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Famiglia Cristiana – Il prete missionario che ha abbracciato il mondo

Da Famiglia Cristiana.

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Diceva Giuseppe Allamano che «ogni sacerdote è missionario di natura sua; la vocazione ecclesiastica e quella missionaria non si distinguono essenzialmente; non si richiede che un grande amore per Dio, e zelo per le anime». È la sintesi del la sua vita. Sacerdote diocesano di Torino (era nato a Castelnuovo d’Asti, poi ribattezzato Castelnuovo Don Bosco, il 21 gennaio 1851), Allamano fa parte di quella lunga schiera di preti sociali piemontesi divenuti santi come don Giuseppe Cottolengo, di Bra, «uomo prodigioso» secondo il laicissimo Cavour, fondatore della città del dolore che porta il suo nome, don Giuseppe Cafasso, monferrino di Castelnuovo (e zio di Allamano per parte di madre), che accompagnava i condannati sulla forca coprendoli alla vista della folla con un quadro della Madonna, don Giovanni Bosco, anch’egli di Castelnuovo, fondatore dei Salesiani e venerato in tutto il mondo. Allamano – beatificato nel 1990 da Giovanni Paolo II e ora canonizzato da Francesco – è consapevole che alla Chiesa torinese mancasse un istitu to che si occupasse specificatamente delle missioni ad gentes. Vede uscire dai seminari molti preti entusiasti di farsi missionari, ma ostaco lati dalle diocesi, che danno volentieri alle missioni l’offerta, ma non gli uomini. E decide: i missionari se li farà lui. Fon derà un istituto apposito, ci ha già lavorato molto. Il suo progetto è apprezzato a Roma, ma poi ostacoli e contrattempi lo bloccano per dieci anni. Pazientissimo, lui aspetta e lavora. Nel 1901 arriva poi il primo nulla osta vescovile per il suo Istituto dei Missionari della Consolata e l’anno dopo parte per il Kenya la prima spedizione. Otto anni dopo nascono le Suore Missionarie della Consolata. Oggi i missionari della Consolata sono presenti in trentasei Paesi del mondo . L’anno scorso a Torino è stato inaugurato il Polo culturale “CAM – Cultures and Mission” , un allestimento multimediale con l’esposizione di oggetti e testimonianze dagli oltre 100 anni di presenza missionaria nel mondo e dove è possibile farsi un’idea di dove è arrivata l’intuizione di Allamano al quale, da vivo, rimproveravano di pensare troppo al lavoro “materiale”, di curare più l’insegnamento dei mestieri che le statisti che sul numero di battesimi.

Per lui, Vangelo e promozione umana vanno di pari passo. «Fare bene il bene», è il suo motto. Un esempio concreto, tra i tantissimi scaturiti dall’opera di questo sacerdote indomito, è l’Allamano Makiungu Hospital che si trova in una zona poverissima della Tanzania, nell’Africa orientale, circondato da un terreno di sabbia e sassi impossibile da coltivare. Padre Alessandro Nava, 73 anni, originario di Cernusco Lombardone, nel Lecchese, vive in questo Paese da quarantasei anni e ora lavora nell’ospedale le cui origini risalgono alla fine dell’Ottocento quando i missionari, seguendo le piste carovaniere degli schiavi, giunsero sulle sponde del Lago di Singida. L’ospedale nasce nel 1956 grazie alle suore Medical Missionaries of Mary. Dopo decenni di sviluppo, va in rovina. Nel maggio 2021 i Missionari della Consolata lo ricostruiscono, pratica mente da zero, e in meno di quattro anni concludono i lavori grazie anche a un generoso contributo della Cei. «Il nostro fondatore è stato un pioniere», dice Nava, «la promozione umana è fondamentale per l’annuncio del Vangelo. Questa è una zona poverissima, si rischia di morire anche per il morso di un serpente». L’ospedale è un prodigio di carità organizzata e tecnologia. Ci sono nove reparti, sei sale operatorie, due reparti di terapia intensiva (una neonatale) che funzionano grazie alla collaborazione del Policlinico Gemelli di Roma. « Abbiamo anche la clinica mobile », racconta padre Nava, «che va in giro nei villaggi più sperduti per curare le donne in gravidanza e vaccinare i bambini. Nella stagione delle piogge è impossibile muoversi». I numeri dicono l’importanza dell’ospedale dove si svolgono dalle 400 alle 600 visite al giorno, ci sono 500 posti letto per i pazienti (molti dei quali arrivano anche da villaggi distanti mille chilometri) e ogni giorno nascono dai 15 ai 30 bambini. la scheda la scheda Oltre al beato Giuseppe Allamano, il 20 ottobre, nella Giornata missionaria mondiale, papa Francesco canonizza in piazza San Pietro anche la religiosa canadese Marie-Léonie Paradis (1840-1912), fondatrice della Congregazione delle Piccole Suore della Santa Famiglia; la religiosa toscana Elena Guerra (1835-1914), fondatrice della Congregazione delle Oblate del Santo Spirito e gli 11 “martiri di Damasco” , otto frati francescani e i tre laici siriani Francesco, Mooti e Raffaele Massabki, uccisi nel 1860 in una persecuzione contro i cristiani.

Missioni Don Bosco: «In Ucraina siamo militanti per la pace» – Famiglia Cristiana

Si riporta di seguito la notizia apparsa su Famiglia Cristiana.

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«A Leopoli mi ha colpito il cimitero in centro città. Un luogo in cui l’intera comunità può onorare i soldati caduti, ma che è colmo di tombe di giovani. E in città ho visto anche tante persone mutilate dalla guerra».

Queste sono le parole di don Daniel Antúnez, salesiano argentino e presidente di Missioni Don Bosco, che è rientrato da pochi giorni in Italia da un viaggio che lo ha portato a visitare a distanza di alcuni mesi, i progetti dei salesiani in Slovacchia, Polonia e soprattutto in Ucraina.

«Queste missioni sono il segno tangibile: vogliamo essere militanti per la pace in risposta a chi genera guerra e violenza. Le armi e le bombe fanno perdere la dignità umana e non permetto alle persone di riconoscere nell’altro, un fratello».

È potente l’emozione provata da don Antúnez rientrato da Leopoli e Kiev dove Missioni Don Bosco continua a lavorare per portare aiuti e sostengo nel Paese invaso dalla Russia a inizio 2022.

«Dopo il primo soccorso spontaneo con cui abbiamo aperto anche le porte della nostra Casa Madre di Valdocco per ospitare madri con i figli, alcune donne incinte, e pochi uomini lasciati espatriare perché impossibilitati a combattere, oggi occorre assicurarsi dell’efficacia degli aiuti. Noi siamo da oltre due anni operativi nell’organizzazione di mense e nella fornitura di aiuti alimentari ma l’afflusso di beni non deve creare sul posto problemi di stoccaggio e di distribuzione»

spiega don Antúnez. Che aggiunge:

«Nonostante Leopoli sia lontana dai fronti più caldi del conflitto, spesso viene colpita di missili e droni. Anche lì ho avvertito tanta fatica, stanchezza e incertezza su cosa possa succedere non solo domani ma anche oggi stesso».

I salesiani oggi sono un interlocutore diretto per le autorità locali ucraine e per gli sfollati interni della guerra.

«Per questo è potuto nascere un programma immediato di interventi su misura di quanto richiesto dalle comunità – continua il presidente di Missioni Don Bosco -. Come ad esempio, è stato acquistato un furgoncino che i salesiani di Cracovia utilizzano per portare in Ucraina i beni richiesti e per tornare con chi espatria per fuggire. Inoltre, le case sostenute dai salesiani in varie località del Paese come Vynnyky dove abbiamo portato il nostro ex padiglione dell’Expo di Milano e nei Paesi limitrofi sono state convertite in centri per operare i soccorsi, con l’occhio rivolto al “dopo” quando – si spera presto – gli Ucraini potranno tornare a vivere nelle loro città e avranno bisogno di normalità».

Un contributo fondamentale arriva da Vis, l’ong salesiana all’interno della quale operano tanti volontari:

«Abbiamo maturato molta esperienza in zone ad alto rischio come la Siria e il Tigray, dove guerre altrettanto devastanti hanno creato morte e distruzione, e la fuga di milioni di profughi»

fa presente don Antúnez che però si dichiara

«mai davvero pronto davanti all’impressione che desta il dolore delle atrocità legate al combattersi tra uomini. Eppure mi ha colpito la resilienza dei semi di speranza che abbiamo piantato in questi anni. Mi sono emozionato alla visita alla casa-famiglia salesiana di Leopoli, con tanti bambini, la maggior parte dei quali orfani, ma anche della squadra di calcio dei soldati mutilati, la Pokrova calcio che milita nel campionato polacco e la testimonianza di Konstiantyn, il loro capitano, che ha perso la gamba sul fronte e che per sé e per la sua famiglia, cerca nello sport una riabilitazione anche psicologica. E come non citare – ricorda don Daniel – la visita a Mariapolis, un vero e proprio villaggio di container che dà accoglienza, da un anno e mezzo, a circa 950 sfollati, di cui più di 300 minori».

La missione della delegazione salesiana è riuscita a proseguire fino a Kyiv per portare solidarietà alla comunità salesiana che opera in quella zona del Paese.

«Abbiamo raggiunto la capitale e incontrato la piccola comunità salesiana radunata nel santuario di Maria Ausiliatrice nella zona sud est. Qui Missioni Don Bosco ha contribuito alla protezione dei residenti e dei giovani dell’oratorio dai bombardamenti con la costruzione di un rifugio antimissili – spiega don Antúnez  -. Il prossimo progetto che abbiamo riguarda invece l’accessibilità della struttura, dove sono accolte anche persone in condizioni di disabilità fisica e psichica a seguito della guerra. A Kyiv siamo anche riusciti ad incontrare due persone che avevamo ospitato allo scoppio del conflitto a Valdocco e che successivamente erano tornate in Ucraina per stare con le loro famiglie. Erano felici di averci come ospiti a casa loro. Questo incontro mi ha fatto capire nel profondo quando sia importante essere qui, sostenere questa comunità colpita dalla tragedia della guerra, e rimanere in empatia con tutti loro. La nostra vita cristiana ci invita e ci muove a essere vicini a chi soffre, e l’attenzione agli ucraini in questo momento è prioritaria per Missioni Don Bosco. Vogliamo continuare a essere seme di speranza come lo sono le parole del Pontefice che chiede la pace per questo popolo. Se Papa Francesco sarà in condizione di andare in Ucraina di persona, io e tanti altri siamo pronti ad accompagnarlo».

Famiglia Cristiana

“Il sogno che fa sognare”: la lettura critico-storica di don Francesco Motto, Direttore Emerito dell’Istituto Storico Salesiano

Dall’agenzia ANS.

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Un’autentica chiamata di Dio fatta nel 1824 a un bambino e raccontata cinquant’anni dopo, con il linguaggio della maturità, quasi un copione riassuntivo di un’esistenza tutta spesa per le nuove generazioni nel nome di Gesù e di Maria.

Visto da uno storico, il “sogno dei nove anni” di don Giovanni Bosco ha i contorni del fatto vero e la potenza evocativa di una pagina letteraria.

La sera di lunedì 22 gennaio, lo ha spiegato a Torino, presso la Basilica di Maria Ausiliatrice, don Francesco Motto, SDB, Direttore emerito dell’Istituto Storico Salesiano (ISS), e autore di numerosi libri e ricerche.

L’incontro è stato introdotto e concluso dal Rettore della Basilica, don Michele Viviano, ed è stato moderato dal giornalista Alberto Chiara, caporedattore di Famiglia Cristiana.

Don Motto, nella sua relazione puntuale e documentata, ha citato testimoni, scritti e interpretazioni.

“Non si trattò di un sogno unico – ha concluso –: riapparve, con varianti anche significative, vent’anni dopo all’inizio della sua missione sacerdotale (1844) e ancora successivamente, fino al 1887, al momento della celebrazione davanti al quadro di Maria Ausiliatrice nella chiesa del Sacro Cuore a Roma, quando, a pochi mesi dalla morte, scoppiò a piangere vedendo avverarsi le ultime parole della ‘donna di maestoso aspetto’ del sogno: ‘A suo tempo tutto comprenderai’. Si tratta dunque di un complesso di sogni-visioni disseminati lungo la sua vita”.

Di quel sogno, oggi, rimane l’eredità sempre attuale: l’impegno verso i giovani, tutti, ma soprattutto quelli alle prese con difficoltà pratiche, morali o spirituali; il metodo preventivo, tuttora valido, intessuto di “mansuetudine” e di “carità”; e una fede che si trasmette più con l’esempio che con verbosi discorsi.

Per quanti volessero rivivere la serata con don Motto, il video della diretta resta sempre disponibile sul canale YouTube della basilica.

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Da Leopoli a Torino, e adesso anche ritorno – Famiglia Cristiana

Alcune famiglie Ucraine, accolte a Valdocco da Missioni Don Bosco in seguito all’emergenza della guerra in Ucraina, stanno per tornare a casa nelle zone più calme del Paese, ma la situazione rimane disperata. Di seguito l’articolo di Famiglia Cristiana a cura di Giusi Galimberti.

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Prosegue la nostra serie che accompagna il programma su Canale 5 la domenica mattina: sesta tappa, dall’Ucraina a Valdocco in fuga e accolte da Missioni Don Bosco, alcune famiglie Ucraine ora tornano a casa. “Ma solo nelle zone più calme: la situazione è ancora tragica, siamo pronti a tutto”, spiega il salesiano Don Czaban.

Non si può mai parlare di belle notizie quando si tratta di un Paese invaso e in guerra, ma ciò che ci spiegano i missionari salesiani di don Bosco, che da quando è iniziata l’offensiva russa in Ucraina ospitano nella sede torinese diverse famiglie di profughi, è di un certo sollievo: alcuni di loro cominciano anche a ritornare a casa. Abbiamo approfittato di un brevissimo passaggio dalla Casa di Valdocco di don Michajlo Czaban, missionario ucraino di Leopoli, per conoscere meglio la situazione nel suo Paese e comprendere insieme con l’argentino don Daniel Antúnez, presidente di Missioni Don Bosco, come vengono ora organizzate emergenza e accoglienza di chi fugge dai territori invasi.

«Purtroppo, la situazione continua a essere tragica. Dobbiamo prepararci a tempi ancora più duri: non sappiamo quanto a lungo continuerà la guerra e dobbiamo essere pronti a tutto»

dice don Michajlo.

«Ora scappano soprattutto dalle zone calde della guerra, come Kharkiv e il Donbass»,

aggiunge padre Daniel.

«Quelli che prima vivevano in aree che sembrano ora più tranquille, cercano di rientrare. Sanno che se la situazione dovesse aggravarsi anche lì, qui da noi avranno sempre qualcuno ad accoglierli: così ripartono verso l’Ucraina con uno spirito più leggero. In questo momento vivono qui a Valdocco una quarantina di persone, tutte mamme con bambini. Con i vari flussi sono passate da qui circa 80 persone. Sedici ragazzini sono ospiti della scuola. ll primo pensiero di tutti, comunque, è sempre quello di tornare a casa appena possibile. Come li abbiamo aiutati a fuggire dalla guerra, ora aiutiamo alcuni – per ora purtroppo una minoranza – a rientrare in patria. Si sta verificando ai nostri occhi una sorta di controtendenza, ma per molti una casa non c’è più. Chi ce l’ha bombardata o sa che è ancora sotto le bombe, non ha un posto dove tornare. La nostra sfida, ne abbiamo parlato con don Michajlo nella speranza che la pace arrivi pre sto, è pensare proprio al futuro di queste famiglie dopo la guerra».

«Ci sono sei milioni di ucraini fuori dal Paese» , continua don Michajlo con un nodo nella voce.

«A Leopoli abbiamo organizzato un campo che accoglie fino a 300 mila persone in fuga dal fronte. Dalla Polonia sono arrivati centinaia di container, trasformati in case per i profughi: una sorta di cittadella dove il Comune ha fatto arrivare acqua e la luce. L’abbiamo chiamata Piccola Mariupol, in onore di una delle città simbolo di questa guerra».

Nel frattempo anche a Valdocco si è creata una piccola comunità.

«A gestire l’accoglienza nella Casa di Don Bosco siamo solo noi “due Daniel”»,

dice scherzando don Antúnez, riferendosi anche al padre missionario bosniaco don Danijel Vidovic:

«Sono le mamme ucraine che a turno preparano pranzi e cene, riordinano e tengono tutto pulitissimo. Proprio come se fossero a casa loro. E devono sentirsi a casa loro: deve essere così soprattutto per i loro bambini».

 

-Giusi Galimberti

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“Dalla fine del mondo per aiutare i ragazzi”: l’intervista a don Antúnez, presidente di Missioni Don Bosco

Intervista a don Daniel Antúnez, nuovo presidente di Missioni Don Bosco, su Famiglia Cristiana.

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Lo aveva detto di sé stesso papa Francesco, primo sudamericano della storia eletto Pontefice: «Vengo dalla “fin del mundo”». E ci siamo abituati a considerarla così quella terra lontana, l’Argentina, la fine della terra. Arriva proprio dal Finisterre – nato a Buenos Aires, ma missionario per 18 anni in Patagonia, dove le Americhe termina no e si affacciano verso l’Antartide – il nuovo presidente di Missioni Don Bosco, procuratore delle opere salesiane, don Daniel Antúnez. «I primi missionari salesiani arrivarono con una spedizione nel 1875 proprio in Argentina», spiega don Daniel. «Mi sento figlio di quegli italiani che dal Piemonte arrivarono in nave a Buenos Aires per fondare le prime missioni. Instancabili come i salesiani che ho incontrato in oratorio da ragazzo. Mi sembra un regalo immenso di Dio essere qui a Valdocco, nella terra di san Giovanni Bosco, a coordinare gli aiuti che dai nostri benefattori arriveranno ai bimbi e ai ragazzi poveri del mondo». Ci parla in un italiano viziato dallo spagnolo, che ben conosciamo in Bergoglio, e la gioia di chi corona un sogno.

Don Antúnez è diventato salesiano non giovanissimo: «Sono entrato in seminario dopo aver finito gli studi e iniziato a lavorare. Sono stato ordinato a 34 anni, un desiderio che avevo fin da ragazzino». Il neopresidente si racconta, ma soprattutto spiega le sue missioni. Da Buenos Aires si è spostato a operare prima per tredici anni nella Terra del Fuoco e poi per cinque a Santa Cruz.

La Patagonia ce l’ha nel cuore, con la sua natura straordinaria: «Da noi vengono da tutto il mondo per vedere i pinguini, i guanaco, animali simili ai lama, e soprattutto i giganti del mare e del cielo: le balene e gli splendidi albatros. La città dove lavoravo, Ushuaia, è una località dove arrivano tanti turisti, anche per andare a sciare. Ma mentre il centro è elegante, nelle periferie ci sono le capanne di legno e plastica dei poveri, che di inverno (lì fa freddissimo) rischiano di morire di gelo. O peggio per gli incendi provocati da riscaldamenti di fortuna». Attraverso i suoi occhi sembra di essere lì, tra quelle meraviglie natura li tra porti e montagne, ma di ascoltare anche, purtroppo, i gemiti per il freddo degli emarginati. Quelli che per anni don Daniel ha aiutato. Ora per lui si apre una nuova vita. «Sarà una grande sfida. Noi di Missioni Don Bosco siamo solo un mezzo, che mette in contatto il cuore generoso dei benefattori e le persone che hanno bisogno. Sembra incredibile, ma all’alba del 2022 ci sono bimbi e ragazzi che con le loro famiglie non hanno acqua né cibo, né vestiti. Solo dopo aver offerto loro l’indispensabile si può pensare a dotarli di scuole, educazione, preparazione al lavoro. C’è chi non ha nulla, e chi troppo, e la pandemia ha aumentato le disuguaglianze. Ho visto migliaia di persone fare la fila per un piatto alla mensa dei poveri dove ho fatto il cuoco, a Buenos Aires, ma anche gente dormi re per strada nelle vostre città, Torino, Milano… C’è tanto da fare e per quel che posso sono pronto».

 

Famiglia Cristiana – Missioni Don Bosco: Con noi i ragazzi spiccano il volo

Riportiamo di seguito l’intervista a Giampietro Pettenon Presidente di Missioni Don Bosco effettuata da Famiglia Cristiana, dove si spiega l’importanza di educare i giovani nei paesi più poveri.

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di Giusi Galimberti

«Le opere che mi stanno più a cuore sono quelle scolastiche perché, visitando la parte del mondo più povera, mi sono reso conto che la cultura e la formazione professionale sono gli strumenti con i quali noi salesiani possiamo insegnare ai giovani a “pescare”. Non gli diamo solo un pesce per sfamarsi oggi», spiega con una metafora Giampietro Pettenon, presidente di Missioni Don Bosco, Onlus che compie quest’anno 30 anni di attività e che sarà presente nella trasmissione di Rete 4 I viaggi del cuore e anche in questo spazio ormai consueto del nostro giornale. «Credo che il nostro sia uno strumento nelle mani di Dio, per far sì che la solidarietà nei confronti di chi ha veramente bisogno possa incontrare la generosità di chi un aiuto può e vuole darlo», continua. «Raccogliamo fondi in Italia da destinare a progetti di avvio e primo sostegno alle opere. Quando noi salesiani avviamo un progetto puntiamo a fare in modo che questo diventi economicamente autosufficiente. Ma per muovere i primi passi del
servizio educativo e pastorale c’è bisogno di sostegno». Dove siete presenti? «Siamo in 134 Paesi. Alcune sono presenze storiche, fondate dal nostro padre don Bosco, altre recentissime». Da dove partite per fondare una Missione? «I nostri destinatari sono i giovani. Spesso siamo entrati in zone pericolose, cominciando a giocare a pallone per strada. Sono i ragazzi i nostri “ambasciatori” presso gli adulti. La prima cosa che costruiamo è l’oratorio con un cortile per giocare e una cappella. Poi viene la scuola, magari una chiesa per il quartiere o il villaggio. Non siamo colonizzatori: partiamo con poco e rispondiamo via via ai bisogni di ogni realtà. Quando avviamo un’opera non lo facciamo per consegnarla e andarcene. La nostra scelta è di condividere tutta la vita con la gente del posto: gioie e dolori, fatiche, guerre e processi di pace. Come fratelli». L’aspetto più importante per voi è l’educazione.

«”L’educazione è cosa di cuore”, ripeteva don Bosco. Richiede tempi lunghi e prossimità, cioè lo stare sempre a fianco dei ragazzi. Ciò che educa è l’esempio, non le prediche. Per questo avviamo sempre, dove siamo presenti, scuole e centri di formazione. Vogliamo insegnare ai giovani un lavoro, così che diventino adulti responsabili e si formino una famiglia che potranno sostenere. La ricompensa più bella è vederli spiccare il volo e andarsene a testa alta verso il mondo». Come vi sostenete? «Don Bosco ci ha trasmesso un senso profondo del lavoro fatto bene: il nostro è quello educativo. Ma immaginate lo sforzo anche economico di una comunità di consacrati che ogni giorno lavora e mette tutto in comune. Nei confronti dei benefattori cerchiamo di essere più trasparenti possibile. Alcuni donatori sono stati in visita alle Missioni e hanno poi raccontato l’arricchimento personale di questa esperienza, che hanno scelto di fare per vedere con i propri occhi l’avanzamento di progetti che seguono e conoscere da vicino alcune realtà».

Le nuove “generazioni verdi” cresciute all’ombra di Don Bosco

Su Famiglia Cristiana è uscito un articolo che riporta la ricerca “Youth for future” dell’ Istituto universitario salesiano di Venezia e Verona. L’articolo è firmato da Don Marco Sanavio.

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Sono le generazioni Zeta e Alpha, i post millenials e gli iperconnessi, stanno rivelando una sensibilità ambientale molto spiccata che approda spesso a buone abitudini e pratiche trasformative molto concrete. È questo il volto dei giovani italiani rilevato dalla ricerca “Youth for future” dell’ Istituto universitario salesiano di Venezia e Verona (Iusve) realizzata mediante una rilevazione affidata, via Cawi, alla società Demetra di Venezia tra il 25 maggio 2020 e il 30 ottobre 2020 su un campione di 1.821 ragazzi di età compresa tra i 14 e i 18 anni un secondo panel di 1.523 giovani adulti nati tra il 1991 e il 2001.

I risultati sono stati resi noti per la prima volta alla vigilia della festa di Don Bosco, patrono degli educatori. «Questa importante ricerca nazionale sulle rappresentazioni sociali degli adolescenti e dei giovani sulle tematiche ambientali –spiega don Nicola Giacopini, direttore dello Iusve – si inserisce all’ interno di una serie di eventi, di progetti, di pratiche trasformative per far crescere una cultura e una società sostenibile ed inclusiva». L’ indagine, infatti, si inserisce all’ interno de un progetto triennale “Ecologia integrale e nuovi stili di vita” che ha visto l’ ateneo veneto concentrarsi per il primo anno sul rilevare l’ esistente, prendendo come azione guida il “vedere”.

Nove giovani su dieci, per quanto riguarda entrambi i campioni, fanno attenzione alla raccolta differenziata e spengono la luce uscendo da una stanza ma sono anche attenti a non sprecare cibo, acqua e a riutilizzare i materiali. Se i giovani adulti utilizzano spesso l’ auto per gli spostamenti (36,8%), i ragazzi di età compresa tra i 14 e i 18 anni camminano volentieri (23,7%) o si spostano con autobus (15,1%) e treni (3,0%). La tv rimane il canale principale di informazione sui temi ambientali per i più piccoli (30,7%), mentre i loro fratelli maggiori attingono a siti internet diversi da quelli dei quotidiani (40,9%) e pongono in secondo piano le informazioni derivati dai social network (14,1%).

Il consumo di frutta e verdura prevale su quello di pasta e carne, mentre gli adolescenti del Nordest si rivelano tra i meno propensi a scegliere cibo biologico con una percentuale che si scosta quasi di venti punti dal reto della Penisola. «L’ indagine evidenzia tante luci, ma anche qualche ombra – spiega Davide Girardi, docente di sociologia allo Iusve che insieme alla docente di psicologia Anna Pileri ha progettato la ricerca – tra le prime, emerge chiaramente il potenziale ecologico dei giovani italiani, soprattutto di quelli che frequentano ancora la scuola. Così come la fiducia nel ruolo dei cittadini per affrontare efficacemente le questioni ambientali. Si stagliano però anche le preoccupazioni per il futuro, o il timore che molte persone non siano effettivamente interessate ai temi che riguardano l’ ecosistema».

“Youth for future” rappresenta, infatti, un importante segnale indicatore per il Paese, un invito a non dispendere il potenziale che le giovani generazioni possono rappresentare per la cura della casa comune. Una responsabilità che lo Iusve ha scelto di assumersi con notevole impegno, come conferma il suo direttore, don Nicola Giacopini: «Come Università abbiamo fatto nostro e accolto l’ accorato appello di Papa Francesco rivolto a tutto il mondo con l’ enciclica Laudato si’ , a custodire e prendersi cura della nostra casa comune, la terra. Il primo passo scientifico per rispondere alla sfida ambientale è rilevare, dare ascolto, vedere e capire in profondità le conoscenze, le opinioni, ma anche gli atteggiamenti e le pratiche quotidiane in particolare degli adolescenti e dei giovani, veri apripista e portavoce sociali. Solo così si potranno poi fornire interpretazioni, valutazioni e attivare percorsi e pratiche trasformative comuni».

Il sito di Famiglia Cristiana

Festa di Don Bosco, due interviste al Rettor Maggiore: “Speranza e attualità del messaggio di Don Bosco”

In occasione della festa di San Giovanni Bosco, La Voce e il Tempo e Famiglia Cristiana hanno intervistato il Rettor Maggiore dei Salesiani, don Ángel Fernández Artime.

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Don Bosco, speranza nella pandemia

Per una felice coincidenza la festa liturgica di don Bosco, il 31 gennaio, quest’anno cade di domenica. Per la famiglia salesiana e per quanti sono devoti a don Bosco, ma non possono recarsi in chiesa per motivi di salute, sono due le possibilità per seguire in Tv le Messe dove verrà ricordato particolarmente il santo dei giovani: dalla Basilica di Maria Ausiliatrice, alle 9.30 dove presiede l’Arcivescovo Cesare Nosiglia (in diretta su Rete 7 (canale 12 del Digitale terrestre) e alle 10.55 su Rai Uno dalla basilica del Sa- cro Cuore di Gesù a Roma. Presiede il Rettor Maggiore dei salesiani, don Ángel Fernández Artime, che abbiamo raggiunto al telefono all’indomani della chiusura della 39a edizione delle Giornate di Spiritualità della Famiglia Salesiana, celebrate dal 15 al 17 gennaio scorso e che hanno preceduto la novena di don Bosco che termina sabato 30.

Tema delle Giornate, a cui è intervenuto anche il vescovo di Pinerolo mons. Derio Olivero, il messaggio della Strenna per il 2021: «Mossi dalla speranza: ‘Ecco, io faccio nuove tutte le cose’ (Ap 21,5)». «Una prima testimonianza di speranza delle Giornate è stata la possibilità – mai accaduta prima – di far partecipare e incontrare migliaia di persone che condividono il carisma di don Bosco», evidenzia il Rettor Maggiore. «La crisi causata dalla Pandemia si è trasformata, grazie alla creatività delle nostre opere che stanno portando avanti molte iniziative on line, in un’opportunità d’incontro e comunione utilizzando le moderne tecnologie: sono convinto che don Bosco, che è stato un missionario, oggi utilizzerebbe il web per fare arrivare in tutto il mondo il messaggio di Gesù. Questo non per farci pubblicità ma per parlare del bene che fanno i cristiani perché il male si tramette da solo…Non tut- to è negativo nella rete se la mettiamo a servizio dell’uomo: lo abbiamo sperimentato anche nei giorni scorsi, annunciando in tutte le nostre opere la Strenna 2021 dalla casa generalizia della Figlie di Maria Ausiliatrice, raggiungendo 198 mila persone fino all’Oceania».

Così anche la Messa di domenica in diretta su Rai 1, animata dal coro del Movimento giovanile salesiano dell’Italia Centrale…

Certamente è un grande regalo per la famiglia sale- siana e per coloro che non possono recarsi in chiesa. Tutti noi, soprattutto in questo tempo incerto, abbiamo bisogno di speranza, soprattutto coloro che sono nella malattia, nella povertà, nella solitudine che la Pandemia accentua ancora di più. Per questo la Strenna di quest’anno ha come tema, in un momento in cui c’è tanta sofferenza, quello del dovere della speranza di fronte ad una realtà mondiale che ci interpella e che non possiamo ignorare.

Cosa state facendo come Famiglia salesiana per essere segno di speranza nei 132 paesi dei 5 continenti in cui sono presenti le vostre opere?

C’è come già dicevo, la straordinaria creatività che – come abbiamo visto durante le Giornate di Spiritualità in cui si sono raggiunte oltre 100 mila persone mediante i collegamenti social – si sta mettendo in campo nelle nostre opere per arrivare alla gente e a tutte le famiglie. Ma non basta: oltre alla vicinanza spirituale e ‘virtuale’, come figli e figlie di don Bosco, siamo chiamati ad essere buoni cittadini e rispettare le regole anticontagio ma anche buoni cristiani e, dove c’è bisogno di aiuto, a non rinchiuderci in casa ma a stare vicini in sicurezza a chi è in difficoltà. E così stiamo facendo nelle nostre opere, laddove incombe la guerra o qui a Roma, come nella nostra parrocchia del Sacro Cuore, dove la sera i giovani portano cibo, coperte e conforto a chi non ha un tetto per dormire. Una spinta alla solidarietà, come abbiamo sentito dalle testimonianze dal mondo nelle Giornate di Spiritualità, che in questi mesi di emergenza Covid si è tradotta anche nella raccolta nelle nostre opere di ben 9 milioni di euro che invieremo nelle nostre missioni in 68 nazioni per finanziare 120 microprogetti per i giovani e le famiglie perché non manchi tutto a coloro a cui già manca tanto.

Cosa ci sta insegnando l’emergenza Coronavirus?

Questa pandemia che sta affliggendo la nostra umanità finirà, ma ci sono altre Pandemie croniche che come cristiani abbiamo il dovere di contribuire ad estirpare: le guerre, le mafie, la fame, gli abusi, la povertà che sta disumanizzando chi è costretto ad immigrare per dare futuro ai propri figli e viene torturato o muore al gelo, la disoccupazione giovanile… Ecco il nostro compito laddove come Famiglia salesiana siamo chiamati ad essere presenti: dare speranza e lavorare per la giustizia per ‘dare di più a chi ha avuto di meno’, come ci ha raccomandato don Bosco e come ci richiama Papa Francesco.

Marina LOMUNNO

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Ecco, invece, un estratto dell’intervista rilasciata dal Rettor Maggiore a Famiglia Cristiana, da oggi in edicola.

di Annachiara Valle

Perché Don Bosco è sempre attuale

Le attività cambiano, ma non cambia il modo di proseguire la missione educativa ed evangelizzatrice della famiglia di don Bosco». Don Angel Fernandez Artime, rettor maggiore dei Salesiani, ricorda il carisma della Congregazione. In questo tempo segnato dalla pandemia, in cui a soffrire sono soprattutto i giovani, i religiosi hanno continuato a stare accanto ai ragazzi. Per rispondere al loro disagio.

Come avete rimodulato la vostra offerta formativa?
«Certamente il nostro marchio d’identità sono i giovani, la loro educazione, la formazione dei bambini, degli adolescenti. Tutto il resto, oratori, scuole, licei o centri di formazione professionale, case di accoglienza per i ragazzi immigrati, parrocchie, centri
giovanili, istituzioni universitarie sono mezzi finalizzati a un unico scopo: preparare le giovani generazioni alla vita. Il nostro metodo educativo continua a essere quello di don Bosco: il sistema preventivo, che è molto più di una pedagogia».

In che senso?
«È un modo di educare, di avvicinarsi a ogni persona; un modo di relazionarsi, di dare priorità alla persona stando vicino ai ragazzi. È ascolto, è relazione, è gioia, è gioco (anche), è spirito di famiglia, è sentire, sperimentare e sapere di essere amati attraverso una presenza che accompagna, educa e prepara alla vita. Ecco perché la pandemia è solo una circostanza, dolorosa, pesante, che lascia così tanto dolore sulla sua scia, ma è solo una realtà con la quale continuiamo a vivere ma che non può impedire di portare avanti la nostra missione. Per questo continuiamo la nostra missione educativa con le oltre 350 mila persone che compongono i 32 gruppi o rami di questo grande albero, i primi quattro dei quali sono stati fondati direttamente da don Bosco: i Salesiani di don Bosco, le Figlie di Maria Ausiliatrice, i Salesiani cooperatori (laici nel mondo) e l’Associazione dei devoti di Maria Ausiliatrice».

Come raggiungere oggi i giovani?
«C’è chi pensa che i giovani di oggi siano più difficili di quelli di altri tempi e che raggiungerli, creando legami che possano aiutarli a fare un percorso di maturazione e crescita nella vita, sia qualcosa di molto difficile o impossibile. Non sono d’accordo con questa visione. Forse il problema è dato dal 4 4 nostro sguardo, dalle nostre paure di adulti, di educatori che pensano più a quello che vogliono offrire, partendo da posizioni sicure e consolidate nel corso degli anni, piuttosto che essere permanentemente aperti al dialogo con tutto ciò che ci sfida. Oggi non si può essere educatori né evangelizzatori credendo che tutto ciò che “si ha” e “si sa” è ciò che gli altri devono accettare; e che, se questo non avviene, sono gli altri a sbagliare e quindi non hanno nulla da fare “con noi” Oggi più che mai gli educatori in generale, ma anche gli educatori cristiani, i genitori e gli evangelizzatori devono avere la volontà di ascoltare, di accogliere ogni persona, ogni giovane nel luogo e nella situazione in cui si trova, e non dove vogliamo che egli sia. È necessario trovare punti di incontro per un autentico ascolto. Soprattutto, dobbiamo testimoniare con le nostre convinzioni e il nostro stile di vita che crediamo veramente in ciò che diciamo. Mi sembra che oggi i giovani siano molto più colpiti dalle testimonianze che dalle parole. Pensiamo, per esempio, a papa Francesco e alla grande
accoglienza della sua persona da parte dei giovani del mondo. Certamente le sue parole esprimono molta forza, ma la sua semplicità e la sua coerenza comunicano molto di più. E sorprendentemente molti altri, che sono ben inseriti in quella che credono essere la loro “verità”, ne restano profondamente turbati. Tuttavia, mi sembra che questa prossimità e questa testimonianza sia un modo molto attuale di raggiungere efficacemente i giovani».

I “catechisti” Rosmini e Don Bosco, un’accoppiata vincente – Famiglia Cristiana

Alla vigilia della festa del 31 gennaio, “Famiglia Cristiana” pubblica la storia dell’ incontro tra il Santo dei giovani e l’Abate riformatore avvenuto nel 1846 così come ci viene consegnata dalle “Memorie biografiche” del sacerdote torinese, redatte da Giovanni Battista Lemoyne. Di seguito l’articolo pubblicato il 22 gennaio 2021 su “Famiglia Cristiana“, a cura di Antonio Tarallo.

Le vite degli uomini santi si incrociano spesso. E così è stato nel 1800 per due uomini che hanno rappresentato la Chiesa del Piemonte: don Giovanni Bosco e il filosofo Antonio Rosmini. Due menti, due cuori, due biografie del tutto – e in molto – assai differenti. Hanno animato il dibattito ecclesiale di un’epoca complessa e – al contempo – ricca: sono anni difficili che precedono l’ unità d’ Italia.  La forte tempra spirituale di Rosmini si consumava nei dibattiti politico-culturali, nella missione diplomatica romana, vicino a papa Mastai Ferretti, Pio IX, e nello studio “matto e disperatissimo” (come scriverebbe Leopardi) della dottrina cristiana.  Don Bosco, invece, sacerdote “di strada” era sempre alla ricerca dei mezzi materiali per aiutare concretamente i suoi ragazzi “pericolanti e pericolosi”.

Il santo sacerdote torinese, di diciotto anni più giovane del fine letterato, durante la sua missione, si rivolse a lui in più occasioni per poter chiedere aiuti economici per la sua opera.  Ma prima di tutto ciò, vi è un episodio assai particolare: un incontro che avvenne sul “campo dell’ educazione”, potremmo dire. Educare, verbo fondamentale per entrambi: chi in un modo, chi in un altro, entrambe le figure erano dedite a questo ideale di “formazione”. L’ uno, Don Bosco, aveva a cuore le anime dei ragazzi; l’ altro, il Rosmini, le menti degli italiani. Eppure avvenne un giorno in cui i due cooperano assieme per il catechismo dei “poveri e abbandonati” ragazzi.

Oratorio di San Francesco di Sales, in Valdocco, a Torino. Siamo nel 1846. Mentre Don Bosco è intento a fare catechismo ai suoi ragazzi “ebbe la visita di due rinomatissimi sacerdoti forestieri”, così viene descritta la scena nelle “Memorie biografiche di Don Giovanni Bosco” raccolte dal sacerdote salesiano Giovanni Battista Lemoyne (1904). Lasciamoci, allora, avvolgere da questo avvincente racconto: «Trovandosi in Torino, si presentarono all’Oratorio per fare conoscenza con Don Bosco. Erano circa le ore due. I giovani stavano allogandosi, e Don Bosco vedendovi mancare parecchi catechisti si torturava il capo per improvvisarne e disporre le classi, quando i due Ecclesiastici accostatisi a lui, mostrarono vaghezza di parlargli. – Vi è questo signor Abate, disse uno dei due accennando al compagno, ed io pure, che desideriamo di visitare il suo Oratorio e di osservare il metodo che la S. V. vi tiene. – Troppo volentieri, rispose Don Bosco, io farò loro visitare l’Oratorio in tutte le sue particolarità; ma piuttosto dopo le funzioni: ora, come vedono, sono qui tutto occupato tra queste centinaia di giovani. Ma è Iddio che in questo momento li ha mandati. Abbiano la bontà di aiutarmi a fare il Catechismo e poi parleremo a nostro bell’agio. Ella, soggiunse ad un di essi che gli sembrava di maggiore autorità, vorrebbe favorire di fare il catechismo alla classe che è nel coro dove sono i più grandicelli? – Ben volentieri! rispose quel sacerdote. – Ella, proseguì Don  Bosco rivolgendosi al secondo, avrà in presbiterio la classe d’i più dissipati! Anche il secondo religioso aderì all’invito colla miglior voglia del mondo».

Il silenzio dei ragazzi alla spiegazione di quel sacerdote, sorprese immensamente don Bosco che si era posto in un luogo “donde poteva udire colui che catechizzava in coro, l’udì parlare della fede con esempi e paragoni. – La fede, diceva, si aggira intorno a quelle cose che non si vedono; delle cose che noi vediamo, non si dice: “Io le credo”; le cose che noi vediamo, le giudichiamo: si credono invece le cose che non sono a noi sensibilmente presenti”. Il giovane sacerdote torinese aveva trovato un catechista perfetto: un oratore che riusciva a parlare – con semplicità – del mistero di Dio. Questo catechista aveva un nome: Antonio Rosmini.

Famiglia Cristiana

“I giovani sono sismografi e sentinelle del loro tempo”: Famiglia Cristiana intervista don Rossano Sala

Pubblichiamo l’intervista di Famiglia Cristiana a don Rossano Sala, autore del libro “Intorno al fuoco vivo del Sinodo” (Elledici), di cui è stato segretario speciale. L’articolo è a firma di Antonio Sanfrancesco.

“I giovani sono sismografi e sentinelle del loro tempo. E oggi siamo di fronte ad un grande passaggio ecclesiale che ci sta portando verso una “fede di convinzione”. Non si tratta di trovare responsabili o di incolpare qualcuno, ma di entrare con fiducia e coraggio in una nuova epoca”.

Don Rossano Sala, salesiano, docente di Teologia Pastorale e pastorale giovanile alla Pontificia Università Salesiana di Roma, ha racconto nel libro Intorno al fuoco vivo del Sinodo (Elledici, pp. 608, con un invito alla lettura di papa Francesco), uscito di recente, la sua esperienza di segretario speciale del Sinodo dei giovani del 2018.

È ancora vivo quel fuoco? E come si trasmette?
«Utilizzo due immagini evangeliche per rispondere. La prima è quella del fuoco, che rimanda alla parola di Gesù quando dice di “essere venuto a portare il fuoco sulla terra”. Il Sinodo ha cercato di riaccendere nel cuore della Chiesa questo affetto profondo per le giovani generazioni. Questo fuoco si trasmette nel momento in cui lo si è ricevuto da Dio, in quanto l’ evangelizzazione è l’ irradiazione della rivelazione di Dio. E c’ è un unico modo per irradiare: essere luminosi! L’ altra immagine è quella del seminatore perché il Sinodo è stato una grande semina. Nella parabola si vede molto bene che il seminatore è molto generoso, perché semina dappertutto, e disinteressato, perché affida con fiducia il seme alla terra. Fuor di metafora, il Sinodo è ora affidato alle chiese locali, alle diocesi. Tocca a loro far germogliare e fruttificare i tanti semi che sono stati gettati».

Lei ha affrontato il tema del Sinodo, e dei suoi frutti, con lo “schema” delle costellazioni. Perché?
«Penso alla pastorale giovanile come un “campo di ricerca e di azione” piuttosto che a una disciplina specifica o a un’ azione puntuale. Le costellazioni sono un’ immagine bella per dire questo, perché hanno una loro singolarità, ma insieme formano un unico cielo stellato. Ne ho identificate cinque: la prima legata ai nostri modelli teologici e antropologici; la seconda ruota intorno ai temi dell’ accompagnamento, dell’ annuncio e del discernimento vocazionale; la quarta approfondisce i temi dell’ educazione, della scuola e dell’ università; la quinta è più direttamente “salesiana”, perché si riferisce a don Bosco, all’ oratorio e alla famiglia. La terza, “Giovani, Chiesa e Sinodo”, sta al centro del libro, perché lì ci stanno gli otto contributi più specifici che vengono dal percorso sinodale».

Scarsa frequenza, disaffezione, pochi sacramenti. Perché alla Chiesa di oggi mancano i giovani? Di chi è la responsabilità?
«I giovani sono sismografi e sentinelle del loro tempo. Sono i più sensibili ai cambiamenti d’ epoca. E oggi siamo di fronte ad un grande passaggio ecclesiale che ci sta portando da una “fede di tradizione” verso una “fede di convinzione”. Non si tratta di trovare responsabili o di incolpare qualcuno, ma di entrare con fiducia e coraggio in una nuova epoca della vita di fede. Nel 1969 il giovane teologo Joseph Ratzinger affermava profeticamente che la Chiesa del futuro “diventerà più piccola, dovrà ricominciare tutto da capo. Essa non potrà più riempire molti degli edifici che aveva eretto nel periodo della congiuntura alta. Essa, oltre che perdere degli aderenti numericamente, perderà anche molti dei suoi privilegi nella società. Essa si presenterà in modo molto più accentuato di un tempo come la comunità della libera volontà, cui si può accedere solo per il tramite di una decisione”. Ecco cosa sta avvenendo: dobbiamo farcene una ragione ed entrare nel migliore dei modi in questo nuovo scenario».

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