Articoli

È morto don Ricca, storico cappellano del carcere minorile – Avvenire

Notizia a cura di Avvenire. La notizia è disponibile anche su La Voce e il Tempo.

***

La famiglia salesiana e tutti coloro che a Torino e non solo si occupano di disagio giovanile sono in lutto: è morto sabato 2 marzo a 77 anni don Domenico Ricca, sacerdote dal 1975 e storico cappellano del carcere minorile cittadino «Ferrante Aporti» dal 1979.

È alla «Generala», oggi l’Istituto penale minorile «Ferrante Aporti» che don Bosco, inviato dal suo padre spirituale san Giuseppe Cafasso, immagina il suo sistema preventivo.

Visitando e parlando con i «giovani discoli e pericolanti» e ascoltando gli affanni di quei ragazzi senza una famiglia di riferimento, il santo torinese inventa l’oratorio.

Ed è per questo che da allora i cappellani del «Ferrante» sono salesiani. Come don Domenico Ricca che, dopo una malattia che lo ha colpito poco dopo il termine del suo ministero di oltre 40 come cappellano dell’Istituto penale minorile.

Don Domenico, don Mecu per tutti, ha speso tutta la sua vita da prete con i giovani reclusi come don Bosco voleva i suoi salesiani, preti da oratorio, preti da cortile. Per questo ha scelto di intitolare il libro intervista sulla sua esperienza di salesiano al carcere minorile torinese (i cui proventi dei diritti d’autore sono stati devoluti interamente per borse di studio e lavoro per i ragazzi ristretti) «Il cortile dietro le sbarre: il mio oratorio al Ferrante Aporti» (Marina Lomunno, Elledici, Torino 2015).

Perché è lo stile del sacerdote da oratorio con cui don Mecu stava al Ferrante come ha imparato da giovane prete, a stare in cortile, informalmente a chiacchierare con i ragazzi, anche quando i giovani ristretti si erano macchiati di reati gravi (don Ricca fu anche tutore di Erika, la giovane di Novi Ligure che con il fidanzatino Omar riempì le cronache per molti mesi nel 2001).

«In ogni giovane, anche il più disgraziato, c’è un punto accessibile al bene e dovere primo dell’educatore è di cercare questo punto, questa corda sensibile del cuore e di trarne profitto».

Così don Bosco invitava i suoi salesiani a cercare e accogliere i ragazzi e le ragazze «discoli e pericolanti» della Torino dell’800, molto simile alla città di oggi, soprattutto nelle periferie che frequentavano i santi sociali.

E le parole di don Bosco sono la sintesi della vita di don Mecu dedicata al riscatto dei ragazzi nati nella «culla sbagliata» come era solito dire per trovare «quel punto accessibile su cui far leva per combattere le fragilità e lasciarsi alle spalle il marchio di «ragazzi discoli e pericolanti».

Don Ricca – prete di frontiera, amico di don Ciotti, tra i fondatori prima della cooperativa sociale Valdocco, dell’associazione «Aporti Aperte», dei Salesiani per il Sociale e del Comitato piemontese del Forum del Terzo Settore, presidente dell’Associazione Amici di don Bosco per le adozioni internazionale, delegato per le Acli e molto altro – a Torino era punto di riferimento per chi si occupa di disagio minorile.

Il Rettor Maggiore dei salesiani, cardinale Ángel Fernández Artime, appresa la notizia della morte lo ricorda così ad Avvenire: «Cosa dire del nostro caro confratello don Mecu? È difficile perché non si può ridurre la vita di una persona a poche righe. Ma scelgo un aspetto tra i tanti. Il nostro padre don Bosco aveva conosciuto la dura realtà del carcere accanto al suo maestro e guida spirituale san Giuseppe Cafasso e ha vissuto alla «Generala» per dire al Signore che avrebbe fatto tutto il possibile per evitare che i ragazzi arrivassero in carcere.

Così don Bosco ha fondato il primo oratorio a Valdocco e di lì è partito tutto. Oggi noi diciamo a Dio a un figlio di don Bosco, il nostro caro don Mecu, che ha speso tutta la sua vita di salesiano per accompagnare i giovani finiti al «Ferrante» dove don Bosco e tutti noi non avremmo mai voluto entrassero. Don Mecu ha amato veramente i giovani, soprattutto «quelli che hanno avuto di meno» e lo ha fatto per Amore al Signore Gesù e con un cuore che imitava quello di don Bosco».

Don Domenico Ricca verrà ricordato nella preghiera del Rosario nella Basilica di Maria Ausiliatrice a Torino martedì 5 marzo alle 20.30; il funerale sempre in Basilica sarà mercoledì 6 marzo alle 10.30; verrà sepolto a Mellea di Fossano dove era nato il 31 agosto 1946.

Pandemia anno terzo, come dare speranza ai giovani: intervista a don Domenico Ricca

Da La Voce e il Tempo, intervista di Marina Lomunno a don Domenico Ricca, cappellano dell’Istituto penale per minorenni «Ferrante Aporti» di Torino sul tema delle fragilità giovanili alla luce della pandemia.

***

Don Domenico Ricca, salesiano, sacerdote dal 1975, dal 1978 è cappellano dell’Istituto penale per minorenni «Ferrante Aporti» di Torino. Ha ricoperto per la sua congregazione numerosi incarichi nazionali e regionali a favore dei ragazzi più fragili. Presidente dell’associazione «Amici di don Bosco» onlus che si occupa di adozioni internazionali, è anche consigliere ecclesiastico delle Acli della Provincia di Torino.

Don Ricca, lei ha dedicato tutta la sua vita di prete ai giovani più deboli secondo il carisma salesiano «diamo di più ai giovani che hanno avuto di meno». La pandemia ha svelato fragilità nuove anche nei giovani più «fortunati» e da più parti si afferma che saranno le nuove generazioni a pagarne il prezzo più alto. Dal suo osservatorio condivide questa analisi?

Se c’è una categoria di persone su cui non si dovrebbe mai generalizzare sono proprio i giovani: solitamente siamo noi adulti dediti a quest’arte, perché li conosciamo troppo poco, è troppa la distanza di anni fra noi e loro, e così ci affidiamo agli analisti del mestiere. Mi piace partire da alcune testimonianze dirette, colte sul campo, che ho letto in questi mesi sui giornali. «Ho 12 anni, mi vaccino perché sono stufo della Dad e non voglio fare tamponi su tamponi»; «La rinuncia più grande nel periodo del Covid forse è lo sport. Pratico basket e nuoto e non sono riuscito a fare nulla per quasi due anni. Spero di rifarmi adesso. Per non restare troppo fermo ho fatto ginnastica con papà a casa. Esercizi a corpo libero, papà mi dice come si faceva una volta in palestra. Era l’unico modo per muovermi un po’». E altri giovanissimi: «Ci vacciniamo per tornare a stare con gli amici».

Mostrano fieri il cerotto sul braccio: sono giovani e adolescenti che non pensano solo alla vacanza in libertà. Scelgono il vaccino per ritrovare la normalità, rientrare in classe e superare l’incubo della Dad, riprendere le attività sportive, ma anche per tornare a vivere in sicurezza l’università o il lavoro. Tra i ventenni, c’è anche la spinta ad ottenere il Green pass per i concerti e per «uscire con gli amici e feste». Ma non solo: «Paola guarda il cerotto sul braccio e si rivolge a mamma: ‘Quando torneremo a trovare nonna, finalmente potrò abbracciarla?».

I «suoi» giovani al Ferrante Aporti sperimentano la reclusione, la sottrazione della libertà e fondamentale, nel percorso di riabilitazione, è l’incontro con adulti significativi che rimotivino a ripartire. In questi due anni anche i giovani «liberi» in qualche modo hanno vissuto «ristretti» non potendo andare a scuola in presenza, frequentare gli amici, fare sport ecc. Secondo lei il mondo degli adulti (genitori, educatori, insegnanti, politici…) cosa deve fare per aiutare ragazzi e le ragazze a guardare oltre il Covid che ci ha gettato in un clima di pessimismo e progettare il futuro?

Qui il tema rimanda a quale tipo di comunicazione va innestata tra gli adulti e i giovani. Noi adulti siamo ancora troppo legati alla comunicazione verbale fatta di buone parole, piena di «mi raccomando». Ma forse non è giunto il tempo di avviare segnali e possibili percorsi di incontro? Perché tutti sperimentiamo la ricchezza di un incontro prolungato, senza fretta, non guardando l’orologio ma trasmettendo la vera sensazione di essere lì solo per loro. Occorre condivisione di esperienze: ci abbiamo provato un po’ nel tempo del lockdown, ma poi la Dad per i ragazzi, il lavoro in remoto per gli adulti hanno di nuovo ridotto le possibilità di incontro. Dice un ragazzo «E il resto della giornata: Dad e play station, che d’altronde erano gli unici due modi per stare in contatto con i miei amici». Il tema del guardare oltre va trasmesso con segnali di speranza. Non possiamo consegnare ai giovani ciò che a noi adulti per primi manca. Mi sembra che siamo incapaci di manifestare passione, vicinanza, empatia con chi ci sta accanto, fosse anche nostro figlio. È quanto scriveva san Giovanni Bosco nel 1884 da Roma in una lettera inviata ai salesiani di Torino Valdocco: «Non basta che i giovani siano amati ma che capiscano di essere amati!». Con questo li invitava a stare in mezzo ai ragazzi, a giocare con loro, a seguirli in ogni loro attività, a praticare la vicinanza… Erano questi per don Bosco i veri segnali d’incontro. Adulti arrabbiati nelle piazze per le proteste «No Green Pass» con lo slogan di «Potere al popolo» non so cosa possano trasmettere ai giovani…

Qual è il ruolo della pastorale giovanile delle nostre diocesi?

La Pastorale giovanile ha  grandi opportunità, educatori e preti giovani che stanno in mezzo ai ragazzi. Li favorisce la vicinanza di età, le tante occasioni, anche quelle estive: Estate ragazzi, campi scuola, oratori aperti e accoglienti al di là del colore della pelle e dell’appartenenza religiosa. Ma anche qui – e io sono nessuno per insegnare agli altri – sembra ovvio che queste occasioni di incontro bisogna giocarsele a tutto campo, non aver paura, ma viverle con gioia: perché se i ragazzi vedono che noi ci crediamo, non saranno mai spettatori.

Il presidente Mattarella intervenendo al Meeting di Rimini ha invitato tutti, soprattutto i credenti, al coraggio della responsabilità: «la nostra responsabilità è immaginare il domani» ha detto. Come possiamo aiutare i nostri giovani ad immaginare il loro domani?

Rispondo con le parole di Mattarella: «Il mondo ‘globale’ viene percepito, e diviene in realtà, sempre più piccolo, le distanze si accorciano, comunichiamo on line, con immediatezza, non soltanto parole e immagini, ma speranze e paure, modelli di vita e comportamenti sociali. Un virus temibile e sconosciuto ha propagato rapidamente i suoi effetti sull’uomo, sulle società, sulle economie, diffondendo morte e provocando una crisi ancor più pesante delle altre di questo primo scorcio di millennio. Avere il coraggio ‘di dire io’ richiama la necessità di rivolgersi ad altri, a uno o a tanti tu. Si tratta, anche per i credenti, della chiave del rapporto con Dio. La pandemia ci ha dimostrato quanto ci sia bisogno di responsabilità. L’io responsabile e solidale, l’io che riconosce il comune destino degli esseri umani, si fa pietra angolare della convivenza. E, nella società civile, nella democrazia.

Lo sviluppo integrale della persona si è arricchito di ulteriori implicazioni e coerenze, connesse anche all’irrinunciabile principio di pari dignità e uguaglianza. La persona è più dell’individuo: è un io pienamente realizzato. Vive nel ‘noi’, cerca il ‘noi’. Sentiamo che cresce la voglia di ripartire: il motore è la fiducia che sapremo migliorarci, che riusciremo a condurre in avanti il nostro Paese».

Nel chiudere vorrei rivolgere a tutti l’invito a tradurre queste grandi parole in un costante, anche se faticoso, esercizio della responsabilità, ma, e ancor più in quello, tutto da inventare, del trasmettere ai giovani gli strumenti adatti per non restarne fuori.

Vai al sito

Piemonte, festeggiati i 25 anni della Comunità Harambée

Nella serata di ieri, mercoledì 24 marzo, si sono festeggiati online i 25 anni di vita della Comunità Harambée con il contributo video mandato in onda su YouTube: un racconto, una storia fatta di storie per le persone che ci sono state, ci sono e ci saranno.

Il commento di don Domenico Ricca in merito ai festeggiamenti:

“Ascoltarvi da Torino mi emoziona tantissimo….perché celebrare vuol dire non dimenticare la difficoltà dei primi passi…sapersi voltare indietro non per rimpiangere ma per ringraziare e per dire che andare avanti ancora si può, si deve. È la nostra responsabilità educativa, è la nostra azione pastorale ed educativa di salesiani, perché questo ce lo chiede don Bosco, oggi come sempre…”

Salesiani per il sociale

Don Bosco Casale

“Disponibile al dialogo e all’ascolto”: don Domenico Ricca ricorda don Baldassare Meli

Le agenzie di stampa del 27 giugno 2020 riportavano: “È morto stamattina a Castelvetrano don Baldassare Meli, sacerdote-simbolo della Palermo della rinascita e del coraggio di fine anni Novanta. Don Meli, che a Palermo è stato per 17 anni l’anima della parrocchia di Santa Chiara e del Centro di accoglienza per immigrati, era da qualche anno parroco di Santa Lucia, nel grosso centro in provincia di Trapani. Il sacerdote era conosciuto per le sue battaglie per l’integrazione dei migranti in quella che il parroco definiva “la Repubblica indipendente di Ballarò”: una battaglia condotta offrendo loro un pasto caldo e un tetto in tempi di scarsa sensibilità al tema. Ma soprattutto fu grazie a lui, alla fine degli anni Novanta, che partirono le denunce che portarono alla luce un caso di pedofilia con 38 vittime nel quartiere popolare del centro storico di Palermo”.

Don Baldassarre Meli

Una notizia che dice tutto del suo impegno di sacerdote, di uomo dell’accoglienza e della denuncia. L’ho conosciuto in alcuni incontri che si organizzava come salesiani con la Consulta del Settore disagio ed emarginazione, sfociata poi nell’associazione Salesiani per il Sociale. Come responsabile del settore avevo organizzato uno di quegli incontri proprio a casa sua, a Santa Chiara, nell’ottobre del 1994. Ci aveva accolto molto bene, senza smancerie. Riservato, essenziale nel suo dire, che andava dritto al problema. Santa Chiara era un accumulato di stanze e stanzette tutte piene di migranti accolti. Ci fece una grande impressione. Si restava a bocca aperta. Per il resto d’Italia si stavano timidamente avviando le prime esperienze di accoglienza dei migranti, ma in numero ridotti. Si era ai primi passi. E visitando Santa Chiara ci chiedevamo come facesse a star dietro a tutto quanto avveniva lì dentro.

Don Baldassarre Meli

Credo che la chiave vincente fosse la sua grande disponibilità al dialogo, all’ascolto, lui così riservato, ma pratico ed operativo. Non aveva fretta di arrivare alle conclusioni. Le cercava insieme ai suoi collaboratori. Una sua amica e collaboratrice di quegli anni Ninetta Sammarco lo ricorda così “Che dire di don Meli? Abbiamo combattuto nel nome di Dio e con il carisma di don Bosco, che ci accompagnava, tante battaglie a favore degli immigrati, a favore dei bambini, specialmente quelli che erano vittime di abusi. Abbiamo vissuto insieme momenti critici con minacce pesanti, anche di morte”.

(Don Domenico Ricca, già Presidente Salesiani per il Sociale)