Lettere europee: Europa o digitale?

di Renato Cursi

Meglio scrivere di propria mano al termine di un lungo discernimento o affidarsi ad un algoritmo professionale, dopo aver scelto qualche parola chiave e un obiettivo di fondo? Lo scopriremo solo leggendo. Certo, sembra improbabile che un algoritmo esegua il compito di redigere una riflessione sulle sfide digitali che ci troviamo a vivere oggi come umanità intera e, nel nostro caso, in Europa, ponendo una domanda del genere in apertura, sollevando sin dall’inizio dubbi sull’autenticità dell’autore del testo stesso.
Il solo fatto che una tale domanda sia oggi possibile ci mostra la complessità della condizione che ci troviamo a vivere. Non viviamo più solo uno stato di connessione intermittente (online/offline), bensì una condizione “onlife”, come descrive il filosofo Luciano Floridi. Vale a dire, una vita in continua interazione tra la realtà materiale e analogica e la realtà virtuale e interattiva. “Figitale”, direbbero altri, anche se in Italia non è ancora diffuso questo neologismo, frutto di una crasi volta a sottolineare la continua interazione tra realtà fisica e digitale.
Una condizione instauratasi progressivamente nel corso degli ultimi tre decenni, ma sicuramente amplificata dalla pandemia di covid-19. Nella definizione di “onlife” illustrata sopra, la parola chiave è l’aggettivo “continua”. Il riferimento alla (quasi?) totale assenza di interruzioni nella nostra interazione tra realtà materiale e analogica, da una parte, e realtà virtuale e interattiva, dall’altra. Questa continuità si è consolidata con l’ingresso nelle nostre vite dei dispositivi tecnologici portatili, nonché con il loro rendersi più potenti e più indispensabili. Le limitazioni all’interazione fisica tra persone, rese necessarie dalle misure di contrasto alla diffusione del virus, hanno quindi amplificato questo processo già da tempo in atto.
Alla dipendenza da schermi e al mal di riunioni e lezioni digitali, nei giovani sembrano accompagnarsi, tra le altre, due tendenze apparentemente contraddittorie. Da una parte, si avverte un certo fatalismo, un senso di impotenza e passività nei confronti di tutto ciò che è o in qualche modo dipende dal digitale. D’altra parte, si intravede un affidamento fideistico agli strumenti offerti dalle tecnologie digitali per cercare le risposte a bisogni e aspirazioni di ogni tipo. La condizione espressa dalla prima tendenza è quella che viene definita “powerlessness by design”, cioè la condizione di chi si sente progettato all’impotenza, consapevole ma costretto alla condizione di ingranaggio o variabile trascurabile di un grande algoritmo o di un’intelligenza artificiale progettati da altri. La seconda tendenza assume varie forme, tra cui quella descritta dall’antropologo Yuval Noah Harari con il nome di “dataismo”. Questa visione del mondo, che riconosce negli algoritmi e nei dati le uniche fonti di autorità in grado di sintetizzare criteri capaci di fondare e orientare le scelte delle persone, nelle sue forme più estreme arriva a concepire l’intero universo come un flusso di dati e la vita stessa come un mero algoritmo biochimico.