione che ha aperto nuove strade e dato frutti inaspettati, dalle comunità pastorali traspariva un più o meno esplicito desiderio di “tornare presto alla normalità”, intesa come il ripristino delle modalità di animazione e organizzative precedenti la pandemia.

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Sbagliare e crescere

Da Note di Pastorale Giovanile – Estate 2022

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di Stefano Cisi Clerici

La scuola è un ambiente unico. Nascono relazioni, amicizie, si cresce, ma è anche il primo luogo dove i ragazzi iniziano a conoscere il fallimento, l’insuccesso e la frustrazione. Soprattutto alle medie, quando il cambiamento sia fisico che psicologico inizia a caratterizzare le giornate dei nostri ragazzi. Ed è qui che la figura dell’educatore è fondamentale, dove il carisma salesiano riesce ad incunearsi e a far sbocciare qualcosa di bello! È faticoso e impegnativo mettersi in gioco con i preadolescenti, ma è una vocazione che ripaga di tante cose; soprattutto nelle situazioni difficili. Mi è successo più volte di essere dentro a situazioni spiacevoli come quella volta con Marco, ragazzo semplice, ma al quale la vita aveva già messo davanti molti ostacoli; dalla separazione dei genitori, alle loro nuove famiglie, condite da un disturbo dell’apprendimento che lo faceva sentire diverso agli occhi dei suoi compagni. Mi ricordo bene quella mattina, Marco si era preparato per l’interrogazione di Storia, aveva studiato, ma al momento di rispondere si era bloccato, non riusciva ad interloquire con la professoressa, sembrava proprio che la sua mente fosse priva di ogni nozione e così il voto non potè essere che negativo.
Io non avevo assistito all’interrogazione e stavo lavorando nel mio ufficio organizzando i tornei del pomeriggio, ma sentii le urla provenire dal corridoio e le porte del bagno sbattere prepotentemente. Subito mi alzai per andare a vedere cose fosse successo e quando entrai in bagno vidi Marco sbattere forte i punti contro le porte dei bagni; non è mai facile entrare subito in empatia con un ragazzo pieno di rabbia, la prima cosa che ho fatto è stata esserci e premurarmi che non si stesse facendo male. Per un ragazzo così, già il fatto che qualcuno si interessi a lui è fondamentale, quante urla e manifestazioni di rabbia vengono lanciate nel nulla senza che nessuno risponda, sono richieste d’aiuto che noi adulti dobbiamo recepire e immagazzinare.
“Cos’è successo?” gli dissi.
“Niente!” tipica risposta dei ragazzi.
“Allora perché te la prendi con la porta?”
“Perché sono arrabbiato!”
“Allora sto qui a difendere la porta dal tuo niente! Ma appena finisci vieni con me in ufficio e facciamo 4 chiacchiere.”
Vedendo che non me ne andavo, ma anzi cercavo di interagire con lui, Marco ha cominciato a tranquillizzarsi e a lasciare in pace la povera porta verde del bagno ed è scoppiato a piangere. Ci sono pianti e pianti, quello di Marco era di frustrazione, come di rassegnazione dell’ennesimo insuccesso della sua vita. A quel punto l’ho accompagnato da me, l’ho fatto sedere, gli ho dato qualcosa di dolce da mangiare, che non fa mai male, e mi sono fatto raccontare tutto quello che era successo.
Anche solo raccontando il fatto, Marco stava già meglio, sentire che qualcuno era lì per lui solo per ascoltarlo era già un gran risultato, al giorno d’oggi i ragazzi cercano come oro qualcuno che li ascolti senza essere giudicati, qualcuno che dimostri loro che possono essere amati e compresi con i loro pregi e i loro difetti.
A scuola è più facile, ma non sempre scontato, di ragazzi come Marco ce ne sono tanti e tutti hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a sbagliare e a crescere dai propri errori.

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Chiara e gli altri

Dal dossier estivo di NPG.

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di Chiara Succol

“Non con le percosse, ma con la mansuetudine e la carità dovrai guadagnare questi tuoi amici”. Queste parole del sogno dei 9 anni mi hanno lasciato da pensare dal primo momento che le ho sentite (o lette, chissà) nel mio percorso nei gruppi salesiani all’interno del mio oratorio di provenienza. Direte che è perché ho sempre pensato a come metterle in atto. Invece no, mi sono sempre rimaste impresse perché fin da piccola mi ha fatto molto effetto immaginarmi don Bosco che menava le mani! Anche l’episodio con Luigi Comollo, infatti, ha sempre avuto un certo impatto su di me. Ho sempre sentito molto vicino don Bosco in questo, non perché mi ritenga violenta con le mani, bensì perché nel profondo sono un’istintiva che non appena le si muove qualcosa dentro, vorrebbe mettere a ferro e fuoco la stanza e chi ci sta dentro. È un lato del mio carattere su cui ho sempre fatto grandi sforzi.

Ho bazzicato, anzi vissuto-respirato-assorbito-osservato tutto, all’interno degli ambienti salesiani fin dagli 8 anni. Mi sono spesa come animatrice, come educatrice al doposcuola, come segretaria degli uffici di Pastorale Giovanile Salesiana della mia ispettoria (INE) e alla fine sono approdata a vivere la mia vocazione professionale più vera: formatrice al Centro di Formazione Professionale salesiano di Mestre. Questo aspetto della violenza, del fuoco, dell’ira mi ha sempre accompagnata anche se chi mi vede oggi non lo direbbe. Me lo porto ogni giorno anche al lavoro, non mi molla.
Come formatrice incontro ogni giorno tanti ragazzi non solo in aula ma anche nei corridoi, in cortile, ai distributori automatici. L’esperienza che ho a scuola è molto diversa dall’oratorio e, mi preme dirlo, è complessa: non c’è solo la vita in aula. Questo è il primo punto su cui mi sento di dover mettere l’accento. Se pensiamo che un formatore o un docente siano educatori solo tra i banchi, insegnando una materia, ci sbagliamo. Lo dico perché io per prima, a volte, ho pensato di trincerarmi dietro la cattedra e le nozioni per difendermi o per mettermi al sicuro, ma anche per non scoppiare in un accesso d’ira; mi è successo soprattutto all’inizio, quando mi sono trovata di fronte ragazzi molto sfidanti e provocatori, di quelli che ti accendono la spia rossa “ACHTUNG!”. Un giorno però ho capito, grazie ad un alunno particolarmente arrabbiato, che dovevo fare cambiare qualcosa e uscire dalla mia zona di comfort perché rispondere per le rime a un adolescente (problematico, tra l’altro) non era sensato.

Mi sono chiesta cosa lo avesse fatto scattare a quel modo. In cortile gli ho chiesto solo: “Come stai?” e si sono, per così dire, aperti i rubinetti. Certo l’aggressività non è sparita dopo quel momento, ma è comparso lo spazio dell’accompagnamento. Per me ha significato sgonfiare anche la mia di arrabbiatura, aprirmi all’ascolto ha richiesto uno sforzo ma le corde così hanno iniziato a suonare più in armonia anche dentro me. Le cose in me come prof. sono cambiate dunque quando ho iniziato a mettere in atto, senza finzioni, la prossimità di cui parla Papa Francesco o la mansuetudine di cui si racconta nel sogno dei 9 anni. Ho messo da parte il ruolo, le paranoie, l’ideale di prof. in excelsis e… sono scesa nella vita reale, semplicemente.
Sono i ragazzi per primi a svegliarci dai nostri sonni educativi e questo è ancor più vero quando ci troviamo con loro nei momenti informali. Sono dei risvegli traumatici, eh, in cui capisci che educare è farsi carico, anche quando fa male.

La mansuetudine, in tutto ciò, è una sfida nella sfida: presa dalle mie cose mi capita di non pensare sempre bene alle parole che dico o ai miei silenzi, che pesano più di un macigno. Le chiavi del cuore dei ragazzi le ha solo Dio, diceva don Bosco, e penso che l’aspetto della fede debba accompagnare maggiormente le mie intenzioni e le mie azioni. Che la Maestra promessa a Giovannino nel sogno dei 9 anni guidi ogni educatore ad acquisire la sapienza per accogliere e accompagnare tutti i ragazzi, specialmente i più poveri. E davvero oggi che scrivo queste battute faccio più che mai mie le parole del Vangelo, me le voglio imprimere nel cuore: “Beati i miti, perché erediteranno la terra”.

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Sbagliare e crescere

di Stefano Siso Clerici
Da Note di Pastorale Giovanile

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La scuola è un ambiente unico. Nascono relazioni, amicizie, si cresce, ma è anche il primo luogo dove i ragazzi iniziano a conoscere il fallimento, l’insuccesso e la frustrazione. Soprattutto alle medie, quando il cambiamento sia fisico che psicologico inizia a caratterizzare le giornate dei nostri ragazzi. Ed è qui che la figura dell’educatore è fondamentale, dove il carisma salesiano riesce ad incunearsi e a far sbocciare qualcosa di bello! È faticoso e impegnativo mettersi in gioco con i preadolescenti, ma è una vocazione che ripaga di tante cose; soprattutto nelle situazioni difficili. Mi è successo più volte di essere dentro a situazioni spiacevoli come quella volta con Marco, ragazzo semplice, ma al quale la vita aveva già messo davanti molti ostacoli; dalla separazione dei genitori, alle loro nuove famiglie, condite da un disturbo dell’apprendimento che lo faceva sentire diverso agli occhi dei suoi compagni. Mi ricordo bene quella mattina, Marco si era preparato per l’interrogazione di Storia, aveva studiato, ma al momento di rispondere si era bloccato, non riusciva ad interloquire con la professoressa, sembrava proprio che la sua mente fosse priva di ogni nozione e così il voto non potè essere che negativo.
Io non avevo assistito all’interrogazione e stavo lavorando nel mio ufficio organizzando i tornei del pomeriggio, ma sentii le urla provenire dal corridoio e le porte del bagno sbattere prepotentemente. Subito mi alzai per andare a vedere cose fosse successo e quando entrai in bagno vidi Marco sbattere forte i punti contro le porte dei bagni; non è mai facile entrare subito in empatia con un ragazzo pieno di rabbia, la prima cosa che ho fatto è stata esserci e premurarmi che non si stesse facendo male. Per un ragazzo così, già il fatto che qualcuno si interessi a lui è fondamentale, quante urla e manifestazioni di rabbia vengono lanciate nel nulla senza che nessuno risponda, sono richieste d’aiuto che noi adulti dobbiamo recepire e immagazzinare.
“Cos’è successo?” gli dissi.
“Niente!” tipica risposta dei ragazzi.
“Allora perché te la prendi con la porta?”
“Perché sono arrabbiato!”
“Allora sto qui a difendere la porta dal tuo niente! Ma appena finisci vieni con me in ufficio e facciamo 4 chiacchiere.”
Vedendo che non me ne andavo, ma anzi cercavo di interagire con lui, Marco ha cominciato a tranquillizzarsi e a lasciare in pace la povera porta verde del bagno ed è scoppiato a piangere. Ci sono pianti e pianti, quello di Marco era di frustrazione, come di rassegnazione dell’ennesimo insuccesso della sua vita. A quel punto l’ho accompagnato da me, l’ho fatto sedere, gli ho dato qualcosa di dolce da mangiare, che non fa mai male, e mi sono fatto raccontare tutto quello che era successo.
Anche solo raccontando il fatto, Marco stava già meglio, sentire che qualcuno era lì per lui solo per ascoltarlo era già un gran risultato, al giorno d’oggi i ragazzi cercano come oro qualcuno che li ascolti senza essere giudicati, qualcuno che dimostri loro che possono essere amati e compresi con i loro pregi e i loro difetti.
A scuola è più facile, ma non sempre scontato, di ragazzi come Marco ce ne sono tanti e tutti hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a sbagliare e a crescere dai propri errori.

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L’orizzonte della chiamata. Ripartiamo con coraggio dalla “grande domanda”

Dal numero estivo di Note di Pastorale Giovanile.

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di don Rossano Sala

“Noi ci stiamo!”. È questo il motto sintetico della proposta pastorale per l’Italia salesiana per l’anno 2022-23. È una chiamata a mettersi in gioco con coraggio, offrendo la propria disponibilità. Ma se questa parola è la punta di un iceberg, bisogna che noi andiamo in profondità, che scaviamo per trovarne le radici, che cogliamo i grandi orizzonti di questa chiamata alla corresponsabilità con Dio e alla collaborazione tra noi.
In questo contributo, che ha appunto lo scopo di indagare i dinamismi della chiamata, ci proponiamo di percorrere insieme alcuni piccoli e preziosi passaggi che ci possano assicurare una base sicura per riaffermare che davvero “noi ci stiamo” con cognizione di causa, e non semplicemente nella logica di un’emozione mutevole e passeggera. Partiamo da lontano, riconoscendo il dono di esistere, e arriviamo, passo dopo passo, alla necessità di prendere oggi delle decisioni coraggiose.

Il dono dell’esistenza

Prendiamo il via dalla nostra esistenza concreta. Dalla consapevolezza che quello che siamo non è primariamente opera nostra. Ovvero dal fatto incontestabile che siamo preceduti, che siamo figli. Sembrerebbe una banalità, ma spesso ce lo dimentichiamo proprio. Un modo di pensare molto aggressivo a volte ci convince che ci facciamo da soli, che siamo figli di noi stessi e che non abbiamo nessuna responsabilità verso gli altri.
Un pensiero onesto, che fa perno intorno al reale, ci restituisce una socialità originaria che caratterizza la nostra esistenza. Non c’è mai stato un momento nella storia in cui io esistevo e gli altri invece no. È vero esattamente il contrario: c’è stato un tempo in cui il mondo e gli altri esistevano e io invece non c’ero ancora. I nostri genitori esistevano prima di noi, così come i nostri nonni, e anche i nostri fratelli o sorelle maggiori.
Nelle diverse epoche che studiamo sui libri di storia il nostro nome non compare. Per molto tempo io non ci sono stato e ad un certo punto sono nato, sono venuto al mondo. E non per mia iniziativa. E questo vale per tutti. Ci sarà anche un momento in cui sarò chiamato a lasciare questo mondo, che continuerà senza di me.
In base a questa realtà sperimentiamo continuamente di essere stati amati e voluti prima ancora di averne la percezione. Non è stata opera nostra, ma un dono che abbiamo ricevuto da altri. Primariamente da parte di coloro che si sono presi cura di noi. La vita è un dono che abbiamo ricevuto, senza alcun nostro merito. Altri hanno impiegato senza troppi calcoli e con tanta generosità tempo, risorse e affetti per farci crescere.
Ecco allora la sintesi del primo passaggio: bisogna rifiutare la menzogna dell’autofondazione, riconoscendo che siamo stati donati a noi stessi e che la vita è prima di tutto un dono gratuito che abbiamo ricevuto. Ecco che il primo e più importante atteggiamento dell’esistenza rimane sempre la gratitudine.

L’esistenza come dono

Il secondo passaggio è logico rispetto al primo: se esistiamo nella forma del dono, la realizzazione della nostra esistenza avrà la medesima forma del dono. Di solito, di fronte ad un favore ricevuto, rispondiamo: “A buon rendere”. Come a dire, ho ricevuto un dono da qualcuno, magari inaspettato, e adesso questo diventa un impegno di restituzione, un piccolo debito da onorare. Non è un obbligo stringente, ma una risposta naturale, eticamente importante, una spinta che ci porta al contraccambio. Ne va della nostra dignità.
Se riconosciamo che siamo frutto di un dono inatteso, ecco che la nostra vita diventa se stessa se impostata come un’esistenza capace di dono e di servizio. San Francesco di Sales, di cui quest’anno celebriamo i 400 anni dalla morte, parla a questo proposito di “estasi della vita”. È una bella espressione, che non ha nulla di intimistico, ma tutto di apostolico. Egli, guardando all’esempio di Gesù, l’uomo per eccellenza che sa riconoscere la sua esistenza come un dono ricevuto, indica al cristiano la via del dono concreto. Al di là dell’estasi della contemplazione – che ci eleva a Dio in una preghiera particolarmente intensa – e di quella dell’intelletto – che ci fa conoscere in maniera limpida le cose di Dio e degli uomini –, l’estasi dell’azione è caratterizzata da una continua carità, dolcezza, benevolenza e dedizione. È la via della generosità sistemica verso tutti. Tale estasi diventa il criterio di discernimento radicale sulla qualità della vita umana e cristiana:

Quando dunque si incontra una persona che nell’orazione ha dei rapimenti per mezzo dei quali esce e sale al di sopra di se stessa fino a Dio, e tuttavia non ha estasi della vita, ossia non conduce una vita elevata e congiunta a Dio, con la mortificazione dei desideri mondani, della volontà e delle inclinazioni naturali, per mezzo di una dolcezza interiore, di semplicità e umiltà, e soprattutto per mezzo di una continua carità, credimi, Teotimo, tutti i suoi rapimenti sono dubbi e pericolosi; sono rapimenti adatti a creare ammirazione negli uomini, ma non a santificare chi li prova[1].

L’estasi della vita è quindi il criterio reale, autentico e decisivo per la santità, per il semplice motivo che è nella vita di tutti i giorni che essa si riceve, si costruisce e si esprime:

Ci sono molti santi in cielo che non sono mai andati in estasi né sono stati rapiti nella contemplazione; infatti, quanti martiri e grandi santi e sante troviamo nella storia che nell’orazione non hanno mai avuto altro privilegio se non quello della devozione e del fervore? Ma non c’è mai stato santo che non abbia avuto l’estasi o il rapimento della vita e dell’azione, superando se stesso e le proprie inclinazioni naturali. […] Chiunque è risuscitato a questa vita nuova del Salvatore, non vive più né a sé, né in sé, né per sé, ma con il suo Salvatore, nel suo Salvatore e per il suo Salvatore.

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Il mistero della Visitazione racchiuso in un cortile

di Valentina Laici – Note di Pastorale Giovanile

Mi presento, anche se sento sempre abbastanza imbarazzante parlare di me, ma lo faccio soprattutto per parlare di una cosa che mi sta davvero a cuore!
Ho 29 anni e vivo nell’oratorio di Figline Valdarno nella provincia di Firenze, da 8 anni presto servizio come operatrice pastorale nell’oratorio che mi ha accolta da adolescente e dove da pochi mesi realizzo uno dei miei sogni nel cassetto.
C’è stato un momento della mia vita che mi sono chiesta se stessi facendo qualcosa di serio, qualcosa per cui valesse la pena vivere. La mia vita era abbastanza mediocre, ma nel punto più basso mi sono sentita dire: “Valentina, tu sei amata!”. Macché non è vero, come è possibile, non sono amata sono una fallita.
“Valentina tu sei amata” per un attimo mi sono chiesta se fosse vero e di lì è iniziata la ricerca di Chi mi stesse amando in quelle condizioni, ho cercato insistentemente e l’ho trovato in oratorio attraverso i ragazzi e i giovani che Dio mi aveva messo accanto.

L’8 settembre del 2017 ho fatto il mio ingresso nella Fraternità della Visitazione a Piandiscò per iniziare il cammino di consacrazione; qui mi hanno accolto tre suore Simona, Letizia e Lucia che da vent’anni hanno fondato questa fraternità che si occupa di una casa famiglia per mamme con bambini e donne in difficoltà. Mi hanno accompagnato per tutti questi anni e ora, nell’ultimo anno di noviziato, mi hanno permesso di realizzare il progetto “CiVivo16” nell’oratorio di Figline, in accordo con il parroco e il Vescovo.

Cosa lega una casa famiglia ad un oratorio? Il filo conduttore che per me è sempre stato evidente è l’accoglienza. Il legame profondo che lega due porte aperte, due soglie pronte per accogliere Cristo in chiunque si presenti. Capisco che il nesso non è così immediato ma ogni ragazzo porta in sé il mistero dell’incontro tra Maria e Elisabetta, porta un dono da scoprire, da cercare, da annunciare; e allo stesso tempo la mia persona può essere uno strumento trasparente e silenzioso che porta all’incontro con Gesù. Oratorio come luogo di incontro e di missione, per mettersi al servizio di giovani e ragazzi con aspetti e modalità molteplici e creative, una testimonianza semplice e genuina ma contemporaneamente profonda ed esigente che richiede tempo, amorevolezza e pazienza. Nel cortile le vere partite si giocano sugli incontri e sulle relazioni, sulla testimonianza e sulla quotidianità vissuta per far sentire amato ognuno di loro come Gesù ama me. Tutto questo non si può racchiudere esclusivamente sotto il cappello dell’accoglienza, se pur estremamente affascinante, ma c’è qualcosa di più. C’è una fraternità che vive le stesse cose che vivo io, con altre persone, con altre povertà; una fraternità che desidera incontrare Cristo in chiunque gli viene incontro, ogni viso porta impresso il volto di quell’Amato che tanto cerchiamo. La fraternità è un abbraccio che può tenere insieme molteplici diversità e carismi; in questo la Fraternità della Visitazione ne è un esempio vivo.

Il “CiVivo16” nasce dalla lettura di un’esigenza nei giovani e nei ragazzi di avere una casa accogliente dove poter condividere un pezzo di strada della propria vita insieme ad altri giovani. Un luogo fraterno e informale senza i limiti e le esigenze di un gruppo parrocchiale, ma accogliente e con la porta aperta per avere la libertà di entrare e sostare quando se ne ha più bisogno. Secondo Don Bosco l’oratorio è “una casa che accoglie, una chiesa che evangelizza, una scuola che avvia alla vita ed un cortile per incontrarsi da amici e vivere in allegria”, il desiderio di avere una casa per i giovani è quello che ci ha mosso nel far partire questa esperienza. L’oratorio, a partire dalla casa, è vissuto dai giovani e per i giovani; non solo per coloro che già frequentano gli ambienti parrocchiali, ma anche per coloro che si sono allontanati o sono curiosi di scoprire cosa ci muove in quest’avventura. Il nome del progetto prende ispirazione dalla frase di Piergiorgio Frassati “Vivere, e non vivacchiare” e ai numerosi inviti di Papa Francesco nell’essere protagonisti della Chiesa realizzando i nostri sogni. Il nostro desiderio è quello di condividere la nostra vita quotidiana per affrontare le scelte importanti della nostra giovinezza al fianco di qualcuno che ci sostiene e che vive le nostre stesse domande esistenziali. Il progetto consiste in un periodo di vita fraterna condiviso con altri giovani che desiderano cogliere questa opportunità e mettersi in gioco in prima persona per conoscersi meglio e sperimentarsi nel servizio. Fare casa sarà luogo di incontro, di studio e di confronto in un clima familiare e accogliente. Lo stile che identifica questa esperienza è semplice e sobrio, attento all’essenzialità e alle tematiche di ecologia e sostenibilità. L’oratorio in mano ai giovani che lo abitano e che fanno famiglia con chiunque voglia farne parte. Il filo conduttore che collega stile e obiettivi è la crescita spirituale e umana nel confronto continuo. In poche parole è un cammino condiviso nella vita quotidiana: a tavola e nelle relazioni, nell’accoglienza, nel servizio e nella preghiera. È rivolto a giovani dai 20 ai 30 anni, universitari, lavoratori o servizio civile con un massimo di 5 persone. Ad ognuno verrà chiesto un contributo per la cassa comune ed un impegno nel servizio in oratorio, o altrove, proporzionato alle possibilità ed agli impegni. Il tempo di permanenza può essere da 1 a 2 anni. In ogni momento si può aggiungere un membro, se ci sono posti liberi, ed in ogni momento si può andare via se si ritiene concluso il proprio percorso. Per accedere a questa esperienza occorre il desiderio di far proprio lo stile della casa: dall’accoglienza al servizio, alla condivisione dei pasti e della vita ai momenti di preghiera insieme.
Se sei rimasto a leggere fino in fondo forse un po’ interessa anche a te questa esperienza di vita fraterna, basta un messaggio su istagram #civivo16 per venire a cena e conoscerci, la porta rimane sempre aperta!

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Canto per te!

di Romilda Cozzolino

Avevo 11 anni e non volevo fare la cantante, sebbene frequentassi regolarmente scuola di canto e facessi tantissimi concorsi canori, regionali e nazionali. La mia voce era circondata da aspettative, dovevo diventare famosa, calcare il palco dell’Ariston. Studiavo e allenavo le mie corde vocali per quello, per diventare una cantante famosa. Mi dicevo: “A cosa serve avere una bella voce se poi non diventerò famosa? A cosa serve avere un’ottima tecnica se poi rimarrò nella mia città a cantare in qualche locale?”. Ecco, se fosse stata proprio questa la mia strada (anche se non ne fossi pienamente convinta, anche se già dentro di me avvertivo di essere chiamata ad altro) avrei dovuto raggiungere i massimi livelli della professione, altrimenti, nulla, non avrei più cantato.

Mi dicevo che Dio si era sbagliato nel darmi quel dono: non ero ricca per poter investire tanti soldi nella discografia, non ero abbastanza ‘personaggio’ per poter accedere alla tv e, soprattutto, non sapevo a cosa potesse servire quel talento nell’evangelizzazione, anzi, per me era un ostacolo profondo nella mia relazione con il Signore. Finché un giorno, sono arrivata dalle sorelle clarisse della mia città, le quali mi hanno cambiato la vita e mi hanno fatto comprendere che quel dono non era un errore di distrazione di Dio, ma la chiave della mia felicità: lì ho capito come il canto fosse la forma di preghiera più alta che un uomo possa elevare al cielo e di come Dio si serva di una voce per trasmettere il suo amore. Solo 7 anni dopo, però, ciò che avevo capito davanti a quella grata finalmente si concretizza: inizio a cantare per il Signore come servizio a 360º con la mia canzone ‘Al posto tuo’ che diventa l’inno nazionale della XXXIX Marcia Francescana, e da lì molte altre canzoni che parlano della bellezza della fede. Realizzo un album che volevo incidere a 12 anni per diventare famosa, ma stavolta è dedicato a Lui e parla di speranza, di come il dolore sia un’occasione preziosa per diventare ciò che da sempre sei chiamato ad essere, per essere la versione migliore di te e potenziare le tue capacità. Dio si è servito di molte cose per farmi comprendere che mi aveva pensato per cantare e, oggi, il Suo sogno è diventato il mio. Non riesco a immaginare un solo giorno senza cantare o scrivere canzoni.