Ciò che rende credibile un educatore

Dalla newsletter di Marzo di NPG.

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di Ernesto Diaco

È trascorso un intero secolo da quando, negli anni Venti del Novecento, Romano Guardini assumeva la guida del movimento giovanile Quickborn (fonte viva), facendo del castello di Rothenfels sul Meno, nel centro della Germania, un laboratorio di sperimentazione pedagogica, liturgica e artistica. Nonostante la distanza che ci separa da allora, il pensiero educativo maturato in quegli anni dal giovane teologo, a stretto contatto con la vita dei giovani e con i fermenti che animavano l’Europa del primo dopoguerra, resta di avvincente attualità.
Sono del 1928, ad esempio, le sei introduzioni preparate per un raduno di educatori e insegnanti a Rothenfels, raccolte e pubblicate in italiano con il titolo La credibilità dell’educatore[1]. Si tratta di riflessioni poste in apertura dei lavori quotidiani, dedicati a “percorsi e mete” del compito educativo. Il taglio è semplice e colloquiale, ma la proposta si indirizza decisa verso gli aspetti più essenziali e profondi.
Chiunque voglia educare – esordisce Guardini – si trova a fare i conti abbastanza presto con un interrogativo: da dove gli viene la possibilità (e il diritto) di educare un’altra persona? Come si può cercare di orientare qualcuno verso la sua realizzazione? Certo non basta riconoscersi ‘già educati’ per assumere una responsabilità nella crescita altrui: un uomo che pensasse così “non avrebbe compreso che noi non possiamo mai considerarci ‘a posto’, ma cresciamo e diveniamo continuamente. Sarebbe più giusta un’altra risposta: perché io stesso lotto per essere educato. Questa lotta mi conferisce credibilità come educatore; per il fatto che lo sguardo medesimo che si volge all’altra persona insieme è rivolto anche su di me”[2].
È la cura di sé, senza trascurare nessuno degli aspetti che compongono la propria personalità, che permette di potersi prendere cura anche di altri. Poiché educare significa aiutare una persona a “conquistare la libertà sua propria”, non basta avvalersi di discorsi, stimoli o “metodi d’ogni genere”. “La vita – spiega Guardini – viene destata e accesa solo dalla vita. La più potente ‘forza di educazione’ consiste nel fatto che io stesso in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere… È proprio il fatto che io lotti per migliorarmi ciò che dà credibilità alla mia sollecitudine pedagogica per l’altro… Siamo credibili solo nella misura in cui ci rendiamo conto che un’identica verifica etica attende me, e colui che deve essere educato. Innanzitutto, vogliamo entrambi diventare ciò che dobbiamo essere”[3].

Una sana inquietudine

Alla base dell’opera educativa – e non solo all’inizio, ma lungo tutta la sua durata – sta dunque una sana inquietudine, che consente di non sentirsi mai ‘arrivati’ senza per questo cadere preda del senso di incapacità e di insoddisfazione. Il fatto di riconoscersi “figure incompiute, soltanto abbozzate”, paradossalmente, è una risorsa necessaria ed efficace per l’educatore, che può avvicinarsi agli altri in maniera dignitosa e affidabile solo se sinceramente convinto di dover (e poter) in primo luogo educare se stesso. Due sono i pericoli che possono minacciare tale atteggiamento costruttivo: la presunzione di credersi infallibili e la disperazione di chi, davanti alle cadute e agli insuccessi, getta la spugna e rinuncia a educare.
Ma questo lavoro su se stesso come avviene? In primo luogo – risponde Guardini – serve il “dono del discernimento” di ciò che si muove nel nostro intimo. Dentro di noi convivono bene e male; vanno portati in superficie, nella lucidità della coscienza.
Vi è poi una seconda via, che egli definisce “esercizio”. Si tratta di scegliere ciò che porta la vita fuori dal caos e le dà ordine, inscrivendolo gradualmente “nelle fibre vive del nostro essere. Allora, l’esercizio ha raggiunto il suo scopo: la virtù. Virtù è ciò in cui ‘valgo’; in cui sono ‘attivo’ e ‘uno’ con me stesso”[4].
Questa unità interiore è frutto di un’opera paziente e costante che conduce al possesso di sé, in un piano profondo dell’esistenza, dove verità e amore coincidono. Educazione, dirà più avanti, “significa rafforzare tutto ciò che ha influsso benefico sulla persona e combattere ciò che è causa della sua distruzione”[5]. L’educatore credibile è quello che non attende i giovani al termine della strada che ha loro indicato, ma colui che la percorre con loro.

Conoscere e accettare se stessi

Se c’è un’esperienza che l’educatore non tarda a fare è quella dei propri limiti. Senza ingrandirli oltre misura – potrebbe essere una comoda via di fuga – occorre essere sinceri con se stessi e con gli altri, così che il proprio volto, il volto dell’educatore, non finisca per ridursi a una maschera. Accettare se stessi è l’unico modo per “rimanere” nelle relazioni educative anche quando si fanno particolarmente difficili ed esigenti. Senza uno spazio in cui stare bene con se stessi, non è possibile alcun rapporto autentico con gli altri.
Conoscere e accettare se stessi è un cammino lungo e difficile. Romano Guardini – in un altro scritto debitore agli anni del Quickborn – lo paragona al viaggio di Dante nell’oltretomba, che egli considera un’opera interiore e spirituale, dunque educativa, oltre che letteraria. Un percorso in cui “al viaggiatore viene rivelato il mistero di Cristo, attraverso il quale la nostra essenza umana viene accolta nell’esistenza del Figlio di Dio. Egli allora non solo comprende ciò che sta al di là d’ogni realtà terrena, bensì anche se stesso”[6].
Per il teologo italo-tedesco, una persona non può comprendere se stessa solo a partire da sé. Agli interrogativi sulla propria identità ed esistenza, non si può dare risposta prendendo le mosse dalla propria natura. Risposta ad essi la dà solo Dio. La via puramente etica o psicologica non bastano: per accettare davvero se stessi occorre entrare nel campo della fede, dove cogliamo che “l’uomo non viene dalla natura, bensì dalla conoscenza e dall’amore, il che però significa dalla responsabilità del Dio vivente”[7]. Scoprire di essere dati a noi stessi porta a guadagnare il rispetto di sé, perché “Dio ha questo rispetto”[8].
In questo movimento, conoscersi e accettarsi stanno in un rapporto di stretta reciprocità: l’una cosa presuppone l’altra. Ed entrambi sono possibili unicamente nell’amore. “C’è sapere solo dove c’è amore”. L’uomo si conosce e si accetta “solo in quella magnanimità e libertà che si chiama amore. Ma l’amore ha inizio in Dio: nel fatto ch’Egli mi ama e che io divengo capace d’amarlo; e che Gli sono grato per il suo primo dono che m’ha fatto, ossia: me stesso”[9].

* Direttore dell’Ufficio Nazionale per l’educazione, la scuola e l’università della CEI e responsabile del Servizio Nazionale per l’insegnamento della religione cattolica della CEI.

NOTE

[1] R. Guardini, La credibilità dell’educatore, in Id., Persona e Libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, La Scuola, Brescia 1987, pp. 221-236.
[2] Ivi, p. 222.
[3] Ivi, pp. 222-223.
[4] Ivi, p. 228.
[5] Ivi, p. 235.
[6] R. Guardini, Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia 1992, p. 29.
[7] Ivi, p. 24.
[8] Ivi, p. 25.
[9] Ivi, p. 30.

L’antico e il nuovo nella vita cristiana

Dal numero di marzo di Note di Pastorale Giovanile, la rubrica “Pastorale giovanile come apprendistato alla vita cristiana” di Marcello Scarpa.

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Iniziamo in questo numero una rubrica sulla Pastorale giovanile come apprendistato alla vita cristiana. Un tema impegnativo: come evitare il rischio del “già detto”, di ripetere i soliti discorsi teorici, formalmente accurati, ma spesso disincarnati, svincolati dalla realtà? Eppure, ciò rende la sfida ancora più affascinante: non sono forse gli stessi giovani, pur fra luci e ombre, ad aver espresso al Sinodo il desiderio di essere formati, accompagnati, resi protagonisti della vita ecclesiale?[1]
Nell’intraprendere questo cammino, nella scelta del titolo del primo numero della rubrica ci siamo lasciati ispirare dalle parole iniziali della poesia “L’aquilone” di Giovanni Pascoli:

          C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.
Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle querce agita il vento.[2]

Parole familiari, che accompagnano i nostri ricordi scolastici, che richiamano l’odore del gesso sulla lavagna, il sapore di merende in aule affollate, di giochi in cortile, all’aria aperta. Parole con le quali vogliamo accompagnare la nostra riflessione: cosa c’è di nuovo, anzi d’antico, nella formazione alla vita cristiana? In quale “altrove” vivono le nuove generazioni? Quale vento agita le querce secolari della Chiesa, e quali sono le viole che spuntano “nella selva del convento dei cappuccini, tra le foglie morte”, come recitano i versi della poesia di Pascoli?

C’è qualcosa di nuovo oggi nella vita cristiana…

Viviamo in un tempo di rapide trasformazioni culturali, sociali, mediatiche, un «cambiamento d’epoca» che richiede un rinnovamento delle prassi ecclesiali e pastorali, per sottrarle al rischio di cristallizzarsi in forme non più comprensibili agli uomini del nostro tempo. I due anni di pandemia, che hanno segnato la vita delle persone a livello mondiale, hanno fatto maturare nella coscienza collettiva alcune consapevolezze che, riecheggiando le parole di papa Francesco,[3] hanno trovato ampio spazio sui mezzi della comunicazione sociale: “siamo tutti sulla stessa barca”, “viviamo in un mondo dove tutto è connesso”, “nessuno si salva da solo”, sono diventate espressioni comuni, purtroppo confermate dagli imprevedibili e tragici avvenimenti della guerra in Ucraina.
All’interno di questo contesto, anche il cammino della Chiesa si è andato rivestendo di novità: papa Francesco ha aperto la stagione della sinodalità,[4] ovvero ha inaugurato il tempo dell’ascolto reciproco, dell’incontro, del dialogo, della collaborazione. Per rimanere nella metafora della poesia del Pascoli, il vento che agita le querce (= le tradizioni radicate nel tempo) della Chiesa è proprio quello della sinodalità, di cui ampiamente si scrive sulle pagine di questa rivista. Non è questa la sede per ulteriori approfondimenti sul tema; è sufficiente ricordare che l’espressione indica il “camminare insieme” di vescovi, laici, giovani, come un unico popolo di Dio. Purtroppo, dobbiamo riconoscere che per molto tempo nel campo dell’azione evangelizzatrice della Chiesa si è invece camminato per settori o ambiti separati: l’evangelizzazione, il primo annuncio, la catechesi, la pastorale giovanile, hanno viaggiato lungo binari paralleli, dialogando poco fra di loro, il più delle volte ignorandosi reciprocamente.
È invece importante ricordare che lavoriamo tutti, ognuno secondo i propri ruoli e responsabilità, per lo stesso Signore che guida la barca dell’umanità. In un tragitto comune non si tratta di dividersi i compiti e poi agire da soli, ma di mettere insieme le energie valorizzando il contributo di tutti, perché la vita cristiana non è appannaggio di nessuna delle diverse competenze pratiche o dei vari uffici diocesani e parrocchiali, che sono tutti, invece, a servizio del popolo di Dio. Pertanto, è bene che la pastorale giovanile e la catechesi, distinte tra loro ma non del tutto separate,[5] lavorino in sinergia nel contesto della formazione dei giovani. Da un lato la pastorale giovanile non può accontentarsi di fare solo un ottimo servizio educativo, ma deve interrogarsi sull’urgenza dell’evangelizzazione;[6] dall’altro, la catechesi non può limitarsi alla nuda enunciazione dei contenuti di fede, ma deve elaborare percorsi formativi in riferimento alle esperienze di vita dei giovani.[7]

Anzi d’antico…

Siamo nani sulle spalle dei giganti. La celebre frase di Bernardo di Chartres mette in evidenza che qualsiasi opera di rinnovamento non fa mai tabula rasa delle conoscenze ed esperienze maturate nel passato, anzi, ne fa tesoro per svilupparle in maniera più adeguata ai nuovi contesti del presente. Senz’altro con il trascorrere del tempo la formazione cristiana dei giovani, riprendendo l’immagine della poesia di Pascoli, ha lasciato dietro di sé alcune foglie morte. Pensiamo al fallimento del catechismo per i giovani, che aveva come meta finale dell’itinerario in dieci capitoli l’incontro con Gesù: nonostante lo stile narrativo dei discorsi formativi, l’orizzonte di comprensione del testo era quello di trasmettere dei contenuti dal punto di vista antropologico, biblico, kerigmatico, cristologico. Tutto ciò non ha intercettato le dinamiche esperienziali delle nuove generazioni, più sensibili al mettersi in gioco, fin da subito, nella realtà concreta della vita. Infatti, i giovani preferiscono più i “sapori” che i “saperi”, «vogliono toccare con le loro mani, […] si fidano solo della loro esperienza»[8] personale, pertanto questo è il tempo propizio per far “gustare” loro la bellezza della vita cristiana.
Inoltre i giovani, similmente a quanto il poeta G. Pascoli dice di sé, vivono “altrove”. Troppo facilmente siamo portati a dare per scontato che i giovani che frequentano gli ambienti ecclesiali abbiano dimestichezza con il Vangelo e conoscano i nuclei essenziali della fede cristiana. In realtà, come confermano le indagini sociologiche, i giovani evidenziano una povertà della conoscenza dei contenuti di fede «sproporzionata rispetto al tempo passato al catechismo e agli anni di formazione».[9] Si avverte, perciò, l’urgenza di rigenerare la fede e di introdurre alla vita cristiana tanti giovani per i quali i sacramenti dell’iniziazione cristiana sono stati l’addio, e non l’avvio, al cammino di fede.
Ma cosa vuol dire iniziazione cristiana? L’antica prassi del catecumenato, ripristinata dopo il Concilio Vaticano II, si rivolgeva ai convertiti non battezzati e si strutturava come un complesso organico e graduale per iniziare alla fede e alla vita cristiana. Proprio perché si rivolgeva a chi doveva essere introdotto (=iniziato) al cristianesimo, oggi lo stile del catecumenato «può anche ispirare la catechesi di coloro che, pur avendo già ricevuto il dono della grazia battesimale, non ne gustano effettivamente la ricchezza: in questo senso, si parla di ispirazione catecumenale della catechesi o catecumenato post-battesimale o catechesi di iniziazione alla vita cristiana» (DC 61).

 

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Sognatori con le ali di cartapesta

Da Note di Pastorale Giovanile, una nuova rubrica per il 2023: Dicono di sé… dicono di noi. I giovani narrano e si narrano.

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di Virginia Drago

Diceva il Visconte Dimezzato di Calvino: «Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane». Bisognerebbe trovare il coraggio di smentirlo e anche di dargli ragione. Spesso ci si sente incompleti e davvero lo siamo; spesso non è così e saremmo pure capaci di “toccare il cielo con il dito”, se solo ne avessimo la possibilità.
Bisognerebbe partire da un breve e non complesso ragionamento: uno dei punti di ritrovo per noi giovani, il luogo dove passiamo la maggior parte delle nostre giornate, checché se ne dica, è la scuola o l’università. Ore e ore, dietro quei banchi; ore e ore di lezione, esami, verifiche e interrogazioni; ore e ore di emozioni, gioie e delusioni, sogni e passioni condivise. Se volete osservarci, studiarci, o anche ammirarci, basterà entrare in una classe o in un’aula qualsiasi per capire che poi così incompleti non lo siamo, o se lo siamo è perché stiamo cercando una parte mancante, un tassello di quel puzzle enorme – noi stessi – costruito con fatica e determinazione.
Ci sono dei periodi in cui ci si ferma poco a riflettere e pensare, perché presi dal lavoro, dallo studio, dalle scadenze, dal tempo che sembra non bastare mai. Ci sono dei periodi, più o meno lunghi, in cui siamo chiamati a scegliere su come e cosa investire quel tempo che ci è dato. Diventando più grande, ho capito che è la scelta più complicata da fare.
Qualsiasi scelta richiede coraggio e volontà, sacrificio e passione, spesso rinunce difficili, difficilissime; ma sono scelte, e vanno fatte! Allora è da qui, dal momento in cui si inizia a scegliere: se studiare matematica o italiano, se diventar giurista o letterato, se esser fisico o chimico, se lavorare o studiare; se essere felice, arrabbiato, indifferente, se odiare o amare; persino se scegliere o no. Dietro ogni passo fatto c’è una storia intricata e complessa che meriterebbe la scrittura di un romanzo.
Sono tantissime le domande che ci facciamo, le insicurezze che ci portiamo dietro, le soddisfazioni che accumuliamo e conserviamo come punti di ripartenza quando tutto sembra andare storto. Ho spesso sentito parlare di noi giovani come: svogliati, disattenti, poveri di valori, deboli, poco pronti alla società feroce che ci circonda. Ho anche capito che in realtà “l’altro mondo”, quello dei “grandi esperti”, non vada poi meglio: basta aprire le pagine di cronaca di un giornale e tutto viene su a galla, come “tutti i nodi vengono al pettine”.
Mi piace quando qualcuno ha osato, in alcuni contesti, definire noi giovani delle “spugne”. Noi assorbiamo tutto ciò che ci si insegna, e anche ciò che ci manca, e poi diventiamo tutto ciò che ci è stato insegnato o l’opposto. Abbiamo forti spiriti critici, nonostante le critiche dei meno giovani; siamo attenti a qualsiasi movimento, come dei cecchini; cerchiamo di imparare e di sbagliare con le nostre gambe e le nostre menti. Ma abbiamo bisogno, soprattutto quando ci si dice di essere grandi e si pretendono da noi “cose da grandi”, di essere prima accompagnati, sostenuti, incentivati, motivati, anche rimproverati e corretti.
Spesso abbiamo la fortuna di incontrare chi crede in noi, come presente e futuro; altre volte chi non scommetterebbe neanche un euro sulle nostre capacità e potenzialità. E purtroppo, devo dire, che un numero maggiore di persone popolano la seconda categoria. Non bisogna perdersi d’animo, perché anche per l’unica persona che crede o crederà in noi vale la pena continuare ad essere quella rivoluzione che diciamo di voler attuare, quel cambiamento a cui guardiamo, quella speranza che conserviamo.
Siamo sognatori con le ali di cartapesta che si scontrano con la realtà: a volte cadiamo senza perdere l’equilibrio, altre volte l’impatto è così forte da impedirci di rialzarci nell’istante dopo. Abbiamo delle aspirazioni, dei progetti, degli obiettivi da portare a termine, guardiamo sempre in alto. Citando e parafrasando in parte Pirandello: “socchiudendo le palpebre dietro le lenti” pigliamo “tra i peli delle ciglia la luce d’una di quelle stelle, e tra l’occhio e la stella” stabiliamo “il legame d’un sottilissimo filo luminoso, e vi” avviamo “l’anima a passeggiare come” ragnetti “smarriti”. Lo smarrimento, quasi dantesco, tipico di chi, nonostante sia dato per fallito, crede di non esserlo e lavora per dimostrare il contrario.
E forse saremo incompleti alla ricerca della nostra completezza o siamo completi e ci sentiamo il contrario, perché desiderosi di essere migliori ogni giorno di più. Però non additateci come semplici sognatori “con la testa fra le nuvole”, perché ci nutriamo di concretezza, di vita quotidiana, come i più grandi, semplicemente con un pizzico di freschezza che la giovane età ancora ci consente di assaporare.
Dice Alessandro D’Avenia: «Forse ci si sente incompleti e si è soltanto uomini». Sarebbe bello e coraggioso ripartire da qui e riscoprirsi due facce della stessa medaglia: da una parte chi con esperienza e qualche ruga in più, dall’altra chi con la freschezza, il fuoco dentro e la forza di un gigante. Sarebbe bello e coraggioso guardare ad una vita e una società, una nuova società, basata sullo scambio, un do ut des della contemporaneità fatto di crescita, investimento e maturazione reciproca.

 

Quaresima Eco-spirituale 2023

In occasione della Quaresima 2023, la Pastorale Giovanile rinnova la sua proposta di un sussidio per accompagnare nel cammino eco-spirituale di preparazione alla Pasqua. Di seguito i dettagli nella notizia a cura del sito InfoAns.

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Per la Quaresima 2023, il Settore per Pastorale Giovanile rinnova la sua proposta di un sussidio per accompagnare nel CAMMINO ECO-SPIRITUALE di preparazione alla Pasqua. Il percorso inizia il Mercoledì delle Ceneri e termina la Domenica di Pasqua.

A guidare i partecipanti all’iniziativa ci sarà ogni giorno una frase del Vangelo connessa ad un impegno concreto.

Il tema di quest’anno è l’impronta ecologica: il cammino quaresimale aiuterà ad alleggerire la propria impronta ecologica facendo leva sulle proprie relazioni: con Dio, con se stessi, con gli altri e quindi con tutta la Creazione.

I sussidi sono in ITALIANO, INGLESE, SPAGNOLO, FRANCESE, PORTOGHESE E POLACCO e si possono trovare in pdf e in word a questo link.

Buon cammino!” commentano dal Settore per la Pastorale Giovanile.

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Otto regole per viaggiare

Dal sito di NPG, un articolo di approfondimento sul tema del dossier di febbraio “Spiritualità del cammino”.

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di Franco Riva

Vedere è «lasciarsi scuotere», viaggiare è incontrarsi: passeggiare significa «permettere al mondo di entrare dentro noi stessi» (R. Walser, 2006). Del viaggio non si comprende nulla senza il rapporto con l’altro da sé. Non per una prevedibile curiosità nei suoi confronti, ma per lo stordimento che si riceve di contraccolpo quando si prende sul serio il pensiero che il mondo non è fatto a propria immagine e somiglianza.
Per Blanchot il viaggio, «l’esodo, l’esilio, indicano un rapporto positivo con l’esteriorità, e l’esigenza di questo rapporto è un invito a non accontentarsi di ciò che è nostro (ossia del nostro potere di assimilare ogni cosa, identificando e riferendo tutto al nostro Io)» (Blanchot, 1981, p. 168; cfr. Sartre, 1993, p. 89). Troppo comodo perciò accontentarsi di ciò che è nostro, troppo facile, violento, prendere sempre per sé. Si viaggia solo al di là di se stessi.
Essere nati, abitare il mondo, vivere, esistere, è invece un’avventura: un’uscita, un esodo, un esilio, un lasciare – un «naufragio» (cfr. Blumenberg, 2005, pp. 37 ss.). Viaggiare è metafora della vita; vivere è metafora del viaggio. La vita è un esporsi, un «cammino», come scrive Dante all’inizio della Commedia, un errare, una «via» dove bisogna guardarsi bene «dal prendere se stesso per fine» (Buber, 1990, p. 55).
Metafora della vita, il viaggio lo è pure della democrazia. Finché gli uomini continuano a ingurgitare il mondo e a divorarsi a vicenda l’un l’altro nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, nella città non ci sarà mai giustizia (Esiodo, 274-280). L’assimilazione dell’altro ha nomi diversi, ora più morbidi, ora più cruenti, che si rigirano tutti però, come una trottola, sullo stesso punto del prendere per sé: le logiche tenacemente individualistiche del fare esperienze, del crescere, del conoscere saranno poi così diverse dai colonialismi, dagli imperialismi, dalla cultura unica, dalle globalizzazioni del denaro, dai villaggi turistici, dai viaggi di piacere?
Per quanto pubblicizzato come l’avventura più straordinaria che si possa immaginare, non è mai un vero viaggio quello che assimila e che prende per sé, che riduce gli altri a strumento, a occasione per la propria crescita: motivo spesso sfruttato, in apparenza innocuo e benevolo, perfino educativo, si alimenta su uno sfondo opportunistico e perverso.

Prima regola: VIAGGIARE È LASCIARSI INCONTRARE DALL’ALTRO.

Sentire l’altro, la meraviglia

Nel suo andare, Violeta si sente «sempre più affascinata» (Serrano, 2008, p. 215). Nei racconti e nei film di viaggio la fanno sempre da protagonisti lo stupore e la meraviglia. In diversi casi a ragione, per via delle nuove esperienze che si stanno facendo; in altri casi a torto: l’enfasi, la ricerca d’effetto a tutti i costi, nasconde spesso un vuoto. In nome del meraviglioso ci si lascia abbindolare con viaggi dal sapore esotico che tradiscono le attese. Eppure, in bene o in male che sia, senza meraviglia e senza stupore non può esserci viaggio.
Stupore e meraviglia: restituiscono il senso dell’altro in quanto altro, come diverso da me, irriducibile a ciò che sono io, come qualcuno che mi costringe a pensare. Con la meraviglia s’inizia a pensare, a viaggiare, a parlare, di modo che ogni viaggio è un pensiero, ogni pensiero un viaggio: perché nel viaggio si pensa, perché si viaggia senza neppure uscire di casa (cfr. De Maistre, 1999), ma soprattutto perché quando si pensa, e quando si viaggia, niente rimane più come prima.
Il viaggio corre lungo i fili della meraviglia per quello che si vede, per gli incontri che si fanno, per il proprio meravigliarsi. Marco Polo vede in Oriente cose «meravigliose» e «quasi infinite»: sono i paesi e le città che visita, sono ancor più le persone con cui si ferma molto a parlare (Polo, 1954, pp. 3-4). Persone e meraviglia s’intrecciano nel viaggio.
Non c’è viaggio, parola, racconto, senza distacco da sé. Il segreto del viaggio è il suo momento di crisi, di uscita: è l’esperienza di qualcosa che non finisce perché non è più tutto nelle proprie mani. La crisi non segna il viaggio in negativo, quasi fosse un improvviso squilibrio, qualcosa che non doveva succedere, un incidente; come se il mondo prima fosse stato in ordine. Al contrario. Se non succede qualcosa, se non si rischia, non si esce, non possono cominciare né racconti, né viaggi. I racconti di viaggio confermano in pieno la struttura di ogni narrare (cfr. Todorov, 1995, cap. 6): come per Il piccolo principe di Saint-Exupéry, o II volo di notte, il viaggio e il racconto sono possibili grazie al momento di crisi che s’incunea tra la situazione iniziale e quella finale.

Seconda regola: DI FRONTE ALL’ALTRO – NELLA MERAVIGLIA, NELL’INFINITO, NELLA CRISI – STA LA VERA PARTENZA DI UN VIAGGIO.

Stare in viaggio

Nella meraviglia l’infinito si presenta come un distrarsi da sé, un viaggio. Non è il movimento circolare di andata e ritorno, un uscire e un rientrare da casa per sbrigare le faccende di ogni giorno; e nemmeno i nostri esodi forzati del tempo libero, da weekend, da vacanze estive, che ricalcano l’identico schema.
On the road, per strada. L’incontro con l’altro non ha termine, e ci lascia sempre con un sentimento struggente che spiazza luoghi e tempi, e il senso stesso di ciò che è proprio. Crescono allora desideri e pensieri strani, che il nostalgico Ulisse forse non conosce: di non tornare più al punto di partenza, che viaggiare sia lo stesso stare in viaggio. Al «mito di Ulisse che ritorna a Itaca», Lévinas contrappone perciò «la storia di Abramo, che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora sconosciuta» (Lévinas, 1979, p. 30). Come Abramo appunto, che parte sapendo di non tornare, come la liberazione dall’Egitto, come l’impegno per una causa giusta o una cosa bella, che rapisce. Per quanto, di fronte alle difficoltà, è facile lasciarsi andare al rimpianto per non essere rimasti tranquilli in qualche Egitto, in qualche «casa di schiavitù», ma almeno con la «pancia piena» – vale a dire con l’illusione di qualche sicurezza, naturalmente garantita dal tiranno di turno (cfr. Walzer, 2004, p. 35 ss.). Si vive così, tra Ulisse (Joyce, 2008) e Abramo (Lévinas, 1979; Derrida, 2005; Id., 1967, p. 228).
Per il viaggio tutto allora si complica. Quando inizia il viaggio, con la mia iniziativa o con il fatto di trovarmi di fronte all’altro? Dove arriva il mio andare, dove invece il rispondere a una chiamata che proviene dall’altro e che trasforma impercettibilmente il proprio muoversi in un lasciarsi portare? Qual è la prima parola, l’io o il tu, come suggeriscono Nietzsche e Buber?

Terza regola: VIAGGIARE È STARE IN VIAGGIO.

Senza pentimenti. I viaggi dell’Occidente

Ci sono dei viaggi che non lo sono per davvero perché si viaggia senza staccarsi da sé, senza incontrare l’altro. Il viaggio della conferma di sé trasforma tutto in una colonia: della propria patria, dei propri interessi, dei propri piaceri, delle proprie sensazioni; e sono scenari che si replicano di continuo. Il viaggio non-viaggio è sempre, in qualche modo, di conquista o di guerra.
Dopo che l’Occidente ha circumnavigato – e forse occupato – il globo terrestre non è difficile accorgersi, come tornando al punto di partenza, di cosa stanno diventando i viaggi nella stagione in cui niente più del viaggiare sembra caratterizzarlo. I viaggi dell’Occidente sono sempre più dei viaggi senza l’altro: standardizzati, militarizzati, resi virtuali.
Sulla scena mondiale della globalizzazione il viaggio si trova al tempo stesso, e per le identiche ragioni, potenziato e avvilito: enormemente facilitato dai meccanismi globali di unificazione politica, economica, tecnologica, culturale e linguistica, è ostacolato proprio dall’uniformità eccessiva di luoghi e culture, che lo declassano a un semplice spostamento tra il centro e la periferia dell’unica metropoli mondiale (Riva, 2009, pp. 17-60). Il ritorno allo spostamento giornaliero, da pendolari del globo, fa perdere al viaggio l’incontro con l’altro. Così diffuso, così mercificato, si riduce a un oggetto di consumo, a un prodotto industriale, fino al punto che il consumo stesso diventa, come nel caso dello shopping dislocato altrove o dei turismi sessuali, l’unico motivo del viaggio. Il consumo divora anche il viaggio.
I viaggi dell’Occidente sono sempre più militarizzati. Nell’era del viaggio generalizzato risorgono frontiere e dogane: magari meno percepibili di quelle di un tempo, contenute nell’esibizione dell’intimo ai controlli degli aeroporti, ma pur sempre frontiere e dogane, posti di blocco. Solo in nome della sicurezza? Le procedure d’identificazione del viaggiatore hanno perso il loro carattere rituale e d’incontro (cfr. Leed, 2007; Canestrini, 2004), per farsi indagine poliziesca e interrogatorio, radiografie oscene. Dall’altra parte ci sono i viaggi degli immigrati, che militarizzati rimangono nella vecchia maniera delle sentinelle armate e dei fili spinati. Ci sono pure i viaggi degli eserciti.
Viaggi, in generale, dove forse non c’è più nessuno da incontrare. Fine stessa di ogni viaggiare.

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Germania – Delegati di Pastorale Giovanile d’Europa: riflessione condivisa e lavoro comune

Dall’agenzia ANS.

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(ANS – Monaco) – Dal 7 al 10 febbraio, i Delegati ispettoriali per la Pastorale Giovanile d’Europa si sono riuniti per una riflessione comune e un lavoro congiunto. Dopo l’incontro dello scorso anno, che si è svolto a Fatima, quest’anno è stato il centro “Salesianum” di Monaco di Baviera ad ospitare l’appuntamento, che ha radunato 25 Delegati ispettoriali. Come nelle altre regioni, questi incontri sono convocati da don Miguel Angel García Morcuende, Consigliere Generale per la Pastorale Giovanile, e da don Dariusz Jozwik, membro dell’équipe del Settore per la Pastorale Giovanile Salesiana.

Durante queste giornate sono state discusse le aree strategiche della missione salesiana nel contesto dell’animazione pastorale europea. Si è dialogato sui criteri per l’educazione affettivo-sessuale dei giovani, contenuti nel nuovo testo del Settore: “Una pastorale giovanile che educa per amare”.

Una mattinata è stata dedicata all’animazione vocazionale, studiando un sussidio elaborato da don García Morcuende. La Giornata Mondiale della Gioventù, che si svolgerà a Lisbona dal 1° al 6 agosto 2023, è stata uno dei temi discussi dai vari Delegati, insieme ad altri argomenti come il Congresso Internazionali delle Opere Sociali, il rilancio dell’ambiente oratorio-centro giovanile, la Carta d’Identità delle scuole salesiane e le sfide che i Direttori delle scuole europee hanno espresso nel questionario denominato “Educobarometro”.

C’è stato tempo anche per riflettere sulla formazione nella e per la missione dei salesiani giovani. Sono stati presentati anche il processo di creazione del “DB Tech Europe” e il coordinamento del Movimento Giovanile Salesiano, la Pastorale Giovanile Salesiana Ispettoriale e la visita alle case da parte del Delegato. Ci sono stati diversi momenti per condividere alcune buone pratiche pastorali. Giovedì pomeriggio il gruppo si è recato in visita a Benediktbeuern.

“Queste giornate di formazione continua sono un elemento fondamentale per la crescita dei Delegati nell’ambiente mutevole in cui operano. Aspetti come l’animazione vocazionale, l’accompagnamento affettivo dei giovani o la formazione pastorale delle nuove generazioni di salesiani richiedono cambiamenti metodologici e audacia pastorale. Dobbiamo riadattarci ai bisogni emergenti”, ha dichiarato in conclusione il Consigliere Generale per la Pastorale Giovanile.

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Nostalgia del padre. Guida alla lettura delle opere d’arte citate

Da NPG di febbraio 2023.

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di Maria Rattà

Stelle, cielo… padre: il viaggio sui percorsi della nostalgia si arricchisce di una nuova parola dalle molte declinazioni (padre biologico, padre adottivo, padre celeste) incardinate nell’unica essenza dell’ancestralità e della generazione. Come infatti il desiderio delle stelle e dell’Assoluto è connaturale all’uomo, così la nostalgia del padre nasce con noi (lo sottolinea anche la psicologia): è una delle prime necessità dell’essere umano, espressione del bisogno di essere accuditi nel corpo, e di sentirsi al sicuro, protetti dai pericoli, al riparo dalla paura che scatta in noi venendo al mondo. È così importante, il padre, che perderlo significa sentirsi mancare il terreno sotto i piedi, specialmente se la perdita è prematura. Giovanni Pascoli, nella sua lirica X Agosto, ne parla in toni intensi, paragonando la figura paterna, barbaramente uccisa, a una rondine che faceva ritorno al proprio tetto portando nel becco un insetto per i rondinini. Si rimane così ibernati nell’attesa di colui che non farà più ritorno: un dolore immenso, come quel pianto di stelle che dal Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale, inonda quest’atomo opaco del Male che è il mondo. Nel pianto delle stelle, come in un gioco etimologico, è tutto il desiderio, la nostalgia di ritrovare chi non abita più questa terra.
Ma è anche figura “ambivalente”, il padre: uomo della protezione e uomo della legge, di quel divieto non scritto per cui non tutto è possibile, ma, anzi, per il quale ci sono dei limiti, il limite, come elemento fondamentale per la maturazione del figlio.
Dall’amore per e dal bisogno del padre si può passare allora al rifiuto del, alla fuga dal padre. Tematiche che la fiaba, nella sua sapiente pedagogia, fin da piccoli ci presenta attraverso uno dei suoi protagonisti più conosciuti: il Pinocchio di Carlo Collodi. Una storia per grandi e piccini, in verità, perché nelle vicende di questo burattino di legno creato dal buon Geppetto, e che fugge dal proprio “padre” e “creatore” per andare alla ricerca della libertà, ritroviamo anche il riflesso della vicenda di un altro figlio ribelle: il figliol prodigo. «Quella di Pinocchio» – diceva il card. Biffi – «è la sintesi dell’avventura umana. Comincia con un artigiano che costruisce un burattino di legno chiamandolo subito, sorprendentemente, figlio. E finisce con il burattino che figlio lo diventa per davvero. Tra i due estremi c’è la storia del libro. Che è identica, nella struttura, alla storia sacra: c’è una fuga dal padre, c’è un tormentato e accidentato ritorno al padre, c’è un destino ultimo che è partecipazione alla vita del padre. Il tutto grazie a una salvezza data per superare la distanza incolmabile, con le sole forze del burattino, tra il punto di partenza e l’arrivo. Pinocchio è una fiaba. Ma racconta la vera storia dell’uomo, che è la storia cristiana della salvezza».
Nelle pagine della Bibbia si parla di un padre terreno da cui due figli (non uno!) fuggono in modo differente, e James Tissot, nella sua serie Il figliol prodigo nella vita moderna (realizzato in quattro tele fra il 1880 e il 1882) con sottigliezza psicologica descrive il mondo interiore dei personaggi che ruotano attorno alla parabola, interrogando, attraverso di essi, gli spettatori di tutti i tempi: perché la modernità del contesto in cui cala i suoi protagonisti dipinti è in verità la modernità di chi guarda. Siamo tutti dei prodighi e siamo tutti anche come l’altro figlio che resta, ma è in realtà lontano, con un piede dentro e uno fuori di casa (cfr. quarto dipinto del file pdf); possiamo anche vivere l’esperienza di una genitorialità difficile, incompresa, che fatica a rapportarsi alla gioventù inquieta e desiderosa di inseguire un sogno di indipendenza e affrancazione dalla famiglia di origine, a volte anzitempo e senza le risorse necessarie (soprattutto morali!) per farlo senza perdersi nella giungla del mondo.
E la fine della parabola non solo esprime l’attrito fra legge e desiderio che spesso si avverte guardando il padre solo con gli occhi del figlio ansioso di trovare (e capire) la vera libertà, ma ci racconta anche chi è veramente il padre.

«La legge del padre non è contro il desiderio, ma supporta il desiderio. Freud dice: un padre è qualcuno che sa tenere gli occhi chiusi. Il padre è il volto umano della legge, e il suo compito è umanizzare la legge, e per umanizzare la legge bisogna renderla un po’ cieca, non bisogna vedere tutto. Ecco, questa possibilità di chiudere gli occhi rappresenta la maniera paterna di declinare in senso umano la legge. La legge è umana in quanto ospita il perdono, in quanto sa fare delle eccezioni, non si applica come un dispositivo acefalo, automatico» (Massimo Recalcati, Lessico famigliare. Il padre).[1]

Solo riconoscendo nel padre questa capacità di contemperare giustizia e misericordia è possibile “riconciliarsi” con lui, e passare dalla fuga all’obbedienza non cieca, ma voluta, ragionata… in una parola, libera. Anche l’esperienza di Gesù, come uomo, lo testimonia. A lui viene dato un padre terreno, Giuseppe, non padre nella carne, ma certamente vero padre, incaricato da Dio di assumerne le veci, tanto da esserne l’ombra, proprio come Jan Dobraczynski, scrittore polacco del secolo scorso, definisce san Giuseppe in uno dei suoi romanzi, usando una felice espressione ripresa anche da papa Francesco nella sua lettera apostolica Patris Corde (dedicata proprio alla figura del santo patriarca). Per parlare del padre terreno di Gesù facciamo uno strappo alla regola di questa rubrica, e ci caliamo anche in espressioni artistiche un po’ meno recenti. Sono infatti tele e sculture più antiche a esprimerne la paternità in una chiave ricca di sfumature. Così Philippe de Champaigne, ne Il sogno di san Giuseppe (1642-43) dipinge alla perfezione il padre umano che accetta i piani del Padre celeste, accostando l’annunciazione al falegname a quella della Vergine Maria, in una concretezza che si manifesta attraverso i dettagli dell’abbandono al sonno (la docilità alla voce di Dio) e dei calzari deposti, indice di un uomo che sa mantenere il contatto con la realtà pur essendo capace di coltivare grandi sogni. Giuseppe è un riflesso coerente del Padre: la Legge non si fa per lui un ostacolo ad accogliere Maria quando l’Onnipotente gli indica una strada che va al di là della Legge stessa. E così egli non diventa non un padre-padrone, ma un padre tenero, espressione della tenerezza del Padre Celeste, in grado di accompagnare Gesù sulle strade della vita, insegnandogli ben più di un mestiere. Se ne trova traccia artistica soprattutto nell’arte del XVII e XVIII sec., in rappresentazioni in cui Giuseppe cammina tenendo per mano il piccolo Gesù. Se Cristo ha nostalgia del Padre Celeste, di quel Dio che in tutte le religioni trova il suo titolo più antico proprio in quello di “padre”, di quel Dio di cui è venuto a mostrarci il volto paterno (insegnandoci a pregarlo come “Padre nostro”), ciò è certamente anche merito di Giuseppe, in cui il Figlio di Dio ha potuto rintracciare alcuni dei tratti della paternità divina. La nostalgia del Padre raggiungerà l’apice, in Gesù, nel momento più duro della sua vita: sulla Croce. Lì, nel grido angoscioso che Ann Kim esprime nella sua tela Eloi, Eloi, lama Sabachthani? (1998), citando anche L’Urlo di Munch, la parabola umana del Cristo ci dà la risposta alla nostalgia del Padre: la fede, il pieno abbandono nel Dio che non lascia soli i propri figli. Con le parole del poeta Bartolo Cattafi (poesie È qui che Dio e Libertà) potremmo riassumere questa nostalgia, che si fa certezza dell’amore paterno che mai lascia i propri figli in balia del caso:

È qui che Dio m’assiste / lungo la parte più assurda della curva / saldamente incollato / su questa traiettoria / ad occhi chiusi vinco / la vertigine il vuoto la mia storia.

Oh sì non alzo/ abbasso le mie ali/ ai Tuoi piedi mi metto/ libero lieve occhi socchiusi/ aspetto assorbo accetto/ dall’ultimo al primo i Tuoi soprusi.

Perché è più facile volare in alto se a sollevarci sono le braccia del Padre.

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Grammatica e cantieri di sinodalità nella PG: il discernimento

Da NPG di febbraio 2023.

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di Gianluca Zurra

Il “discernimento” è una parola tradizionale della fede cristiana. Pensiamo, per esempio, al discernimento spirituale, fatto di ascolto e di preghiera, di aiuto reciproco e di suggerimenti fraterni. Dai più semplici monasteri fino alle più grandi abbazie, come dalla quotidianità delle nostre parrocchie fino ai grandi Concili, il discernimento rappresenta una tappa decisiva, tramite cui si realizzano le scelte ecclesiali più importanti, nell’intimità della coscienza come nello spazio pubblico, in genere dopo attenti confronti e verifiche.
Oggi, rimettendo al centro la forma sinodale della Chiesa, si è riscoperto questo processo di decisione, che coinvolge l’interiorità, certo, ma sempre dentro un contesto di relazioni comunitarie. Dire sinodalità, dunque, significa dire “percorso di scelta”, poiché senza la ricerca e il raggiungimento di una effettiva decisione comune il cammino sinodale rischierebbe di rimanere sterile.
Ci soffermiamo, allora, su questa parola, così antica ma anche bisognosa di essere riletta per la nostra situazione odierna.

La vita come discernimento

Per prima cosa è necessario ricordare che la vita stessa nel suo insieme è discernimento, cioè una vera e propria iniziazione a saper scegliere imparando a separare, a distinguere, a lasciare, a non volere tutto. Il senso di ogni cosa, infatti, non si dà per facile trasparenza immediata, ma può essere colto solo attraversando, leggendo e assumendo con libertà e responsabilità ciò che succede lungo la strada dell’esistenza. Inoltre, per il fatto che la nostra umanità è plurale, sinfonica, a più voci e non monolitica, il confronto tra le diversità non può essere evitato. Discernere, pertanto, richiama la nostra unicità di esseri umani, grazie alla quale non ci limitiamo a vivacchiare biologicamente, ma ci lasciamo interpellare dalla vita e con fatica scegliamo a proposito del futuro e del nostro posto nel mondo.
La tentazione più grande, oggi, sembra duplice: da un lato ritenere che si possa vivere senza decidere, quasi cercando di restare alla finestra senza scendere in strada, e dall’altra immaginare che il discernimento possa accadere tra sé e sé, nel chiuso del proprio intimismo, senza quella rete di relazioni, fatte di persone, di ambienti, di cose che ci circondano.
Scegliere, invece, si deve ed è possibile nella misura in cui ci si fida a tal punto da abbassare le proprie difese, per scoprire che proprio gli altri hanno qualcosa di unico da dirci a proposito di noi stessi. Fiducia e apertura sono il doppio motore del discernimento, che potrà giungere così ad un taglio, ad una separazione che fa partire, nascere e decidere: chi vuole tenere tutto non prenderà mai una direzione, ma tenderà a girare freneticamente come in una rotonda, senza scegliere davvero una strada.
Il cristianesimo si è intrecciato da sempre con questa profonda esigenza umana, presentandosi come la “Via” inaugurata da Gesù che, senza sostituirsi alla libertà, le permette di compiere il duro lavoro della scelta, evitando che resti a galleggiare “a metà strada” priva di una destinazione buona.

Il discernimento di Gesù

Gesù è riconoscibile come Maestro e Signore grazie al suo modo unico di leggere la realtà e di fare discernimento lungo tutta la sua vita. Basti pensare ai due grandi “deserti” da lui vissuti: le tentazioni[1], che lo spingono a rivelare il Padre secondo una logica di violenza e di spettacolarizzazione, a cui resiste dopo una lunga lotta di riflessione a partire dalle Scritture, e l’orto degli ulivi[2], luogo della sua decisione più drammatica, quella di continuare fino in fondo a testimoniare l’amore anche nel rifiuto violento che gli uomini gli stanno preparando.
Eppure, questi momenti di intima solitudine sono pieni di tutte quelle relazioni che il Figlio di Dio vive sulla sua pelle e tramite cui soltanto può fare discernimento a proposito del desiderio buono del Padre verso di lui. Nel gesto battesimale del Battista, inatteso e sorprendente, Gesù approfondisce il senso della sua identità udendo la voce dall’alto, mentre nei molteplici incontri lungo la strada comprende sempre meglio l’universalità della sua missione. Grazie alla rilettura della Legge e dei Profeti dà forma alla sua esistenza, fino a scoprire il Regno di Dio nelle cose di tutti i giorni e nella imprevista accoglienza dei piccoli e dei semplici. Quello di Gesù è uno sguardo di discernimento continuo, per il quale nulla di ciò che viene “dall’alto” può essere percepito senza il continuo attraversamento, saggio e profondo, di tutto ciò che arriva “dal basso”.
Uno dei brani evangelici più significativi a proposito del discernimento è senza dubbio Lc 12, 54-59: Gesù rimanda i suoi interlocutori alla responsabilità della loro coscienza, senza sostituirsi alla libertà consapevole a cui ciascuno è chiamato. La capacità di discernere il cambiamento del tempo atmosferico ricorda la necessità di saper valutare il tempo presente: “perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?”. L’esempio che viene utilizzato è spiazzante, ma assai suggestivo: sapersi accordare con l’avversario lungo la strada è conveniente, almeno per evitare violenze e ingiustizie più grandi. Colpisce come lo sguardo del Figlio di Dio sia molto concreto, liberando il discernimento da una cornice moralistica, per introdurlo invece nella logica, spesso drammatica e difficile, della costruzione della fraternità e della pacificazione. La fede, di cui Gesù è iniziatore e accompagnatore, diventa così criterio di scelta e direzione possibile per la coscienza, che non viene sollevata in modo infantile dal suo lavoro, ma condotta a muoversi con saggezza nelle molteplici esperienze della vita.
Per il medesimo motivo Gesù chiama a sé una comunità di discepoli e consegna loro, non a singoli, il compito missionario del discernimento evangelico, tramite un processo che diventerà fondamentale per la forma sinodale della Chiesa. Ne è testimonianza l’inizio del capitolo 10 di Luca[3]: i discepoli vengono inviati a due a due, non da soli, verso un contesto in cui è necessario prima di tutto cogliere la grande e promettente quantità della messe. Seguono poi alcune indicazioni su come muoversi nell’annuncio, con mezzi poveri e con libertà di spirito, senza protagonismi o invadenze che intacchino la libera accoglienza del vangelo. C’è poi un ritorno degli inviati, che raccontano e fanno un resoconto comunitario dell’accaduto; ma c’è bisogno di una ulteriore parola di Gesù perché ciò che succede possa essere pienamente compreso. Invio, stile evangelico, racconto e disposizione alla revisione del proprio lavoro sono i passaggi fondamentali di ogni discernimento, che è sempre relazionale, mai intimistico o magico.
Che Gesù ne sia davvero maestro lo si nota già nell’episodio della sua adolescenza, quando rimane al tempio di Gerusalemme senza ritornare nella carovana famigliare[4]. É suggestivo che proprio qui venga utilizzato il termine “sinodo” (comitiva, strada insieme): il Figlio adolescente riesce a discernere il luogo in cui deve stare in quel momento grazie alle molte voci “sinodali” della sua famiglia e della sua casa, comprese quella di Giuseppe e di sua madre, Maria. Certo, i genitori si stupiscono, ma a loro volta comprendono, mossi al discernimento, che ciò che sta accadendo è generativo: ogni vero percorso sinodale conduce a trovare una strada, un posto in cui poter dire: “qui e in questo modo ci si può occupare al meglio e insieme delle cose del Padre, dentro la quotidianità della storia”.
Dunque, è la fede stessa di Gesù a manifestarsi nella forma di un discernimento sulla vita e per tale motivo egli diviene Signore di ogni discernimento chiesto a chiunque si lasci condurre e rinnovare dal racconto evangelico. Un elemento è chiaro: soggetto di questo lavoro è sempre una comunità, perché non è possibile decidere di sé indipendentemente dal rapporto con gli altri.

Il discernimento ecclesiale

Quali criteri possiamo raccogliere a proposito di un discernimento ecclesiale veramente sinodale, secondo la forma di Cristo e del suo Spirito? I passaggi di questo processo, che deve giungere a decisioni precise, possibili e concrete, sono almeno tre: “stare sotto” agli avvenimenti che ci spiazzano, tenere al centro la profezia del racconto evangelico custodito dall’Eucaristia e creare luoghi istituzionali di decisione feconda e di revisione comunitaria. Tenendo sullo sfondo l’episodio evangelico dei discepoli di Emmaus[5] possiamo tracciare meglio questi tre passi.
“Stare sotto” agli avvenimenti che ci spiazzano vuol dire stare con pazienza e fermezza sulla strada di tutti, ascoltando dall’interno ciò che succede nel cuore di ciascuno e attorno a noi, come Gesù verso i due discepoli smarriti. Non si tratta di ascoltare per giudicare e insegnare, ma per maturare un pieno e profondo “patire insieme”. Solo dentro questo lavoro di “compassione”, che istruisce e smuove il cuore, è possibile lasciarci guidare dalle Scritture, che aprono porte inattese lungo il sentiero. La richiesta accorata dei discepoli verso lo straniero incontrato perché entri e rimanga a tavola con loro è già frutto di un discernimento che non avviene a caso, ma che è stato suscitato da un confronto con i precedenti fatti di Pasqua illuminati dalla Legge e dai Profeti, a cui Gesù fa riferimento. Il discernimento si compie però solamente quando i due discepoli ripercorrono la strada all’incontrario, incontrando il resto della comunità e gioendo con loro per il riconoscimento del Risorto. Questo ultimo passaggio è ciò che ci manca di più nella Chiesa: non basta ascoltare la vita e le Scritture in maniera sinodale, ma si tratta di vivere sinodalmente anche il processo decisionale che scaturisce da quel discernimento, in modo che non sia in mano a uno solo o a un gruppo di pochi. È necessario che, anche chi ha la responsabilità ultima nel ministero, eserciti tale autorità dentro spazi e modalità che non cancellino il percorso precedente, ma lo assumano realmente e lo rilancino in vista di una sua revisione nuovamente comunitaria.
Solo attraversando tutti questi momenti, senza saltarne nessuno, il discernimento, compito fondamentale della nostra vita, compiuto da Gesù nella sua stessa esistenza, può diventare un reale cammino ecclesiale, tramite il quale è possibile, oggi come allora, scioglierci insieme nella professione di fede: “Abbiamo visto il Signore”. E a questo punto la sinodalità troverebbe la sua efficacia come effettivo processo decisionale nello Spirito, in grado di alleggerire e innovare: “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono”[6].

NOTE

[1] Cfr. Mt 4, 1-11.
[2] Cfr. Mc 14, 32-42.
[3] Cfr. Lc 10, 1-20.
[4] Cfr. Lc 2, 41-50.
[5] Cfr. Lc 24, 13-35.
[6] Cfr. 1Ts 5, 21.

 

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Compagni di viaggio, A proposito del carattere “pellegrino” della Chiesa

Da NPG di febbraio.

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di don Rossano Sala

Stiamo entrando nel vivo del Sinodo sulla sinodalità

Nei giorni in cui leggerete questo editoriale si starà svolgendo a Praga l’incontro europeo di consultazione ecclesiale previsto dal cammino sinodale in atto (5-12 febbraio 2023). È uno dei sei incontri previsti a livello continentale per quella che appunto è chiamata la “tappa continentale” del Sinodo sulla sinodalità. Si tratta di far emergere le diverse sensibilità ecclesiali e originalità pastorali dei differenti contesti in cui la Chiesa è incarnata.
A questi incontri seguiranno due momenti a livello di Chiesa universale, così come è stato esplicitato da papa Francesco qualche mese fa:
Il 10 ottobre dell’anno scorso si è aperta la prima fase della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione”. Da allora si sta svolgendo nelle Chiese particolari la prima fase del Sinodo, con l’ascolto e il discernimento. I frutti del processo sinodale avviato sono molti, ma perché giungano a piena maturazione è necessario non avere fretta. Pertanto, allo scopo di disporre di un tempo di discernimento più disteso, ho stabilito che questa Assemblea sinodale si svolgerà in due sessioni. La prima dal 4 al 29 ottobre 2023 e la seconda nell’ottobre del 2024. Confido che questa decisione possa favorire la comprensione della sinodalità come dimensione costitutiva della Chiesa, e aiutare tutti a viverla in un cammino di fratelli e sorelle che testimoniano la gioia del Vangelo[1].
Dall’ottobre 2021 fino a metà agosto del 2022 abbiamo vissuto un percorso di ascolto verso tutte le Chiese particolari, che avevano come perno le 114 Conferenze Episcopali del mondo. Un momento in cui tutti hanno potuto partecipare, prendendo la parola e offrendo il loro contributo.
Il rilancio di questa fase di ascolto è avvenuto con la pubblicazione del Documento per la Tappa Continentale (24 ottobre 2022). Leggendolo con attenzione, questo testo non parla né in forma estesa dei giovani né in modo entusiasta della loro partecipazione al processo sinodale in atto. Dice infatti che

è universale la preoccupazione per la scarsa presenza della voce dei giovani nel processo sinodale, così come in modo crescente nella vita della Chiesa. Una rinnovata attenzione per i giovani, la loro formazione e il loro accompagnamento sono un’urgenza, anche in attuazione delle conclusioni del precedente Sinodo su I giovani, la fede e il discernimento vocazionale (2018). In quella occasione furono proprio i giovani a far emergere la necessità di una Chiesa più sinodale in vista della trasmissione della fede oggi[2].

Effettivamente, lo dobbiamo ammettere a quasi cinque anni di distanza, il Sinodo sui giovani è stato un grande momento di convocazione che ha creato entusiasmo e aperto possibilità, ma non ha per ora reso possibile un’autentica svolta nella pastorale giovanile e nell’attenzione ecclesiale verso le giovani generazioni. In gergo giovanile, possiamo dire che “non ha ancora sfondato”. La Chiesa nel suo insieme non è riuscita a mettere pienamente a frutto la “scossa” generata dal cammino compiuto insieme ai giovani.
In Italia abbiamo visto tante Chiese locali mettersi all’opera con sincerità e passione; tanti si sono messi in gioco dando priorità al lavoro pastorale con e per i giovani; alcune regioni ecclesiastiche stanno con creatività mettendo in dialogo i giovani con i loro pastori. Sussiste però ancora una fase di stanchezza e di debolezza. Anche perché davvero i ragazzi, gli adolescenti e i giovani di oggi vivono in un mondo molto diverso rispetto a quello abitato dai loro educatori e pastori. Superare questo vero e proprio gap generazionale non è per nulla facile.
Se poi diamo uno sguardo all’Europa nel suo insieme, ci accorgiamo che le fatiche sono ancora più grandi. Alcune Chiese sono finite in ginocchio durante la pandemia, che ha messo a dura prova perfino la loro sostenibilità e il mantenimento delle strutture ordinarie. La guerra tuttora in corso non promette nulla di buono per nessuno, e per i giovani in maniera specifica tronca le ali verso una visione di futuro positiva e propositiva.

La sinodalità manifesta il carattere pellegrino della Chiesa

Nell’Angelus citato sopra papa Francesco si augura che il cammino sinodale in atto “possa favorire la comprensione della sinodalità come dimensione costitutiva della Chiesa”. Proviamo allora anche noi a dire qualcosa di serio e fondato sull’idea di sinodalità. Anche perché, come tutti sappiamo, dopo Christus vivit non è possibile pensare e agire senza prendere sul serio il fatto che

la pastorale giovanile non può che essere sinodale, vale a dire capace di dar forma a un “camminare insieme” che implica una valorizzazione dei carismi che lo Spirito dona secondo la vocazione e il ruolo di ciascuno dei membri della Chiesa, attraverso un dinamismo di corresponsabilità. Animati da questo spirito, potremo procedere verso una Chiesa partecipativa e corresponsabile, capace di valorizzare la ricchezza della varietà di cui si compone, accogliendo con gratitudine anche l’apporto dei fedeli laici, tra cui giovani e donne, quello della vita consacrata femminile e maschile, e quello di gruppi, associazioni e movimenti. Nessuno deve essere messo o potersi mettere in disparte[3].

A partire da queste parole così chiare ci chiediamo: quando parliamo di sinodalità, che cosa intendiamo? È una moda del momento oppure un’esigenza imprescindibile per la Chiesa del terzo millennio? In che senso la sinodalità è un elemento “costitutivo” della Chiesa?
La Chiesa è, come recitiamo nel simbolo degli apostoli, “una, santa, cattolica e apostolica”. Queste sono le sue quattro note distintive, e sappiamo di che cosa si tratta. Nella sostanza la Chiesa è soprattutto “popolo di Dio”: questo è il suo essere, la sua realtà più vera. Affermare ciò non è semplicemente fare riferimento ad una metafora o un’immagine esplicativa, ma richiama la sostanza più propria della Chiesa: siamo un popolo che il Signore si è acquistato con il proprio sangue.
Potremmo dunque chiederci il perché dell’attuale insistenza sulla “sinodalità”, se non è una questione di essenza o di sostanza. In realtà la sinodalità non sta nella logica della sostanza, ma del dinamismo: è legata in maniera specifica al tempo che scorre, alla storia che avanza. Sinodalità è la sottolineatura che il popolo di Dio è in cammino. E quindi prende in considerazione il suo modo di procedere e il suo stile relazionale, per vedere se il suo incedere nella storia degli uomini è fedele all’evangelo di Dio.
Riconoscere ciò oggi è sempre più decisivo. La Chiesa non è una realtà statica, ferma, bloccata, ingessata, ma è una realtà dinamica, magmatica, vivace. È una vita che si sviluppa nel cammino e nella relazione, perché ha la forma dell’evento e dell’incontro. Per questo parlare di sinodalità significa invitarci ad una verifica seria della qualità relazionale del nostro essere Chiesa. Talvolta, anche all’interno della Chiesa, dominano invidia e gelosia, concorrenza e competizione, maldicenza e mormorazione. La sinodalità ci chiede di lavorare esattamente a questo livello relazionale, e anche a livello comunicativo.
Per dirla in un altro modo: dando per scontato la sostanza della Chiesa, il focus sulla sinodalità prende in considerazione la forma della Chiesa, e quindi, se necessario, la sua riforma. Questo dice che la Chiesa non esiste come idea teorica, ma come corpo vivente che cammina nel tempo e nello spazio. Quindi non semplicemente nel mondo in astratto, ma in un mondo concreto, situato, unico e non replicabile. In questo senso, come ben dice il documento finora migliore sul tema, «la sinodalità manifesta il carattere “pellegrino” della Chiesa»[4]. Così

la sinodalità esprime l’essere soggetto di tutta la Chiesa e di tutti nella Chiesa. I credenti sono σύνoδοι, compagni di cammino, chiamati a essere soggetti attivi in quanto partecipi dell’unico sacerdozio di Cristo e destinatari dei diversi carismi elargiti dallo Spirito Santo in vista del bene comune[5].

Notiamo, dal punto di vista biblico, come nei vangeli si utilizza solo una volta la parola “sinodo”[6]. Siamo nel simpatico episodio in cui Gesù adolescente è rimasto a Gerusalemme, mentre i suoi parenti facevano ritorno a casa: «Credendo che fosse nella comitiva (σύνoδία), fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo»[7]. Ecco l’idea di sinodalità nella sua semplicità e complessità: una comitiva, una carovana, un gruppo di pellegrini abbastanza eterogeneo ma unito da un medesimo obiettivo, quello di andare al tempio del Signore per rendergli omaggio e poi di ritornare pieni di gioia verso la loro dimora. Ciò che ci tiene uniti è il Signore, è l’essere salvati da lui e il camminare verso di lui nel tempo e nella storia. Siamo parte di una cordata, dipendenti gli uni dagli altri, affidati gli uni agli altri: questo è essere Chiesa!

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L’incontro dei Consigli Generali dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice a Valdocco

Dall’Agenzia ANS di Torino:

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Si è rinnovato ancora una volta nel pomeriggio di ieri, giovedì 22 dicembre, il fraterno incontro del Rettor Maggiore dei Salesiani di Don Bosco (SDB) e del suo Consiglio Generale, con la Madre Generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice (FMA) e il suo Consiglio Generale. L’appuntamento si è realizzato presso la Casa Madre dei Salesiani, a Valdocco, ed è stato caratterizzato dal consueto clima di amicizia e di condivisione della spiritualità salesiana.

L’incontro, che è stato coordinato dal Vicario del Rettor Maggiore, don Stefano Martoglio, è ormai da anni una tradizione consolidata tra i due Consigli Generali, che si rinnova a cadenza semestrale, in estate e in inverno, quando entrambi gli organi si ritrovano per le rispettive sessioni plenarie.

A caratterizzare quest’incontro sono stati in particolare due elementi: in primo luogo, la celebrazione di ringraziamento in prossimità del Natale, che ha indirizzato i momenti comuni e i tempi di confronto nello spirito di una condivisione comunitaria e fraterna; e in secondo luogo, una condivisione sull’animazione vocazionale.

Il programma ha previsto in apertura l’accoglienza della Madre Generale, Madre Chiara Cazzuola, e delle sue Consigliere, alle 16 dell’ora locale.

Nelle sue parole di accoglienza il Rettor Maggiore ha parlato

del senso di gratitudine e semplicità per tutti i membri dei due Consigli per il dono di stare insieme nella casa del nostro padre Don Bosco, nella Basilica di Maria Ausiliatrice, luogo che ci parla delle nostre radici e della nostra storia. Trovarci qui a nome di Don Bosco e Madre Mazzarello ci fa tanto bene e ci dà un grande senso di famiglia. Una vera testimonianza di fraternità per tutta la Famiglia Salesiana. Con tutto il cuore e affetto, benvenute.

Madre Chiara Cazzuola, da parte sua, ha risposto:

Siamo molte contente di essere qui. Veramente ci sentiamo a casa. Don Ángel è un segno di comunione e unità per tutti noi. È molto bello stare qui, e insieme guardare il futuro.

Durante l’assemblea comunitaria don Miguel Angel García Morcuende, Consigliere Generale per la Pastorale Giovanile, ha guidato una sessione sul tema della animazione vocazionale, principio ispiratore e traguardo della Pastorale Giovanile Salesiana. Ha sottolineato la importanza di fare “l’animazione vocazionale all’interno della pastorale giovanile, e ha invitato tutti a guardare questo momento della storia della Congregazione Salesiana e dell’Istituto delle FMA come grande opportunità per promuovere la “cultura vocazionale”: con la preghiera insistente e con la testimonianza appassionata della vocazione che Dio dona a ciascuno.

Ha anche ricordato che tutti i Salesiani e le FMA sono cuore, memoria e garanti non solo del carisma salesiano, ma anche della propria vocazione, e che il vero motore della nostra vita consacrata è la sequela di Gesù Cristo. Ancora, ha aggiunto che bisogna saper custodire la presenza salesiana in mezzo ai giovani e ha sottolineato l’importanza del rinnovamento e la rivitalizzazione della vita comunitaria, il ruolo centrale della comunità educativa pastorale e la fiducia nel cuore generoso dei giovani.

Dopo la presentazione di don García Morcuende, suor Runita Borja, Consigliera per la Pastorale Giovanile delle FMA, ha aperto un momento per la condivisione a partire da alcune domande, principalmente su quale sono i segni di speranza presenti nell’animazione vocazionale delle due Congregazioni.

Il momento fraterno ha raggiunto il suo apice con la celebrazione dell’Eucaristia presieduta dal Rettor Maggiore, Don Ángel Fernández Artime, all’interno delle Camerette di Don Bosco. Nella sua omelia il Rettor Maggiore ha sottolineato la importanza di “dare il meglio di noi a Dio e ai giovani”. Ha ricordato che Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice hanno in Don Bosco e Madre Mazzarello due esempi di santi che hanno vissuto con grande semplicità e generosità.

Alle volte – ha sottolineato il Rettor Maggiorec’è il rischio umano. Noi abbiamo fatto la scelta più preziosa nella vita religiosa: abbiamo consegnato la nostra vita a Dio. Succede alle volte che nel nostro quotidiano dimentichiamo di essere generosi, che le nostre energie vanno spese per servire l’altro”.

Quindi, ha concluso ricordando che Maria, la Madre di Gesù, è l’esempio della vera e generosa consegna a Dio e agli altri.

Questo tempo di preziosa e ricca condivisione è terminato dopo la celebrazione con l’agape fraterna e lo scambio dei regali.

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