Per far fronte alla crisi, i salesiani di Chisinau hanno trasformato il loro oratorio in un luogo di accoglienza per i profughi ucraini, che stanno scappando dalla guerra. Con l’aiuto dei volontari italiani, il Centro Don Bosco ha ospitato dall’inizio del conflitto, circa cento persone ogni giorno, alcune delle quali ripartivano quasi subito verso altri paesi europei. Quelli rimasti sono soprattutto coppie di anziani, mamme e bambini, che sperano di tornare presto a casa.
In seguito si riporta l’articolo della rivista Credere.
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Dal centro di Chisinau, la capitale della Moldova, la Fundatia Don Bosco si raggiunge in pochi di minuti di auto. Ma l’ambiente urbano cambia drasticamente: lasciata la strada principale, ci si immette in una via laterale che passa attraverso file di baracche e abitazioni precarie. Siamo nella periferia sud, una delle zone più povere della città, che con l’hinterland conta circa un milione di abitanti, quasi la metà di tutta la popolazione presente in Moldova.
Al Centro Don Bosco il campo sportivo all’aperto, che confina con la ferrovia, nel primo pomeriggio è pieno di ragazzini che giocano a pallone. Ad accoglierci è il direttore don Andrea Ballan, 47 anni, salesiano di origine veneta. E’ arrivato a Chisinau a settembre del 2020, dopo aver trascorso quindici anni – dal 2002 al 2017 – in Russia, vicino a San Pietroburgo, e successivamente tre anni in Italia. Un’esperienza, quella russa, che lo ha segnato nel profondo: «In quel Paese ho lasciato un pezzo di cuore», confessa. «L’Opera salesiana di Chisinau è stata inaugurata nel 2007, da quando è stata riconosciuta dallo Stato attraverso la “Fondazione Don Bosco”, ed è l’unica in tutta la Moldova. Dipende dall’Ispettoria salesiana dell’Italia del Nordest».
Ad aprire il Centro di Chisinau è stato don Sergio Bergamin, 69 anni, che vive tuttora in Moldova. Nella casa di Chisinau ora risiedono quattro salesiani, tutti italiani. L’attività di base è l’oratorio, che coinvolge i bambini nel pomeriggio, e i giovani, soprattutto alla sera, dopo le 20. Giocano a calcio, basket, pallavolo, ping pong. «L’oratorio è aperto a tutti: al momento in questo quartiere non ci sono ragazzi cattolici, quelli che vengono da noi sono tutti ortodossi, cristiani perché battezzati, ma non di fatto. Noi siamo una realtà ecumenica, in tutto ciò che proponiamo c’è alla base la dimensione dell’annuncio cristiano. Ma la nostra non è una proposta esclusivamente religiosa. Il sabato e la domenica pomeriggio abbiamo un gruppo di animatori e un programma strutturato di giochi, laboratori, spettacoli, sotto la guida di don Sergio, che dirige l’oratorio. Abbiamo inoltre un torneo di calcio e uno di ping pong».
I ragazzi che frequentano il Centro provengono soprattutto da famiglie povere, disgregate. In questa periferia difficile uno dei fattori di maggiore criticità è la scuola locale, una delle più fragili a livello formativo di tutta la città. Il Centro Don Bosco offre ai giovani la formazione professionale: «In questo momento abbiamo un corso per saldatori. All’inizio si era progettato un centro di formazione con vari indirizzi, per idraulici, elettricisti e sarte. Ma alcuni non sono mai partiti. Di fatto i nostri edifici non sono adatti a ospitare una scuola: qui prima c’era un service della Mercedes. Ciò che facciamo è collaborare con alcune scuole professionali statali: gli studenti degli istituti vengono da noi per fare pratica nel nostro laboratorio, che è più moderno e perfettamente attrezzato».
Il Centro Don Bosco ospita inoltre una casa-famiglia dove sono accolti ragazzini allontanati dalle famiglie per problemi di violenza, abusi, dipendenze, prostituzione. «Fino allo scoppio della guerra in Ucraina ne ospitavamo sei, dai 7 ai 18 anni. Ora ne sono rimasti due. Gli altri posti da marzo li abbiamo messi a disposizione dei volontari che arrivano dagli oratori salesiani in Italia, alternandosi ogni settimana, per aiutarci a gestire i profughi». Da marzo infatti il Centro si è messo a disposizione per accogliere i profughi dalla vicina Ucraina, in collaborazione con altre realtà cattoliche, la Caritas Moldova e la Fondazione Regina Pacis.
Spiega don Ballan: «Le aule sono diventate dormitori e in palestra abbiamo predisposto materassini, sacchi a pelo e letti forniti dalla Caritas. In questo momento i profughi stanziali sono una trentina, ma all’inizio avevamo almeno cento persone ogni giorno: arrivavano in pullman, si fermavano una notte, al massimo due, poi ripartivano verso altri Paesi europei. Un via vai continuo. Quelli che sono rimasti sono soprattutto coppie di anziani, che speravano di tornare presto a casa loro e non volevano allontanarsi troppo, alcune mamme sole con i loro figli, altri che attendono i visti per emigrare in Paesi come gli Usa o il Canada. I profughi arrivano da Kiev e dalle zone meridionali dell’Ucraina, da Odessa e Mykolaiv».
La Moldavia, la nazione più povera d’Europa, a oggi ha accolto più di 450 mila ucraini in fuga, dei quali 100 mila si sono fermati nel Paese. «Il comunismo», commenta il salesiano, «ha devastato le famiglie. Uno dei problemi più diffusi fra gli adulti è l’alcolismo. A disgregare socialmente la nazione sono state anche le grandi ondate migratorie che l’hanno spopolata: la prima, negli anni Novanta, ha portato via le donne, la seconda gli uomini». Buona parte della popolazione moldava parla russo, è di cultura russa e oggi è a favore di Mosca. «Ma i giovani, che non hanno conosciuto l’Unione sovietica, guardano all’Occidente, per loro la Russia non è attraente. I ragazzi moldavi hanno una gran voglia di Europa».