Attenzione antropologica e proposte pedagogiche

Dal nuovo numero di Note di Pastorale Giovanile, la presentazione del nuovo dossier a firma di don Rossano Sala.

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Un Dossier di stampo e stile genuinamente pedagogico è una bella occasione per riflettere su temi educativi che, sappiamo, sono parte integrante dell’assetto strutturale della pastorale giovanile. Nel Dossier di questo numero di NPG il prof. Raffaele Mantegazza, pedagogista di rara finezza e da sempre amico della nostra rivista, individua tre “buchi neri” dell’educazione: la storia, la politica, la teoria. Avere la memoria corta o perderla del tutto, dimenticare la nostra natura di esseri sociali e pensare poco o male sono tre tarli della pedagogia che l’hanno depotenziata, afferma il nostro. Non possiamo che convenire su questa analisi e appoggiarlo con convinzione nelle proposte che avanza.
L’immagine del “buco nero” è decisamente forte: qualcosa viene attirato, risucchiato e infine annichilito. E non sono cose da poco la buona memoria, la partecipazione attiva, l’intelligenza critica. Perderle significa lasciarsi vincere dal presentismo, dall’autoreferenzialità e dalla superficialità. Tre istanze che ci rimandano a temi di natura antropologica e che, a mio parere, evidenziano che le attuali emergenze educative che stiamo affrontando affondano le loro radici ultime in un terreno genuinamente umano.
Nelle riflessioni che seguono vorrei mostrare quanto l’attenzione antropologica sia decisiva per qualificare la proposta pedagogica. La tesi che porto avanti è molto semplice: ogni emergenza educativa affonda le sue radici in una disattenzione o riduzione antropologica. Tale idea è ben rinvenibile nel percorso storico che la Chiesa ha fatto negli ultimi vent’anni. A partire da Benedetto XVI, che nel lontano 2007 lanciò l’espressione “emergenza educativa”, possiamo seguire un filo rosso che ci porta fino a noi. Proviamo a ripercorrere insieme, seppur per brevi cenni, questa strada.

Benedetto XVI e l’emergenza educativa

Con coraggio apostolico e intelligenza profetica, papa Benedetto XVI attraverso una memorabile lettera alla diocesi alla città di Roma “sul compito urgente dell’educazione”, ha chiarito una volta per tutte la posta in gioco della questione e le sue possibili conseguenze in ambito ecclesiale e civile. È una lettera che in un certo senso raccoglie e ordina il disagio diffuso e conferma un immaginario sociale ed ecclesiale condiviso: «Educare non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”»[1].
È interessante per noi andare a vedere come Benedetto XVI, pur rilevando tutta una serie di questioni pratiche legate all’educazione, vada al cuore antropologico e perfino teologico del problema evidenziando la radice ultima dell’emergenza educativa in atto. La tentazione di rinunciare all’opera educativa dipende, per il pontefice tedesco, non solo da questioni tangenziali o da difficoltà circoscritte, ma da un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita[2].

In ultima analisi tutto ciò rimanda a Dio, che in un’antropologia cristiana non può che essere il destino ultimo dell’uomo. Proprio l’educazione, nel senso più nobile e alto del termine, rimanda a Dio. Egli è il grande educatore del suo popolo e insieme offre speranza certa e sostegno efficace a questo compito inderogabile: «Anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile. Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti e rischiamo di ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini “senza speranza e senza Dio in questo mondo”, come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12). Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita[3].

Un decennio dedicato all’educazione

Prima ancora che la diocesi di Roma, è l’Italia nel suo insieme che si sente interpellata dalle parole profetiche del papa teologo. Nella Conferenza Episcopale Italiana stava allora terminando un decennio dedicato a Comunicare il vangelo in un mondo che cambia e si sta pensando agli orientamenti per il prossimo decennio in arrivo. Tra le tante possibilità prende corpo, nel dialogo e nel confronto, la necessità di concentrare la propria attenzione esattamente sull’educazione. E il punto di partenza, la bussola orientativa, la stella polare viene riconosciuta in quella lettera.
Gli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, significativamente intitolati “Educare alla vita buona del vangelo” sono il tentativo di rendere sistemica e comunitaria l’intuizione ratzingeriana intorno all’emergenza educativa, attenzione che il Santo Padre non cessava di ribadire ad ogni incontro programmatico con l’episcopato italiano. Tale debito di riconoscenza è affermato fin dall’inizio del documento programmatico: «È questo un tema a cui più volte ci ha richiamato Papa Benedetto XVI, il cui magistero costituisce il riferimento sicuro per il nostro cammino ecclesiale e una fonte di ispirazione per la nostra proposta pastorale»[4].
Gli orientamenti pastorali appaiono operativi: il testo si sviluppa in cinque capitoli: il primo legato al contesto attuale, il secondo ad alcuni spunti di teologia dell’educazione, il terzo alla pratica educativa, il quarto alla Chiesa definita “comunità educante”, e il quinto orientato alla progettazione pastorale. Nell’insieme sembra essere un grande appello alla comunità cristiana perché ritrovi audacia e passione per un compito educativo che non affascina più il mondo degli adulti, talvolta più ripiegati su loro stessi piuttosto che aperti all’accoglienza delle giovani generazioni.