XVII Convegno Nazionale PG: “La fede nell’imprevedibile”

Pubblichiamo il lancio del prossimo Convegno nazionale di Pastorale Giovanile, annunciato anche su NPG.

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Dopo due anni, torna l’appuntamento nazionale di PG. Il Convegno si terrà dal 30 maggio al 2 giugno a Lignano Sabbiadoro e avrà come tema La fede nell’imprevedibile.

Non è facile arrivare al prossimo convegno nazionale di pastorale giovanile. I due anni di pandemia hanno più volte rimandato l’appuntamento tenendolo in sospeso. Ora si apre la possibilità di ritrovarci in presenza, non senza la difficoltà di giorni inediti e sicuramente “scomodi”. Ma è la sola possibilità per provare a ritrovarci e vederci di persona.

Si aggiungano le difficoltà di mettere a fuoco le tematiche: sul tavolo ci sarebbero mille domande, ma proprio per questo si fa fatica a individuare quale deve essere il filo conduttore prevalente. Ci è sembrato poco sensato ignorare le istanze e le provocazioni di un tempo così particolare; nello stesso tempo vorremmo evitare di suonare le trombe dinanzi a una ripartenza che da una parte si offre come un desiderio coltivato per mesi, dall’altra non concede sconti al dubbio su quali direzioni prendere.

Torniamo a fare quello che facevamo: questa la prima tentazione. Lo slancio del Sinodo dei giovani del 2018 aveva offerto la possibilità di riprendere con intelligenza ciò che si stava facendo. Ma ciò che si faceva paga il dazio a ciò che è successo e forse ci chiede di fare i conti, una volta per tutte, con il cambiamento d’epoca tanto negli occhi di ciascuno, quanto nel cuore di pochi.

Affidarsi alla prima trovata del momento: questa la seconda tentazione. In questi due anni abbiamo davvero toccato con mano che l’anima educativa della Chiesa italiana non può affidarsi alla logica consumistica che il pensiero della rete offre in ogni istante. Un buon video sui social ha la consistenza del fiore di campo che “fiorisce al mattino e appassisce la sera”. Dunque, c’è bisogno di ricorrere a una sapienza coltivata, alla capacità di scrutare nel buio per individuare la direzione e nello stesso tempo di avere coraggio nel riprendere legami e relazioni.

Il convegno, dunque, avrà una sorta di “basso continuo” che parte dall’idea di rileggere questo tempo nuovo sostenendo il confronto e la riflessione, ma si articolerà su temi diversi.

Apriremo con un dialogo a tre voci su cosa significhi oggi uscire dal buio nel quale, peraltro, siamo ancora immersi: come se non fosse bastata la pandemia, si sono aperti scenari di guerra tutt’altro che rassicuranti. Continueremo approfondendo il discorso sugli adolescenti, cantiere aperto dalla Chiesa italiana la scorsa estate. Faremo un ulteriore passo intorno al discorso della sinodalità, parola sulla bocca di tutti ma che ha bisogno di essere chiarita. Non tanto a livello teorico e infatti ci affideremo per questo passaggio a dei laboratori pratici. Nella chiusura, come sempre, proveremo a rileggere i nostri passi e a indicare (a partire dalle riflessioni fatte) le strade possibili per un impegno comune.

Vi aspettiamo, pur sapendo che sarà faticoso trovare lo spazio in agenda. A breve, fra pochi giorni, faremo avere ulteriori informazioni.

Don Michele Falabretti

La corporeità nell’autocoscienza del nostro tempo

Da Note di Pastorale Giovanile, l’introduzione al dossier “Siamo corpo” a cura di Gustavo Cavagnari e Alberto Martelli.

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La riappropriazione del corpo è uno dei fenomeni che maggiormente contraddistinguono in Occidente il XXI secolo. Non è esagerato ritenere che siamo di fronte a una vera e propria esplosione di attenzione e di cura del corpo, come mai si era verificato nei secoli precedenti. Solo per citare alcune avvisaglie, si pensi alla diffusione delle pratiche del footing e del running; gli allenamenti di body training, body building e body sculpting; le arti del body piercing e del body painting.
Da una parte, gli elementi su cui possiamo oggi contare per ricostruirci ciascun’identità sono le unghie dipinte e scolpite; la pelle depilata, tatuata, decorata o scarificata; i capelli infoltiti, ricostruiti e impiantati; le barbe acconciate; i denti rappezzati e le guance perforate; le labbra rimodellate; le cartilagini appositamente deformate, le membra anabolizzate, i muscoli proteinizzati e palestrati, i crani modellati. In questo caso, e grazie all’aiuto della ginnastica, la chirurgia e la farmaceutica, il corpo plastico diventa materia prima della nostra creatività e capacità di distinzione, a condizione però della disponibilità finanziaria.
Da un’altra parte, dilagano delle pratiche di tutt’altro altro segno: lo yoga, il tai chi, lo zen, la meditazione tantrica e altro sono tecniche tutte al servizio della “propriocezione” e della consapevolezza di sé già a partire dal livello muscolare. Non ci dimentichiamo di menzionare che, di recente, si è presa coscienza che un rapporto sbagliato con l’habitat conduce a conseguenze dirompenti sul corpo umano, da cui prende avvio un ritorno eco-friendly, ecosostenibile ed ecosintonico al verde, ai ritmi naturali e ai cibi biologici, vegetariani o vegani.
Ecco dunque una massiccia riscoperta del corpo sotto la spinta di molteplici istanze; ma se questo è il fenomeno immediato, la sua interpretazione è tutt’altro che univoca. La nostra cultura si è realmente riappropriata del corpo? L’attuale desiderio collettivo di ritorno al corpo rappresenta un effettivo recupero della corporeità e del suo valore a servizio di uno sviluppo integrale della persona e della società? Difficile dirlo. La risposta con un “sì” o con un “no” sarebbe probabilmente affrettata e rischierebbe di falsare l’interpretazione del fenomeno.
Da una parte, non ci si può che rallegrare che il corpo sia tornato a occupare un posto di primo piano nella vita delle persone, dal momento che esso costituisce una componente essenziale dell’essere umano e del suo relazionarsi con gli altri e con Dio.
Dall’altra parte, non si possono non rilevare molte ambiguità. Una cultura «che tende a promuovere il culto del corpo, a sacrificargli tutto, a idolatrare la perfezione fisica» convive con un’altra cultura che rischia il corpo, esponendolo a pratiche e giochi sempre più pericolosi quali balconing, choking game, planking, eyeballing, e altri ancora. Anche quando non si arriva a livelli di questo genere, il corpo stressato, affetto da disturbi somatici, ictus, cardiopatie, tachicardie, ulcere, stati ansiogeni e situazioni patogene di vario genere, contende con il corpo rilassato, finendo questo per essere oggetto di cure psicoterapeutiche o alternative. Che dire di fronte a tutto questo?
Come si avverte, sismografi di questi cambiamenti sono i giovani, che vivono il rapporto col corpo – come pure la loro identità, gli affetti, le relazioni – in modo libero e destrutturato, ma non per questo privo di tensioni e conflitti. Se il corpo è stato da sempre luogo di scoperte, di paure e di fluttuazioni, oggi però è particolarmente «difficile mantenere una buona relazione col proprio corpo» . Nell’attuale contesto, gli educatori e gli evangelizzatori molte volte non sanno bene cosa fare o come farlo. Inoltre, faticano «a trasmettere la bellezza della visione cristiana della corporeità» . Le questioni relative al corpo appaiono così come uno di quei “segni dei tempi” da discernere alla luce delle coordinate che offre la Rivelazione e che tracciano il profilo dell’essere umano in quanto tale. Questo suppone «una più approfondita elaborazione antropologica, teologica e pastorale» (DF 150), dicevano i Padri Sinodali. In questa linea si colloca il nostro Dossier.
Il primo contributo si situa sul piano del riconoscere. Nel riflettere sul corpo percepito, esso si confronta con le coordinate socioculturali del nostro tempo. I seguenti due contributi sul corpo donato e il corpo trasfigurato intendono concorrere, invece, all’interpretare, offrendo delle coordinate antropologico-cristiane da cui leggere i mutamenti in atto. Infine, il contributo sul corpo educato ed evangelizzato vuole offrire delle indicazioni per accompagnare e orientare il processo di maturazione dei giovani secondo le loro nuove sensibilità.

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RMG – La Pastorale Giovanile invita i giovani dell’MGS ad essere operatori di pace

Dal sito dell’agenzia ANS.

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(ANS – Roma) – A seguito dello scoppio della guerra in Ucraina, i Consiglieri Generali per la Pastorale Giovanile (PG) dei Salesiani di Don Bosco e delle Figlie di Maria Ausiliatrice, rispettivamente don Miguel Angel García Morcuende e suor Runita Borja, hanno rivolto un appello ai giovani del Movimento Giovanile Salesiano (MGS) e ai Delegati e Coordinatori ispettoriali di PG d’Europa, perché tutti si diano da fare, attraverso la preghiera e le iniziative di sensibilizzazione, di solidarietà e di vicinanza. “Nessuno vive per se stesso e nessuno muore per se stesso. Beati gli operatori di pace” è la chiave di lettura che i Consiglieri offrono ai giovani in questo tempo di crisi.

Citando uno dei più recenti messaggi per la pace offerti da Papa Francesco – quello pronunciato lo scorso 23 febbraio, a margine dell’udienza generale – don García Morcuende e suor Borja ricordano che Dio “è Dio della pace e non della guerra; che è Padre di tutti, non solo di qualcuno; che ci vuole fratelli e non nemici”.

Per questo restare a guardare non è un’opzione. “Non possiamo essere indifferenti o pensare che non possiamo fare niente o addirittura che la situazione non ci tocca. In realtà, tutto è connesso… e la rete stessa del Movimento Giovanile Salesiano include giovani dell’Ucraina e della Russia” sottolineano i due Consiglieri Generali.

In vista, perciò, dell’imminente inizio del tempo liturgico della Quaresima, “appello di Dio a ritornare a Lui”, e a fronte della realtà attuale, i responsabili della PG in Europa vengono pertanto esortati “ad animare una più matura consapevolezza e risposta con i giovani del Movimento Giovanile Salesiano di fronte a questa situazione”.

Concretamente, oltre ad aderire alla giornata di preghiera e digiuno proposta dal Papa per il Mercoledì delle Ceneri, il prossimo due marzo, vengono suggerite anche altre iniziative percorribili:

–      Intensificare la preghiera personale e nei gruppi, invocando da Dio il dono della pace.

–      Organizzare incontri per conoscere meglio la situazione.

–      Valorizzare incontri personali (in presenza o online) con persone coinvolte nel dramma di questa guerra che dura già da anni.

–      Organizzare e partecipare a veglie, manifestazioni, campagne per la pace e per il rispetto dei diritti umani.

–      Coltivare atteggiamenti nonviolenti e compiere gesti di vicinanza, ascolto, pazienza, pace e solidarietà nel quotidiano.

Sebbene la pandemia abbia favorito per tante persone il ripiegamento individuale su di sé, i due Consiglieri Generali hanno fiducia nei giovani, specie in quelli dell’MGS, e sono convinti che essi “non abbiano perso la voglia di costruire una società migliore ed il sogno di un mondo di pace, di rispetto della dignità di ogni persona, di giustizia, di cura per l’umanità e la terra”.

E mentre invocano Maria, Regina della Pace, rinnovano l’invito a cogliere nella situazione attuale il kairos, il tempo favorevole “per vivere autentiche esperienze di accompagnamento dei giovani e delle giovani ad essere cittadini globali e responsabili di un mondo – casa per tutti”.

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Caro cardo salutis. Le radici vocazionali della corporeità

Da Note di Pastorale Giovanile, l’introduzione di don Rossano Sala al dossier del numero di marzo “Siamo corpo – dall’emergenza al discernimento”, a cura di Gustavo Cavagnari e Alberto Martelli.

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Un argomento difficile

Parliamo di corpo. È questo l’argomento del Dossier NPG di marzo 2022. Tema ostico, quello del corpo. Significa focalizzarci sull’unicità della nostra persona, non solo dal punto di vista esteriore. Il corpo manifesta lo spessore della nostra singolarità. Noi siamo corpo, appunto. Prima di essere un limite, il corpo è una possibilità. Con il corpo noi siamo nel mondo come oggetti e soprattutto come soggetti.
Come leggeremo nelle pagine seguenti – di cui ringrazio i diversi autori che ci hanno con fatica e soddisfazione messo mano – quella del corpo è una vera emergenza epocale. Propriamente, la condizione attuale dei nostri corpi di carne è la cartina al tornasole di una “questione antropologica” che ha nel corpo una particolare visibilità, tanto da farne un sintomo palese di una “crisi antropologica” in atto da molto tempo.
Ogni sintomo, come sappiamo, rimanda a qualcosa di più importante e radicale: potrebbe essere il segno esteriore di una grave patologia, ma anche un qualcosa che la precede e la manifesta. Se nel primo caso le cose potrebbero mettersi davvero male, nel secondo vediamo nel sintomo una spia provvidenziale, che chiede giusta attenzione e rapida azione.
Attraverso questo Dossier desideriamo pensare alla questione del corpo in questa seconda direzione: lo vediamo come un segnale chiaro per tutti di una rotta che dobbiamo almeno rimettere in discussione.

Non c’è nulla di più interiore dell’esteriorità

Che cosa può dirci un corpo disseminato di piercing e di tatuaggi? O il modo di curare i nostri capelli? O, ancora, il nostro modo di vestire? Oppure che cosa ci dicono le difficoltà alimentari degli adolescenti, che siano l’anoressia per le ragazze e la bulimia per i ragazzi? O alcuni comportamenti estremi che palesemente maltrattano e puniscono il nostro corpo?
Di certo dicono molto rispetto all’anima umana e alla postura spirituale di un ragazzo, di un giovane o di un adulto [1]. Sappiamo che ci sono tanti modi di comunicare, e sicuramente il corpo ha il suo linguaggio che dobbiamo almeno cercare di intuire. Il corpo parla in molti modi. Ultimamente è diventato quasi una tela bianca a completa disposizione del soggetto, su cui ognuno dipinge se stesso per manifestarsi agli altri.
Azzardiamo quindi la tesi per cui la nostra interiorità si fa visibile attraverso il nostro corpo. Il disagio e la fatica, il dolore e l’ansia, la gioia e la felicità si esprimono attraverso di esso, che in genere diventa sempre meno qualcosa da accogliere, accettare e rispettare e sempre più uno spazio espositivo costantemente visibile. Quasi una “mostra permanente”, aperta tutti i giorni dell’anno e a tutte le ore del giorno.
Attraverso il nostro corpo diciamo noi stessi, perché il corpo ha a che fare “interiormente” con la nostra persona. Sappiamo, per esempio, che violare il corpo di un altro attraverso un abuso sessuale significa segnare in profondità la sua interiorità, sfigurare per sempre la sua anima, ferire indelebilmente il suo spirito. Penetrare nel corpo dell’altro significa invadere il suo spazio vitale, entrare in un mondo altro rispetto al proprio, superare quella “distanza di sicurezza” che ha nei confini corporei un limite da valicare solo con sapienza, prudenza e rispetto… e mai con violenza.

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Pastorale Giovanile, a Fatima (Portogallo) l’incontro dei responsabili delle Ispettorie d’Europa

Dall’8 all’11 febbraio, a Fatima in Portogallo, circa trenta delegati di Pastorale Giovanile delle ispettorie europee si sono ritrovati in un incontro convocato dal Consigliere Generale per la Pastorale Giovanile, don Miguel Angel García Morcuende.

Il primo giorno – dopo l’introduzione del Consigliere Mondiale – è stato dedicato alla vita di ciascun delegato, al confronto con la Parola di Dio, al silenzio, al tempo personale. Un tempo concluso con la celebrazione della Santa Messa. La condivisione è proseguita nel pomeriggio, quando ciascuno ha presentato le fatiche e qualche aspetto positivo della propria vita nell’ultimo anno. 

Nella seconda parte del pomeriggio, don Miguel Angel García Morcuende ha condiviso alcuni spunti sui due ultimi documenti che il settore di Pastorale Giovanile ha consegnato alle ispettore: parrocchia e santuario affidati alla comunità salesiana e PG e famiglia. Ha specificato che sono un aiuto alla riflessione e alla formazione nelle ispettorie, che quindi possono studiarne la ricaduta a seconda delle esigenze. 

Il secondo giorno è invece servito al confronto sul servizio di delegati, stimolati da don Miguel Angel. Poi presentazione della GMG Lisbona 2023 da parte di Joao (MGS Portogallo) con le informazioni a disposizione.  Nel pomeriggio spazio alla cultura e all’arta con la visita al monastero di Batalha e Nazarè, sull’oceano Atlantico. 

C’è stato spazio anche per il tema della formazione pastorale dei giovani salesiani, con un dialogo con don Francisco Santos, salesiano del Settore Formazione. Ultimo giorno dedicato al Congresso delle opere sociali, al MGS Europa, al tema della scuola e al documento sull’Educazione all’amore che è in fase di preparazione. La giornata si è chiusa con la celebrazione della Messa nella Cappella delle apparizioni.

Come gestire la rabbia?

Da Note di Pastorale Giovanile.

di don Wim Collin

San Francesco di Sales, maestro di vita spirituale per i giovani

Una delle emozioni che tutti affrontiamo e proviamo, tanto verso noi stessi quanto verso gli altri, è la rabbia. Non bisogna pensare subito ad una forma eccessiva di ira, paragonabile ad una eruzione vulcanica, bensì al sentimento in tutte le sue sfaccettature. Talvolta può accadere che qualcuno sia infastidito o arrabbiato per ciò in cui ha fallito, per una ricaduta, per un incidente, per qualcosa che non va come si desidera. A volte si tratta di piccoli sfoghi di rabbia che proviamo quando veniamo ripresi, oppure quando dobbiamo accettare qualche correzione, o ancora quando sperimentiamo qualche contraddizione o  non siamo accettati a casa o tra gli amici.[1]
Anche Francesco di Sales nella sua vita, come del resto accade a tutti gli esseri umani, qualche volta si è arrabbiato ed ha sperimentato il sentimento della collera. Nella lettera introduttiva del Trattato dell’amor di Dio indirizzata ad un amico, scrive: “Mi dà fastidio che in quest’ultima edizione, la sesta ormai, tanti errori si sono infiltrati nel libro. Nessuno sbaglio dovrebbe esserci perché un errore di stampa può facilmente dare un significato sbagliato riguardo questioni importanti.”[2]  Spesso nelle sue lettere si legge che egli è infastidito da qualcosa, che si arrabbia per diversi motivi. Noto per la sua tranquillità, per la pace, la dolcezza, la natura benevola e, non ultima, la calma, il santo della mansuetudine, così definito da alcuni dei suoi biografi, avrebbe dovuto faticare molto per diventare in tal modo, lavorando seriamente per controllare la propria ira. Non è facile, come dice in una delle sue prediche: “Quanta cura è necessaria per esercitare la pazienza e per sfuggire all’ira!”[3] Controllare la rabbia e l’ira non è cosa facile, lo stesso Francesco di Sales ha impiegato molto tempo per imparare a trattenersi. Quando qualcuno insultava sua madre tutti si aspettavano che reagisse molto duramente e rabbiosamente, invece, secondo il suo biografo, era solito dire: “Non ho avuto il coraggio per attaccarlo. A dire il vero, avevo paura di perdere in un quarto d’ora quel po’ del liquido di dolcezza che per ventidue anni ho cercato di raccogliere goccia a goccia, come rugiada nel vaso del mio misero cuore.”[4] Come accaduto per la tristezza e la malinconia, sembra che Francesco sia esperto anche dell’ira. Forse proprio per questo motivo troviamo nei suoi scritti molti consigli su come affrontare la rabbia, la collera o il fastidio.

Arrabbiarsi o irritarsi non è un problema

La buona notizia è che in alcuni dei suoi scritti il Vescovo di Ginevra afferma che non dobbiamo preoccuparci troppo: la rabbia, l’irritazione, l’ira, la collera fanno parte dell’essere umano e come tali sono radicati nella natura umana. “Finché l’uomo vivrà, camminerà e passerà su questa terra, avrà passioni, proverà fremiti d’ira, sussulti di cuore, affetti, inclinazioni, ripugnanze, avversioni e quant’altro a cui tutti siamo soggetti.”[5] Ma Francesco scrive nelle sue opere: l’ira è un’emozione che dovrebbe essere usata solo raramente perché è piuttosto pericolosa.[6] In una lettera all’amata Jeanne de Chantal spiega il perché sia così dannosa: “Ti arrabbi con l’arrabbiatura, e poi ti arrabbi con l’arrabbiatura provocata dalla rabbia. Ho veduto molti che sono divenuti collerici, in quanto il sentimento dell’ira già risiedeva in loro. Tutto ciò somiglia ai cerchi che si fanno nell’acqua quando vi si getta dentro una pietra, dapprima si crea un piccolo cerchio, e questo a sua volta ne produce uno più grande, e poi un altro e un altro ancora…”[7] Alla fine si rischia di finire in una strada senza uscita. “[La collera] diventa subito padrona della piazza e fa come il serpente che, dove riesce a far passare la testa, fa passare tutto il corpo.”[8]  O come dice nel Trattato dell’amor di Dio: “[La collera è] come un cavallo restio alle briglie e ribelle, si sottrae al controllo, porta il suo cavaliere fuori campo e ubbidisce soltanto quando le viene meno il respiro.”[9]
Secondo Francesco arrabbiarsi o irritarsi non è un problema, poiché fa parte della natura dell’uomo. Ma invece di invitare l’uomo a crogiolarsi in un atteggiamento passivo, o nel ruolo di vittima, Francesco esorta il suo pubblico ad agire. “È vero che tutti abbiamo delle inclinazioni verso il  male: alcuni sono inclini all’ira, altri alla tristezza, altri all’invidia, altri alla vanità e alla vana gloria, altri all’avarizia; e se viviamo secondo tali inclinazioni siamo perduti. […] Tuttavia, devi lavorare per sbarazzartene.”[10] Infatti, ciò che ciascuno di noi ha il compito di fare è agire. La rabbia, l’ira, la collera in genere non dovrebbero diventare linee guida della vita, non dovrebbero determinare ciò che si pensa, si sente o si vive. Piccole arrabbiature o grandi attacchi di ira sono cose che appartengono al vecchio e da cui bisogna liberarsi, o per lo meno è necessario cercare di controllarle.[11] Questo perché le emozioni incontrollate possono avere molteplici e spiacevoli conseguenze. È dunque consigliabile non fare mai eccezioni a tal proposito, in nessuna circostanza e per nessun motivo. Nell’Introduzione alla vita devota, Francesco afferma: “Questa vita terrena è soltanto un cammino verso la vita celeste, non adiriamoci dunque per la strada gli uni contro gli altri; camminiamo tranquillamente e in pace con i fratelli e i compagni di viaggio. […] Con chiarezza, e senza eccezioni, ti dico: Se ti è possibile, non inquietarti affatto, non deve esistere alcun pretesto perché tu apra la porta del cuore all’ira.”[12]

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Don Bosco 2022, Joy Quiz Show: evento online per i giovani del MGS di Egidio Carlomagno

Il 1° febbraio, alle ore 21 su piattaforma Zoom, si svolgerà il Joy Quiz Show, un quiz online su Don Bosco. Il gioco, rivolto agli animatori del MGS, consiste nel rispondere a venti domande su Don Bosco nel minor tempo possibile. Il gioco è ideato e condotto da Egidio Carlomagno della Cooperativa sociale ET.

Un vero e proprio quiz interattivo e multimediale di grande impatto visivo che consiste nel rispondere esattamente e nel minor tempo possibile a una serie di domande personalizzate con filmati, immagini e contributi audio.

Un’esperienza culturale, divertente e originale, in cui si sviluppano dinamiche di  cooperazione/discussione/confronto/decisione.

“Con il suo cuore” – Novena 2022 a Don Bosco

Nove giornate vicini al Cuore di Don Bosco per arrivare pronti alla sua festa: questa è la proposta del Noviziato di Genzano per tutti i giovani del Movimento Giovanile Salesiano, grazie ad una Novena a Lui dedicata contenente un video di innesco per ogni giorno (girato nel cuore di Valdocco), la Parola di Dio, un estratto della vita del Santo, alcuni spunti per la riflessione e una preghiera.

Con il suo cuore” di padre, maestro ed amico, Don Bosco ha ancora molto da insegnare e da confidare ai giovani di oggi.

La Novena può essere vissuta per un momento di gruppo o per conto proprio.

GIORNO 1 – Un Cuore di Padre: “Basta che siate giovani perché io vi ami assai”

GIORNO 2 – Un Cuore per Dio: “Camminate con i piedi in terra e con il cuore abitate il cielo”

GIORNO 3 – Un Cuore per la Chiesa: “Qualunque fatica è poca quando si tratta della Chiesa e del Papa”

GIORNO 4 – Un Cuore che abbraccia: “Se io fossi prete…, mi avvicinerei ai fanciulli, li chiamerei intorno a me, vorrei amarli, farmi amare da essi, dir loro delle buone parole, dare loro dei buoni consigli e tutto consacrarmi per la loro salvezza”

GIORNO 5 – Un Cuore per altri cuori: “Dalla famigliarità nasce l’affetto, l’affetto porta alla fiducia, questa apre il cuore dei giovani”

GIORNO 6 – Un Cuore che sorride: “Oh, come Don Bosco cammina sempre sulle rose! Egli va avanti tranquillissimo; tutte le cose gli vanno bene. Ma essi non vedevano le spine che laceravano le mie membra”

GIORNO 7 – Un Cuore che crea: “Io per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo. Per voi sono anche disposto a dare la vita”

GIORNO 8 – Un Cuore tra le mani: “Studia di farti amare piuttosto che di farti temere”

GIORNO 9 – Un Uomo di Cuore: “Ho promesso a Dio che fino l’ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani”

Novena Don Bosco 2022

 

“Ascolto”

di Gianluca Zurra

“Ascolto” è la prima parola fondamentale per lo stile sinodale della Chiesa. Dal Concilio Vaticano II in poi è stata riscoperta la Parola di un Dio che parla agli uomini e alle donne come ad amici[1], agendo nella storia quotidiana tramite il soffio imprevedibile dello Spirito. Amicizia e sorpresa, affetto e novità si rivelano così come il cuore stesso del Dio biblico, che chiede una grande apertura delle orecchie per essere percepito nelle pieghe e nelle curvature del mondo[2].
Senza questa disposizione di ascolto, sinonimo di una fiducia che ha il coraggio di non voler sapere ogni cosa in anticipo rinunciando alla tentazione del controllo, la Chiesa non potrebbe cogliere ciò che oggi lo Spirito sta realizzando, dentro e oltre i suoi stessi confini. Lo ricorda il documento preparatorio del sinodo dei vescovi: il cammino sinodale “richiede di mettersi in ascolto dello Spirito Santo che, come il vento, ‘soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va (Gv 3,8), rimanendo aperti alle sorprese che certamente disporrà per noi lungo il cammino”[3]. Dunque, prendere sul serio fino in fondo l’incarnazione significa congedarsi dal dottrinalismo, che trasformerebbe la sinodalità in una pura applicazione, seppure più allargata, di decisioni o di concetti considerati a monte rispetto alle forme concrete del vissuto umano. Si tratta invece, per la Chiesa, di approdare al riconoscimento grato di come lo Spirito abiti l’imprevedibilità della storia, senza averne paura e senza difendersi: ascoltare la realtà diventa così non un esercizio successivo al cammino sinodale, né puramente preparatorio, ma è la sua stessa condizione, poiché non c’è Vangelo che possa risuonare prima o a lato delle esperienze elementari della vita comune, anche e soprattutto per le nuove generazioni.
È necessario, tuttavia, che la parola “ascolto” non sia generica. Per darle corpo affrontiamo tre passaggi: il senso umano dell’ascolto, lo stile di ascolto proprio di Gesù e infine una Chiesa in ascolto sinodale.

Il senso umano dell’ascolto

Fin dal primo istante della nascita, le orecchie sono protese verso i suoni che provengono dal mondo circostante. Ascoltare, dunque, è un atto contemporaneamente passivo e attivo: se non ci fosse qualcuno che ci parla e cose che risuonano per noi, non sarebbe possibile attivare l’ascolto, ma al tempo stesso se ci si chiudesse alle parole e ai suoni, nulla di nuovo potrebbe accadere in noi. Ascoltare è un intreccio tra l’umiltà che lascia parlare la realtà, senza volerla incasellare prima del tempo, e il coraggio di rielaborare ciò che si ascolta.
I suoni del mondo, in effetti, richiedono attenzione paziente, silenzio profondo, tempi lunghi di comprensione; non sopportano la fretta, il “per sentito dire”, o la sicurezza del “questo lo conosco già”. D’altronde, è esperienza comune ritrovare ossigeno ogni volta che qualcuno ci ascolta davvero, prendendo tempo per noi e condividendo la nostra storia. Viceversa, l’aridità della solitudine nasce quando non si trovano più canali di ascolto reciproco, di comprensione e accoglienza della propria vita da parte degli altri. Siamo come sospesi a quel piccolo, invisibile filo di suoni, teso tra le nostre orecchie e le tonalità del mondo che risuonano attorno a noi. Siamo il nostro ascolto e possiamo esistere in quanto siamo ascoltati, accolti, compresi!
Ascoltare è un verbo da declinare all’imperativo, non in senso moralistico, ma perché senza l’esperienza dell’ascolto saremmo sterili, non potremmo essere sostenuti e risvegliati alla vita.
Il Dio biblico, non a caso, si manifesta come colui che parla, che rivolge la parola, tramite innumerevoli e imprevisti canali: gesti, avvenimenti, sogni, leggi, persone, profeti. La fede biblica non nasce da miracoli potenti, come ci si aspetterebbe dal dio Faraone, ma dalla suggestione di un vento leggero sul monte, come succede per Elia[4], o dalla promessa di vita che si fa strada in un arbusto che arde senza consumarsi, come Mosè[5], o ancora più semplicemente dalla normale fioritura di un ramo di mandorlo che annuncia cose nuove davanti agli occhi e alle orecchie di Geremia[6].
È evidente, dunque, che ascolto e fede non sono soltanto collegati, ma diventano sinonimi, perché “ascoltare”, a differenza di “sentire”, implica il coraggio di spogliarsi delle proprie certezze, l’umiltà di fare spazio a ciò che ancora non si conosce, la profondità necessaria per cogliere la ricchezza di senso degli avvenimenti che accadono attorno e dentro di noi. Ascoltare è mettersi immediatamente nella disposizione di una relazione che tiene in vita, proprio nella misura in cui non rassicura, ma apre, espone, mette a rischio, in quanto suscita il desiderio di camminare in avanti e di ripensare da capo ciò che fino a quel momento sembrava scontato.
Mettersi in ascolto è un esodo, è continua rinascita, uscita dalle acque, riedizione creativa di ciò che succede fin dal grembo materno, quando la madre – e il padre con l’orecchio appoggiato sulla pancia di lei – percepisce la vita nascente prima ancora di poterne vedere il corpo, gli occhi e la pelle.
Nell’ascolto della realtà ne va così dell’esperienza di Dio, e nulla di meno, perché mai come in quel momento la nostra identità si riconosce sospesa ad altri e ricevuta da ciò che giunge di inedito alle nostre orecchie.
Pertanto, una Chiesa che non si mette in ascolto della vita reale perderebbe in un solo colpo la prossimità di Dio e la sua stessa umanità. Ascoltare, ripetiamolo, non è un’azione successiva all’esistenza ecclesiale, ma la condizione della sua ragion d’essere e della sua missione, poiché non c’è altro Dio all’infuori di Colui che si rivela e opera nella storia e non c’è umanità che non si formi fin dall’inizio nel miracolo silenzioso dell’ascolto reciproco.

L’ascolto di Gesù

“Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”[7]. È la voce che risuona al Giordano, quando Gesù viene battezzato. Ascoltare lui, dunque, significa imparare come il Figlio di Dio abbia fatto dell’ascolto lo stile della sua esistenza tra noi. Ci sono voluti trent’anni di vita nel nascondimento di Nazaret per poter udire, quel giorno, la voce di Dio, o per interpretare in sinagoga lo scritto di Isaia come inizio della predicazione pubblica[8]. Tutto ciò non è un periodo soltanto preparatorio, ma è già l’incarnazione in atto, attraverso un’iniziazione all’ascolto profondo della vita quotidiana senza la quale non sarebbe possibile percepire la presenza di Dio.
Se Gesù riesce a pronunciare le parabole, riconoscendo l’opera del Regno dentro il terreno della storia e delle cose più semplici, è perché non si è sottratto a questo lungo apprendistato, che non ha bisogno di fatti eclatanti, ma di orecchie e cuore ben tesi e profondi, pieni di passione per una vita che rimane e rimarrà per sempre la buona creazione di Dio, insieme alle fatiche e ai drammi che si porta con sé.
La rivelazione di Dio si realizza così attraverso l’ascolto con cui Gesù cammina nel mondo: si può dire che il riconoscimento credente del suo essere Figlio passa dalla consapevolezza che nessuno ha mai ascoltato come Lui, fino in fondo e fino alla fine. Ogni suo incontro vissuto lungo la strada non è mai superficiale, anzi! È dal confronto con la Samaritana, con la donna Cananea, piuttosto che con Zaccheo o con Nicodemo, che Gesù trae parole e gesti per dare corpo all’annuncio del Regno. Il tocco delle cose, dei colori e degli avvenimenti diventa così il terreno che può essere dissodato per trovarci con sorpresa il tesoro nascosto, anche là dove tutti gli altri vedrebbero soltanto sassi, spine, strade aride[9].
È un ascolto, quello di Gesù, che non si interrompe neppure durante il dramma del rifiuto e della morte: in questo caso si fa invocazione, ricerca, pianto, amore incondizionato, restituzione di tutto ciò che la vita ha saputo donare con sovrabbondanza. Il Risorto stesso non si manifesta dall’alto di un pulpito, o in maniera saccente: “Ora che ho vinto vi dico cosa fare e come vincere!”. Niente di tutto ciò: continua ad accostarsi con discrezione[10], cucinando pani e pesci[11], curando un giardino[12] e piegando lenzuoli[13]. La scena della risurrezione non ha mai il tono di un’invasione, né di un colpo di scena, ma ancora una volta è un evento di ascolto reciproco, da cui certo scaturisce una speranza nuova[14].
Non è un dettaglio di poco conto che la Chiesa nascente faccia memoria della Pasqua proprio così e non in altro modo. In obbedienza al suo Signore, che risorgendo non solo non supera la postura pre-pasquale dell’ascolto come fosse puramente preparatoria, ma la assume come stile stesso della sua definitiva presenza di Risorto, la comunità cristiana sa che il vero senso della missione riposa nella capacità di non invadere la scena, di non essere dispensatrice di certezze granitiche, ma di concepirsi come spazio aperto di prossimità e di accompagnamento per tutti. Così è la rivelazione di Dio in Gesù; così, e non in altro modo, deve ripensarsi lo stile ecclesiale.

Una Chiesa in ascolto sinodale

Perché l’ascolto innervi fin dall’inizio la missione ecclesiale, sono necessarie almeno tre importanti attenzioni, che possono diventare altrettanti cantieri su cui lavorare come comunità.
In primo luogo, la Chiesa nel suo insieme deve saper recuperare lo sguardo dei “segni dei tempi”, ponendo come prioritario l’impegno a ridire e riformulare l’esperienza della fede per i giovani. Sarebbe troppo superficiale credere che le nuove generazioni siano semplicemente lontane dal Cristianesimo. “Ascoltare”, in questo caso, significa riconoscere che buona parte dei giovani ha un altro linguaggio e un’altra modalità di fare propria la fede cristiana e di viverla. Scambiare il tramonto di una certa forma cristiana con la fine del Cristianesimo sarebbe uno sguardo miope; lasciarsi interpellare e cambiare da come la realtà giovanile si stia muovendo su nuovi orizzonti di senso e di ricerca religiosa è invece lo sguardo ispirato dallo Spirito, che non si difende, ma sa cogliere nuove esperienze di Vangelo fino ad oggi inedite[15].
In secondo luogo, questa esigenza implica che la comunità cristiana ridiventi uno spazio umano ospitale, presente là dove tutti si vive, perché si possa intravedere che non siamo soli nell’esperienza della fede, ma siamo sostenuti, guidati e incoraggiati da molti che condividono lo stesso cammino. Per fare questo è necessario che le strutture lascino la precedenza alle persone, a luoghi di incontro e di ricerca, che la rincorsa alle folle e ai grandi eventi sia sostituita dall’accompagnamento più personale e discreto. Solo uno stile sinodale sarà in grado di reggere a questa sfida, generando confronto, dibattito, dialogo, corresponsabilità laicale, esperienze che una struttura troppo verticistica e distante continuerebbe a rendere impossibili. Questo modo di essere diventerebbe una palestra di fede e di relazione realmente profetica, che farebbe della Chiesa non una madre protettiva incapace di far nascere, ma un grembo che genera alla vita adulta e consapevole nella fede.
In terzo luogo, la crisi attuale, dovuta alla pandemia e non solo, ci rende tutti molto più sensibili al tema della povertà e della sobrietà. Dovremmo con forza ritrovare gli occhi del Concilio per riconoscere che la comunità cristiana non ha nulla da perdere nel diventare concretamente più povera di mezzi e di strutture, più profetica e meno presenzialista, più coraggiosa nel superamento di forme manipolatorie di potere, a tutto favore di quello stile di ascolto che la rende più credibile e trasparente. Una sua più visibile e sana fragilità, anche strutturale, può finalmente esprimere la consapevolezza che, in fondo, c’è bisogno di poco, non appena è chiaro che la Chiesa non deve inventarsi la realtà o i luoghi dell’evangelizzazione, ma abitarli insieme a tutti, con profezia evangelica[16].
La sua testimonianza per le nuove generazioni passa in buona parte da qui, manifestando che anche per lei la crisi attuale non può essere motivo di arroccamento o di paura, ma passaggio, rinascita, movimento di purificazione e di riforma, luogo di ascolto in cui lo Spirito sta realizzando qualcosa di nuovo.

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