Articoli

Europa e post-umano

di Renato Cursi

da NPG di novembre 2021

“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. Con queste parole si apriva, cinquantasei anni fa, la Costituzione pastorale del Concilio Ecumenico Vaticano II Gaudium et Spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Si trattava della dichiarazione autorevole di una comunità che “si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia”. Neanche un secolo più tardi, poco dopo aver varcato il secondo millennio dalla nascita di Cristo, la Chiesa, “esperta di umanità” (Populorum Progressio 13), si trova tuttavia a dover fronteggiare con urgenza quella che definirei la sfida del “post-umano”.
L’umanità, così come l’abbiamo conosciuta in secoli di storia, si sta forse congedando dal mondo? Siamo ad un passo dal momento storico in cui le possibilità della tecnica, unite ad un pensiero transumanista, consentiranno il superamento dell’uomo, profetizzato più di cento anni or sono da Nietzsche e rilanciato problematicamente da Harari con il suo Homo Deus pochi anni fa? In cosa consisterà questo superamento? E, in caso ci fosse, si tratterà di un superamento alla portata di tutti o solo di alcuni? Dietro il velo delle questioni intorno all’inizio e alla fine della vita, intorno al significato della malattia e del dolore, come anche dietro all’altro velo delle questioni sull’enhancement (accrescimento, potenziamento delle capacità umane), sull’interazione uomo-macchina e l’intelligenza artificiale, si intravedono ormai sempre più con chiarezza e preoccupazione queste domande. Diventano, cioè, sempre più vicine e inaggirabili, ineludibili, anche se il transumanesimo di oggi (domani chissà) non ha purtroppo ancora quasi nulla a che vedere con il “trasumanar” del Paradiso di Dante, poeta italiano ed europeo, di cui quest’anno si sono celebrati i 700 anni dalla morte e dalla prima pubblicazione della Divina Commedia.
Insieme alla questione dell’essere umano, tutte le fattispecie menzionate sopra sottendono anche quella della (volontà di) “potenza”. Cosa può dire riguardo a questa sfida un’Europa priva di un’idea condivisa di persona umana e “nana” in un mondo di “giganti digitali”? In quale rapporto sta, alla lunga, il crescere del potere con l’umanità dell’uomo? Come stanno insieme, da una parte, l’impegno per la prevenzione dei cambiamenti climatici, i nuovi stili di vita più rispettosi del pianeta e delle altre specie e, d’altra parte, una ricerca tecnica orientata allo scopo di generare e far crescere l’uomo nei suoi primi mesi di vita in una condizione artificiale, al di fuori dei corpi dei propri genitori? Non è dato sapere oggi se una nuova sintesi tra i concetti di ecologia integrale, da una parte, e di nonviolenza (intesa anche come rinuncia alla violenza culturale e strutturale), dall’altra, riuscirà ad evidenziare queste contraddizioni e a superarle promuovendo un nuovo rinascimento, una vera fraternità, una nuova armonia tra uomo e natura, che con gli occhi della fede significa armonia tra creature, creazione e creatore.
Nel vuoto delle ideologie e delle teleologie, l’unica narrazione diffusa nell’opinione pubblica che oggi sembra volere andare oltre l’orizzonte umano schiacciato sul presente del consumismo e del benessere, è quella del ritorno del mito della conquista dello spazio extra-atmosferico da parte dell’uomo, la corsa verso la colonizzazione della Luna e del pianeta Marte. Con una novità, rispetto agli anni del secondo dopoguerra: cioè che a parlarne e a lavorarci non sono più solo Stati profondi in competizione tra loro, ma anche privati visionari dotati del capitale necessario all’impresa. Anche qui, tuttavia, sembra mancare una riflessione su che tipo di umanità e di società si vogliano sviluppare in queste nuove terre di frontiera. Che uomo arriverà su questi pianeti? Che tipo di società umana vi costruirà? Cosa lascerà dietro di sé sulla Terra? Occorre riconoscere che in Europa si parla molto poco di tutto questo. Eppure potrebbe essere oggetto di decisioni concrete tra pochi anni.
Ebbene, considerati tutti questi fronti aperti, cosa può proporre la pastorale giovanile europea in un eventuale dibattito sul tema del post-umano? Come accompagnare i giovani europei affinché le loro decisioni quotidiane, come quelle di consumo, di uso del tempo, delle tecnologie, dell’ambiente o del corpo, apparentemente semplici e innocue, tengano conto di questi scenari e siano illuminate da uno sguardo di fede? Il disagio che proviamo nel tentare una risposta ci spiega perché questa enorme sfida necessita uno studio, un orizzonte e spazi adeguati per essere affrontata.
Alcuni anni prima del Concilio Ecumenico Vaticano II, in uno dei periodi più bui della sua Germania e dell’intero continente europeo, il filosofo e teologo Romano Guardini identificava la missione dell’Europa nella “critica” della potenza. L’Europa, forte di quella che molti considerano la sua debolezza, ovvero la sua vecchiaia, avrebbe quindi il compito di non limitarsi ad accrescere la potenza, ma di domarla. Di “scommessa cattolica” parlano invece più di recente Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, puntando su una Chiesa che si rigenera anche in Europa “facendosi interpellare dalla realtà”, nel dialogo con le altre religioni, con la politica, con la tecnica. La Chiesa, inclusa la pastorale giovanile, potrebbe allora contribuire a fondare una società capace di “tenere aperta la potenza”, rinunciando a bloccarla ad ogni costo, ma allo stesso tempo liberandola dalle logiche post-umane della tecnica, attraverso una pluralità di “proiezioni eccentriche”, come l’arte, la politica, la religione. In chiave di proposta costruttiva ai giovani europei, quella di “tenere aperta la potenza” ha il merito di salvaguardare la dimensione creatrice e partecipativa rispetto alla formula del “disciplinamento etico” della potenza, profetizzato da Guardini, con il quale pure quest’ultima proposta condivide molti aspetti.
Lo stesso Guardini, qualche anno più tardi, affermava:

“Se l’Europa si staccasse totalmente da Cristo – allora, e nella misura in cui questo avvenisse, cesserebbe di essere […] Se l’Europa deve esistere ancora in avvenire, se il mondo deve ancora aver bisogno dell’Europa, essa dovrà rimanere quella entità storica determinata dalla figura di Cristo, anzi, deve diventare, con una nuova serietà, ciò che essa è secondo la propria essenza. Se abbandona questo nucleo – ciò che ancora di essa rimane, non ha molto più da significare”.

Senza l’incontro decisivo con Cristo, secondo Guardini, dopo il tramonto del mondo classico greco e poi romano, l’Europa sarebbe tramontata nel vortice di una “migrazione dei popoli”. Ebbene, che forma può assumere oggi, al tramonto di un’altra epoca e all’alba di nuove grandi migrazioni, un radicamento in Cristo come fonte essenziale per l’Europa? Saranno forse nuovi santi europei a dircelo con la loro vita e le loro opere, e magari nuovi giovani santi, insieme alle comunità che sapranno accompagnarli e farli germogliare. La Chiesa in Europa, per riscoprirsi sinodale, popolo di Dio in cammino, ha bisogno di una pastorale giovanile missionaria e popolare, che si fidi della chiamata che Dio continua a rivolgerle nei giovani che nascono e che arrivano qui.

“Sulle strade d’Europa”, il 14 luglio presentazione del libro sulla dimensione sociale della fede di Renato Cursi

L’Università Pontificia Salesiana con l’editrice LAS presenterà il 14 luglio, con un evento on line, il libro di Renato Cursi, segretario esecutivo di Don Bosco International, “Sulle strade d’Europa. Giovani e dimensione sociale della fede per costruire il futuro”.

Si tratta di un volume su pastorale giovanile e dimensione sociale della fede, frutto della collaborazione di questi ultimi anni con la Rivista Note di Pastorale Giovanile e della rielaborazione quindi dei contenuti della rubrica “Lettere Europee”. Il volume offre pertanto un punto di vista su questi temi aperto all’orizzonte dell’integrazione europea, nell’anno della Conferenza sul Futuro dell’Europa.

Per partecipare

Lettere europee: Europa o digitale?

di Renato Cursi

Meglio scrivere di propria mano al termine di un lungo discernimento o affidarsi ad un algoritmo professionale, dopo aver scelto qualche parola chiave e un obiettivo di fondo? Lo scopriremo solo leggendo. Certo, sembra improbabile che un algoritmo esegua il compito di redigere una riflessione sulle sfide digitali che ci troviamo a vivere oggi come umanità intera e, nel nostro caso, in Europa, ponendo una domanda del genere in apertura, sollevando sin dall’inizio dubbi sull’autenticità dell’autore del testo stesso.
Il solo fatto che una tale domanda sia oggi possibile ci mostra la complessità della condizione che ci troviamo a vivere. Non viviamo più solo uno stato di connessione intermittente (online/offline), bensì una condizione “onlife”, come descrive il filosofo Luciano Floridi. Vale a dire, una vita in continua interazione tra la realtà materiale e analogica e la realtà virtuale e interattiva. “Figitale”, direbbero altri, anche se in Italia non è ancora diffuso questo neologismo, frutto di una crasi volta a sottolineare la continua interazione tra realtà fisica e digitale.
Una condizione instauratasi progressivamente nel corso degli ultimi tre decenni, ma sicuramente amplificata dalla pandemia di covid-19. Nella definizione di “onlife” illustrata sopra, la parola chiave è l’aggettivo “continua”. Il riferimento alla (quasi?) totale assenza di interruzioni nella nostra interazione tra realtà materiale e analogica, da una parte, e realtà virtuale e interattiva, dall’altra. Questa continuità si è consolidata con l’ingresso nelle nostre vite dei dispositivi tecnologici portatili, nonché con il loro rendersi più potenti e più indispensabili. Le limitazioni all’interazione fisica tra persone, rese necessarie dalle misure di contrasto alla diffusione del virus, hanno quindi amplificato questo processo già da tempo in atto.
Alla dipendenza da schermi e al mal di riunioni e lezioni digitali, nei giovani sembrano accompagnarsi, tra le altre, due tendenze apparentemente contraddittorie. Da una parte, si avverte un certo fatalismo, un senso di impotenza e passività nei confronti di tutto ciò che è o in qualche modo dipende dal digitale. D’altra parte, si intravede un affidamento fideistico agli strumenti offerti dalle tecnologie digitali per cercare le risposte a bisogni e aspirazioni di ogni tipo. La condizione espressa dalla prima tendenza è quella che viene definita “powerlessness by design”, cioè la condizione di chi si sente progettato all’impotenza, consapevole ma costretto alla condizione di ingranaggio o variabile trascurabile di un grande algoritmo o di un’intelligenza artificiale progettati da altri. La seconda tendenza assume varie forme, tra cui quella descritta dall’antropologo Yuval Noah Harari con il nome di “dataismo”. Questa visione del mondo, che riconosce negli algoritmi e nei dati le uniche fonti di autorità in grado di sintetizzare criteri capaci di fondare e orientare le scelte delle persone, nelle sue forme più estreme arriva a concepire l’intero universo come un flusso di dati e la vita stessa come un mero algoritmo biochimico.

Continua a leggere
Per abbonamenti