Scommettere ancora sulla scuola

“La scuola è senza dubbio una piattaforma per avvicinarsi ai bambini e ai giovani. Essa è luogo privilegiato di promozione della persona, e per questo la comunità cristiana ha sempre avuto per essa grande attenzione, sia formando docenti e dirigenti, sia istituendo proprie scuole, di ogni genere e grado. In questo campo lo Spirito ha suscitato innumerevoli carismi e testimonianze di santità”.[1]
Le parole dell’esortazione postsinodale Christus vivit di papa Francesco rendono l’idea della rilevanza e della complessità dell’ambito scolastico, un luogo imprescindibile per una Chiesa che voglia raggiungere ogni persona e spalancare ad essa l’orizzonte di una vita veramente buona.
Quanto il Sinodo dei Vescovi abbia mostrato attenzione per le istituzioni educative era emerso già nel documento finale, che in un denso passaggio invitava la comunità ecclesiale a esprimere una presenza significativa in questi ambienti, proponendo “un modello di formazione che sia capace di far dialogare la fede con le domande del mondo contemporaneo, con le diverse prospettive antropologiche, con le sfide della scienza e della tecnica, con i cambiamenti del costume sociale e con l’impegno per la giustizia”.[2]

 

NPG, è uscito il nuovo numero: La disciplina dell’ascolto

Non rinunciamo alla “parte migliore”

di don Rossano Sala

La musica si ascolta. È evidente. Tutti lo sappiamo e tutti lo facciamo. Lo fanno in particolare i giovani, che quotidianamente ascoltano musica.
Per questo, prima di lasciar spazio alla musica, tema dell’originale e intrigante Dossier di questo numero di NPG, vorrei parlare dell’ascolto. Perché di musica si è parlato durante il cammino sinodale in vari momenti, ma il tema dell’ascolto è stato uno dei nuclei centrali e generativi sul quale è bene sostare con particolare attenzione, perché ne va del nostro modo di essere Chiesa per e con i giovani.
“Con la bocca molto grande e le orecchie molto piccole”. È una delle immagini sintetiche della Chiesa che ci viene restituita da un giovane partecipante all’Assemblea sinodale. Sembrerebbe una caricatura, ma purtroppo tante volte si è rivelata la realtà dei fatti. Ricordo con chiarezza uno degli interventi più “criticati” al Sinodo (cioè che hanno avuto una chiara levata di cori negativi da parte dei giovani presenti nell’aula sinodale), che più o meno diceva così: “Certo, oggi nella Chiesa abbiamo bisogno di fare silenzio, soprattutto i giovani devono fare silenzio. Così noi Vescovi possiamo parlare, possiamo insegnare, possiamo istruire”. Come a dire che l’ascolto va a senso unico, cioè ha come soggetti i giovani e non gli altri membri della comunità ecclesiale, soprattutto non chi ha autorità in essa.
Invece con grande onestà, il 3 ottobre 2018 papa Francesco aveva anticipato tutti. Nel primo giorno dell’Assemblea sinodale incominciava mettendo al centro la necessità di ascoltare i giovani. La Chiesa tutta – Papa, Vescovi, sacerdoti, consacrati, laici – nasce dall’ascolto della Parola e si rigenera ascoltando dove essa si trova, quindi anche nei giovani, riconosciuti come un “luogo teologico” (cfr. Documento finale, n. 64). In quel discorso iniziale la parola “ascolto” è citata per ben 21 volte, tanto che potremmo dire che è l’invito più forte che ci è venuto dal percorso di preparazione sinodale. Tra i vari passaggi, eccone uno di grande rilievo:

Siamo segno di una Chiesa in ascolto e in cammino. L’atteggiamento di ascolto non può limitarsi alle parole che ci scambieremo nei lavori sinodali. Il cammino di preparazione a questo momento ha evidenziato una Chiesa “in debito di ascolto” anche nei confronti dei giovani, che spesso dalla Chiesa si sentono non compresi nella loro originalità e quindi non accolti per quello che sono veramente, e talvolta persino respinti. Questo Sinodo ha l’opportunità, il compito e il dovere di essere segno della Chiesa che si mette davvero in ascolto, che si lascia interpellare dalle istanze di coloro che incontra, che non ha sempre una risposta preconfezionata già pronta. Una Chiesa che non ascolta si mostra chiusa alla novità, chiusa alle sorprese di Dio, e non potrà risultare credibile, in particolare per i giovani, che inevitabilmente si allontaneranno anziché avvicinarsi.

Ascoltare evidentemente significa essere aperti alla parola e all’esperienza di altri, che evidentemente posso “alterarmi” nelle mie convinzioni e nel mio equilibrio personale. È molto più facile parlare, esprimendo i propri punti di vista e argomentando le proprie convinzioni. Nel parlare non mi metto in discussione, mentre nell’ascoltare potrei sentire ciò che non mi aggrada, magari qualcosa che mi mette in crisi, forse parole che mi provocano una (sana) inquietudine. Per questo ascoltare è prima di tutto un esercizio di umiltà e di apertura alle novità dello Spirito, che non sempre (o forse quasi mai) corrispondono al nostro punto di vista.
Già l’Instrumentum laboris era stato abbastanza severo su questo tema dell’ascolto, perché portava impresse le denunce dei giovani. Tutto il capitolo V della prima parte è una sintesi molto stringata dell’ascolto della voce dei giovani, che si sono espressi in vario modo nel cammino di preparazione al Sinodo (nn. 64-72). Il numero 65 è significativamente intitolato “La fatica di ascoltare” e così si esprime:

Come ben sintetizza un giovane, “nel mondo contemporaneo il tempo dedicato all’ascolto non è mai tempo perso” (Questionario on line) e nei lavori della Riunione presinodale è emerso che l’ascolto è la prima forma di linguaggio vero e audace che i giovani chiedono a gran voce alla Chiesa. Va però registrata anche la fatica della Chiesa ad ascoltare realmente tutti i giovani, nessuno escluso. Molti avvertono che la loro voce non è ritenuta interessante e utile dal mondo degli adulti, in ambito sia sociale sia ecclesiale. Una Conferenza Episcopale afferma che i giovani percepiscono che “la Chiesa non ascolta attivamente le situazioni vissute dai giovani” e che “le loro opinioni non sono considerate seriamente”. È chiaro, invece, che i giovani, secondo un’altra Conferenza Episcopale, “domandano alla Chiesa di avvicinarsi a loro con il desiderio di ascoltarli e accoglierli, offrendo dialogo e ospitalità”. Gli stessi giovani affermano che “in alcune parti del mondo, i giovani stanno lasciando la Chiesa in gran numero. Capire i motivi di questo fenomeno è cruciale per poter andare avanti” (Riunione presinodale 7). Certamente tra questi troviamo l’indifferenza e la mancanza di ascolto, oltre al fatto che “molte volte la Chiesa appare come troppo severa ed è spesso associata a un eccessivo moralismo” (Riunione presinodale 1).

 

“Il magistero dell’Amazzonia può vincere lo scetticismo”

Si è aperto in Vaticano l’importante Sinodo dei Vescovi sull’Amazzonia. Un Sinodo, per alcuni versi, dall’intreccio “esplosivo”. Un Sinodo strategico per il Pontificato di Papa Francesco. Ne parliamo con il teologo Andrea Grillo. Grillo è docente ordinario di Teologia al Pontificio Ateneo “Sant’Anselmo” di Roma.

Professore, domani, in Vaticano, si apre l’importantissimo Sinodo dei Vescovi sull’Amazzonia. Un Sinodo, definito “speciale”, strategico per il Pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Perché è così importante per Francesco?

Direi che la rilevanza del Sinodo dedicato alla Amazzonia deriva da due fattori: il primo è il rapporto con una “periferia integrale”, a differenza dei Sinodi su Famiglia e sui giovani, che hanno affrontato un tema universale, di cui hanno poi scandagliato elementi periferici. Qui il centro è la “periferia amazzonica”, come pienezza di espressione ecclesiale con un “rostro” peculiare. Per questo, ed è il secondo elemento, questo Sinodo esige risposte immediatamente praticabili: non essendo rivolto ad una Chiesa universale, chiede concrete decisioni sulla liturgia, sul ministero, sull’annuncio, sui soggetti autorevoli e sulle forme ecclesiali davvero credibili.

Sappiamo che è un Sinodo, come già detto “”speciale”, che ha un doppio livello uno geopolitico, la difesa del bioma Pan-Amazzonico, e l’altro la ricerca di un cammino per una Chiesa dal volto amazzonico. L’intreccio è esplosivo: solo una chiesa non coloniale può preservare il bioma amazzonico. Bioma visto come “luogo teologico” fondamentale per la testimonianza evangelica. È così professore?

Direi che proprio questo intreccio, che lei ha bene rilevato, chiede al Sinodo un respiro profondo e una vista lunga. Difendere una “forma di vita”, senza nessuna concessione al tradizionalismo, e “giocare il gioco linguistico ecclesiale” con regole più semplici e insieme più articolate diventa una sfida per il pensiero e per la prassi ecclesiale. Si tratta, in fondo, di ripetere ciò che Dante diceva quando distingueva tra “ciò che non muore e ciò che può morire”. E questo deve essere fatto, in modo intrecciato, tra forme di vita locale e gioco linguistico ecclesiale. Sarà una esperienza di crescita e di maturazione, per la Amazzonia e per tutta la Chiesa.

 

NPG, “No balconear” la rubrica ispirata (da) a Papa Francesco

Il gergo di Francesco
Non “balconear” la vita, ma tuffarsi come ha fatto Gesù
Jorge Milia

Nel gergo del lunfardo [i] argentino il verbo “balconear” significa “stare a guardare dalla finestra” o dal balcone. Come in italiano, descrive un atteggiamento di pura curiosità, dove non c’è partecipazione, come uno spettatore davanti al quale sta accadendo qualcosa che non lo riguarda, e quindi può permettersi di criticare sempre degli aspetti che non gli piacciono o su cui non è d’accordo; lui, comunque, non si coinvolge mai, si tiene da parte.
Negli anni della nostra infanzia e adolescenza, quando il giovane insegnante Bergoglio era nostro professore, la scuola dell’Immacolata Concezione di Santa Fe partecipava con altre scuole cattoliche alla processione del Corpus Christi assieme ai fedeli. Durante il lungo percorso che attraversava tutto il centro cittadino, era comune vedere molti “balconeros”: famiglie che con qualche immagine religiosa e un paio di candele sul balcone attiravano l’attenzione e si dedicavano a salutare i fedeli in processione e a fare dei commenti. In certe zone, quasi ogni cento metri, c’erano una o due case con delle persone che si dedicavano alla stessa “pratica”. A me stupiva un po’ perché i miei nonni materni, quelli che erano ancora vivi, anche se anziani e pieni di acciacchi camminavano con i membri della loro parrocchia e non avevano mai preso in considerazione l’idea di “balconear”.

 

“Caro prof, quali sono i bravi docenti?”

Dalla rubrica di Note di Pastorale Giovanile: “Parole adolescenti”

Caro Prof,
anche in questa lettera voglio parlarle della scuola e spero di non stancarla visto che lei la vive tutti i giorni; del resto è così pure per me, forse più difficile visto che quest’anno è un mondo nuovo. Nuovo sì, ma ogni giorno mi piace sempre di più e il latino e il greco sono lingue meno morte di quanto si dica. Faccio fatica, studio con impegno, e poi non posso trascurare le altre materie, per quanto abbia una passione per il mondo classico come avrà capito. Con i miei compagni al momento tutto bene, ma perché ci sia una buona scuola e un buon ambiente servono dei bravi professori (e qui tocco un po’ il suo ambito, spero non si arrabbi se le dico io cose che certamente Lei conosce già). E quali sono i bravi professori? Per me è bravo un professore che, al posto di mettersi davanti a una classe di ragazzi semi-addormentati e ripetere in modo stanco ciò che è scritto sul libro, riesce a mettere un po’ del suo sapere e dei suoi studi in ciò che spiega, e faccia capire che la cosa che sta spiegando è la più importante del mondo, e che ha cambiato lui quando l’ha scoperta. Un bravo professore, secondo me, non perde la voglia di spiegarti dieci venti cento volte lo stesso concetto e, soprattutto, non perde la voglia di farti mettere in gioco, di darti anche un tuo spazio dove poter condividere il tuo personale pensiero. Un professore che non perde la voglia di farti essere assetato di conoscenza e di essere assetato lui stesso di conoscenza. Perché in fondo è così, un bravo professore fa imparare ai ragazzi ma, allo stesso tempo, impara tantissimo da loro. È per questo tipo di confronto e di scambio che vorrei essere una professoressa, un giorno. Per essere in grado di dare e ricevere, per dare le cose belle che avrò dentro, per ricevere le cose belle che incontrerò negli allievi.
Comunque, sia con bravi che con pessimi professori, a scuola bisogna anche fare dei sacrifici. Ad esempio ci sono delle materie che, indipendentemente dai professori o dai compagni, ci “pesano”. A quel punto tocca a noi fare qualche sacrificio, impegnarsi un po’ di più, dire di no a qualche uscita con gli amici piuttosto che un pomeriggio di ozio. È successo a tutti di essere stanchissimi e di non avere voglia di studiare o fare i compiti. Ma bisogna fare la nostra parte, faticare ogni tanto se si vuole arrivare in alto. Se si vuole arrivare alla cultura, alla conoscenza, al “sapere” che, a parer mio, è la miglior risorsa su cui un uomo possa contare. Può farci vivere consapevoli di ciò che ci sta intorno e di noi stessi, rendendo tutto un po’ più interessante o almeno meno superficiale, meno grossolano.
Ma il primo passo per avere una cultura è essere curiosi. La curiosità è uno dei pregi che preferisco nelle persone (anche se a volte può diventare un difetto, un’invadenza). La curiosità ci spinge “oltre”, elimina tanti limiti. Ci fa rendere conto del fatto che c’è sempre qualcosa in più da sapere, da fare, da chiedersi. Quindi quando mi chiedono come mai la scuola, tutto sommato, mi piaccia, io rispondo che sono una persona curiosa. E attenzione, una persona curiosa non è “secchiona” né “pazza”. Conosco tante persone curiose che hanno amici, hanno il tempo di uscire e avere hobby e piaceri.
Visto che prima ho parlato di “arrivare in alto”, voglio concludere con una frase che davvero racchiude tutto ciò che mi sta a cuore e che ho cercato di dire in questa lettera scritta tra un giorno di scuola e un altro. Le ha dette un “classico”, un greco la cui lingua dicono che sia morta, ma il cui pensiero ancora esprime civiltà: Plutarco. Egli scriveva: “La mente non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere”.
Buona scuola, La saluto.
Virginia

NPG – Il compito della recezione. Le “Linee progettuali” per la pastorale giovanile italiana

di Don Rossano Sala

Noi di NPG siamo sempre contenti e onorati di accogliere, condividere e amplificare le parole dei Convegni Nazionali di Pastorale Giovanile della Conferenza Episcopale Italiana. Quest’anno eravamo tutti a Terrasini (PA) dal 29 aprile al 2 maggio. Come sempre un’esperienza coinvolgente e luminosa, ben articolata tra le diverse relazioni, le qualificate esperienze sul territorio e un clima sempre amichevole e costruttivo.
È stato un piccolo tassello del compito che non solo ci attende, ma che sta diventando in molti nostri ambienti educativo-pastorali una realtà tangibile: la ricezione del Sinodo. Ricezione viene da “ricevere”, da “fare proprio”. Il Sinodo è dunque un dono di cui dobbiamo appropriarci, facendolo diventare vita della nostra vita. È una dinamica di incarnazione operativa, quella della ricezione. Cioè bisogna ascoltare ciò che la Chiesa universale ha detto e fatto in questi ultimi tre anni per poterlo creativamente e coraggiosamente ritradurlo nelle nostre Chiese locali, mettendo in campo scelte educative e pastorali concrete.
È evidente infatti che tra il livello mondiale, quello nazionale e quello locale va fatta un’opera di mediazione sapiente che non né semplice, né immediata, né automatica. Papa Francesco dice cose per tutti e porta nel suo cuore le gioie e le speranze della Chiesa universale, e al Sinodo ci siamo accorti che il mondo è sì piccolo ma anche molto diverso nei diversi contesti, nelle differenti sfide e nelle dissomiglianti opportunità. D’altra parte chi ha un minimo di conoscenza della situazione sociale, giovanile ed ecclesiale italiana sa che anche qui c’è molta continuità, ma insieme tanta discontinuità. Non si può proporre una cosa che vada bene per tutti senza metterci mano con sapienza e prudenza.
La parola giusta nel tempo della ricezione è allora creatività. Per essere più precisi: fedeltà creativa. Ci può essere infatti una “fedeltà ripetitiva”, che applica senza intelligenza e senza criterio. E ci può anche essere una “creatività infedele”, incapace di inserirsi nei percorsi della Chiesa, sia universale che nazionale. Invece si tratta davvero di fedeltà creativa: cioè di quella capacità di liberare le proprie qualità innovative e i talenti ricevuti in un autentico spirito di continuità con i cammini ecclesiali in atto.
Mi preme a questo proposito ricordare che la prima parola d’ordine del cammino sinodale di questi tre anni è stata discernimento. La Chiesa, in un cambio d’epoca dove non è possibile applicare delle ricette pronte (per il semplice motivo che non ne abbiamo!) deve mettere tutte le proprie energie in campo – energie del cuore, della mente e delle mani – per aprire cammini di rinnovamento pastorale:

Non possiamo pensare che la nostra offerta di accompagnamento al discernimento vocazionale risulti credibile per i giovani a cui è diretta se non mostreremo di saper praticare il discernimento nella vita ordinaria della Chiesa, facendone uno stile comunitario prima che uno strumento operativo. Proprio come i giovani, molte Conferenze Episcopali hanno espresso la difficoltà di orientarsi in un mondo complesso di cui non hanno la mappa (Instrumentum laboris, n. 139).

In tale direzione, la mia convinzione è chiara e radicata: la pastorale giovanile può e dev’essere un laboratorio permanente e un banco di prova per il rinnovamento della pastorale della Chiesa intera nel cambio d’epoca che stiamo vivendo. Se fallisce la pastorale giovanile, la Chiesa sta preparando il suo tracollo; se la pastorale giovanile riesce a trovare vie inedite e creative di coinvolgimento dei giovani, il rinnovamento ecclesiale sarà inevitabile e il cambio di passo avverrà con una certa naturalezza! Proprio perché avere a che fare con le giovani generazioni significa frequentare il futuro che ci attende come Chiesa nella società del nostro tempo.
E questo bisogna farlo insieme. Per questo la seconda parola d’ordine al Sinodo è stata proprio sinodalità. Bisogna fare squadra, costruire relazioni lavorando in rete, è necessario cercare alleanze, soprattutto essere convinti che da soli non si va da nessuna parte. I giovani al Sinodo ce lo hanno ripetuto in mille declinazioni: siate davvero fratelli, lavorate insieme, prediligete la comunione come via regale della missione e così sarete credibili ai nostri occhi e anche noi potremo essere con voi come protagonisti del cambiamento che tutti auspichiamo:

La pastorale giovanile non può che essere sinodale, vale a dire capace di dar forma a un “camminare insieme” che implica una «valorizzazione dei carismi che lo Spirito dona secondo la vocazione e il ruolo di ciascuno dei membri [della Chiesa], attraverso un dinamismo di corresponsabilità. […] Animati da questo spirito, potremo procedere verso una Chiesa partecipativa e corresponsabile, capace di valorizzare la ricchezza della varietà di cui si compone, accogliendo con gratitudine anche l’apporto dei fedeli laici, tra cui giovani e donne, quello della vita consacrata femminile e maschile, e quello di gruppi, associazioni e movimenti. Nessuno deve essere messo o potersi mettere in disparte» (Christus vivit, n. 206).

“Parole adolescenti” è la nuova rubrica online di Note di Pastorale Giovanile

“Parole adolescenti” è una nuova rubrica online di Note di Pastorale Giovanile: una adolescente di oggi in dialogo con un professore sui temi caldi della sua nuova età.

***

Caro Prof,
mi sono presentata, ora le presento (o ricordo) l’adolescenza.
(Di passaggio, La ringrazio per la risposta. A dire il vero poi mi sento un po’ “presuntuosa” a parlarle di una realtà con cui certamente ha contatto ogni giorno, e che ha imparato a conoscere e a trattare con essa nel quotidiano della scuola… ma chissà che anche questa “presunzione” non faccia parte dell’età in cui sono entrata!).
Adolescenza, dunque: età di transizione e cambiamento, delle prime gioie e tristezze, dove non ci sentiamo (e non vogliamo sentirci) né piccoli né grandi. Leopardi dice:

Cotesta età fiorita
È come un giorno d’allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita

paragonando l’adolescenza al sabato di preparativi per la festa dell’indomani. Così avverto e mi figuro l’adolescenza: periodo di preparativi per l’età adulta (e con il rischio di viverla “di corsa”), età in cui nascono i sogni che domandano di essere inseguiti, in cui nasce l’amore qualunque cosa esso sia, età in cui nasce la curiosità che verrà poi rimpiazzata dalla conoscenza e dalla cultura, in cui nascono la fragilità e la forza, età in cui abbiamo più bisogno degli altri e quella in cui vogliamo fare tutto per conto nostro, senza aiuti.
È davvero difficile spiegarla. È difficile spiegare la confusione che si prova quando si prova qualcosa per la prima volta. Ad esempio, quando per la prima volta ci si rende conto di avere un vero amico, o quando per la prima volta ci si rende conto che chi consideravamo un vero amico non lo è in realtà. La prima volta che si litiga con i genitori senza motivo, quando si sente il bisogno di farlo e basta. E ci sono tantissime altre occasioni in cui la confusione ha la meglio su di noi. Questa confusione è ciò da cui nascono le mille domande che ci passano continuamente per la testa. Domande insolite, talvolta considerate “stupide” dagli altri (anche se sono dell’idea che l’unica cosa stupida sia non porsi alcuna domanda. E non sa quanto mi fa rabbia sentire un adulto sbarazzarsi facilmente di esse – e di noi -, con la frase condiscendente: sono cose da adolescenti, passeranno!). Sono domande a cui gli altri tante volte non sanno dare risposte adeguate, perché le vere risposte devono essere provate sulla pelle, così come sono le domande: solo così possono essere comprese e diventare patrimonio di vita.

 

“Sollevare dalla paura”: l’omelia del card. Bassetti al convegno CEI di Pastorale Giovanile

Il testo del Vangelo e l’omelia del Card. Bassetti durante il convegno di PG della CEI a Palermo dal 30/04 al 2/05.

Subito dopo costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!”. Pietro allora gli rispose: “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”. E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”. Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”.
Matteo 14,22-33

Questa sera abbiamo il dono di pregare in un luogo straordinario: la bellezza e la storia sembrano guardarci attraverso gli occhi di decine e decine di figure che raccontano il legame fra Dio e l’uomo. In particolare gli occhi di quel Gesù Pantocratore ci rivelano la mitezza del cuore del Padre. Sono contento di essere qui con voi che rappresentate la cura della Chiesa italiana per i bambini e i ragazzi, gli adolescenti e i giovani.
Il brano di Matteo potrebbe essere riletto in chiave di pastorale giovanile, una sorta di piccolo “romanzo di formazione”, perché questo forse sono i vangeli: l’ostinato tentativo di Gesù di “tirar grandi” o educare i suoi discepoli. Introdurre nella vita, offrendo la fiducia come lo stile con cui noi possiamo “stare al mondo”. Le cose che Gesù compie sono, innanzitutto, in chiave pedagogica: Gesù sente il compito di preparare i suoi al drammatico “dopo di lui”. C’è un “dopo di lui” per ogni uomo. La fede/fiducia che serve per non sprofondare nelle acque (nella morte, nella depressione, nel senso del fallimento…) è sempre un voler vivere con lui sapendo del “dopo di lui”. Questo episodio racconta già il dopo-Gesù. Qui, il protagonista è Pietro, ma Pietro in nome di tutti i discepoli spaventati, terrorizzati dalla morte del maestro, e l’unica domanda è: come vivere quando lui non c’è o non ci sarà più? Come si fa a vivere se si spezza il legame con la fonte? Come continuare a vivere credendo che davvero il maestro non ci ha abbandonato? Quindi, siamo davanti a un racconto di resurrezione, come spesso accade nei vangeli.

“Stare, per accogliere una presenza”: il Vangelo di Giovanni commentato dalla comunità di Bose

11In quel tempo Maria stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro 12e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. 13Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». 14Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. 15Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». 16Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa: «Maestro!». 17Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro»». 18Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto.
Gv 20,11-18

Se nel Vangelo secondo Giovanni ritorna a più riprese, quasi come un filo conduttore, il tema del “rimanere” del discepolo nel Signore, questo filo conduttore trova nella fede di Maria di Magdala il suo estremo: Maria resta, “sta” (v. 11), mentre tutti gli altri discepoli se ne sono andati, tornandosene a casa (cf. Gv 20,10). Maria osa stare presso la tomba del Maestro, all’aperto, alla luce – simbolo spaziale della disponibilità coraggiosa all’accoglienza di una novità ancora possibile –, mentre tutti gli altri discepoli si rinchiudono nella casa, a “porte chiuse” (Gv 20,19), nell’ombra – simbolo spaziale della chiusura impaurita su di sé che non attende più nulla.
Ma lo stare, il rimanere luminoso e audace di Maria nello spazio drammatico di un’assenza può divenire il luogo dell’accoglienza di una presenza che rimette in moto ciò che si era inesorabilmente fermato solo grazie alla qualità di quello stare, di quel rimanere. Colpisce, nella lettura dei versetti che il lezionario ci propone come meditazione nella festa di Maria Maddalena, la presenza attiva, vigile, energica di questa donna. Nessuna rassegnazione all’ineluttabile, bensì tensione interiore fortissima, che la muove dal di dentro, e che il suo pianto esprime bene.

“Stava … vicino … e piangeva” (v. ,11). Solo l’amore tenace, pervicace, profondo per chi essa ha amato fin oltre la morte le permette di stare così vigile, di fronte a una presenza che è ormai solo dentro di lei. Ma una presenza ancora fortissima, che quella morte non ha potuto strappare dal suo cuore. Le sue lacrime vedono. E implorano di vedere altrimenti.
Dentro questa dinamica di implorazione di un “altrimenti” entra Gesù, con una domanda che si lascia bagnare da quel pianto cogliendolo come il bacino di una ricerca intensissima: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?” (v. 15). Il pianto di Maria diviene breccia, diviene canale d’acqua che conduce la “nuova” presenza di Gesù, ora vivo, a incontrare dentro il cuore di Maria quella “vecchia” presenza di Gesù ormai morto. Dentro l’acqua di quel pianto di Maria, come dentro il liquido amniotico di un utero fecondato, si genera il “nuovo” Gesù, quello della fede. Dentro quel pianto, come dentro l’acqua del battesimo, nasce una “nuova” fede in Gesù. E come fa chi battezza, Gesù pronuncia il nome, segno della vita nuova: “Maria!” (v. 16). La novità non è nel nome, quello suo di sempre, bensì nella vita nuova messa dentro a quel nome vecchio dall’uomo nuovo, Gesù risorto.
Allora “Maria si voltò” (v. 16), in un movimento di scoperta attonita di un “nuovo” Gesù, in perfetta continuità con il “vecchio”, ma in una qualità di relazione nuova. Nel cuore ha ancora parole vecchie, quelle con cui si rivolgeva al Rabbi lungo le strade della Galilea: “Maestro mio!” (v. 16), il nome usato tante volte e che naturalmente risorge spontaneo dal cuore.
Ma Gesù osa rivolgerle parole nuove: “Per continuare a stare con me devi andare”. Questo le dicono al cuore le parole tramandate da Giovanni: “Non mi trattenere … ma va’” (v. 17). E “Maria di Magdala andò” (v. 18), per restare con il suo Maestro e Signore, per dimorare con il suo vecchio Maestro divenuto suo nuovo Signore.

Giovani e Bibbia nella prospettiva del Sinodo dei giovani

Abbiamo fin qui ricercato la componente biblica nel Sinodo dei giovani, esaminando il Documento Preparatorio (v. NPG 8/2017, pp. 44-57) e nello Instrumentum Laboris (v. NPG 7/2018, pp. 60-64). Ora intendiamo mettere in luce tale tematica nell’Esortazione Apostolica Christus vivit (Chv) di Papa Francesco, e lo facciamo in diretta connessione con il Documento finale (Df) del Sinodo, in ciò motivati dall’espressa volontà del Papa (Chv. n. 4). Prendiamo quindi avvio da Christus vivit per integrarlo poi con il Documento finale.[1] Da tali documenti riceviamo il pensiero conclusivo del Sinodo: non una visione analitica ed esaustiva sul rapporto Giovani e Bibbia, ma una prospettiva di fondo entro cui impostare una pastorale biblica giovanile.[2]
Procediamo prima esaminando Christus vivit (I) e poi l’integrazione offerta dal Documento finale (II). Una parola ultima propone una sintesi di insieme (III).

I. IL FILO BIBLICO DI CHRISTUS VIVIT

Osserviamo subito tre cose.
* Lo scopo dei due documenti (Chv e Df) non è per sé biblico, non aspettiamoci quindi una riflessione esplicita in tal senso, e quindi se si appellano alla Bibbia, come di fatto ampiamente fanno, ciò assume un significato speciale, un ruolo particolare nei due testi.
* Nei due documenti tutto ciò che si dice di Bibbia, in forma diretta o indiretta, ha per riferimento i giovani, ma in un’ottica diversa: nel suo documento Papa Francesco intende fare una “esortazione”, cioè parlare direttamente ai giovani, dando loro del tu, in funzione di un convincimento dell’intelligenza e del cuore; invece il documento finale del Sinodo nomina i giovani in terza persona, ponendosi davanti a loro come una fonte ufficiale di sicura informazione.
* Si noterà che pur nella voluta connessione di Chv con Df, anche i contenuti biblici e il modo di enunciarli sono diversi. Si pensi soltanto al titolo dei due documenti: Christus vivit, attinto da una fonte paolina per il testo del Papa; “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale” per il testo sinodale. Si potrà parlare di una differenza nella continuità.

Un dato statistico

Punto di partenza illuminante in documenti come questo è il dato statistico, che in certo modo, dalla ripetizione o meno di termini, rivela l’intenzione dell’autore, cosa gli sta a cuore. Nel caso del nostro tema, abbiamo fatto una attenta ricerca a proposito delle citazioni dell’ AT e NT, dei vocaboli Bibbia, Sacra Scrittura, Vangelo, e specificamente sulla nomina della persona di Gesù, sia in citazioni bibliche sia in termini assoluti. Sono arrivato a questi risultati.
* Assolutamente maggioritario e centrale è la nomina di Gesù, a partire dal titolo dell’Esortazione Christus vivit. Il più delle volte si nomina Gesù a se stante, altre poche volte si usa il termine Cristo, Gesù Cristo, Signore. (ove il riferimento è a lui e non genericamente a Dio). Sovente è nominato con il pronome in terza persona “Egli, Lui…”. Si registrano 164 volte. È presente in tutti i 9 capitoli, il maggior numero compare nei cc. 2, 5.
Il riferimento alla persona di Gesù è continuo. Egli è il dato biblico dominante.
* Ma non mancano riferimenti espliciti alla Bibbia: 47 sono le citazioni dell’AT, in particolare nei cc. 1 e 4; 105 le citazioni del NT, in particolare dei vangeli, e ciò nei cc. 1,2,5. Sono citazioni pertinenti all’argomento, anche se esegeticamente non approfondite. Chiaramente il referente maggiore è Gesù.
*Infatti il vocabolo Vangelo è nominato 21 volte; Sacra Scrittura solo 3 volte, e così Bibbia 3 volte. In compenso si usa il termine Parola di Dio, 16 volte, per indicare la fonte biblica.