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Storie di Pietro – Esperienza Live: Comunità educatori e giovani Santa Maria la Longa – Gorizia – Udine

Da Note di Pastorale Giovanile.

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Storie di Pietro è una storia di storie. Presa nel suo complesso, non è reale, ma i frammenti che la compongono sono la trasposizione di esperienze vissute. Li abbiamo raccolti perché riteniamo che la narrazione aiuti sia il lettore che lo scrittore a dare senso ai vissuti. Pensiamo che vedere il proprio pezzettino come parte di una storia più grande aiuti a sentire che siamo parte di un’esperienza più grande, che non siamo soli in quello che viviamo. Per questo abbiamo integrato nella storia anche gli episodi meno coerenti con la figura di Pietro e abbiamo lasciato che la trama si sfilacciasse in tante direzioni: ci interessava dare voce a tutte le esperienze nella loro unicità e volevamo evitare il rischio di semplificare eccessivamente la complessità della vita, di incasellarla nella trama di un libro. Vedendo che la scrittura aiutava i ragazzi a scavare dentro le proprie vite, a trovare i momenti di svolta, a prendere consapevolezza dei propri passi e dei cambiamenti, abbiamo incoraggiato il loro lavoro e abbiamo fatto il possibile per salvare l’autenticità del racconto, anche a scapito dello stile e dell’organicità del testo.
La composizione del libro ha richiesto un percorso lungo qualche mese, scandito da alcune tappe fondamentali che hanno seguito il cammino del Live. L’Esperienza Live è già un incrocio di storie, si configura infatti come un percorso fatto di incontri in cui persone di età e provenienze diverse provano a condividere un cammino di formazione. L’identità stessa del Live è continuamente in divenire per la necessità di adeguarsi ai cambiamenti delle persone che lo compongono e dell’ambiente in cui vivono. Per coltivare l’appartenenza a questa esperienza, i ragazzi hanno bisogno di riconoscersi in un immaginario collettivo, che nel libro ha preso il nome di Pietro. Si accorgono così che, ognuno nella propria realtà, si muovono nelle stesse dimensioni, che assumono una forma visibile nei capitoli della storia.
Il momento fondamentale per rinnovare e riconoscere l’identità dell’esperienza Live è da sempre il campo estivo, che nel 2022 si è incentrato sul personaggio di Pietro. Spuntato come una novità, a metà tra il serio e il faceto, il nome di Pietro ha iniziato a circolare tra i partecipanti al campo quasi come se fosse uno di loro, un ragazzo nuovo da conoscere e con cui interagire. Inaspettatamente si poteva scoprire una sua traccia: su una parete compariva, scritta su un foglio, una testimonianza di una persona a lui vicina, oppure si poteva trovare un oggetto che gli apparteneva o un ricordo della sua vita accompagnato dal commento di Pietro stesso. Ogni nuova traccia contribuiva a costruire nei ragazzi un’immagine di Pietro. All’inizio molti si chiedevano se fosse una persona vera o inventata ed era difficile rispondere: a tutti è stato detto che il personaggio era frutto della fantasia, ma che poteva essere ognuno di noi.
Stando così le cose, era giusto che ognuno contribuisse a definirne l’identità, ecco perché accanto alle testimonianze comparivano anche fogli bianchi, che chiedevano ai ragazzi di immaginare una parte della persona o dell’ambiente di Pietro: cosa gli piace? Quali parole di incoraggiamento si è sentito dire? Come sono i suoi compagni di classe? Cosa dice a Dio? Come ha conquistato la sua ragazza? I fogli bianchi si riempivano giorno dopo giorno con le parole dei tanti “Pietro” che volevano metterci una parte di sé. Durante tutto il campo, i ragazzi hanno continuato a ricevere spunti su Pietro e allo stesso tempo a darne, finché si è delineata una figura talmente complessa e disorganica che era chiaro, a quel punto, che Pietro eravamo tutti noi. .
Nel frattempo si è cercato di stimolare nei ragazzi il desiderio di scrivere, di raccontare la vita di Pietro, di cui a quel punto non esisteva nulla di definito, a parte il nome. Si è formata una redazione provvisoria, che ha provato a iniziare un lavoro di sistematizzazione delle informazioni su Pietro e allo stesso tempo di sollecitazione reciproca alla scrittura. Ma il passo necessario per scrivere era staccarsi dall’immagine di Pietro e rientrare in sé. Per questo ognuno dei ragazzi ha realizzato una mappa in cui ha rappresentato la propria vita, illustrando in ogni ambito (famiglia, scuola, passioni, amicizia…) le relazioni che gli danno forma. Hanno scelto simboli diversi per esprimere la qualità di queste relazioni e hanno messo al centro della mappa ciò che in questo periodo è il punto da cui tutta la loro vita assume senso (o lo perde). La mappa è stata uno strumento per fare chiarezza, per prendere consapevolezza delle relazioni e per iniziare un dialogo di condivisione sui propri vissuti.
A fine campo è stato chiaro che non poteva bastare un libro a esprimere tutta la ricchezza e la complessità dell’esperienza degli adolescenti e del loro cammino nel Live. Per questo l’idea del libro si è trasformata nel progetto di una mostra interattiva, che permettesse alle persone di entrare fisicamente nella vita dei ragazzi: esplorare le “stanze” della loro esperienza quotidiana, seguire il loro percorso di crescita nel Live e infine approdare al cuore della missione di don Bosco, la cura dei ragazzi più bisognosi.
Tutto questo progetto, il libro come la mostra, ha richiesto ai ragazzi lo sforzo di entrare in sé per conoscersi e per far emergere gli aspetti che normalmente rimangono nascosti al mondo adulto e forse anche ai loro occhi; allo stesso modo chiede agli adulti lo sforzo di entrare nella vita dei ragazzi per poterne cogliere le pieghe, valorizzare le bellezze, curare le ferite, costruendo relazioni educative vere.

I ragazzi del Live

«Pietro siamo noi. Pietro raccoglie i frammenti delle nostre vite.
A volte è difficile spiegare come viviamo dentro di noi ciò che ci accade, quello che l’adolescenza oggi è per noi, ciò che ci passa nel cuore…
Vorremmo qui provare a raccontarvelo con semplicità e trasparenza, dietro al nome che tutti ci rappresenta.
Pietro siamo noi.»

 

Note di pastorale giovanile – Come stanno gli adolescenti?

Dal sito di Note di Pastorale Giovanile, una conversazione con Gustavo Pietropolli Charmet  di Anna Stefi (Doppio Zero Editoriale)

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Incontro Gustavo Pietropolli Charmet rigorosamente a distanza, come in dad, dietro a uno schermo. Non ha bisogno di grandi presentazioni: è noto il suo lavoro con gli adolescenti e i suoi libri credo siano lettura cui non possa sottrarsi chiunque lavori – insegnante, formatore, psicologo, educatore – con i ragazzi. Ho letto il suo Il motore del mondo, uscito ad agosto e già recensito su queste pagine, ma la ragione per cui gli domando un appuntamento è che, come ho raccontato, sono in un vuoto di senso che rende difficile il mio tempo in classe e mi fa pensare urgente la necessità di interrogare la scuola, quanto accaduto, dove siamo e cosa questo tempo ci ha mostrato in modo più evidente di prima.

AS: Professore, come stanno gli adolescenti? Come è stato questo tempo di restrizioni, di frequenza con i coetanei ridottissima, a stretto contatto con la famiglia: cosa ha determinato?
GPC: Come stanno? La pandemia ha fatto due vittime: gli anziani li ha fatti fuori, e gli adolescenti li ha malmenati. Non lei direttamente, ovviamente, perché gli adolescenti non hanno nemmeno visto la morte e la malattia atroce; in primo piano hanno visto le misure preventive, le restrizioni, le rinunce, tutte apparentemente rivolte a loro: calcio, concerti, sport. Ogni cosa. Chiusi in casa. Tutto questo, in una famiglia, generalmente si definisce “castigo”: impedire di uscire, impedire l’allenamento di calcio, il vedere gli amici, sono dei castighi. Castigo, dunque? E per che motivo? Non si trattava di un castigo, sono state date delle regole, apparentemente insensate, che dovevano essere seguite. Certo è che queste regole hanno comportato deprivazioni importanti e significative. In famiglia non mi sembra che ci siano stati problemi, globalmente, la famiglia contemporanea è una famiglia a scarso contenuto etico, prevale più l’attenzione alla relazione che la regola, l’occasione di conflitto è stata dunque tollerabile. Certo, c’è stato un lungo tempo nella cameretta e un riflusso verso attività di marca regressiva: cucina, recupero della gastronomia, giochi in scatole, repertorio di cose dismesse tornate di moda per il maggior tempo a disposizione.
Il gruppo è rimasto accessibile – per loro un amico virtuale è un amico reale – e con la famiglia è stata una sorta di tempo di vacanza prolungato, con genitori a casa tutto il giorno. Socialmente invece le privazioni sono state molte, gli è stato impedito il movimento, il divertimento, il ballo, ma anche cose importanti, iniziatiche: il concerto in centomila a San Siro è un’occasione importante, che reimmerge nel clima della propria generazione. La colonna sonora diventa un’esperienza reale, con la sua ritualità.

AS: E la scuola? Come hanno vissuto la dad? Ho faticato a capire i loro vissuti, del resto molto diversi tra loro. Credo tuttavia che non si possa negare che sia visibile, da che siamo rientrati, un generale smarrimento, anche in chi era ben contento di dormire un’ora in più e connettersi indossando una maglietta sopra il pigiama.
GPC: Sento sempre dire che la loro malinconia e la loro protesta dipendano dalla difficoltà dell’andare scuola: gli amici, il gruppo classe, la dad, il contatto artificiale con gli amici. In verità non credo che sia questo il tema: loro hanno la grande risorsa di poter avere, con la loro rete, ampi contatti di natura erotica, aggressiva, virtuale, di conoscenza. Quando entrano nella loro cameretta a noi pare che vadano a studiare e dormire, ma nei fatti entrano in un centro sociale, in un’agorà piena di occasioni. Non credo sia stato questo che li abbia fatti soffrire, credo che, molto indirettamente, li abbia fatti soffrire – senza che se ne possano troppo accorgere né lo possano ammettere – il fatto che la scuola, come tutte le organizzazioni di lavoro, in questo periodo ha traballato: chiusi, aperti, socchiusi, eccetera. Questo li ha messi in difficoltà coralmente: è vacillata la loro istituzione di lavoro, che garantisce ruolo sociale, identità, appartenenza, colonizzazione del futuro, fraternizzazione – mica poco! Si tratta di cose grosse, importanti, sono le cose che fa un’università o un luogo di lavoro, un’azienda, per un adulto, senza i quali è molto facile cadere in depressione: non si sa più chi si sia, non si hanno progetti, si perde valore sociale. Ecco la scuola è l’unico momento sociale che gli consentiamo di avere, ha una funzione di appartenenza, seppur precaria, ed è il luogo dove possono prendere minimamente contatto con la propria vocazione: cosa mi piace fare? Si tratta di un contatto vago, la scuola lo sappiamo non aiuta molto in questo senso, però ci prova, nel confronto con discipline diverse qualcosa di uno stile, di un gusto, si delinea. Questa secondo me è stata la perdita più grave: il loro lavoro, quello che dava loro una qualche forma di identità, è stato sottratto. Questo ha creato un’anomia e questa, sì, è una perdita reale. Son andati in “cassa integrazione” da questo punto di vista: studenti a mezzo servizio, con tutta la sottrazione di queste benemerenze che la scuola ha, indirettamente. La scuola consente a un adolescente di sapere perché è in colpa o perché si vergogna: se apre gli occhi la mattina un adolescente incontra interrogativi su compiti, interrogazioni, scadenze. La scuola è un grande organizzatore dei sentimenti, e questa è una funzione enorme. Se un adolescente deve per contro proprio la mattina decidere se è in colpa o meno, se si deve vergognare, rispetto a che cosa, è complicato! Il figlio dell’uomo, spontaneamente, prima di aver accesso alla gioia, è portato a liberarsi di colpa e vergogna, in agguato appena apriamo gli occhi.

AS: E il rapporto con gli insegnanti?
GPC: È andato male, purtroppo. Gli insegnanti, non addestrati a insegnare a distanza, hanno ripetuto la lezione che avevano preparato. Non viene bene, non funziona: le occasioni di distrazione in camera o in cucina – dove ad ascoltare c’è anche il nonno – sono troppe. La dad non può sostituire l’insegnamento tradizionale, è necessario che si proponga dell’altro, un altro modo. Il paese sta andando verso questo – si lavora da casa, l’università sarà a casa e forse anche la scuola. È necessario pensare a modalità nuove. Così è deludente. Quello che è venuto a mancare non è tanto l’apprendimento, o una modalità di fare cultura diversa da quella che si fa a scuola, è che la scuola è una liturgia, è entrare in Chiesa, è entrare in una istituzione, è la forte richiesta sulla soglia di uscire dal ruolo di adolescente e entrare in quello di studente, con una offerta di mediazioni, nei confronti dei compagni e dei docenti, importante. La dad non offre tutto questo.

AS: Si parla poi molto del rapporto di controllo: telecamere spente e accese; la mole di verifiche non appena si è tornati in classe; la rincorsa alla valutazione…
GPC: Ne sento parlare spesso dai ragazzi, mi sembra strano, ma è anche comprensibile: i docenti sono diventati molto sospettosi nei confronti dei ragazzi, sono ricorsi a verifiche, valutazioni continue. L’immagine della ragazza bendata coglieva nel segno. Diminuendo il controllo visivo aumenta una specie di controllo rafforzato, per vedere se effettivamente qualcosa è passato. Mi diceva il dirigente di un grande istituto che c’è il tema di verificare se si connettano davvero, se siano davanti allo schermo. Ovviamente ci sono stati docenti che si sono fatti in quattro per trovare modalità alternative, capire bisogni, intercettare modalità di relazione che siano contestualizzate al momento che i ragazzi vivono: in fondo alcuni docenti fanno lezione a ragazzi al primo anno di scuola che dunque non si conoscono nemmeno tra loro, al quinto anno c’è il tema della maturità, insomma ci sono situazioni differenti da considerare.

AS: La sensazione che ho, in classe, nell’assenza-presenza, è che il controllo, diventato delirio di controllo, sia esito di un vissuto dell’insegnante di grande solitudine, che non è data tanto dal tema della telecamera accesa o spenta, quando da interrogativi di senso rispetto al proprio operare. Si è interrotto un agire automatico che abitava la scuola, il “cerimoniale”, e si è persa un po’ la capacità di collocarsi. Mi è parso che questo sia accaduto da entrambi i lati. In un primo tempo, al rientro, i ragazzi portavano un desiderio di restare a casa, e mi pare che a dare corpo a questo desiderio contribuisse una sensazione si spaesamento: aprile sembra giugno, come ho scritto. Si è provvisori, come se l’anno fosse finito (o, forse, nemmeno iniziato).
GPC: In questo senso io non credo che sarà possibile recuperare la normalità. Siamo usciti dal setting. Vale anche nella mia professione: ho lavorato a distanza e ora raggiungere lo studio mi sembra un’impresa, mi sembra di essere meno protetto e meno competente. È un discorso complicato quello che andrebbe fatto, ma devo dire che sono stato molto colpito e ho cambiato alcune convinzioni. Ero prevenuto rispetto alla possibilità di costruire una relazione a distanza con i ragazzini, soprattutto quelli che stavano peggio. Ho invece avuto l’impressione che questo strumento consenta, se si vuole, un’intimità, una confidenza, e un approfondimento che nel mio mestiere sono valori di riferimento. Quello che ancora non so dire è quanto tale intimità, tale ‘serietà’ – che fa il mio gioco in questo lavoro –, dipenda dal fatto che fuori c’è la pandemia e dunque qualcosa arriva a loro della gravità della situazione.

AS: C’è dunque stato un incontro con la morte?
GPC: Percepire la serietà della situazione, cosa che è accaduta anche se non lo ammettono esplicitamente, non ha voluto dire che abbiano visto la malattia grave o la morte orrenda, non hanno visto il rischio della distruzione della specie umana, né che abbiano paura dell’una o dell’altra. E questo è stato un errore educativo grossolano che è stato fatto dal nostro paese. Ci siamo lasciati sfuggire una occasione, un’occasione per dire, con la morte lì, “parliamo di questa faccenda che corre insieme alla vita”. Letteratura, poesia, la morte imprigionata, risolta: siamo immersi nella morte, non sappiamo se la nostra specie sopravvivrà – e se non dovesse succedere? Perché non si è alzata una voce sobria, autorevole, comprensibile – ma anche un po’ stupefacente – per parlare ai ragazzi di tutto questo. È difficile parlare con loro della relazione con la morte eppure loro ci pensano, il 20% degli studenti liceali ha fantasie di suicidio, che non attueranno, ma è un passaggio obbligato.
È la scoperta della loro mortalità. Sono lasciati soli con tutto questo e abbiamo perso una grande occasione, perché per evitare che le fantasie diventino azioni bisogna che siano trasformate in parola. Loro hanno visto le misure, le regole, più delle ragioni che hanno determinato tali misure. Al più si è messo a tema il “non portare a casa il virus ai nonni”, mentre invece si sarebbe potuto convocare i ragazzi, responsabilizzarli, un grande volontariato nazionale, si sarebbe potuto trovare dei modi di coinvolgerli per portare il cibo, accompagnare per i vaccini, e soprattutto evitare i contagi con misure più significative, con un livello di responsabilità maggiore, non con una legge cieca. Il discorso sui nonni, paradossalmente, ha avvallato la loro immortalità: l’identikit della persona a rischio non erano loro. Ecco questo credo sia stato un grande errore, proprio adesso si poteva accogliere il loro: “mamma ma tu lo sapevi che sarei morto? E allora perché mi hai fatto nascere?”. Lo hanno questo problema in qualche modo, perché li abbiamo lasciati soli con questo?

AS: La scoperta della propria mortalità, dice, i fatti di cronaca registrano in questo ultimo anno un numero di passaggi all’atto che spaventa: è così o è la messa a fuoco dei media su questo che crea l’impressione che sia un fenomeno in aumento?
GPC: Credo si possa dire che, al di là dei dati statistici in questo ambito sempre opinabili a causa delle difficolta di registrazione, senza dubbio se ne parla di più di quanto accadeva un tempo. La “propria morte” è stata sdoganata, un adolescente in grave crisi sente che quella è una possibilità, si sente libro di scegliere la soluzione migliore al proprio dolore e il rifiuto di crescere è a portata di mano. Ecco perché parlo di occasione mancata, mi pare davvero fondamentale costruire una educazione sul tema della morte che non li lasci soli a decidere nel momento più cupo della loro vita.

AS: E per quel che riguarda l’esplosione del disagio psichico? Ho l’impressione che siano aumentati, almeno al mio sguardo, attacchi di panico, atti autolesivi, fenomeni di chiusura…
GPC: Non c’è dubbio che dalla pandemia sia venuta fuori una quantità notevole di ragazzi che stanno male. Ci sono indici di richieste di ricovero nelle neuropsichiatrie infantili, nei servizi di neuropsichiatria, che sono segnale del fatto che c’è davvero un esito cicatriziale di questo insieme di situazioni di malessere generalizzato e di mancanze. Attacchi di panico, disturbi della condotta alimentare, paradossalmente anche il ritiro sociale è esploso: i ragazzi lo facevano già prima, chiudersi nel virtuale, e si sono ancora più radicati. Sarà ancora più complicato tirarli fuori. C’è una relazione tra pandemia e aggravamento epidemiologico di situazioni di malessere abbastanza gravi, soprattutto – stranamente – fenomeni di autolesionismo. Le crisi di panico sono momenti orrendi, terrificanti – in quel momento sei morto o sei pazzo –: è una radicalizzazione della grande paura del figlio dell’uomo. Paradossalmente hanno una loro efficacia: hai paura ma non muori e non impazzisci, per quanto rimarrà il ricordo di quel momento davvero orribile. Nel consultorio gratuito dove lavoro abbiamo una richiesta importantissima di aiuto, strettamente correlata alla pandemia: molti sono i ragazzi traumatizzati dalla morte che hanno avuto in famiglia – spesso morti multiple, vista la contagiosità del virus. Complessivamente c’è sempre una frangia di ragazzi che sta male, potremmo dire per ragioni statistiche, ma ecco quello che vedo è che il disagio si è aggravato. Io ho scelto di lavorare con questi ragazzi: ritiro sociale, disturbi della condotta alimentare, atti autolesivi. Tutto questo quarant’anni fa, quando ho iniziato questo lavoro, non c’era. L’autolesionismo era allora un sintomo gravissimo di esordio psicotico, il corpo non si toccava era la casa del Signore o comunque apparteneva alla madre, sacro. L’uso del corpo per risolvere un problema della mente è nuovo e soprattutto è nuova l’intensità dei sentimenti violenti, intollerabili, in assenza di una diagnosi clinica. Questi cambiamenti sono un po’ sconcertanti, le metodologie sono sconcertanti: tagliarsi, digiunare, chiudersi nella stanza. Insomma rende la misura del dolore. Ma non è solo questo: c’è stato anche un ingigantirsi, a seguito della pandemia, di alcuni vissuti, come la noia e la tristezza. Questo ha prodotto depressione, apatia, perdita di progettualità, disinteresse, e poi soprattutto il disprezzo per chi prova ad avvicinarsi con proposte – sport, cultura, gastronomia – non interessanti. Gli adolescenti han molto sofferto, direi che si è slatentizzato qualcosa che era già presente, che è stato messo in forma dal periodo di pandemia ed è diventato qualcosa da curare, mentre prima si tendeva a ignorare.

AS: Dice di queste proposte che arrivano a loro: mai interessanti. Incontro questo, in classe. In Il motore del mondo (Solferino, 2020) lei scrive che la scuola non insegna il futuro, l’impressione che ho, in questo tempo, è che non solo la scuola non lo insegni ma che la fatica ora sia proprio reperirlo, un futuro. E dunque, come adulti, che si fa? Come ci rapportiamo, come rispondiamo a questa sfiducia, questa assenza di desiderio generalizzata.
GPC: Non c’è una risposta. Insomma come adulti con che faccia tosta ci presentiamo ai ragazzi vagheggiando il futuro come momento felice di realizzazione dei talenti? Siamo preoccupati, lo eravamo già prima di tutto questo. Sarebbe bello che la scuola potesse qualcosa, ma non è così. I docenti si ritrovano con una storia imponente da raccontare ai ragazzi, tutte le materie sono impregnate di questa storia, di come l’uomo ha costruito teoremi ed è arrivato su Marte. A forza di studiare il passato non si riesce a insegnare il futuro. È ovvio che si debba fare la storia, la storia della letteratura, ma qualcosa nell’impostazione attuale non aiuta a vedere il futuro, a dargli spazio. Forse mettere insieme le discipline in modo integrato, forse portare questo grande tema che li riguarda, il fatto che c’è da aggiustare la Terra, prima di tutto, aggiustare i rapporti umani, l’organizzazione sociale. Il lavoro che c’è da fare è il futuro, ma non si arriva a mettere a tema nella scuola. Si tratta di temi che possono essere affrontati solo in un dialogo tra diverse discipline e io credo che questo per i ragazzi sia molto importante: il disastro che è sotto i nostri occhi va messo a posto e c’è poco da fare, tocca a loro. Non è male come compito, è un compito eroico.

AS: Mi sembra tuttavia che più che il futuro i ragazzi soffrano della propria, singolare, inettitudine alla vita: in fondo io, nei loro discorsi, non sento che non c’è il futuro, sento che c’è la propria impotenza, il loro essere inadatti, come qualcosa di irredimibile. Forse è l’adolescenza, forse è stato così anche per noi, ho l’impressione – ma magari è il mio sguardo dimentico – che oggi sia più radicale. Non c’è modo di uscire dalla propria inettitudine alla vita.
GPC: È così. Se parliamo di futuro bisogna pensare che per loro il futuro è domenica. Sarò capace, domenica, di fare quel che non ho fatto? Se non sono capace sono inadeguato alla vita: mi ritiro, mi taglio, mi ammalo. Risolvono così l’inadeguatezza. Se però si accetta che al posto del padre siede il gruppo e che è il gruppo che decide cosa è importante o meno – esser bello? aver successo? occuparsi del pianeta? – il pensiero del gruppo può essere usato per accendere l’interesse, la vocazione. Il valore personale dell’insegnante è avere questo tesoro pazzesco di informazioni sul passato da trasmettere, ma parla del passato.

AS: Ma un po’ ci si illude che nel passato si trovi qualcosa di sé, in fondo mi pare che dire il passato sia trovare tracce, rendere complessa l’inadeguatezza, svelare che è fatto antico.
GPC: Non è semplice con gli adolescenti che ci troviamo davanti oggi. Quello che li attacca non è il vecchio e amabilissimo Super-Io, non è la legge morale, il parroco, il dovere. Il tema sono gli ideali della società dei consumi: la vergogna produce un sentimento di inadeguatezza irreparabile, crudele, non è come la colpa, che si ripara con la confessione. Chi è inadatto deve solo vergognarsi e scomparire, è più grave. Come fare a valorizzarli a fronte di esperienze personali mortificanti? Sono marginali, non riescono a essere popolari. Vivono in un cono d’ombra. Riuscire a tirarli fuori da tutto questo non è semplice: bisogna valorizzare la loro età, la loro generazione, la loro sottocultura. Non è impossibile, non è peggiore delle altre, ma è un compito difficili e bisogna fare attenzione; molti docenti amici, di grande volontà, rischiano di trasformare la scuola in un servizio: ma se la scuola è un servizio hai dei clienti e devi soddisfarne le esigenze, e dunque è finita l’educazione. I ragazzi oggi sono più vicini al disprezzo che all’aggressività. Una volta al docente disobbedivano, oggi lo disprezzano: non gliene frega niente. Quello che non riescono a fare è davvero indossare il ruolo di studente e restituire alla scuola un valore istituzionale ed etico. Sono in classe ma, anche nelle mura dell’aula, restano adolescenti e non studenti. Hai voglia tirarli dalla parte della cultura e della ricerca! A un adolescente non interessa, interessa a chi è entrato nel ruolo di studente, ma non è così scontato che questo accada. Bisognerebbe rendere il ruolo di studente molto accattivante, farne non solo un fatto di merito e votazione, ma promuovere ingegno, capacità, motivazione. Del resto gli allievi che portiamo avanti nei nostri studi sono persone ingegnose, creative, anche se – secondo me – con una coscienza sindacale esagerata! Ma è anche giusto, certo, fatto sta che spesso mi trovo da solo a lavorare e loro alle cinque sono andati a casa. Io ero l’ultimo a spegnere la luce quando c’era il Professore e ora accade lo stesso, sono sempre l’ultimo a uscire: sono il Professore e spengo la luce!

Gli adolescenti al tempo del Covid: il webinar dei Salesiani Italia Centrale e dell’Osservatorio Minori di Diritto

Venerdì 4 dicembre 2020 con il Webinar “ LA CONDIZIONE DEGLI ADOLESCENTI DI FRONTE ALLE NUOVE REGOLE: TRA RESILIENZA E FRAGILITÀ” in diretta dalle ore 17.00 sulla pagina Facebook “Minorididiritto” e sul canale YouTube “ICC SalesianiDonBosco” si parlerà di quanto e come la pandemia ha influenzato il mondo delle regole, cercando di capire, in particolare, quale è stata la risposta degli adolescenti a questa situazione di straordinaria eccezionalità.

Come aiutare i ragazzi a coniugare le nuove regole imposte e i bisogni tipici dell’età adolescenziale? Possiamo imparare da loro sul rispetto delle regole? Tanti i quesiti a cui si cercherà di dare delle risposte.

Il Webinar del 4 dicembre è il primo di un progetto più articolato rivolto principalmente agli adolescenti dal titolo: “GLI ADOLESCENTI AL TEMPO DEL CORONAVIRUS. Tra diritti negati, disuguaglianze e prospettive educative”. 

Gli obiettivi del progetto sono fondamentalmente due, afferma il prof. Farina, coordinatore – insieme a don Emanuele De Maria – dell’Osservatorio Salesiano per i diritti dei minori. “Fornire, da una parte, un contributo a più livelli capace di far emergere i loro vissuti, le reazioni e le capacità di adeguarsi al nuovo e preoccupante scenario; dall’altra offrire una riflessione più ampia sulle sfide da affrontare per la tutela e la promozione dei loro diritti. Il tutto, in un momento storico in cui le diseguaglianze aumentano e le Istituzioni tardano a dare risposte efficaci in ambito educativo”.

“In questo peculiare 2020, afferma il presidente del Centro Nazionale Opere Salesiane, Don Roberto Dal Molin, “in cui la crisi sanitaria dovuta al Covid-19 ha fatto emergere difficoltà e disuguaglianze soprattutto per i minori che vivono in condizioni di fragilità, i webinar saranno anche un’occasione per celebrare il 31° anniversario della Convenzione sui diritti dell’infanzia e adolescenza verificando il percorso fatto e quello ancora da compiere, consapevoli che ciò è divenuto ancora più urgente in seguito al propagarsi della pandemia con tutte le implicazioni nelle molteplici sfere individuali e collettive”. 

Hanno già dato la loro adesione docenti universitari, operatori del settore e rappresentanti delle istituzioni politiche.  

Abbiamo deciso di organizzare questi eventi, afferma Don Emanuele De Maria, Presidente dell’Associazione Salesiani per il Sociale Italia Centrale, “con i Salesiani di Don Bosco dell’Italia Centrale e l’Osservatorio Salesiano per i diritti dei minori perché vogliamo riportare all’attenzione delle Istituzioni, dell’agenda politica, dell’opinione pubblica e della società civile le persone di minore età, i loro bisogni e diritti.

All’appuntamento del 4 dicembre interverranno il Dott. Gherardo Colombo: Magistrato; la Prof.ssa Chiara Giaccardi: Docente di sociologia e antropologia dei media presso l’Università Cattolica di Milano; il Prof. Alessandro Ricci: Università Pontificia Salesiana – psicologo; il Prof. Andrea Farina: Osservatorio Salesiano per i diritti dei minori. 

Saranno presenti anche il Presidente del Centro Nazionale Opere Salesiane Don Roberto Dal Molin e il Presidente di Salesiani per il Sociale – Italia Centrale Don Emanuele De Maria.

Il Dott. Colombo, negli ultimi anni sta proponendo molti testi sul tema delle regole e, spesso, è conferenziere presso le scuole superiori. Con lui si cercherà di riflettere in modo più ampio sulle regole, cittadinanza, e le regole in questo particolare momento: chi le subisce come i giovani, chi tenta di eluderle e chi le propone. Sarà un’occasione per riflettere anche sul più ampio tema della cittadinanza. Prenderemo spunto da un suo ultimo testo: “Anche per giocare servono le regole. Come diventare cittadini”. 

La Prof.ssa Chiara Giaccardi ci aiuterà a dare delle chiavi di lettura del contesto che stiamo vivendo.  

Sarà utile partire dal suo ultimo libro “Nella fine è l’inizio. In che mondo vivremo” 

Infine il Prof. Alessandro Ricci, porterà la sua riflessione sul vissuto dei ragazzi e degli adulti in questo particolare momento. Il prof. Ricci si occupa di psicologia dell’educazione. Tra i suoi testi ricordiamo “Educare insieme, Aspetti psico- educativi nella relazione genitori figli”.  

Gli interventi saranno coordinati e in dialogo con il Prof. Andrea Farina. 

Gli altri due appuntamenti sono previsti il: 

  • 5 marzo 2021I diritti negati al tempo del Covid-19: le nuove disuguaglianze.
  • 3 aprile 2021Nuove sfide: il Covid-19 quale occasione per ripensare strategie e politiche.  

 

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Il valore dell’amicizia, punto stabile delle relazioni

Dalla rubrica “Parole adolescenti” di Note di Pastorale Giovanile

Caro Prof,
grazie per le due risposte sulla scuola. Mi piace quello che dice e… ci penso su spesso. La Sua esperienza e saggezza sono importanti, anche per questa studentessa chierese.
Oggi vorrei parlarLe di una delle cose più belle e preziose della mia vita: l’amicizia. So che è una cosa scontata, ma non importa, Le dico quello che vivo (o inizio a vivere in modo diverso)Ma prima di iniziare Le parlo di un’idea che mi è venuta in mente in questi giorni. Deve sapere che a scuola ho iniziato a studiare la mitologia greca, e la adoro. Non ero mai entrata a contatto con questo mondo… e anche se parla di cose fuori dal quotidiano, “mitologiche” appunto, sento che mi dicono qualche di speciale per la mia stessa esperienza. Mi sta piacendo talmente tanto che ho deciso di fare un collegamento ad essa in questo e nei prossimi temi su cui Le scriverò. Non so se Le farà piacere, ma è un mio nuovo modo di pensare, e magari Lei mi spiegherà meglio quello che dirò con mie parole, magari un po’ confusamente.