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Famiglie e giovani nel recente cammino sinodale della Chiesa

Pastorale giovanile e famiglia /1

Gustavo Cavagnari

(NPG 2020-01-53)

La consapevolezza ecclesiale riguardo alla famiglia

Consapevole che il matrimonio e la famiglia sono tra i beni più preziosi «da cui la società non può prescindere»,[1] la Chiesa ha da sempre sostenuto, aiutato, accompagnato e illuminato coloro che vivono o si preparano a vivere il proprio progetto coniugale e familiare. La Costituzione pastorale sulla Chiesa del Concilio Vaticano II ha ricordato ancora una volta che il matrimonio è «l’intima comunità di vita e d’amore coniugale» stabilita dall’alleanza tra un uomo e una donna e strutturata con leggi proprie,[2] e la sua Costituzione dogmatica sulla Chiesa ha anche fatto presente che «da questo connubio procede la famiglia».[3]
Se tra le numerose questioni che destarono l’interesse del Concilio il matrimonio e la famiglia meritarono particolare menzione, questo è dovuto anzitutto al fatto che la loro verità ultima la si trova nel disegno divino rivelato pienamente in Gesù Cristo. Con la redenzione da Lui operata (Ef 5,21-32), il Signore riportò il matrimonio e la famiglia alla loro forma originale (Mc 10,1-12) restaurandoli a immagine della Trinità (AL 63). Per la fede cattolica, dunque, è proprio nel piano di Dio Creatore e Redentore che «la famiglia scopre non solo la sua “identità”, ciò che essa “è”, ma anche la sua “missione”, ciò che essa può e deve “fare”».[4]
In questa luce si comprende perché la Chiesa considera «il servizio alla famiglia uno dei suoi compiti essenziali».[5] Eppure, perché questo impegno pastorale possa avverarsi, la Chiesa è conscia che, oltre alla Sacra Scrittura e alla sua stessa tradizione magisteriale sull’argomento (AL 6), occorre «uno sguardo lucido e assolutamente realistico alla realtà della famiglia oggi, nella varietà e complessità dei contesti culturali in cui si trova».[6]

L’idea di “sinodalità missionaria”

La necessaria conversione dal fare per all’essere con

Rossano Sala

(NPG 2020-01-6)

Questo è il primo numero NPG del 2020. Siamo all’inizio del III decennio del III Millennio. Nessuno potrà dire con precisione che cosa accadrà, sia a livello sociale sia a livello ecclesiale, nei prossimi dieci anni.
Vi siete resi conto che in questo numero non c’è l’editoriale. Perché questo Dossier è un vero e proprio “lungo editoriale” che apre il decennio 2020-2030. È quindi qualcosa di programmatico, che vuole aprire i prossimi dieci anni attraverso un rinnovato impulso che si raccoglie intorno all’idea di “sinodalità missionaria”. In questo modo non facciamo altro che fare nostro l’esito del Sinodo con e per i giovani e rilanciarlo con coraggio, convinti che si tratta davvero di una chiave interpretativa preziosa e irrinunciabile per gli anni che ci aspettano.
Di certo, dai vari segnali che ci sono giunti nel decennio precedente, l’appello verso la comunione, la condivisione e la corresponsabilità da tutti i punti di vista è stata chiaro. Il mondo è sempre di più un piccolo villaggio dove tutto è connesso e raggiungibile. La Chiesa, vivendo in questo mondo, non può fare a meno di entrare in queste condizioni di esercizio della sua missione. Nel decennio scorso tanti ponti sono stati abbattuti e altrettanti muri sono stati costruiti. Ci sembra arrivata l’ora almeno di provare ad invertire la tendenza, almeno partendo da quello che dipende da noi: bisogna abbattere muri e costruire ponti!

Ripensare l’Europa

di Renato Cursi

(NPG 2020-01-2)

Ripensare l’Europa. Questo è il compito che si è proposto il dialogo ad alto livello intrapreso più di due anni fa, in occasione del 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma, dai rappresentanti della Chiesa Cattolica, a partire da Papa Francesco, da una parte, e i rappresentanti delle istituzioni europee, dall’altra. In questa occasione, il Santo Padre si interrogava su quale potesse essere il contributo cristiano al futuro del progetto europeo. Un progetto che, notoriamente, da diversi anni attraversa un momento difficile della sua storia. Nel suo discorso, Papa Francesco suggerì di ricostruire insieme l’Europa a partire da due fondamenta e cinque mattoni. Le due fondamenta erano la persona e la comunità. I cinque mattoni erano invece il dialogo, l’inclusione, la solidarietà, lo sviluppo e la pace. Come interagisce la Pastorale Giovanile italiana ed europea con questo progetto edilizio?
La costruzione europea non è un assoluto, né un fine in sé stesso. Persino gli Stati stessi che si sono impegnati nel progetto di Unione Europea le hanno fissato dei limiti di competenza. Non è opportuno, pertanto, aspettarsi soluzioni onnicomprensive da questa realtà. Tuttavia, si tratta di un progetto importante, capace di incidere sulle vite dei cittadini dei Paesi coinvolti, a partire proprio dai giovani. Per fare un esempio, tra i tanti possibili: secondo i tratti che istituiscono l’Unione Europea, l’educazione non è una competenza dell’Unione, bensì una competenza dei suoi Stati Membri. Eppure, sono molte le decisioni prese in seno alle istituzioni europee che incidono in un modo o nell’altro sui processi educativi dedicati ai giovani europei, come nel caso del progetto Erasmus+.

Il lavoro in oratorio come spazio di ascolto e di narrazione: il progetto “Work in Progress”

Da Note di Pastorale Giovanile di dicembre
di Filippo Binini, Fabio Cigala, Marco Uriati (Parma)

Spesso i giovani Neet sono considerati dal mondo degli adulti dei giovani not. La stessa definizione di Neet, più che entrare nella sostanza del fenomeno a cui si riferisce, procede ad una descrizione «per difetto»: i Neet sono giovani che non studiano, non lavorano, non sono impegnati in percorsi di formazione professionale. Tuttavia, il fatto che tanti giovani non siano presenti nelle istituzioni e nei percorsi attualmente a loro rivolti non significa automaticamente che in loro non ci siano, in positivo, competenze preziose e attitudini ricche di esperienza e di futuro. In realtà, infatti, il fenomeno dei Neet sembra tante volte mettere sotto una lente di ingrandimento non tanto le mancanze dei giovani coinvolti, quanto i difetti e le storture dell’attuale «mercato» del lavoro, dei nostri percorsi di istruzione e formazione professionale.
Ma allora come mai all’interno di tali percorsi tradizionali i Neet sembrano non avere niente da dire? Quali sono le ragioni della loro «afasìa»? Questo è stato il primo campo d’indagine, per poter dar testa e gambe a un progetto che coinvolgesse questi giovani che quotidianamente frequentano gli spazi e i cortili della nostra parrocchia.
Le ragioni nel tempo individuate sono diverse. La prima, è che molte volte i Neet non hanno a disposizione gli strumenti linguistici necessari per farlo. Buona parte dei Neet che frequentano il nostro oratorio, ad esempio, è cresciuto in orizzonti linguistici diversi da quello in cui si trova ora, e continua ad abitare in frammenti isolati di quel mondo, operando continuamente in sé una scissione linguistica. Quindi una prima ragione della loro «afasìa» è di tipo cognitivo.
Una seconda ragione è invece di tipo emotivo. Essi sono molto (troppo!) esposti a compiti esistenziali molto impegnativi, non di rado più esigenti di quelli dei loro coetanei, ai quali devono dedicare le loro energie migliori. La sfida che occupa le loro giornate è anzitutto quella della custodia di una identità minima, continuamente minacciata: un sufficiente senso di soddisfazione di sé, un sufficiente gruppo di persone di riferimento, una sufficiente autonomia economica, una sufficiente tranquillità d’animo. In altri termini: c’è un’inquietudine che li costituisce e che chiede loro un continuo accudimento. Non possono applicarsi al racconto di sé perché troppo assorbiti dalla necessità di trovare un po’ di serenità.
Molto spesso, poi, i Neet non vogliono parlare di sé, mantenendo un atteggiamento marcatamente oppositivo nei confronti del mondo adulto. Ciò attiene, almeno in parte, all’età adolescenziale che stanno attraversando, ma soprattutto a un moto di ribellione per la percezione di ingiustizie presenti nei contesti di vita da loro abitati, prima di tutto la crescente disparità economica tra famiglie di ceto sociale differente. La povertà e l’indigenza sono realtà con le quali i Neet sono più spesso a contatto e di cui sono più consapevoli rispetto ai loro coetanei.

 

Note di Pastorale Giovanile, la programmazione 2020 e la campagna abbonamenti

Dall’ultima newsletter di Note di Pastorale Giovanile

Con il numero di dicembre di Note di Pastorale Giovanile, gli abbonati riceveranno il ccp con l’invito al rinnovo dell’abbonamento. Confidiamo nella loro amicizia, per poter continuare con un servizio sempre più competente e ricco.
Lo stesso proponiamo anche ai visitatori di questo sito, che possono fin d’ora usufruire GRATUITAMENTE di quanto offerto on line per il loro lavoro pastorale o studio.
Una cortese proposta: perché non “regalare” o suggerire il regalo dell’abbonamento ad amici possibilmente interessati? È certamente un regalo duraturo, intelligente, utile… A buon intenditor…

Qui sotto la programmazione per il prossimo anno con i dati utili… con l’impegno di proseguire – fedelmente e creativamente – sui sentieri indicati dal Sinodo sui/dei giovani…

 

Il valore dell’amicizia, punto stabile delle relazioni

Dalla rubrica “Parole adolescenti” di Note di Pastorale Giovanile

Caro Prof,
grazie per le due risposte sulla scuola. Mi piace quello che dice e… ci penso su spesso. La Sua esperienza e saggezza sono importanti, anche per questa studentessa chierese.
Oggi vorrei parlarLe di una delle cose più belle e preziose della mia vita: l’amicizia. So che è una cosa scontata, ma non importa, Le dico quello che vivo (o inizio a vivere in modo diverso)Ma prima di iniziare Le parlo di un’idea che mi è venuta in mente in questi giorni. Deve sapere che a scuola ho iniziato a studiare la mitologia greca, e la adoro. Non ero mai entrata a contatto con questo mondo… e anche se parla di cose fuori dal quotidiano, “mitologiche” appunto, sento che mi dicono qualche di speciale per la mia stessa esperienza. Mi sta piacendo talmente tanto che ho deciso di fare un collegamento ad essa in questo e nei prossimi temi su cui Le scriverò. Non so se Le farà piacere, ma è un mio nuovo modo di pensare, e magari Lei mi spiegherà meglio quello che dirò con mie parole, magari un po’ confusamente.

NPG, Davide: un uomo appassionato

Riportiamo dal sito di Note di Pastorale Giovanile un approfondimento di Maria Ratta sulla storia artistica della salvezza. 

Riprendiamo la storia artistica di Davide dopo la sua vittoria su Golia. È un momento di trionfo: il giovane è acclamato da tutti, fa amicizia con Gionata, il figlio del re, e va a vivere a corte. La Bibbia narra un rapporto straordinario, nato tra due personaggi che avrebbero avuto buoni motivi per essere acerrimi rivali, in quanto entrambi aspiranti al trono. Cima da Conegliano (p. 3) immagina i due ragazzi subito dopo la lotta contro il gigante: camminano assieme, parlano… e nulla fa presagire il triste prosieguo della loro vicenda. Saul, infatti, accecato dalla crescente popolarità di Davide e dai suoi successi, comincia a nutrire invidia e gelosia nei suoi confronti. Anche Mical, una delle figlie del re, si invaghisce del giovane. Saul tenta allora di sfruttare questa circostanza per far perire Davide: in cambio della mano di sua figlia non chiede dote, ma cento prepuzi di Filistei. Ma anche questa volta il giovane ne esce vittorioso, e la Cantina dei Santi a Romagnano Sesia (Novara) narra in un affresco la sua impresa e l’offerta dei prepuzi, presentati a Saul in una cesta (p. 6).

L’ira del sovrano si manifesta allora ben presto apertamente: dopo una nuova vittoria riportata da Davide sui Filistei, il re tenta di ucciderlo con la propria lancia, come mostrano Guercino (p. 8) e Doré (p. 9). Sono opere in cui lo sguardo del ragazzo esprime lo sconcerto e il dispiacere per questa incomprensibile follia. Davide allora scappa con l’aiuto di Mical, poi si separa da Gionata, e qui l’arte esprime il momento da prospettive diverse (p. 13): Frederic Leighton crea una sorta di figura ideale dell’eroe bello ed elegante, quale è Gionata, raffigurato nel momento in cui sta per avvisare Davide delle sempre cattive intenzioni di Saul. Rembrandt sceglie invece la via dell’intensità psicologica, in una scena dal forte impatto drammatico, con Davide che si getta letteralmente fra le braccia dell’amico, scoppiando in un pianto irrefrenabile. Solo la morte metterà fine (tragicamente) a questa amicizia.

Saul e suo figlio periranno sul campo di battaglia, in quella guerra contro i Filistei che si combatterà sul monte Gelboe. Bruegel Il Vecchio (p. 30) realizza un’opera d’ampio respiro, in cui tenta di riconciliare figure umane e paesaggio, e dipinge la storia di quel momento come un evento contemporaneo, con armate abbigliate secondo la foggia del XVI secolo. Staccandosi dalla massa, su una rupe collocata sulla sinistra della tela, le figure di Saul e di Gionata, trafitti dalle lance, spiccano in solitaria, mentre sul fondo si consuma una battaglia di cui quasi si può udire il fragore. Raggiunto dalla notizia, Davide piange sull’amico perduto. Il suo lamento, immortalato probabilmente nelle figure bibliche disegnate da John Singer Sargent (p. 34), è straziante: pur nelle sue linee pulite e veloci, il foglio mostra chiaramente i sentimenti di questo giovane uomo che dirà, con parole stupende (e purtroppo spesso male interpretate): «Una grande pena ho per te, / fratello mio, Giònata! / Tu mi eri molto caro; / la tua amicizia era per me preziosa, / più che amore di donna» (2Sam 1,26). Ma a questo punto della storia è proprio una donna che acquista un ruolo di rilievo.

 

Scommettere ancora sulla scuola

“La scuola è senza dubbio una piattaforma per avvicinarsi ai bambini e ai giovani. Essa è luogo privilegiato di promozione della persona, e per questo la comunità cristiana ha sempre avuto per essa grande attenzione, sia formando docenti e dirigenti, sia istituendo proprie scuole, di ogni genere e grado. In questo campo lo Spirito ha suscitato innumerevoli carismi e testimonianze di santità”.[1]
Le parole dell’esortazione postsinodale Christus vivit di papa Francesco rendono l’idea della rilevanza e della complessità dell’ambito scolastico, un luogo imprescindibile per una Chiesa che voglia raggiungere ogni persona e spalancare ad essa l’orizzonte di una vita veramente buona.
Quanto il Sinodo dei Vescovi abbia mostrato attenzione per le istituzioni educative era emerso già nel documento finale, che in un denso passaggio invitava la comunità ecclesiale a esprimere una presenza significativa in questi ambienti, proponendo “un modello di formazione che sia capace di far dialogare la fede con le domande del mondo contemporaneo, con le diverse prospettive antropologiche, con le sfide della scienza e della tecnica, con i cambiamenti del costume sociale e con l’impegno per la giustizia”.[2]

 

NPG, è uscito il nuovo numero: La disciplina dell’ascolto

Non rinunciamo alla “parte migliore”

di don Rossano Sala

La musica si ascolta. È evidente. Tutti lo sappiamo e tutti lo facciamo. Lo fanno in particolare i giovani, che quotidianamente ascoltano musica.
Per questo, prima di lasciar spazio alla musica, tema dell’originale e intrigante Dossier di questo numero di NPG, vorrei parlare dell’ascolto. Perché di musica si è parlato durante il cammino sinodale in vari momenti, ma il tema dell’ascolto è stato uno dei nuclei centrali e generativi sul quale è bene sostare con particolare attenzione, perché ne va del nostro modo di essere Chiesa per e con i giovani.
“Con la bocca molto grande e le orecchie molto piccole”. È una delle immagini sintetiche della Chiesa che ci viene restituita da un giovane partecipante all’Assemblea sinodale. Sembrerebbe una caricatura, ma purtroppo tante volte si è rivelata la realtà dei fatti. Ricordo con chiarezza uno degli interventi più “criticati” al Sinodo (cioè che hanno avuto una chiara levata di cori negativi da parte dei giovani presenti nell’aula sinodale), che più o meno diceva così: “Certo, oggi nella Chiesa abbiamo bisogno di fare silenzio, soprattutto i giovani devono fare silenzio. Così noi Vescovi possiamo parlare, possiamo insegnare, possiamo istruire”. Come a dire che l’ascolto va a senso unico, cioè ha come soggetti i giovani e non gli altri membri della comunità ecclesiale, soprattutto non chi ha autorità in essa.
Invece con grande onestà, il 3 ottobre 2018 papa Francesco aveva anticipato tutti. Nel primo giorno dell’Assemblea sinodale incominciava mettendo al centro la necessità di ascoltare i giovani. La Chiesa tutta – Papa, Vescovi, sacerdoti, consacrati, laici – nasce dall’ascolto della Parola e si rigenera ascoltando dove essa si trova, quindi anche nei giovani, riconosciuti come un “luogo teologico” (cfr. Documento finale, n. 64). In quel discorso iniziale la parola “ascolto” è citata per ben 21 volte, tanto che potremmo dire che è l’invito più forte che ci è venuto dal percorso di preparazione sinodale. Tra i vari passaggi, eccone uno di grande rilievo:

Siamo segno di una Chiesa in ascolto e in cammino. L’atteggiamento di ascolto non può limitarsi alle parole che ci scambieremo nei lavori sinodali. Il cammino di preparazione a questo momento ha evidenziato una Chiesa “in debito di ascolto” anche nei confronti dei giovani, che spesso dalla Chiesa si sentono non compresi nella loro originalità e quindi non accolti per quello che sono veramente, e talvolta persino respinti. Questo Sinodo ha l’opportunità, il compito e il dovere di essere segno della Chiesa che si mette davvero in ascolto, che si lascia interpellare dalle istanze di coloro che incontra, che non ha sempre una risposta preconfezionata già pronta. Una Chiesa che non ascolta si mostra chiusa alla novità, chiusa alle sorprese di Dio, e non potrà risultare credibile, in particolare per i giovani, che inevitabilmente si allontaneranno anziché avvicinarsi.

Ascoltare evidentemente significa essere aperti alla parola e all’esperienza di altri, che evidentemente posso “alterarmi” nelle mie convinzioni e nel mio equilibrio personale. È molto più facile parlare, esprimendo i propri punti di vista e argomentando le proprie convinzioni. Nel parlare non mi metto in discussione, mentre nell’ascoltare potrei sentire ciò che non mi aggrada, magari qualcosa che mi mette in crisi, forse parole che mi provocano una (sana) inquietudine. Per questo ascoltare è prima di tutto un esercizio di umiltà e di apertura alle novità dello Spirito, che non sempre (o forse quasi mai) corrispondono al nostro punto di vista.
Già l’Instrumentum laboris era stato abbastanza severo su questo tema dell’ascolto, perché portava impresse le denunce dei giovani. Tutto il capitolo V della prima parte è una sintesi molto stringata dell’ascolto della voce dei giovani, che si sono espressi in vario modo nel cammino di preparazione al Sinodo (nn. 64-72). Il numero 65 è significativamente intitolato “La fatica di ascoltare” e così si esprime:

Come ben sintetizza un giovane, “nel mondo contemporaneo il tempo dedicato all’ascolto non è mai tempo perso” (Questionario on line) e nei lavori della Riunione presinodale è emerso che l’ascolto è la prima forma di linguaggio vero e audace che i giovani chiedono a gran voce alla Chiesa. Va però registrata anche la fatica della Chiesa ad ascoltare realmente tutti i giovani, nessuno escluso. Molti avvertono che la loro voce non è ritenuta interessante e utile dal mondo degli adulti, in ambito sia sociale sia ecclesiale. Una Conferenza Episcopale afferma che i giovani percepiscono che “la Chiesa non ascolta attivamente le situazioni vissute dai giovani” e che “le loro opinioni non sono considerate seriamente”. È chiaro, invece, che i giovani, secondo un’altra Conferenza Episcopale, “domandano alla Chiesa di avvicinarsi a loro con il desiderio di ascoltarli e accoglierli, offrendo dialogo e ospitalità”. Gli stessi giovani affermano che “in alcune parti del mondo, i giovani stanno lasciando la Chiesa in gran numero. Capire i motivi di questo fenomeno è cruciale per poter andare avanti” (Riunione presinodale 7). Certamente tra questi troviamo l’indifferenza e la mancanza di ascolto, oltre al fatto che “molte volte la Chiesa appare come troppo severa ed è spesso associata a un eccessivo moralismo” (Riunione presinodale 1).

 

“Il magistero dell’Amazzonia può vincere lo scetticismo”

Si è aperto in Vaticano l’importante Sinodo dei Vescovi sull’Amazzonia. Un Sinodo, per alcuni versi, dall’intreccio “esplosivo”. Un Sinodo strategico per il Pontificato di Papa Francesco. Ne parliamo con il teologo Andrea Grillo. Grillo è docente ordinario di Teologia al Pontificio Ateneo “Sant’Anselmo” di Roma.

Professore, domani, in Vaticano, si apre l’importantissimo Sinodo dei Vescovi sull’Amazzonia. Un Sinodo, definito “speciale”, strategico per il Pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Perché è così importante per Francesco?

Direi che la rilevanza del Sinodo dedicato alla Amazzonia deriva da due fattori: il primo è il rapporto con una “periferia integrale”, a differenza dei Sinodi su Famiglia e sui giovani, che hanno affrontato un tema universale, di cui hanno poi scandagliato elementi periferici. Qui il centro è la “periferia amazzonica”, come pienezza di espressione ecclesiale con un “rostro” peculiare. Per questo, ed è il secondo elemento, questo Sinodo esige risposte immediatamente praticabili: non essendo rivolto ad una Chiesa universale, chiede concrete decisioni sulla liturgia, sul ministero, sull’annuncio, sui soggetti autorevoli e sulle forme ecclesiali davvero credibili.

Sappiamo che è un Sinodo, come già detto “”speciale”, che ha un doppio livello uno geopolitico, la difesa del bioma Pan-Amazzonico, e l’altro la ricerca di un cammino per una Chiesa dal volto amazzonico. L’intreccio è esplosivo: solo una chiesa non coloniale può preservare il bioma amazzonico. Bioma visto come “luogo teologico” fondamentale per la testimonianza evangelica. È così professore?

Direi che proprio questo intreccio, che lei ha bene rilevato, chiede al Sinodo un respiro profondo e una vista lunga. Difendere una “forma di vita”, senza nessuna concessione al tradizionalismo, e “giocare il gioco linguistico ecclesiale” con regole più semplici e insieme più articolate diventa una sfida per il pensiero e per la prassi ecclesiale. Si tratta, in fondo, di ripetere ciò che Dante diceva quando distingueva tra “ciò che non muore e ciò che può morire”. E questo deve essere fatto, in modo intrecciato, tra forme di vita locale e gioco linguistico ecclesiale. Sarà una esperienza di crescita e di maturazione, per la Amazzonia e per tutta la Chiesa.