Mantenere viva la fiamma

Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” del MGS su Note di Pastorale Giovanile.

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di Paola Migliore (19 anni, originaria di Gela (Sicilia), studia alla facoltà di Medicina e Chirurgia all’Università Kore di Enna. Fa parte del Movimento Giovanile Salesiano di Sicilia ed è animatrice nell’oratorio Salesiano San Domenico Savio di Gela, all’interno del quale trovano spazio tutte le sue passioni: la musica (si occupa di una band di ragazzi), il canto, i ragazzi (è animatrice di un gruppo formativo)

“Tu sei la mia Luce e splendi sempre dentro l’anima, anche in questa notte, questa lunga notte”. È questo il motivetto di una canzone che mi accompagna ormai da un paio di giorni e che penso potrebbe ben rendere l’idea di “rifugio, conforto” che il Signore è per me.
Una sensazione interiore che ha “invaso” una ragazza diciannovenne, che vive il suo periodo di maturazione – come tanti altri coetanei – attraversando varie esperienze e – diciamo – di “transizione”.
A contatto con i miei amici constato che ciascuno vive questa “transizione” in modo diverso: c’è chi la vive oramai in quella certa sicurezza che offre un ambiente lavorativo, chi con certe garanzie familiari, e chi, come me, catapultata al primo anno di università.
Fino a poco tempo fa, questa realtà mi sembrava così lontana da pensarla quasi come un’utopia, eppure è ormai diventata la mia quotidianità. Non è stato semplice abituarmici.
All’inizio riuscivo a vedere solo un’aula immensa, di quelle che sino ad allora avevo visto nei film, con altrettanti immensi posti a sedere, disposti a mo’ di platea di teatro greco; e infine in quest’aula c’erano docenti e colleghi.
Non nascondo che di tempo ne è passato un bel po’, prima di riuscire ad abbattere gli schemi banali e apprendere a relazionarmi con una realtà nuova, e vedere i VOLTI delle persone. È stato un difficile apprendimento, ma assolutamente necessario, di quelli che “ti aprono gli occhi e la mente”.
La mia crescita personale è stata, e continua ad essere, alimentata da una formazione che mette insieme la dimensione religiosa e quella umana, in un clima “salesiano”; per cui ho sempre provato ad assumere un atteggiamento empatico e cordiale, reciprocamente condiviso con quelli che frequentavano il mio stesso ambiente. La cosa era un pochino più complicata nei confronti degli “altri”, con cui pure ero in relazione. E così ho sperimentato che cerchi una reciprocità, e se non ce l’hai, tutte le tue buone intenzioni vanno a farsi benedire. Insomma, questa logica molte volte ha preso il sopravvento su di me: una logica “del mondo”, dove vige il “do ut des”, non la logica di Dio che si regge sulla gratuità!
Ecco, in quel momento mi è arrivata in soccorso una frase abituale nei nostri ambienti salesiani, e che qualche anno fa fece da slogan ad un anno formativo, “Puoi essere santo lì dove sei”.
Applicata alla mia vita, ho capito che, in qualunque posto ci si trovi e con chiunque abiti quel posto, sia possibile rimanere sé stessi e mantenere viva la propria fiamma, che non arderà costantemente allo stesso modo, ma comunque sarà lì, presente, a riscaldare chi ci sta accanto. D’altronde, diceva San Paolo che “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”. E questo, tanto più nel nuovo mondo universitario da me frequentato.
Ho sempre pensato che il mondo universitario richiedesse una costanza e una dedizione assidue, tali da dover accantonare ogni altro impegno, come quelli in oratorio. Ma un amico salesiano un giorno, durante una lectio, disse che “il Signore non sceglie persone capaci, ma rende capaci le persone che sceglie”. Ecco un altro bagliore di quella luce di cui parlo all’inizio.
Certo, vivere questo, e soprattutto fidarsi di questo, non è stata cosa semplice, non lo è tuttora e probabilmente non lo sarà in futuro. Ma sicuramente, posso testimoniare che a settembre dell’anno scorso non avrei mai pensato che sarei riuscita a conciliare la mia fede con il mondo universitario, non avrei neppure ipotizzato che sarei riuscita a vivere, per un fine settimana al mese, un percorso formativo di vita cristiana con giovani di altri oratori, che oggi sono ormai famiglia.
Il Signore ci sorprende: quando pensiamo di non essere all’altezza, di non valere nulla, di non essere abbastanza, Lui silenziosamente si avvicina, se necessario giunge fino alla mia “Gerico”, il punto più basso della propria geografia interiore, per recuperare anche solo una delle pecorelle che si sono smarrite, e anche Paola. Ho davvero sperimentato personalmente come non esista la possibilità di sottrarsi alla misericordia di Dio e di non essere redenti: nulla gli è impossibile, lo posso garantire!
E poi ti prende la gioia. Ricordo un’esperienza “totale”, di fede, di fraternità e di divertimento, che ho vissuto nell’agosto 2023: la GMG.
Lì a Lisbona ho veramente toccato con mano la felicità, quella ti irrompe dentro e sembra ti faccia scoppiare, quella che dura giorni interi, ti fa ballare per ore e camminare per chilometri. Ho sperimentato la gioia di essere cristiana e l’ho condivisa con altri due milioni di persone: non ero più un ago in un pagliaio, non ero più l’eccezione, ma mi sentivo accumunata da uno stesso sentimento.
E a quel fiume di gente il Papa parlò, toccando le corde più profonde e misteriose dell’anima: “A voi che volete cambiare il mondo e che volete lottare per la giustizia e per la pace; a voi, giovani, che mettete impegno e fantasia alla vita ma vi sembra che non bastino; a voi, giovani, di cui la Chiesa e il mondo hanno bisogno come la terra della pioggia; a voi, giovani, che siete il presente e il futuro; sì, proprio a voi, giovani, Gesù oggi vi dice: non temete, non temete!”.
Queste parole mi sono penetrate dentro, mi hanno commossa e incoraggiata, spronata e fatto sognare. Lì, in quei giorni, quelle parole mi hanno scombussolata facendomi capire che sognare è possibile e che non fa parte di una realtà parallela; per noi salesiani, dovrebbe essere anche più semplice dato che siamo figli di un sognatore.
In questi giorni il MGS di Sicilia ha vissuto un evento improntato sui sogni, la festa Giovani, che coronava il cinquantesimo anniversario del MGS nella mia regione.
Come una degli “Animatori at work” che organizzavano l’evento, ho fatto parte della “commissione dei sogni”. E così mi ritrovai a studiare i sogni meno conosciuti di don Bosco, i cui nomi erano anche insoliti. A prescindere dal loro contenuto, la cosa che mi ha affascinato di più è la frequenza con cui don Bosco “sognava”. E io invece non ricordo nemmeno l’ultima volta che ho sognato!
In questo contesto le parole del Papa sono sembrate profetiche e restano un raggio di luce nei momenti di ombra, e mi ricordano quale terra devo abitare.
Certamente, oltre ai momenti di “Tabor”, che vanno vissuti e custoditi gelosamente, nei momenti di ombra sono essenziali soprattutto delle figure concrete, capaci di essere fraterne e spirituali insieme.
Quando la mia fede ha vacillato, quando solo pensieri negativi invadevano la mia mente, quando mi sembrava di aver perso la bussola, di non riuscire a far parlare il cuore e mi sembrava di aver perduto quelle poche importanti certezze… in quel momento, solo il confronto con la mia guida spirituale mi ha fatto ritornare in carreggiata, facendosi da tramite tra me e Dio, non lasciandomi da sola, e anche se il dialogo non era sempre assiduo, la sua vicinanza con la preghiera riuscivo a sentirla.
Sembrerò ora retorica o romantica se mi rivolgo ai miei coetanei?
Caro giovane amico, non è sicuramente un cammino semplice quello cristiano. Come un sentiero di montagna: ci sono sassolini e pietre, salitine facili e rocce scoscese: ma è un cammino che porta a vette e orizzonti, felicità pura, un cammino il cui Pastore guida i passi del tuo esistere, senza mai lasciarti in balia della tempesta. E poi non siamo soli: abbiamo la “Maestra” che ci illumina la strada e ci incoraggia.
Impareremo così l’umiltà, la forza, la robustezza (come l’invito fatto a Giovanni Bosco nel suo sogno a 9 anni), e apprenderemo a cogliere la presenza di Dio nelle persone della nostra vita quotidiana. E soprattutto ti sentirai amato, tanto da voler rispondere con lo stesso amore.
Non ti sembra un bel cammino?

“Attesi dal suo amore”: pronto il Quaderno di lavoro MGS 2024/2025

“Attesi dal suo amore”: il Quaderno di Lavoro MGS 2024/2025 è pronto. Frutto del lavoro della Consulta MGS e della Segreteria Nazionale MGS, il Quaderno è stato scritto da  don Rossano Sala.

Si legge nelle pagine introduttive:

Nel pellegrinaggio giubilare siamo attesi dal suo amore, siamo chiamati a raggiungere e attraversare la Porta Santa che ci ripropone l’esperienza di essere attesi, accolti e abbracciati dal Dio della grazia e della misericordia. L’esperienza sarà simile a quella del figlio prodigo che ritorna alla casa del padre e prende coscienza di essere da sempre atteso dal suo amore. Lì si ritrova gioia e speranza. Don Bosco si fa casa e abbraccio per i primi giovani che
incontra nel carcere e nella periferia degradata di Torino. Offre a loro l’esperienza dell’oratorio, che per tutti coloro che lo frequentano è famiglia e parrocchia. Famiglia per chi non ha famiglia e parrocchia per chi non ha parrocchia. Nell’oratorio c’è l’amore di Dio che attende, accoglie, ascolta e abbraccia. Lì i giovani sono attesi dal suo amore. Lì ritrovano vita e speranza.

Per acquistarne delle delle copie, si può inviare la richiesta con il numero di quaderni  a segretariogeneralecisi@donboscoitalia.it

 

Domine, quo vadis? A Sacrofano il convegno nazionale della PG

Dal sito del Servizio nazionale di Pastorale Giovanile della CEI.

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In questi giorni, a Sacrofano si sta svolgendo il convegno nazionale della PG. Terminerà domani. Riportiamo una intervista a don Riccardo Pincerato, responsabile del Servizio nazionale per la pastorale giovanile. 

“Nella Chiesa nessuno è nostro oggetto, un caso o un paziente da curare, tanto meno i giovani. Perciò non ha senso sedere a tavolino e riflettere su come conquistarli o su come creare fiducia: deve essere un dono. Sono soggetti che stanno di fronte a noi, con cui cerchiamo una collaborazione e uno scambio. I giovani hanno qualcosa da dirci. Essi sono Chiesa, a prescindere dal fatto che concordino o meno con il nostro pensiero e le nostre idee o con i precetti ecclesiastici. Questo dialogo alla pari, e non da superiore a inferiore o viceversa, garantisce dinamismo alla Chiesa: in tal modo l’affannosa ricerca di risposte ai problemi dell’uomo moderno si svolge al cuore della Chiesa”: cita il card. Carlo Maria Martini, un passaggio tratto da “Conversazioni notturne a Gerusalemme”, don Riccardo Pincerato, responsabile del Servizio nazionale per la pastorale giovanile, per inquadrare il significato del XVIII Convegno nazionale di Pastorale giovanile che si apre oggi a Sacrofano (fino al 9 maggio) su“Domine, quo vadis?”, “Signore, dove vai?”.

Il tema prende spunto dalle testimonianze orali che ricordano le parole dell’apostolo Pietro, in fuga da Roma per evitare il martirio, a Gesù: “Signore dove vai?” e la risposta di Cristo: “Venio Romam iterum crucifigi (Vengo a Roma a farmi crocifiggere di nuovo)”.

Don Pincerato, come nasce il tema del convegno?
Quando ci si affaccia al mondo giovanile nascono tante domande. La prima è come fare a portare i giovani in chiesa, come fare a stare loro vicino. Questioni che rivelano una grande complessità e che a volte ti fanno venire la voglia di fuggire come Pietro, nella vicenda del Quo Vadis. Invece la cosa interessante è dire: Signore dove sei? Dove è che ci stai parlando, dove ci stai incontrando. Non mettere al centro le nostre capacità, le nostre forze ma confidare nel Signore. Provare ad entrare nella realtà giovanile guardando la loro realtà come una vita benedetta e abitata da Dio.

Qual è l’obiettivo del convegno?
Essere e sentirsi in cammino. L’idea non è quella di dire a chi partecipa al convegno, che sono operatori e incaricati di pastorale giovanile delle diocesi, ‘fate questo, fate quello’, quanto di dire che se camminiamo insieme, se ci mettiamo insieme, possiamo fare un passo in più acquisendo degli strumenti perché il giovane o l’adolescente entri a far parte di questo cammino, entri nei nostri ambienti e illumini parte della nostra vita. Protagonisti e non destinatari. La sfida è dire camminiamo insieme. Come afferma il card. Carlo Maria Martini, nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme. Con i nostri incaricati ed operatori di pastorale giovanile cerchiamo di equipaggiarci per vivere un cammino insieme con i giovani in un dialogo alla pari.

Equipaggiarci, andando ad approfondire temi come l’intelligenza artificiale, il tema della partecipazione della cittadinanza, la tutela dei minori, tanto per citare alcuni dei punti del programma?
Vogliamo provare ad acquisire qualche ‘parola’ in più, da una parte attraverso gli specialisti invitati e i relatori, dall’altra facendo intelligenza comune attraverso i laboratori e vivendo in prima persona delle esperienze quali i momenti di preghiera come il momento di spiritualità interreligioso. Il convegno è stato pensato come un ‘ecosistema’ che gira attorno a questi temi che troveranno ulteriore spazio negli stand degli uffici della Cei. È la testimonianza che su questi argomenti c’è una Chiesa che sta riflettendo e lavorando. È un lavoro di pastorale giovanile che vuole tempi lunghi.

E come è possibile immaginare una pastorale giovanile con la pazienza dei tempi lunghi?
Parlare di tempi lunghi non significa parlare per forza di tempi lenti. Sono tempi capaci di pazienza e la pazienza in genere ce l’ha un adulto, che sa mediare, che sa aspettare. È vivere l’adultità. Sono caratteristiche dell’amore, di chi è capace di amare in maniera adulta. È la stessa dinamica che ha Gesù con la nostra vita.

Cosa spera da questo convegno?
Che chi parteciperà possa sentirsi accompagnato e sentire che c’è una chiesa che desidera ascoltare e stare al fianco delle sfide di oggi.

Programma.
Il convegno di Sacrofano si rivolge agli incaricati diocesani e regionali di pastorale giovanile, ai responsabili di pastorale giovanile di associazioni, movimenti, aggregazioni e congregazioni religiose e secolari maschili e femminili. Durante i lavori si si alterneranno relazioni e laboratori per riflettere su quattro parole chiave: cura, comunità, adultità e comunione. Tra i relatori Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente Anci, padre Paolo Benanti, membro New Artificial Intelligence, Maria Pia Colella, psicoterapeuta e scrittrice, Giovanna Dell’Erba, fondatrice de “Il cielo itinerante”. Prevista anche un’uscita culturale a Roma con l’archeologa Alessandra Milella e sessioni dedicate alla Gmg, alla tutela dei minori oltre ad un momento di spiritualità interreligioso.

Sei qui per prendere o per perdere?

Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” a cura del MGS su Note di Pastorale Giovanile.

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di Giulia Meucci (23 anni, studentessa di Letteratura, Filologia e Linguistica Italiana e maestra di scuola primaria; fa parte dell’équipe di Animazione Missionaria dell’Ispettoria salesiana ICP (Piemonte), ed è animatrice dei gruppi giovani nell’oratorio della Crocetta a Torino). 

Me lo disse un salesiano, ma prima di tutto un grande amico, una mattina di agosto in Kenya. Ero lì in quell’esperienza di estate missionaria con altri giovani, e in quel momento nel mio cuore calò il silenzio. Da quel giorno la mia vita interiore è in perdita, ma in senso buono. In tutti gli anni di oratorio e servizio non avevo mai capito davvero il senso del “dare la vita”, o per lo meno non avevo mai capito come si mettesse in pratica, dovevo fare quasi diecimila km, una follia, una cosa decisamente antieconomica, decisamente “in perdita”… per il mondo forse, per Dio no (e decisamente alla fine neanche per me).
Il sogno di consumarmi, di perdermi per gli altri mi accompagna da tanto tempo, e ha assunto forme diverse nelle varie fasi della mia vita: l’animazione, la missione, l’insegnamento. Sono tutte dimensioni che hanno bisogno di più persone per esistere, questo è perché sono fermamente convinta che da soli non si va da nessuna parte (talmente tanto convinta che questa frase campeggiava nella prima pagina della mia tesi di triennale). Gli altri per la mia vita sono fondamentali, prima di tutto perché è attraverso gli altri che mi sono arrivati i messaggi più importanti, mica cadono dal cielo (o forse sì, ma non nel mondo che penso io o si vede nei film); e poi perché è nel contatto con gli altri che posso mettere davvero a frutto, cioè a servizio, i miei talenti, compreso quello di riuscire a parlare anche con i sassi, che fanno di me quella che sono. Inoltre, senza alcuni altri, le amicizie più profonde, il mio ragazzo, la mia guida spirituale e il mio confessore, non sarei riuscita a dare forma a quello che davvero mi serviva per diventare capace di amare sul serio. Niente corsi o nozioni strane, ma due piccoli-grandi “passi possibili” (Chiara Corbella Petrillo è un’amica che mi accompagna da qualche anno): scoprirmi amata e amabile. Solo così ho smesso di aver paura di perdermi e ho scoperto la direzione chiara e luminosa a cui in realtà da sempre puntavo. Non sono arrivata e non è sempre facile rimanere fedele a questa identità che, per quanto senta forte, resta faticosa e imperfetta; quello che mi rincuora sempre è pensare che tra me è Dio almeno Uno dei due davvero fedele per sempre. Ed è solo alla luce di tutto questo che ora come ora ho un’idea anche abbastanza chiara di chi sono.

Sono un’animatrice in oratorio, ci sono arrivata per caso, o per grazia, perché una mia compagna di pallavolo mi ci ha portata visto che non sapevo cosa fare l’estate appena finita la prima superiore. Da quel giorno sono passati 10 anni e più di un oratorio, eppure la scelta ultima di radicarmi in un posto solo, anche quando le cose non funzionano come vorrei, mi ha fatto scoprire un primo pezzo di strada. Il mio desiderio di servizio, che spesso faceva a pugni con il desiderio altrettanto forte di essere apprezzata, a un certo punto ha vinto. Scoprire che qualcuno mi vuole bene non per quello che faccio o per quanto faccio, ma solo perché sono. oltre ad avermi ribaltata come un calzino mi ha spalancato gli occhi. Mi ha insegnato a chiamare per nome le mie fragilità e a farne squarci che fanno entrare la luce, non perché sono speciale, ma perché anche quegli angoli bui possono essere spazi di servizio verso gli altri. D’altronde, la mia professoressa di italiano del liceo (a cui devo la scelta dell’università e della carriera) diceva sempre che la parte interessante della frase sta sempre dopo il “ma”.

Sono un’insegnante, ho sempre voluto esserlo; da bambina mettevo in fila i miei peluche e spiegavo loro quello che imparavo a scuola (e davo anche i voti!). Sogno di fare l’insegnante di italiano perché ho sempre creduto che la bellezza vada raccontata e che la bellezza sia capace di educare. La cosa più bella (e faticosa allo stesso tempo) però è stata imparare – nel mio piano perfetto e ben calibrato – a lasciar spazio all’imprevisto, a perdere il controllo. È vero che sono un’insegnante, ma non una prof (non ancora), sono una maestra. Lavoro da quasi un anno in una scuola primaria, io che a estate ragazzi ho sempre animato dalle medie in su. Nonostante stia ancora finendo l’università, ho accettato questa proposta e ho scoperto quanto i nostri sogni, quando vengono lasciati nelle mani di Qualcun altro, possono allargarsi a dismisura. Non fraintendetemi, non voglio fare la maestra per tutta la vita, ma questa esperienza ha messo alla prova la mia vita interiore, chi sono e chi voglio essere.
Ho imparato ad avere pazienza, tanta pazienza, con i bambini sì, ma ancora prima con me stessa; a darmi il tempo di imparare e ad avere il coraggio di chiedere aiuto.
Ho imparato che quando i Pinguini Tattici Nucleari cantano “meglio bruciare che spegnersi lentamente, lo ha detto chi non deve illuminare gli altri” hanno proprio ragione.
Ho imparato a imparare dai più piccoli, anche a costo di perdere ogni tanto l’essere più alta di loro.

Sono una missionaria, nel senso più lato del termine. È vero anche però che sono partita per tre esperienze in terra di missione; quindi, forse lo sono anche in senso proprio. A parte questo, la missione dice chi sono e chi voglio essere: mi ha fatto scoprire che la giustizia è qualcosa di molto più concreto e di molto più importante per me di quanto pensavo. E dove la giustizia terrena non c’è, ho scoperto la speranza verso il Paradiso. Ho perso (sempre in senso buono) il desiderio di essere una supereroina e di “salvare” le situazioni; il palcoscenico è bello, ma è ancora più bello quando è condiviso. Andare lontano da casa mi ha aiutata a mettermi in gioco, a uscire dalla comfort-zone e dalla routine, non per scappare, ma per tornare e viverle meglio. Sì ma nel concreto? Forse suonerà come banale, ma se non fossi andata in missione non sarei stata capace di vivere l’università come uno spazio di relazione invece che solo come un insieme di esami da dare per avere in mano il tanto declamato pezzo di carta. Oppure non avrei mai visto con i miei occhi delle persone, dei missionari veri, mica come me, proprio grandi; quelli che dopo anni e anni sono ancora lì, sono ancora entusiasti e amano e si consumano ancora come se fosse il primo giorno. Sogno di essere anche solo un po’ come loro.

Sono Giulia, non un groviglio di pezzi sconclusionato. Non sono perfetta, non ho tutto in chiaro e spesso sbaglio, ma mi sento unificata, pacificata. E per deformazione professionale devo far notare che le due forme verbali precedenti sono passive. Non lo sono per caso.

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Festa MGS Lombardia ed Emilia Romagna, Il giocoliere del sogno

Domenica 5 maggio 650 tra adolescenti e giovani hanno riempito di entusiasmo e gioia Piazza Lucio Dalla a Bologna con la Festa MGS 2024 dell’ispettoria Lombardo-Emiliana.

Dal pomeriggio di sabato 4 maggio gli adolescenti della Scuola Formazione Animatori si sono trovati presso l’Istituto Salesiano Beata Vergine di San Luca dove, guidati da un numeroso gruppo di formatori, hanno avviato i lavori di preparazione per il giorno seguente. Dopo la cena i ragazzi hanno vissuto un momento di veglia itinerante per i cortili della casa salesiana. Tra le tappe del momento di preghiera hanno portato la loro testimonianza suor Lucia Sartirani, Figlia di Maria Ausiliatrice che da 2 anni svolge il suo servizio nel carcere minorile di Bologna, e Alessandro Ferrari di APE Social Wear, che ha scelto di generare il bene con il suo lavoro nel settore dell’abbigliamento. La serata si è conclusa con alcuni giochi e balli che hanno fatto scatenare tutta l’energia dei giovani presenti. 

All’alba della domenica mattina, caricati furgoni, pulmini e carrelli, gli animatori si sono spostati in Piazza Lucio Dalla per cominciare l’allestimento per la festa. Tra musica e balli sono stati accolti i gruppi venuti per questo evento facendoli subito entrare nel clima.

Durante la mattinata i ragazzi presenti sono stati coinvolti in quattro workshop tematici (musica, teatralità, danza e street art) coordinati da formatori professionisti. Ad arricchire questi laboratori sono state le due testimonianze di don Gianmarco Pernice, salesiano prete e street artist per passione, e di Simone Lupo, giovane di Arese che ha cambiato la sua vita incontrando l’oratorio salesiano.

Il centro dell’evento è stata la Santa Messa presieduta da don José Miguel Nunez, visitatore straordinario a nome del Rettor Maggiore dei Salesiani, che ha esortato i giovani a non avere paura e di riscoprire “il sacramento salesiano della presenza”. Il pomeriggio è stato animato da tornei sportivi, nei campi allestiti nel parco circostante, e dai giochi giganti costruiti dai nostri animatori. Per concludere si è messo in scena lo spettacolo frutto del lavoro dei workshop mattutini che ha attirato i numerosi passanti, curiosi e gli svariati skater che frequentano quotidianamente la piazza. Infine, insieme ai ringraziamenti conclusivi, sono state consegnate le felpe mgs ai ragazzi che hanno terminato il percorso formativo di quattro anni della scuola formazione animatori.

 

Attenzione antropologica e proposte pedagogiche

Dal nuovo numero di Note di Pastorale Giovanile, la presentazione del nuovo dossier a firma di don Rossano Sala.

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Un Dossier di stampo e stile genuinamente pedagogico è una bella occasione per riflettere su temi educativi che, sappiamo, sono parte integrante dell’assetto strutturale della pastorale giovanile. Nel Dossier di questo numero di NPG il prof. Raffaele Mantegazza, pedagogista di rara finezza e da sempre amico della nostra rivista, individua tre “buchi neri” dell’educazione: la storia, la politica, la teoria. Avere la memoria corta o perderla del tutto, dimenticare la nostra natura di esseri sociali e pensare poco o male sono tre tarli della pedagogia che l’hanno depotenziata, afferma il nostro. Non possiamo che convenire su questa analisi e appoggiarlo con convinzione nelle proposte che avanza.
L’immagine del “buco nero” è decisamente forte: qualcosa viene attirato, risucchiato e infine annichilito. E non sono cose da poco la buona memoria, la partecipazione attiva, l’intelligenza critica. Perderle significa lasciarsi vincere dal presentismo, dall’autoreferenzialità e dalla superficialità. Tre istanze che ci rimandano a temi di natura antropologica e che, a mio parere, evidenziano che le attuali emergenze educative che stiamo affrontando affondano le loro radici ultime in un terreno genuinamente umano.
Nelle riflessioni che seguono vorrei mostrare quanto l’attenzione antropologica sia decisiva per qualificare la proposta pedagogica. La tesi che porto avanti è molto semplice: ogni emergenza educativa affonda le sue radici in una disattenzione o riduzione antropologica. Tale idea è ben rinvenibile nel percorso storico che la Chiesa ha fatto negli ultimi vent’anni. A partire da Benedetto XVI, che nel lontano 2007 lanciò l’espressione “emergenza educativa”, possiamo seguire un filo rosso che ci porta fino a noi. Proviamo a ripercorrere insieme, seppur per brevi cenni, questa strada.

Benedetto XVI e l’emergenza educativa

Con coraggio apostolico e intelligenza profetica, papa Benedetto XVI attraverso una memorabile lettera alla diocesi alla città di Roma “sul compito urgente dell’educazione”, ha chiarito una volta per tutte la posta in gioco della questione e le sue possibili conseguenze in ambito ecclesiale e civile. È una lettera che in un certo senso raccoglie e ordina il disagio diffuso e conferma un immaginario sociale ed ecclesiale condiviso: «Educare non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”»[1].
È interessante per noi andare a vedere come Benedetto XVI, pur rilevando tutta una serie di questioni pratiche legate all’educazione, vada al cuore antropologico e perfino teologico del problema evidenziando la radice ultima dell’emergenza educativa in atto. La tentazione di rinunciare all’opera educativa dipende, per il pontefice tedesco, non solo da questioni tangenziali o da difficoltà circoscritte, ma da un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita[2].

In ultima analisi tutto ciò rimanda a Dio, che in un’antropologia cristiana non può che essere il destino ultimo dell’uomo. Proprio l’educazione, nel senso più nobile e alto del termine, rimanda a Dio. Egli è il grande educatore del suo popolo e insieme offre speranza certa e sostegno efficace a questo compito inderogabile: «Anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile. Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti e rischiamo di ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini “senza speranza e senza Dio in questo mondo”, come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12). Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita[3].

Un decennio dedicato all’educazione

Prima ancora che la diocesi di Roma, è l’Italia nel suo insieme che si sente interpellata dalle parole profetiche del papa teologo. Nella Conferenza Episcopale Italiana stava allora terminando un decennio dedicato a Comunicare il vangelo in un mondo che cambia e si sta pensando agli orientamenti per il prossimo decennio in arrivo. Tra le tante possibilità prende corpo, nel dialogo e nel confronto, la necessità di concentrare la propria attenzione esattamente sull’educazione. E il punto di partenza, la bussola orientativa, la stella polare viene riconosciuta in quella lettera.
Gli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, significativamente intitolati “Educare alla vita buona del vangelo” sono il tentativo di rendere sistemica e comunitaria l’intuizione ratzingeriana intorno all’emergenza educativa, attenzione che il Santo Padre non cessava di ribadire ad ogni incontro programmatico con l’episcopato italiano. Tale debito di riconoscenza è affermato fin dall’inizio del documento programmatico: «È questo un tema a cui più volte ci ha richiamato Papa Benedetto XVI, il cui magistero costituisce il riferimento sicuro per il nostro cammino ecclesiale e una fonte di ispirazione per la nostra proposta pastorale»[4].
Gli orientamenti pastorali appaiono operativi: il testo si sviluppa in cinque capitoli: il primo legato al contesto attuale, il secondo ad alcuni spunti di teologia dell’educazione, il terzo alla pratica educativa, il quarto alla Chiesa definita “comunità educante”, e il quinto orientato alla progettazione pastorale. Nell’insieme sembra essere un grande appello alla comunità cristiana perché ritrovi audacia e passione per un compito educativo che non affascina più il mondo degli adulti, talvolta più ripiegati su loro stessi piuttosto che aperti all’accoglienza delle giovani generazioni.

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Speranza, fede e carità: le virtù teologali al centro della Proposta pastorale MGS per il triennio 2024/2027

Speranza, fede e carità: le virtù teologali, in questo ordine, sono il cuore della Proposta pastorale per il triennio 2024/2027 del Movimento Giovanile Salesiano. Dopo il triennio che si sta per concludere, il MGS vuole rimanere accanto ai giovani, continuando a crescere insieme come Italia Salesiana. Nel percorso che ha portato alla stesura del presente documento è stato fondamentale condividere il discernimento con Salesiani, Figlie di Maria Ausiliatrice, Salesiani Cooperatori, Associazioni promosse e co-promosse dei centri nazionali, in particolare CGS e TGS.

Il percorso generale del triennio è organizzato in base alle tre virtù teologali: speranza, fede e carità. Tre documenti saranno importanti da tenere sullo sfondo: Spe salvi di Benedetto XVI, Lumen fidei di Francesco, Deus caritas est di Benedetto XVI. Accanto a questo sfondo magisteriale saranno poi ripresi ogni anno un’icona biblica ed eventuali spunti a livello ecclesiale.

Vi sono poi cinque attenzioni specifiche, che risuoneranno in tutto il triennio, e che saranno sviscerate nei tre  quaderni di lavoro, in base alla virtù dell’anno corrispondente. Dunque, riprenderemo ogni anno gli stessi cinque bisogni, ma con registri diversi:

1. Prima evangelizzazione;
2. Attenzione agli ultimi;
3. Accompagnamento personale, di gruppo e di ambiente;
4. Corresponsabilità nel lavoro educativo-pastorale;
5. Unificazione della vita.

Partendo dalla tematica centrale del Giubileo del 2025 “Pellegrini di speranza”, la virtù scelta per accompagnare il primo anno è la speranza. I temi e i contenuti della prima proposta pastorale sono:
– L’invito a prepararsi e a vivere nel migliore dei modi il Giubileo della speranza del 2025, mantenendone lo stesso testo biblico di riferimento, Lc 4, 16-20;
– L’introduzione allo spirito missionario che caratterizza fin dalle sue origini l’esperienza apostolica di don Bosco.
Da qui nasce il titolo della proposta: Attesi dal Suo Amore.

La Proposta Pastorale 2024/25 è composta complessivamente da quattro elementi, tra loro interconnessi:
Quaderno di Lavoro: esso è da intendere non come sussidio pratico di pronto utilizzo, ma come strumento di ispirazione ecclesiale, biblica e carismatica sui temi scelti;
Materiali QRcode: sarà previsto uno spazio che sia una sorta di archivio di materiale che via via verrà messo a disposizione come strumento utile alla progettazione e alla costruzione di percorsi ispettoriali, territoriali e locali. Si
tratterà prevalentemente di rimandi a pagine di approfondimento dal sito della rivista Note di pastorale giovanile:
1. Testi significativi di documenti magisteriali o salesiani;
2. Bibliografia tematica per l’approfondimento;
Numero speciale NPG: questo vuole essere da una parte approfondimento di alcune tematiche dell’anno pastorale, e dall’altra una proposta di concretizzazione del metodo di lavoro per le realtà locali, scandito dai tre momenti già sperimentati del riconoscere, interpretare, scegliere. Così, se il Quaderno di Lavoro offre le ispirazioni, il numero speciale di NPG potrà offrire una metodologia;
Sussidio formativo per le comunità SDB/FMA: questo è lo strumento che riprende la proposta pastorale per il cammino spirituale delle comunità salesiane e di alcuni gruppi della Famiglia Salesiana.

 

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Playlist di vita

Dalla rubrica di NPG Voci dal mondo interiore  – a cura dei giovani MGS-Italia.

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di Ludovica Plantamura (23 anni, animatrice dell’oratorio di Santeramo – Ispettoria Salesiana Meridionale – .  Ha conseguito da poco una laurea in lettere. Le piace leggere, strimpellare la chitarra e fare lunghe passeggiate)

L’oratorio – lo sa bene chi lo frequenta – non è solo un luogo per passare il tempo vuoto (o libero) e stare qualche ora con amici e a chiacchierare, ma è uno stile, un modo di essere e di pensarsi.
Essere animatori in questo ambiente poi radica e consolida questo stile.
È come sentire dentro una melodia, fatta da sensazioni, da emozioni, da valori, da scelte, di un percorso che segna anche una svolta. Essa ha certamente segnato la mia adolescenza e tutt’ora segna, spero con un upgrade, la mia giovinezza.
Questa “melodia” penso possa essere anche espressa e narrata con delle canzoni, canzoni del cuore (quelle che a volte uno canticchia senza sapere perché), che hanno scandito alcune tappe importanti, che hanno fatto risuonare alcune domande, che hanno accompagnato nei giorni tristi e hanno entusiasmato le esperienze più belle. Se la mia vita interiore fosse una playlist, suonerebbe più o meno così (ammetto di aver dovuto fare un’ardua selezione, ma solo per non tediare il lettore).

I bet my life – Imagine Dragons
Nel 2015 comincia tutto. Prima frequentavo l’oratorio, ma niente di serio. Da quell’anno in poi le cose cambiano. Al mio primo camposcuola, così di botto, viene fatta al mio gruppo la proposta del cammino di pre-animazione. Ricordo che dovevamo fare un gesto in cui gli animatori ci diedero delle fishes da poker, non per ludopatia, ma perché eravamo chiamati a scegliere se e quanto avremmo voluto scommettere su quella proposta. Ne conservai una per me, perché non sapevo ancora se fossi disposta a giocarmi il tutto per tutto. Non frequentavo l’oratorio da molto e non ero presente assiduamente come gli altri, non mi era facile stare con tante persone, parlare in pubblico, fare il primo passo, ma sapevo che volevo fare qualcosa per gli altri e quella proposta concretizzò l’idea. Da quel momento sono entrata nel giro e sono ancora qui.

Un bene dell’anima – Jovanotti
Che cos’è un amico? Nessuno lo sa dire, centomila libri non lo sanno spiegare.
Il mio cammino di animazione e di vita non sarebbe stato e non sarebbe lo stesso senza degli amici veri. Sono quelli con cui condividi esperienze forti e del quotidiano, con cui puoi essere vulnerabile, con cui puoi essere davvero chi sei. Sono quelli con cui potersi dire “ma non ardeva forse in noi il nostro cuore?”. Sono gli stessi con cui chiacchieri davanti ad una birra, ridi fino alle lacrime e sosti in silenzio in un momento di adorazione. Sono quelli che ti abbracciano forte senza soffocarti e con cui sai di poter smerciare ferite e sogni. Senza amici veri rischierei di vivere distante dalla realtà, isolata da tutto il resto oppure dispersa in un mondo iperconnesso, ma senza legami.

Fango – Jovanotti
L’unico pericolo che sento veramente è quello di non riuscire più a sentire niente… vivere senza accorgermi di ciò che mi sta intorno, andare a dormire senza sapere perché ho vissuto o accontentarmi di “tirare avanti”. Ho sempre avuto paura di non vivere pienamente, che non significa fare 1000 +1 esperienze, ma diventare davvero chi sono e donarmi per come sono, lasciarmi amare e amare in maniera libera e autentica. Un salesiano di fiducia una volta mi ha detto che non dobbiamo chiederci perché viviamo, ma per chi. Forse è davvero così, “sentiamo” la vita, ci accorgiamo di viverla a pieno solo quando la doniamo, non quando siamo paralizzati nel fare i conti su cosa potremmo andare a perdere, su quali aspettative potremmo deludere o quali equilibri sconvolgere.

Paura di niente – Jovanotti
Ho sentito il tuo respiro dentro al mio e sono stato felice e non avevo paura di niente.
Come si vede, ho un po’ una fissa per Jovanotti, comunque la paura declinata sotto vari aspetti è una costante della mia vita, dalla paura di sbagliare alla paura del giudizio altrui, dalla paura di ferire alla paura di scegliere. Il rischio di essere tutto sommato una “brava persona” ti mette addosso una specie di armatura, per cui ai propri occhi o agli occhi degli altri consapevolmente o no ci si sente quasi in dovere di rispondere a delle aspettative: la ragazza studiosa, l’animatrice disponibile, la figlia rispettosa… i rischi sono o tirarsela e credersi a posto solo perché ci si affanna per accontentare tutti oppure, al contrario, sminuirsi sempre per non esporsi troppo, per non dare fastidio a nessuno e rimanere nel proprio angolino sicuro. Ad oggi posso dire che in entrambi i casi non si è felici. Dal peso delle aspettative, da un’armatura troppo larga o troppo stretta mi libera una relazione autentica con il Signore, che non è data una volta per sempre, ma che giorno per giorno si costruisce o ricostruisce. Lì intravedo uno sguardo diverso su di me e sugli altri, uno sguardo vero, “respiro e sangue” che silenziano le paure e amplificano il desiderio di essere felice.

Resistenza – Fulminacci
Ma tu dove sei? Non so neanche cosa cercare.
Quando si fa esperienza che il Signore esiste davvero, quando si sperimenta che non è un perfetto sconosciuto o uno dei tanti meccanismi dell’universo, non è facilissimo rimanere nell’assenza, quando non si “sente” più niente oppure quando succede qualcosa che non ci si sa spiegare. Spesso ho pregato con le parole di Fulminacci, ho vissuto periodi di aridità, di silenzio e di dubbio in cui faccio fatica a stare. Quando succede provo a rimanere, cercando di non forzare nulla.

Assurdo – Anastasio
Che senso ha il dolore? Perché esiste? Perché Dio non fa niente? Davanti al dolore non ci sono grandi discorsi da fare, è assurdo, impossibile da comprendere. Il dolore è assurdo perché esiste. Nella mia vita ho ricevuto tanto bene, ma anch’io nel mio piccolo ho fatto i conti con il dolore che non sai spiegare, che permane e logora e ho visto soffrire altri senza poter fare nulla. Il dolore è sempre visto come qualcosa da anestetizzare o da assolutizzare. Nella canzone di Anastasio mi colpiva il fatto che alla fuga dal dolore della prima parte corrisponde l’inseguimento dell’amore, quando ci si accorge che si è ancora vivi, che si ha ancora un cuore che pulsa. Forse non capirò mai fino in fondo la logica della croce, ma lì vedo il punto di congiunzione, il culmine del dolore e dell’amore assurdo, che va al di là delle nostre forze, meriti e peccati. Gesù non è scappato dal dolore, è rimasto e l’ha attraversato in pieno e superato, non per masochismo, né per esibizionismo, ma unicamente per amore, per quanto assurdo possa sembrare.

Charlie Brown – Coldplay
In oratorio a Santeramo e non solo ho avuto la possibilità di conoscere diversi ragazzi e ragazze in questi anni, qualcuno per più tempo, qualcun altro per qualche mese o pomeriggio, ma sono incontri che – traducendo i Coldplay – hanno acceso una scintilla, una fiamma nel mio cuore. Credo che siano davvero ciò che conta nel mondo, i fiori che possono spaccare il cemento e la luce che può illuminare il buio. Se ho fatto qualcosa di buono per loro in questi anni è stato anche perché ho visto figure più grandi fare questo: c’è stato qualcuno che ha trovato in me un punto accessibile al bene e ci ha creduto, qualcuno a cui sapevo di potermi rivolgere e di cui mi sono fidata. Il bene ricevuto ha generato bene donato.

Non ancora – Eugenio in via di Gioia
Nell’animazione all’inizio credevo che tutto dipendesse da me, che i miei soli sforzi bastassero a fare del bene, che spettasse a me vedere il risultato, l’effetto immediato di ogni mio gesto, ma non funziona così. Noi seminiamo e basta, e non cogliamo più o meglio, non ancora. In questi anni sto imparando che l’animatore è chiamato a seminare sempre e a prescindere. Anche quando sembra che non ne valga la pena, quando nessun altro scommetterebbe più nulla. Può essere sicuramente faticoso, ma penso sia una delle peculiarità più belle del servizio che possiamo offrire: non negare a nessuno la possibilità di dare frutto, ciascuno secondo il proprio tempo, anche quando non dovessimo esserci noi a vederlo. E poi che più di idee stratosferiche o discorsi ad effetto conta esserci nelle piccole cose, nelle situazioni di ogni giorno.

La fortuna che abbiamo – Bersani
Canzone che mi ricorda l’ultimo camposcuola a Torino e l’invito di don Bosco: “io abbozzo, voi stenderete i colori”. Chi ha la fortuna come l’ho avuta io e tantissimi altri giovani di far parte di questo stesso disegno può metterci il suo, ciascuno con il proprio colore, con la propria vita e non può tenersi questa cosa per sé. Qualche tempo fa – neanche troppo in realtà – non avrei mai accettato di scrivere pubblicamente queste righe, ma questa e tante altre possono essere occasioni per dipingere con un colore più intenso questo disegno che non vedo per intero, ma che si rivela pennellata dopo pennellata e di cui sono felice di far parte.

 

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Never too far away

Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” di Note di Pastorale Giovanile,  a cura del MGS Italia.

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di Giacomo Mazzoli (25 anni, giovane del MGS Lombardia Emilia, secondo di quattro fratelli, cresciuto all’oratorio di Bologna. Ama lo sport, in particolare la pallavolo, suonare il pianoforte e scalare in montagna)

A undici anni, in compagnia di papà e zio, grandi appassionati di montagna, scalai il mio primo ghiacciaio. Successe in un weekend di inizio settembre, in una valle poco frequentata della Valle d’Aosta, su di una cima, l’Entrelor (3430 m), vetta tra le più impervie del Gran Paradiso, senza un rifugio dove prendere lo slancio per la scalata. Sembrava che non solo la montagna, ma tutta la valle ponesse una sfida a chiunque le si avvicinasse: “Sei proprio sicuro?”. Perché, lo sanno tutti i montanari, non si tratta solo di una fatica nelle gambe, per camminare o arrampicarsi, ma di uno sforzo in tutto il corpo, trasportando, nel proprio zaino, una tenda, i viveri per due giorni, oltre a picozza, ramponi e quanto è necessario per la salita. Ad oggi riconosco senza dubbi che fu una delle fatiche più grandi di tutta la mia vita, una di quelle che restano impresse: un vero e proprio “battesimo” della montagna, un’impresa che lascia il segno. Sarà anche per questo che l’immagine che mi viene in mente quando penso alla fede e al suo cammino (composto da un vero rapporto con Dio, fatto di amore, amicizia, ma anche di dubbio e di buio) è proprio quella di una montagna. Esagerando un po’, direi che la fede è una cosa da veri scalatori. Anzi, per continuare la similitudine, la salita verso un monte è tanto più significativa quando si percorrono valli poco conosciute, senza comfort e rifugi, magari molto faticose: sono tutti ingredienti che permettono all’esperienza di cambiarci e di parlare al cuore.
Per me è stato così in montagna, per me è così nell’esperienza di fede.
Di essa ho fatto un’esperienza travolgente, al punto da sentire il cuore toccato e guarito. Nella mia adolescenza, in oratorio e a scuola, sono stato fortunato perché ho potuto vivere amicizie vere, e questo mi ha tirato fuori dal rischio di chiudermi in me, da risolvere da solo le cose, di non condividere pensieri e scoperte importanti. Penso davvero che un cristiano senza amici rischia seriamente di perdersi, perché negli amici Gesù si rivela nei modi più diversi, e l’amicizia condivisa è sempre un amore donato da una fonte più grande. Certo, sono stato anche ferito e “tradito”, specie quando ero più piccolo, e non nascondo che da più grande ho purtroppo anche ferito.
Fin da piccolo ho frequentato numerosi gruppi in parrocchia e ricordo con grande piacere quello dei ministranti. Ci si trovava il sabato pomeriggio a fare grandi partite di calcio, pizzate, spendendo tempo insieme; e poi la serietà della preparazione e la gioia di una messa domenicale dove avvertivo quella presenza dell’amico Gesù già sperimentata nel quotidiano della settimana precedente con gli amici. Ecco, nella mia adolescenza mi sono sentito davvero amato. Anche dagli educatori, che erano amici un po’ più grandi, che mi vedevano per quello che ero e che mi allargavano gli orizzonti.
Ho frequentato per sei anni anche il gruppo scout, ma non è stata per me una grande esperienza. In questo contesto ho fatto la scoperta delle mie debolezze e fragilità, di cui ancora oggi ringrazio perché le esperienze difficili permettono a ciascuno di noi di maturare, di chiedere aiuto e di abbattere le difese di cui ci circondiamo continuamente.
Ho già accennato alla fede come di un punto fermo per me: in essa sento di aver incontrato Uno che mi ha fatto sentire amato non per quello che sarei diventato, ma proprio per quello che sono adesso, il me stesso con pregi e difetti. Ecco, cambiare o essere. Quante volte l’accento nella fede è posto sul cambiamento. Cosa certamente necessaria, anche perché cambio, “divento” ogni giorno. Ma alla base c’è una accettazione incondizionata, grazie alla quale si spengono le domande “Vado bene così?” “È la strada giusta?”. Il fatto che la vita cambi è un frutto (importantissimo) di questa esperienza, non la condizione sine qua non. Un po’ come accade in montagna: se scali il Gran Paradiso e ammiri il panorama vivendo la fatica, superando le crisi e condividendo il tutto con i compagni, ritorni a casa cambiato, diverso, sicuro che la vita ha orizzonti molto più alti di quelli che pensavi.
Questa è stata per me l’esperienza interiore più decisiva, ed è avvenuta grazie a una persona adulta con cui ho riletto la mia vita e scoperto questa sconvolgente ma limpidissima verità: Dio mi ama comunque, e ama te comunque. Questo e nient’altro che questo. E così per tutti i miei giorni, all’oratorio, a scuola, in università ho sentito come una grande spinta interiore a testimoniare ciò, anzitutto vivendo personalmente questa nuova consapevolezza.
Pensate, proprio a Bologna, in una realtà universitaria ostile al messaggio evangelico in tutte le salse, è possibile e ve lo posso garantire. Questa assoluta certezza mi ha anche aiutato parecchio, da studente, negli studi, negli esami da preparare e nei pomeriggi passati a risolvere esercizi ad Ingegneria Energetica: è come una luce interiore che illumina anche i lunghi pomeriggi di studio, volti a preparare gli esami. Sento che anche la passione per lo studio forse viene proprio da qua, da questa consapevolezza che Dio mi ama. Ed è inevitabile tradurre ciò in una mano tesa verso i miei compagni, condividendo con loro anche momenti di studio durissimi. Quello che vorrei esprimere è appunto una fede che prende corpo e vita nel mio ambiente, fatto di lavoro e buone relazioni amicali.
Cosa farò in futuro? Quale forma prenderà questa mia consapevolezza? Non lo so ancora, diciamo che “sono in dialogo con Dio”: è un gioco di pazienza e ascolto tra me e Lui. Ma tutto parte da là, dal sentirsi amati e pensati da sempre. Certo, tra le esperienze affascinanti vissute c’è l’oratorio, un luogo in cui spendersi e dove è possibile comunicare agli altri quest’Amore. Non un luogo dove si è strumentalizzati, ma dove si accoglie, anche chi è “lontano”. Questa esperienza “mi ha salvato”, mi ha fatto incontrare lo spirito di servizio, di amicizia, tutte cose poco comuni nelle relazioni ordinarie e nella società.
Certamente non sono riuscito ad esprimere in toto quanto sento e vivo, ma suggerisco, a chi fosse interessato, di leggere quella specie di “mappa” esistenziale che è il libro “Sentirsi amati” di Henry Nouwen. Oppure di ascoltare la canzone “Never too far away” dei Newsboys.

From your best moments to your darkest hours
You’re held inside the hands of supernatural power
Don’t you ever forget, you are a child of God

Un saluto a chi mi leggerà, e l’augurio di vivere ciò che la montagna insegna a tutti gli alpinisti: il silenzio, l’incontro con se stessi, il sublime.

Voci dal mondo interiore – Una rubrica a cura dei giovani MGS Italia

Dalla rubrica di Note di Pastorale Giovanile “Voci dal mondo interiore”.

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Imparando da S. Artemide Zatti  Cristina Schullern (21 anni, infermiera; fa parte della consulta giovani dell’Ispettoria salesiana ILE, ed è educatrice degli adolescenti nell’oratorio ad Arese)

Ho a che fare con persone malate che stanno nel reparto di cardiologia dell’ospedale. In questo lavoro porto tutta me stessa, con le mie caratteristiche, le mie sensibilità, i miei pregi e difetti, che danno quella nota di unicità a me come persona e al mio operato. Certo, mi piace pensare (e desidero) che in questo lavoro la persona che sono riesca a portare un piccolo sollievo ai malati. Per fare questo spesso mi chiedo chi sono io nel mio lavoro e come vorrei essere.
Certo, sono infermiera, e fa parte del mio dovere (la mia deontologia, la chiamano, io lo chiamo più senso del dovere) in ospedale, occuparmi di loro, impegnarmi per dare e riconoscere loro il massimo della dignità, del rispetto e del sollievo. Sono lì per ascoltare e soddisfare i loro bisogni, per conoscere le loro storie, i loro timori e per accompagnarli nella loro malattia, nella sofferenza e nel momento della morte. Questo lo sento anche congeniale al mio carattere, quel senso di attenzione e cura, quello sguardo di rispetto e di amore per l’essere umano soprattutto nella sua fragilità e nel suo bisogno. Ma riconosco anzitutto che per vivere questi atteggiamenti al meglio mi ispiro molto alla figura di Sant’Artemide Zatti, un salesiano “coadiutore” (laico) argentino, di origine italiana, che è stato canonizzato qualche anno fa; e mi è sembrato una cosa provvidenziale, perché era proprio nei tempi in cui studiavo per diventare infermiera e avere un modello di “infermiere” cui ispirarmi mi ha fatto capire che è possibile trovare anche in questa via la possibilità di “santità”: di realizzazione personale e di aiuto agli altri. Per cui mi ritrovo molto nella definizione di un testimone, il quale lo descrisse come il “buon Samaritano” che tende la mano, solleva e cura.
Anche sul “come” farlo prendo spunto da lui. In un libro che ho letto su di lui, scritto da d. Pierluigi Cameroni, quello che ne ha seguito la “causa” di santità, si dice che trattava tutti con “criterio di bontà e disponibilità” e i testimoni affermano che non lo si vide mai triste proprio perché le sue caratteristiche erano la gioia e il sorriso.
Mi è sembrata la strada tracciata anche per me, che rispecchia chi sono e chi vorrei tanto essere. Mi piacerebbe portare serenità, gioia, speranza e conforto ai pazienti che incontro. Vorrei strappare loro un sorriso, farli sentire guardati e meno soli attraverso anche solo il mio modo di trattarli, di considerarli. Parlo con loro e li ascolto, anche al di là delle cose legate a cure e medicine, perché desidero conoscerli meglio perché si sentano persone, non malati o pazienti, classificati in base alla patologia per cui sono stati ricoverati, e chiedano-pretendano di essere conosciuti e considerati come persone uniche e irrepetibili, come essi sono. Mi piacerebbe avere il tempo per STARE e basta. Capisco però che nella realtà quotidiana tutto questo è molto difficile da realizzare: siamo sempre di fretta, il tempo per semplicemente “stare” svanisce e molte volte il sorriso si spegne perché la fatica è tanta. Capita anche che il carattere dei singoli pazienti sia difficile da sopportare. Allora mi ricordo di quanto era solito dire il “mio santo”: “A volte ti può capitare uno con una faccia simpatica, altre volte uno antipatico, però davanti a Dio siamo tutti uguali”. Anche questa è una sfida, e me la pongo sovente. Nella vita quotidiana, fuori dal contesto lavorativo, quando una persona non mi va a genio tendo ad evitare ogni contatto con essa e ad andare per la mia strada. Quello che posso nel mio quotidiano ovviamente non posso farlo in ospedale. Allora devo essere in grado di andare “oltre” la simpatia/antipatia, e di guardarla con occhi nuovi che vadano oltre le mie sensazioni, mettendo l’altra persona, con la quale faccio fatica, prima di me.
Se questo è comunque un aspetto del Vangelo che mi ricorda l’atteggiamento di Gesù verso tutti (siamo tutti figli di uno stesso Padre), e dunque riguarda la mia vita cristiana, c’è un altro aspetto in cui sento molto il senso del mistero di Dio: all’interno del mistero della morte. Nell’assistenza che presto mi impegno a fare il possibile per dare sollievo e rispettare la dignità delle persone, nonché fargli pregustare quasi un assaggio di Cielo. Quando poi giunge la morte, in un momento in cui sono sola con la persona, sento che ho la possibilità e la grazia di affidarla a Dio, con un “l’eterno riposo” e a farle un segno di croce sulla fronte: mi sembra quasi che così la “preparo” per l’abbraccio eterno del Padre.
Sento che la sfida quotidiana è quella di trasformare il lavoro in relazione, di lasciar trasparire in esso le qualità del rapporto umano rispettoso e attento; insomma di non spaccare in due la mia vita, come se il quotidiano fosse un’altra cosa dal lavorativo, come se fossi due persone, la Cristina della vita e l’infermiera della professione. In questo trovo assolutamente prezioso e valida la testimonianza personale del “mio” santo e le sue frasi, semplici ma ricche di umana saggezza e di fede. Sicuramente anche per lui non sarà sempre stato facile, quasi dimenticare se stesso per farsi tutto ai suoi malati, ma di certo ha mostrato che è possibile vivere e lavorare così. Questo nei momenti di difficoltà mi rincuora molto, soprattutto in quei giorni in cui mi chiedo: “chi me l’ha fatto fare?”.
So che con le mie sole forze non ce la potrei fare: impazienza, stanchezza, amarezze… e poi lo straziante incontro con la sofferenza di bambini. Ho bisogno di un costante aiuto dal cielo. E così (ma qui vorrei essere davvero discreta) mattina e sera, mentre vado al lavoro in macchina, dico le mie preghiere, e mi sembra quasi di parlare anche a quel volto bonario e simpatico di S. Artemide. Gli chiedo di essere aiutata nel mio lavoro. Gli chiedo che i miei pensieri, le mie mani, i miei occhi, i gesti che compirò siano strumenti per trasmettere pace, speranza e un “pezzettino di cielo” ai malati con cui entrerò in relazione in quella giornata. Devo dire che questo mi aiuta molto, e faccio le cose con minor precipitazione o timore, e a volte mi sembra di avere come una illuminazione su come agire o come gestire una determinata situazione.
Ricordo una volta in particolare in cui mi stavo prendendo cura di una signora che, pur capendo quello che io le comunicavo, tuttavia non riusciva a parlare. Sentivo che aveva bisogno di qualcosa, ma non capivo di cosa nello specifico. Allora ho chiesto aiuto allo Spirito (Lui conosce tutte le lingue!), e poco dopo sono riuscita a capire che voleva essere girata su un fianco e che aveva bisogno di bere dell’acqua. Certo, nulla di eclatante e fuori dal comune, ma questo banale episodio mi ha fatto comprendere, ancora una volta, quanto noi siamo costantemente ascoltati da Dio e quanto lui sia presente e oserei dire “sul pezzo” nel nostro quotidiano.
Ecco, questo è un pezzettino del mio “mondo interiore”, e lo tengo “dentro” di me, al momento non lo condivido con nessuno dei miei colleghi o dei miei pazienti. Fa parte della mia fede e del mio rapporto con Dio, che è personale e intimo. Non so se dovrei anche testimoniarlo, parlarne, condividerlo. Forse questo sarebbe un ulteriore passo in avanti nella mia vita, forse proprio questo vorrebbe dire “essere missionari”. Ma al momento non mi sento ancora del tutto libera (o capace) di testimoniare apertamente la mia fede. Ecco perché custodisco tutto questo nel segreto: solo io e Dio lo sappiamo e questo mi basta, anche perché è quello che conta. Su queste cose “intime” penso che sia possibile aprirsi solo quando si può essere veramente “compresi” dall’altro. Immagino che sarà possibile nel futuro, per intanto ho ancora poca esperienza e comunque devo consolidare questi miei pensieri e sentimenti. Per questo al momento preferisco mantenere un profilo neutro all’esterno, ma dentro sento di assimilare i sentimenti di Gesù e di abilitarmi al suo sguardo, uno sguardo misericordioso e buono con tutti, per far sentire soprattutto ai deboli e ai fragili che il Padre sta con loro, è dalla loro parte… e poi cerco di agire di conseguenza, superando difficoltà e fatiche.

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