Articoli

Un mondo nuovo. Un’Enciclica dedicata alla fraternità e all’amicizia sociale

di Mario Toso
Vescovo di Faenza-Modigliana

Nel contesto della pandemia del Covid-19, che mette in luce non solo i problemi della salute dei popoli, dell’ecologia integrale, ossia dei cambiamenti climatici, dell’inquinamento, della distruzione della biodiversità, delle migrazioni ingenti di animali e di persone, ma anche i problemi connessi ad una cultura consumistica e dello scarto, delle ineguaglianze, delle ingiustizie, della fame, del deficit della politica, dello scisma tra singolo e comunità, papa Francesco promulga l’enciclica Fratelli tutti, [1] firmandola ad Assisi, ai piedi della tomba del Santo dell’amore fraterno, della semplicità e della gioia.

Il titolo Fratelli tutti è preso in prestito dalle Ammonizioni dello stesso Francesco d’Assisi. In particolare, papa Francesco, per comporre la «sua» Pacem in terris, ossia un’enciclica analoga a quella di san Giovanni XXIII,[2] avente però come perni centrali la fraternità e l’amicizia sociale, prende ispirazione da un episodio della vita del Santo di Assisi che, senza ignorare difficoltà e pericoli, va ad annunciare l’amore di Dio al Sultano Malik-al-Kamil in Egitto, senza nascondere la propria identità, invitandolo alla conversione. In un mondo pieno di torri di guardia e di mura difensive, di lotta tra cristiani e mussulmani, Francesco intende suscitare in tutti i popoli il sogno di una società fraterna, pacifica. Papa Francesco, che porta il nome del Poverello di Assisi, si fa missionario di un tale sogno nel contesto storico contemporaneo, per far rinascere tra tutti gli uomini l’aspirazione mondiale alla fraternità, alla pace. Se si vuole cambiare il mondo è importante «sognare» insieme come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne, come ospiti di una stessa terra. 

San Giuseppe, la forza eloquente del silenzio

Nell’anno Giuseppino, Note di Pastorale Giovanile pubblica una serie di riflessioni sulla figura di San Giuseppe. DI seguito, “San Giuseppe, la forza eloquente del silenzio” del card. Ravasi.

San Giuseppe, l’uomo giusto e mite, capace di ascoltare Dio, viene celebrato oggi come Sposo della Beata Vergine Maria e Patrono della Chiesa universale. Il suo silenzio che si oppone alla parola “urlata, brutale, aggressiva, come ormai siamo abituati a vedere” – spiega nell’intervista il cardinale Gianfranco Ravasi, biblista e presidente del Pontificio Consiglio della Cultura – rimane esempio e monito costante. San Giuseppe lavoratore, falegname, dormiente, sono alcune delle rappresentazioni del padre putativo di Gesù. “Una presenza abbastanza marginale” – sottolinea il porporato – ma nel suo silenzio, estremamente eloquente.

 

 

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Europa e migrazioni

di Renato Cursi

(NPG 2021-03-2)

Dopo secoli in cui è stata soprattutto terra di emigrazione verso altri continenti, in particolare quello americano, l’Europa da qualche decennio è tornata ad essere la meta di flussi migratori continui, multipli e misti. Continui, perché si assiste ormai da più decenni all’arrivo di centinaia di migliaia di persone in Europa ogni anno, con alti e bassi (compresi quelli registrati nell’anno della pandemia) che non alterano significativamente una tendenza crescente. Multipli, perché provenienti da diversi continenti e direzioni. Misti, perché questi flussi vedono protagoniste persone che migrano verso l’Europa con motivazioni differenti: dalla ricerca di migliori opportunità di vita in senso ampio, alla ricerca di asilo e protezione da catastrofi o persecuzioni di vario tipo. Da una parte, occorre riconoscere che anche nei secoli in cui è stata terra di emigrazione, l’Europa ha pur sempre assistito al continuo movimento delle popolazioni all’interno del suo territorio. D’altra parte, è pure evidente che la recente realtà delle migrazioni verso l’Europa da diversi continenti contemporaneamente rappresenta una sfida e un’opportunità inedita, cui sarebbe inadeguato paragonare altri episodi del passato come i movimenti delle popolazioni nord-asiatiche dei primi secoli dopo Cristo.

La storia dell’umanità e dell’Europa è da sempre segnata dalle dinamiche innescate da questi movimenti di popolazione, e la risposta che i popoli europei sapranno offrire oggi a questa sfida e opportunità ne segnerà certamente il futuro. Lo stesso Vangelo migrò in Europa due millenni or sono da quella regione chiamata oggi dagli europei “Medio Oriente”, segnando da allora profondamente il futuro dei popoli europei, che in fondo è anche il nostro oggi. Come sono chiamati a porsi oggi gli eredi di quel dono nei confronti di un fenomeno migratorio in parte inedito? Analizziamo il contesto di questo discernimento prima di presentare la proposta che oggi sfida su questo terreno la pastorale giovanile in Italia ed in Europa.
La storia consegna oggi ai popoli europei l’eredità di un processo di integrazione che assume nella sua forma più recente le vesti di un’Unione Europea. L’organo dotato di iniziativa legislativa all’interno di quest’organizzazione, la Commissione Europea, ha presentato il 23 settembre scorso un insieme complesso di misure volte a costituire un “Nuovo Patto sulla Migrazione e sull’Asilo”, con il proposito di offrire “un nuovo inizio in materia di migrazione in Europa”. L’aggettivo “nuovo” fa riferimento ad un “vecchio” sistema di regole comuni, in particolare in tema di esame delle domande di asilo.

Se già nei primi decenni del processo di integrazione intrapreso all’indomani della seconda guerra mondiale, i singoli Stati europei iniziarono a dotarsi di misure nazionali per adeguarsi al fenomeno delle migrazioni da Paesi non europei, è solo all’indomani della cosiddetta “guerra fredda”, che si arrivò ad un accordo comune sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati Membri delle Comunità Europee. Questa Convenzione, siglata nel 1990 a Dublino a partire da quanto già previsto dalla Convenzione internazionale di Ginevra del 1951, è il pilastro su cui si sono fondate negli ultimi trent’anni le politiche europee in tema di asilo e rifugiati. Le disposizioni europee adottate nel frattempo, infatti, hanno sempre confermato la regola per cui lo Stato Membro competente all’esame della domanda d’asilo è il primo Stato attraverso cui il richiedente asilo ha fatto il proprio ingresso nell’Unione Europea. Questa regola comportava un sistema iniquo, per cui l’onere dell’esame delle domande di asilo, cresciute in maniera significativa nel tempo fino a superare il numero di un milione all’anno nel biennio 2015-16, ricadeva esclusivamente sui Paesi posti alla frontiera meridionale e sudorientale dell’Unione (Cipro, Grecia, Italia, Malta, Spagna).

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Un rilancio dell’educazione in ampiezza, lunghezza, altezza e profondità

di Salvatore Currò – Docente di pastorale giovanile presso l’Università Pontificia Salesiana

Per un’educazione più “ampia”

L’impegno educativo ecclesiale, se vissuto bene, ci rende aperti; permette l’incontro con tanti giovani, tendenzialmente con tutti. Infatti, la crescita in vera umanità, che è in gioco nell’educazione, riguarda tutti. Nessuno può sottrarsi ad essa, se non per una fuga da una pro-vocazione che comunque è scritta dentro di sé, nella vita stessa. Grazie all’azione educativa la pastorale ecclesiale si allarga e si amplifica. Con essa si permette a tanti di sperimentare che le risorse cristiane sono perle preziose di vita e che la compagnia di Cristo apre alla pienezza e verità della propria umanità. La Chiesa, con l’educazione, mostra anche che la sua pastorale non è per se stessa (non è per fare proselitismo) ma è a servizio della crescita piena e integrale delle persone, e a servizio della società.
Abitando il terreno educativo si riconosce la soggettività e l’apporto di tutti, si dialoga, si pratica la corresponsabilità, si fanno alleanze. La Chiesa ha maturato la mentalità delle alleanze educative; ha imparato a realizzarle non solo all’interno della comunità cristiana ma anche nel contesto della comunità umana, nel territorio, nella città. Si riscopre, così, il senso di essere cristiani nel cuore del mondo, in cammino con tutti.
Papa Francesco, grande testimone dell’importanza dell’educazione, ha allargato gli orizzonti proponendo un patto educativo globale. C’è molta affinità tra i dieci punti del nostro decalogo e i sette punti richiamati dal Papa lo scorso 15 ottobre quando ha voluto rilanciare la sua proposta . L’invito è a una mentalità aperta, ampia. Si può fare alleanza anche con i credenti di altre religioni o con i non credenti, perché l’educazione è, appunto, terreno di tutti e perché la costruzione di un mondo nuovo richiede la condivisione delle energie migliori. Si può (e si deve) costruire cammino insieme a partire da istanze di vera umanità: l’ecologia integrale, la pace, la giustizia, la responsabilità per i più vulnerabili, l’impegno a costruire cultura dell’incontro, ecc.; a condizione di essere sempre aperti alla sincerità e all’integralità dell’umano.

Per un’educazione più “lunga”

È possibile costruire un mondo rinnovato. Papa Francesco ci trasmette questa fiducia. Ha osato rilanciare la fraternità come orizzonte per costruire un mondo nuovo (Fratelli tutti). Ci ha invitati ripetutamente a leggere il richiamo a rinnovare il mondo nella stessa drammatica esperienza della pandemia. Ciò richiede uno sforzo squisitamente educativo.
L’educazione sa mettere insieme il piccolo e il grande, l’impegno nel quotidiano e la capacità di sognare. Educare significa credere nei processi: lasciarsi guidare nel quotidiano da grandi sogni, saper vedere nel piccolo il grande; soprattutto saper lavorare sui tempi lunghi. Nel tempo del “tutto e subito”, dell’impazienza e dell’incapacità di attendere, l’educazione sa andare sapientemente controcorrente e si allunga: sa accompagnare processi, sa vedere la meta nel processo stesso, sa operare con gratuità e al di là della ricerca del successo immediato.
Serve oggi una profezia della pazienza e dei tempi lunghi. Il senso del processo, d’altra parte, è strettamente connesso col senso del cammino insieme. I veri cambiamenti, e quindi la vera educazione, si fanno nella corresponsabilità, nella fiducia nelle relazioni, scommettendo su dinamiche sinodali. Meglio andare insieme piuttosto che di fretta, anche perché insieme si va più lontano. Papa Francesco ce lo ricorda con un proverbio africano: «Se vuoi andare veloce, cammina da solo. Se vuoi arrivare lontano, cammina con gli altri» (Christus vivit, 167).

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Un decalogo per l’educazione

Ufficio Nazionale per l’Educazione, la Scuola e l’Università della CEI

(NPG 2021-03-9)

L’educazione della persona è parte essenziale della missione della Chiesa; educando, in maniera unica essa vive e condivide la gioia del Vangelo che ha ricevuto.
L’educazione è un’opera complessa che si sviluppa in ambiti, figure e ambienti diversificati. In essa la relazione occupa un posto determinante, perché al suo centro sta la persona che cresce e che chiede di essere orientata e accompagnata in «un cammino di libertà che porta alla luce quella realtà unica di ogni persona, quella realtà che è così sua, così personale, che solo Dio la conosce» (Christus vivit, 295).
La Chiesa sa di avere alleati in tante persone e istituzioni; essa stessa vuole mettersi a servizio dell’educazione di tutti, offrendo la sua originale visione della persona umana, della vita e della società, entrando in dialogo con quanti hanno a cuore il bene comune. A muoverla è una “speranza affidabile” in quel Dio che, donandoci di educare, ci rende suoi collaboratori nell’opera della creazione attraverso l’amore che salva.
Vogliamo indicare di seguito alcuni punti per disegnare quel «nuovo umanesimo in Cristo Gesù» indicato da papa Francesco sotto la cupola del Brunelleschi, a Firenze, il 10 novembre 2015. «Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo». È, questo, uno dei cardini della pedagogia cristiana: educare alla fede fa crescere un’umanità piena e riuscita.
La Chiesa prende la parola nel campo dell’educazione e la indirizza oltre i propri confini, consapevole – come ricorda papa Francesco – che «solo cambiando l’educazione si può cambiare il mondo».

1. Crescere ed educare nel cambiamento d’epoca
Viviamo in un mondo saturo di informazioni e in una babele di linguaggi. Tra i primi sono gli educatori ad esserne interpellati, perché hanno la responsabilità di essere veri “testimoni” e “maestri” per guidare chi viene loro affidato nei labirinti del nostro tempo. Senza cedere alla tentazione di ridurla a ricettario di “istruzioni per l’uso”, l’educazione distingue fini e mezzi, indicando i primi e utilizzando i secondi con competenza e senso critico. Educare significa praticare e insegnare l’arte del discernimento, tanto più di fronte alla sfida della rivoluzione tecnologica (e digitale), della quale comprendere il senso per imparare a dominarla più che ad esserne dominati; una proposta educativa improntata a un “nuovo umanesimo” apprezza l’apporto della tecnologia senza perdere di vista il bene integrale della persona.

2. Chiamati ad educare
Educare è vocazione umana fondamentale. È pressante il bisogno di persone conquistate dalla bellezza del compito educativo, che si dedichino alla crescita di bambini, ragazzi e giovani venuti alla ribalta della vita e che, a tale scopo, scelgano di formarsi e di farlo permanentemente. Non si nasce educatori, seppure siano importanti predisposizioni o, addirittura, carismi. Un adulto (genitore, insegnante, catechista, animatore, allenatore, istruttore, ecc.), consapevole della propria responsabilità educativa, si prende cura anzitutto di sé e della propria formazione; solo così diventa persona equilibrata e matura, testimone di vita ed educatore competente. Veri educatori sono persone autentiche e umili, autorevoli e capaci di mettersi in ascolto.
Per molti adulti sono forti le tentazioni della delega e della rinuncia educativa, mossi magari da un senso di inadeguatezza. Poiché “non si può non educare”, un adulto sa trovare il coraggio della propria responsabilità e del compito di aiutare e sostenere le nuove generazioni. La Chiesa accompagna con convinzione questo impegno educativo diffuso, che custodisce il presente e prepara il futuro prendendosi cura di chi sta crescendo nutrendolo con l’esempio di adulti maturi.

3. Educare è generare il nuovo
Educare è una scommessa sul futuro, promozione di novità, apertura al cambiamento. Ogni educatore fa suo un atteggiamento positivo, fiducioso nelle potenzialità delle nuove generazioni e nella loro capacità di costruire un futuro migliore.
L’educazione è un processo generativo, aperto sul nuovo e mirante alla crescita della persona nella sua totalità e allo sviluppo di tutte le sue migliori potenzialità. L’educazione è un atto creativo che genera il nuovo.
Perciò la prima virtù dell’educatore è la speranza; non la speranza ingenua che alla fine le cose si aggiusteranno come per magia, ma quella speranza affidabile fondata su Qualcuno che non delude.

4. La persona è il fine unico dell’educazione
La persona è il centro e il fine dell’educazione; non può mai diventare il mezzo di un progetto educativo sia pure animato delle migliori intenzioni.
L’educazione non è uno sviluppo solo intellettuale ma un processo che investe l’intera persona. Ogni educatore è consapevole di essere il mediatore di un umanesimo centrato sulla promozione di ciascuna persona per quello che è e per quello che può diventare. Fondamento di ogni azione educativa è l’amore. Amare chi si educa vuol dire rispettare la sua libertà e farne al tempo stesso il fine e il mezzo dell’azione educativa: educare con libertà alla libertà. Solo così viene riconosciuto il valore della persona da educare, alla cui disposizione l’educatore si pone con spirito di servizio. La stessa educazione religiosa, compito proprio della Chiesa, si fonda sulla libertà personale, senza la quale essa finirebbe per tradire la natura della persona: la religione è per l’uomo e non l’uomo per la religione.

5. L’educazione è relazione
Se il centro dell’azione educativa è la persona, l’educazione è essenzialmente relazione tra persone, ognuna delle quali deve prendersi cura di sé e dell’altra. Spersonalizzare l’educazione significa snaturarla, cosificarla, trasformarla in azione tecnica o strumentale, chiusa all’apertura generativa nei confronti dell’altro e della realtà tutta.
La relazione educativa non isola le persone coinvolte, poiché si colloca in un determinato contesto di tempo e di spazio; essa si svolge all’interno di una rete di relazioni significative che danno forma a luoghi e ambienti e a sua volta ne risente. Essa ha come fine la fraternità, alla quale l’educazione si apre e conduce, fino a contemplare la relazione con l’Altro, l’Assoluto, il Trascendente, sempre presente come confine delle esperienze umane e al tempo stesso condizione della piena e autentica realizzazione della persona.

6. Solo una comunità educa
Non ci si educa e non si educa da soli. L’educazione è il risultato dell’azione congiunta di una molteplicità di ambienti e contesti; non è realistico immaginare di prevenire o limitare gli effetti educativi mediati, oggi, da attori spesso incontrollabili.
La prima comunità educante è la famiglia. La sua attività generativa ed educativa è un riflesso dell’opera creatrice del Padre. Alla famiglia spetta il primario diritto e dovere dell’educazione dei figli; con essa sono chiamate a collaborare la Chiesa e tutte le altre agenzie educative e sociali.
È noto il proverbio africano: “per educare un bambino ci vuole un villaggio”. Tutti siamo coinvolti nell’impegno educativo e ne portiamo una responsabilità che non può essere delegata solo ad alcuni. È indispensabile recuperare lo spirito di comunità, oggi potentemente minacciato dall’individualismo. Al sospetto nei confronti di educatori e agenzie educative deve sostituirsi la reciproca fiducia, che consenta di stabilire nuove e fattive alleanze educative: tra le diverse generazioni, tra famiglia e scuola, tra società civile e istituzioni, tra Chiesa e territorio, tra singoli e gruppi.

7. Educare sempre
Il processo educativo dura tutta la vita (lifelong learning) e coinvolge ogni contesto di vita (lifewide learning). L’educazione si compie sempre e in qualsiasi ambiente: formale (nelle istituzioni dedicate), informale (nell’esperienza quotidiana) e non formale (scelta volontariamente). Ogni esperienza di vita può essere fonte di educazione personale, perciò richiede grande attenzione (da parte del potenziale educatore) e disponibilità (da parte del potenziale educando).
L’educazione non è tutto, ma tutto ha bisogno di educazione e contribuisce ad essa: il lavoro, la politica, l’economia, la sanità, la scienza, la comunicazione, lo sport, l’arte. Anche la Chiesa deve scoprire sempre nuove modalità di evangelizzazione e di educazione, nella fedeltà costante al messaggio evangelico.

8. Educare con un progetto
Anche se esistono contesti di educazione informale, l’educazione non può essere un’azione casuale: occorre un progetto preciso, frutto di una esplicita intenzionalità educativa, senza il quale gli effetti rischiano di essere diversi, se non opposti, da quelli attesi.
La missione educativa della Chiesa abbraccia innanzitutto il compito di annunciare il Vangelo; in essa ognuno viene educato ai valori del bene, del vero e del bello. La sua opera educativa è efficace solo se essa agisce come una vera comunità. L’educazione offerta dalla Chiesa è offerta indivisibilmente alla persona e al credente, cerca la pienezza della sua umanità.

9. Abbiamo fiducia nella scuola
La scuola attraversa da tempo un periodo di crisi, che le fa perdere identità e prestigio sociale: in una società mediamente alfabetizzata, l’istruzione di base offerta dalla scuola non fa più la differenza e tende ad essere svalutata. La comunità cristiana intende dare fiducia alla scuola, sostenere la sua credibilità, stringere con essa un’alleanza educativa basata sulla reciproca stima, eliminando distanze e forme di reciproco sospetto. Non si tratta di “occupare” la scuola, ma di restituirle il ruolo sociale che merita, essendo rimasta uno dei pochi presìdi culturali in una società che non sembra credere al valore della cultura.

10. Ampliare la missione educativa delle comunità cristiane
Le comunità cristiane legano spesso la loro azione educativa ad alcuni momenti tradizionali (preparazione ai sacramenti, catechesi ai più piccoli, omelia domenicale), trascurando la formazione permanente di cui, oggi più di ieri, c’è incondizionatamente bisogno. In un vuoto educativo generalizzato le comunità cristiane (parrocchie, istituti religiosi, associazioni, movimenti, gruppi) sono chiamate a riscoprire la loro funzione educativa e ampliare la loro offerta con iniziative di formazione permanente: percorsi di formazione biblica e teologica, corsi di formazione etica e politica, attività educative rivolte ai genitori, proposte educative rivolte ad adolescenti e giovani, ecc. La stessa pratica del volontariato chiede di essere accompagnata da proposte di riflessione e formazione per non scadere in un generico attivismo. La formazione offerta dalla comunità cristiana non si può limitare alla sfera religiosa ma si deve aprire, con provata competenza, a tutta la realtà umana. In questo contesto si colloca anche la missione della scuola cattolica e delle altre istituzioni formative cattoliche o di ispirazione cristiana, fino all’università. Esse sono il segno concreto di una azione corale di tutta la Chiesa che, al termine del decennio pastorale dedicato a “Educare alla vita buona del Vangelo”, è ancora più consapevole della necessità e della bellezza di educare ancora e di educare sempre.

 

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Anno giuseppino: Magistero, Bibbia, Riflessioni, Arte

Sul sito di Note di Pastorale Giovanile c’è una rubrica a cura di Maria Rattà sull’anno giuseppino indetto da Papa Francesco.

«Dopo Maria, Madre di Dio, nessun Santo occupa tanto spazio nel Magistero pontificio quanto Giuseppe, suo sposo. I miei Predecessori hanno approfondito il messaggio racchiuso nei pochi dati tramandati dai Vangeli per evidenziare maggiormente il suo ruolo centrale nella storia della salvezza: il Beato Pio IX lo ha dichiarato Patrono della Chiesa Cattolica, il Venerabile Pio XII lo ha presentato quale “Patrono dei lavoratori” e San Giovanni Paolo II come Custode del Redentore. Il popolo lo invoca come «patrono della buona morte».
(papa Francesco)Ann

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Note di Pastorale Giovanile di Febbraio 2021 – Oratori e territori

Nel numero di febbraio della rivista di NPGnote di pastorale giovanile– viene presentata una ricerca qualitativa sui mutamenti delle realtà oratoriane nei territori milanesi nella contemporaneità.

Lo studio è stato condotto da Francesca Cattoni, Stefania Giacalone e Chiara Passerini. Queste le quattro grandi parti in cui la ricerca si articola:

  1. Tema, obiettivi, metodologia
  2. Analisi dei dati: tensioni emerse
  3. Approfondimenti
  4. Riflessioni conclusive

Di seguito un breve estratto dell’articolo sullo studio sugli oratori dei territori milanesi e la possibilità di visualizzarlo integralmente in PDF cliccando sul pulsante, ed il link con tutte le novità del numero di febbraio della rivista di Note di Pastorale Giovanile:

All’interno dell’orizzonte di senso della pedagogia sociale, che innanzitutto è «sapere inerente il rapporto tra educazione e società», il primo obiettivo della ricerca è di indagare come i mutamenti che stanno caratterizzando la contemporaneità trovino manifestazione anche all’interno dell’ecosistema oratoriano, nella sua identità, nell’azione quotidiana che lo contraddistingue, nel suo ruolo educativo.
NPG – Oratori e territori Febbario 2021

Leggi la ricerca
Il numero di Febbraio di NPG

 

 

Il tempo del quarto sigillo

di don Rossano Sala

L’avvento del cavallo verdastro

L’anno scorso, di questi tempi, eravamo in pieno decollo. Avevamo appena terminato l’entusiasmante processo sinodale con e per i giovani, avevamo appena messo in circolo le Linee progettuali della pastorale giovanile italiana preparate con cura dal Servizio Nazionale di Pastorale Giovanile della Conferenza Episcopale Italiana, si stava riaccendendo l’entusiasmo per il rinnovamento della pastorale giovanile, stavamo facendo i primi passi in vista della Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona, prevista per l’estate del 2022. E poi tanto altro ancora…
Avevamo anche impostato il decennio 2020-2030 con un Dossier programmatico di apertura sulla “sinodalità missionaria”, quello pubblicato nel gennaio 2020, esattamente un anno fa. Stavamo quindi ragionando sulle prospettive del Sinodo sia a breve che a medio termine. Il tutto ci portava a sognare la Chiesa in cammino con i giovani verso le periferie del mondo. Direi che, dai tetti in giù, le cose stavano andando bene per la pastorale giovanile. Certo, il cammino non sarebbe stato facile, infatti il Dossier di apertura aveva come sottotitolo parole assai impegnative: “Cammini di conversione spirituali, formativi e pastorali”.
E poi è arrivato l’evento della pandemia. Perché di “evento” nel significato teologale del termine si tratta. Nel senso di qualcosa che nessuno di noi ha pensato, né programmato, né pianificato. Un’esperienza del tutto imprevista nel nostro contesto globalizzato. Possiamo dire che proprio partendo da qui abbiamo fatto diverse esperienze in un certo senso “nuove”: da una parte molta solitudine e sofferenza, e siamo venuti a contatto ravvicinato con la realtà della morte; dall’altra altrettanta solidarietà e condivisione, perché ci siamo sentiti partecipi di un destino comune. Non sappiamo se ciò che sta accadendo nel suo insieme ci migliorerà o ci peggiorerà, certamente non potrà lasciarci indifferenti. Ogni nuova dinamica di vita sfida la nostra libertà e ci chiede di schierarci e di riposizionarci.
Nemmeno lo avremmo immaginato, questo evento davvero “apocalittico”, cioè – nel suo senso genuino – rivelativo. Chi l’avrebbe mai detto che questo sarebbe stato per noi il tempo dell’apertura del “quarto sigillo” da parte dell’agnello immolato fin dalla fondazione del mondo:

Quando l’Agnello aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: “Vieni”. E vidi: ecco, un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli inferi lo seguivano. Fu dato loro potere sopra un quarto della terra, per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra (Ap 6,7-8).

 

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Introduzione al dossier “Onora l’adulto che è in te”

Armando Matteo

Il tema al centro di questo Dossier di NPG è quello dell’adulto. L’orizzonte specifico, a partire dal quale un tale argomento verrà trattato, sarà quello di una sempre più diffusa e consistente “crisi” che investe sia coloro che sono adulti sia il concetto stesso di “adultità”. Si tratta di una crisi dalle vaste e molto gravi conseguenze: quando, infatti, gli adulti non fanno gli adulti e quando la categoria dell’adultità non costituisce più uno dei riferimenti fondamentali dell’esistenza umana, sono proprie le nuove generazioni quelle destinate a dover pagare un prezzo molto alto.
D’altro canto, non è per nulla difficile intuire quanto sia decisivo il ruolo delle generazioni adulte per la vita buona di quelle giovani. Si pensi semplicemente alla questione educativa o ancora a quella della trasmissione della fede. Senza adulti, infatti, cioè senza il contatto con uomini e donne adulti (e ovviamente tali non solo in senso cronologico, come si avrà modo di verificare di seguito), che si offrano quale meta del cammino proprio dell’essere di ogni giovane, non vengono al mondo altri adulti (e ovviamente anche in questo caso non solo in senso cronologico). Qualcosa di simile vale anche per la questione della maturazione della fede dei bambini e dei ragazzi: la testimonianza di fede, da parte dei propri genitori, e dunque di adulti, costituisce sempre l’innesco fondamentale del passaggio da un credere da bambini ad un credere da adulti.
Né più in generale si può dimenticare quanto sia preziosa l’opera delle generazioni adulte nel promuovere il passaggio di testimone, nella regia delle sorti del mondo, a quelle più giovani e dunque l’impegno concreto delle prime per una società capace di garantire le condizioni economiche per un’adeguata formazione delle seconde, per un loro inserimento nel mondo lavorativo precoce e dignitoso e, non da ultimo, per la realizzazione dei loro progetti di coppia e di famiglia. E qui accenniamo solo velocemente a tutto il tema della responsabilità adulta per quel che riguarda l’ecologia e la manutenzione politica di una convivenza pacifica di tutti gli abitanti della terra.
Si potrebbe, infine, parlare di una certa centralità dell’adulto anche per quel che riguarda la vita buona delle comunità cristiane e dunque delle parrocchie, dei movimenti, delle associazioni e delle tante realtà religiose e monastiche che costituiscono l’universo cattolico. Ebbene, da tempo assistiamo all’accrescimento della popolazione anziana e molto anziana in tutte queste realtà, che molto difficilmente sarà in grado di trascinare, nell’ambito di coloro che le tengono in vita e ne portano avanti le attività, i rappresentanti delle nuove generazioni. Qualsiasi realtà eccessivamente disertata dagli adulti non risulterà mai particolarmente appetibile a coloro che si preparano a diventare adulti a propria volta, ovvero ai giovani.
Per questo, allora, una rivista dedicata alla pastorale giovanile non può non interessarsi di ciò che capita all’adulto. Vi è, infatti, una regola base della vita umana che queste pagine spesso lasceranno trapelare: solo quando gli adulti fanno gli adulti, i giovani possono fare i giovani.

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Europa e ambiente

di Renato Cursi

Il 24 maggio scorso, nel giorno in cui si celebra la memoria liturgica di Maria Aiuto dei Cristiani, la pastorale giovanile e tutta la Chiesa italiana sono potute tornare a celebrare l’Eucaristia domenicale con il popolo, dopo oltre due mesi di sospensione per prevenire il contagio pandemico. In tale data ricorreva, inoltre, il quinto anniversario della prima Lettera Enciclica di Papa Francesco: Laudato si’, sulla cura della casa comune. Questa coincidenza provvidenziale ha probabilmente aiutato molte persone a fare sintesi tra il desiderio di un nuovo inizio, pur tra nuove e non semplici sfide, e il richiamo alla cura del creato. Questo richiamo è risuonato in questi mesi tanto nelle iniziative intraprese a più livelli per celebrare il quinto anniversario di quest’Enciclica, quanto nelle immagini che molti di noi hanno ammirato a distanza nei giorni dell’isolamento forzato: immagini di un ambiente e di una natura che tornavano a respirare dopo anni di sofferenza sotto i colpi della progressiva antropizzazione del pianeta. Acque di nuovo limpide, animali a loro agio negli spazi urbani, immagini satellitari ripulite dalle nuvole dell’inquinamento atmosferico.

A sostegno di questo appello alle nostre coscienze, sono poi stati pubblicati diversi studi scientifici internazionali che hanno certificato la correlazione tra inquinamento dell’aria e diffusione del contagio del coronavirus. Tutto ciò faceva sperare che avremmo imparato la lezione. “Andrà tutto bene”, “questa crisi è un’opportunità”, “ne usciremo migliori”, ci ripetevamo nelle settimane di isolamento domestico. Eppure appena si è potuti ripartire, in Italia abbiamo preferito, per fare un esempio tra i tanti possibili, la produzione all’educazione. Molte fabbriche sono tornate a produrre senza tradurre questo tempo in un’opportunità di conversione ecologica, mentre milioni di studenti, docenti ed educatori sono rimasti a casa senza indicazioni chiare per una ripartenza. Diversi fiumi sono tornati ad essere inquinati, code chilometriche di macchine si sono riproposte in luoghi di consumo non sostenibile e alcune altre brutte abitudini sono riemerse.

Guardando oltre queste prime reazioni, tuttavia, possiamo riconoscere di avere imparato qualcosa. Volenti o nolenti, abbiamo constatato di essere impreparati, in Italia come altrove, a sfide globali come questa. Abbiamo appurato che la globalizzazione comporta anche la condivisione mondiale dei rischi di uno sviluppo incurante di quelli che etichetta come “effetti collaterali”. Una volta di più, l’Italia e gli altri Stati Membri dell’Unione Europea hanno risposto inizialmente in ordine sparso, mostrando la debolezza e le contraddizioni di un’Unione fondata quasi unicamente sui valori del mercato. Non paghi, quando hanno compreso di dover rispondere insieme, è ancora all’economia e alla finanza che questi Stati hanno voluto affidare la cosiddetta “ripresa” (“Recovery”), concetto peraltro che guarda ad un ritorno al passato piuttosto che “ricostruire” o “ripensare” il futuro.

 

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