Mosè, l’uomo delle prove

PG e Arte / Storia “artistica” della salvezza

di Maria Rattà – (NPG 2019-04-76)

1.
La vita di Mosè si potrebbe definire come l’esistenza di un uomo messo alla prova. Da un re straniero, dalla propria impetuosità, da Dio e dal proprio popolo.
L’arte che illustra la prima parte della sua vita (dal contesto in cui nasce fino all’uscita dall’Egitto) mette sui piatti di una stessa bilancia la tenerezza e il dramma. È forte, ad esempio, l’impressione che si ha guardando tele come quelle di Edward John Poynter (Israele in Egitto, p. 4) che traccia – con dovizia di particolari e una prospettiva d’ampio respiro – la condizione degli Israeliti schiacciati dal potere. L’artista mette letteralmente in scena una vera e propria “macchina” dalle dimensioni gigantesche per il trasporto di un enorme leone in granito rosso. Il quadro si popola di figure e architetture che palesano lo sfarzo della corte faraonica, ma anche le durissime condizioni cui è sottoposto il popolo ebreo. Eppure, già qui compare uno spiraglio di umanità, nel dettaglio di un Egiziano che offre soccorso e acqua a uno schiavo caduto. È quasi un anticipo di quella tenerezza che accompagna i primi vagiti di Mosè, quando – dopo l’abbandono sulle acque del Nilo – proprio la figlia del faraone lo scopre e lo salva. Accanto all’ansia della madre che teme di essere scoperta, al suo dolore e alla disperazione (resa magistralmente da William Blake, p. 9) per un distacco innaturale, gli artisti descrivono anche la dolcezza di un “passaggio di consegne”, come fa Rupnik (p. 18) in un suo mosaico, in cui il bambino nella cesta galleggia sulle acque, mentre le braccia di due donne – la madre e la principessa – sono tese verso di lui, una per lasciare e l’altra per accogliere. Edwin Long crea invece un’immagine pervasa da una forte sensualità, ma anche da un sottofondo di tenerezza espresso nell’incontro delle mani del piccolo Mosè e della giovane principessa (p. 17). Le raffigurazioni artistiche assumono però un tono diverso quando comincia la vita del Mosè adulto. Poynter descrive la scena dell’uccisione dell’Egiziano narrando la circospezione di Mosè, l’angoscia della sua vittima e la “curiosità” di un personaggio misterioso che osserva da lontano (p. 20). Botticelli, per le Prove di Mosè nella Cappella Sistina, dispiega invece tutta l’impetuosità di Mosè, colto da una vera e propria foga che lo porta ad assassinare il nemico e poi a fuggire (p. 21). Da questa fuga comincia una vita nuova, in una nuova terra, e proprio in questa nuova terra Dio inizierà a rivelarsi al suo servo, apparendogli nel roveto ardente. Paura, stupore, indegnità, timore. Sono questi i tratti emotivi principali che connotano le opere relative all’episodio biblico (pp. 30-34). Ritornato in Egitto per chiedere al faraone la liberazione del popolo d’Israele, si srotolano, una dopo l’altra, le fila di dieci piaghe che Mosè profetizza di volta in volta al sovrano. L’arte qui parla ora il linguaggio di un realismo estremo (come nelle immagini di James Tissot) ora uno più “favolistico” (ma non meno impressionante) nei codici miniati medievali, che con la loro essenzialità non mancano di descrivere a tinte forti il contrasto tra la luce e il buio, tra il volere di Dio e l’ostinazione del faraone. Il manoscritto W.106, conservato presso il Walters Art Museum di Baltimora, ricorre a una netta separazione delle singole scene, in modo che salti subito agli occhi il divario incolmabile tra il popolo guidato da Mosè e quello capeggiato dal faraone. Immerso nella luce dorata il primo, nell’oscurità il secondo (pp. 54; 60). Il cuore del faraone si ammorbidirà solo dopo l’ultima, grande piaga: la morte dei primogeniti. Arthur Hacker immagina un angelo della morte in volo, vestito di rosso e con la spada sguainata (p. 64). Le sue vesti vermiglie sembrano vaporizzarsi in fumo all’estremità, ricordando quasi il sangue, quel sangue che per la Bibbia è segno della vita. È un angelo che affronta la propria missione coprendosi gli occhi, come a dire che la morte non guarderà in faccia nessuno, non farà sconti: anche il figlio del faraone, infatti, perderà la vita. Lawrence Alma-Tadema immortalerà in una sorta di “interno familiare” il dolore estremo che rende impietrito il padre in lutto, mentre Mosè e Aronne, sullo sfondo, giungono a fargli visita (p. 66). Finalmente il sovrano manderà via gli Israeliti… ma se ne pentirà e li inseguirà “nel” Mar Rosso aperto da Mosè. Sarà una vera e propria carneficina: gli Egiziani saranno travolti dalle acque che si richiudono, e periranno in mare. Così ce li mostrano Cosimo Rosselli, Ivan Aivazovsky e Frederick Arthur Bridgman (pp. 79-80), in immagini animate da potenti giochi di luce, in cui la vita e la morte entrano prepotentemente in scena.

 

È plausibile per i giovani d’oggi credere in Dio?

Da Note di Pastorale Giovanile

di Franco Garelli
(Professore di sociologia presso l’Università di Torino, dove è stato preside della facoltà di scienze politiche ed ha diretto il dipartimento Culture, Politica e Società. È membro della Associazione Italiana di Sociologia e dell’International Society for the Sociology of Religion. I suoi studi riguardano principalmente il mondo giovanile e il fenomeno religioso nella società contemporanea).

C’è molto pessimismo, vi sono tanti profeti di sventura, sia nelle analisi della situazione religiosa italiana, sia nelle ‘letture’ dell’attuale condizione giovanile. Guardando all’insieme della società vari studiosi e osservatori ritengono che la nostra nazione si stia lentamente avvicinando allo scenario che da tempo caratterizza i paesi del Centro-Nord Europa, già investiti alcuni decenni or sono da un processo di secolarizzazione che ha spezzato gli antichi legami.

Molti parlano di un cristianesimo che nel vecchio Continente ha ormai esaurito la sua traiettoria sociale, che non costituisce più la cultura comune, relegato ai margini della società e della storia. Ciò che un tempo è stata la culla della proposta cristiana oggi rischia – anche nella percezione di molti uomini del sacro – di trasformarsi nella sua tomba. Ampie quote di popolazione si starebbero spogliando poco a poco delle radici religiose, d’un legame di affinità durato per secoli, il cui segno più evidente viene individuato nella perdita della fede da parte delle nuove generazioni o nella loro indifferenza sulle questioni ultime o penultime dell’esistenza. E proprio i giovani sono al centro di numerose analisi che non si limitano a descriverli come soggetti ormai privi di antenne per Dio, insensibili ai grandi temi dell’esistenza, tutti tesi a cercare la felicità altrove dalla religione; ma che fanno risalire l’apatia religiosa all’affermarsi di una cultura individualistica e nichilista che riduce le prospettive e gli orizzonti, indebolisce le coscienze, le rende prive di valori e di riferimenti morali. Sotto accusa, dunque, c’è una società in cui tutto sta evaporando, dalla famiglia alla scuola alla chiesa.

Siamo davvero di fronte alla prima generazione incredula? A uno tzunami secolare che rende vano l’annuncio cristiano? Le chiese vuote o meno frequentate indicano che si sta riducendo la spazio non soltanto per i messaggi proposti dalle chiese e dalle religioni storiche, ma anche per la ricerca di senso e per il sentimento religioso tout court?
Le ultime indagini sulle nuove generazioni segnalano certamente che lo scenario religioso è in profonda trasformazione rispetto al passato, caratterizzato da un misto di chiari e scuri che occorre saper decifrare per evitare indebite generalizzazioni.

Le tre A della Pastorale Giovanile: ascolto, annuncio, accompagnamento

Dal sito di Note di Pastorale Giovanile:

Meditazione introduttiva di don Rossano Sala, Segretario Speciale del Sinodo, al XVI Convegno Nazionale di Pastorale Giovanile “DARE CASA AL FUTURO Le parole coraggiose del Sinodo dei Giovani”, organizzato dalla CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA  – Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile.

Emmaus, molto più che un’immagine biblica

Il brano biblico che abbiamo ascoltato è stato scelto dai Padri sinodali per esprimere il cammino compiuto al Sinodo e il percorso che si attendono dalla Chiesa del Terzo millennio. Conviene risentire la loro parola per metterci in comunione con loro: «Abbiamo riconosciuto nell’episodio dei discepoli di Emmaus (cfr. Lc 24,13-35) un testo paradigmatico per comprendere la missione ecclesiale in relazione alle giovani generazioni. Questa pagina esprime bene ciò che abbiamo sperimentato al Sinodo e ciò che vorremmo che ogni nostra Chiesa particolare potesse vivere in rapporto ai giovani. Gesù cammina con i due discepoli che non hanno compreso il senso della sua vicenda e si stanno allontanando da Gerusalemme e dalla comunità. Per stare in loro compagnia, percorre la strada con loro. Li interroga e si mette in paziente ascolto della loro versione dei fatti per aiutarli a riconoscere quanto stanno vivendo. Poi, con affetto ed energia, annuncia loro la Parola, conducendoli a interpretare alla luce delle Scritture gli eventi che hanno vissuto. Accetta l’invito a fermarsi presso di loro al calar della sera: entra nella loro notte. Nell’ascolto il loro cuore si riscalda e la loro mente si illumina, nella frazione del pane i loro occhi si aprono. Sono loro stessi a scegliere di riprendere senza indugio il cammino in direzione opposta, per ritornare alla comunità, condividendo l’esperienza dell’incontro con il Risorto» (Documento Finale, n. 4).
Emmaus è la storia di due discepoli visitati dal Signore Gesù. Non solo: è anche la storia della Chiesa nel suo insieme; esprime poi ciò che ci viene richiesto oggi per camminare insieme con i giovani; è stata perfino l’esperienza spirituale fatta durante l’Assemblea sinodale. Penso che possa essere, a ragion veduta, il filo rosso di questi giorni.
Vorrei augurarvi proprio questo: che il Convegno che stiamo incominciando sia la riproposizione di una conversazione con Gesù capace di portarci alla conversione a Gesù: un momento di crescita integrale per ciascuno di noi; uno spazio aperto all’ascolto e all’attenzione autentici; un tempo di condivisione e di conversione radicale; un’esperienza in cui il nostro cuore possa ritrovare calore e ardore; un momento in cui prendere decisioni coraggiose per il bene della Chiesa e di tutti i giovani, nessuno escluso; un piccolo Sinodo che ci faccia vivere, lavorare e camminare insieme.

Tre bagni più che necessari

Guardando il programma di questi giorni viene naturale pensare alle tre tappe di Emmaus: riconoscere con realismo, interpretare con fede, scegliere con corag­gio. Come ha strutturato il Sinodo dall’interno, Emmaus configura anche questo Convegno nei suoi diversi momenti, che ci ripropongono un cammino similare.
Siamo sul mare, qui a Terrasini, in questa splendida isola che è la Sicilia. È il tempo dei primi bagni. Forse avremo occasione di farlo! Mi sembra che l’immagine del bagno – che dice immersione, contaminazione, purificazione, esperienza – possa aiutarci a incarnare ciò che vivremo insieme.
Ascolteremo il prof. Silvano Petrosino che ci farà fare il primo bagno: il bagno della realtà. È la parte dedicata all’ascolto empatico, in cui Gesù mette tutto se stesso in stato di “attenzione ospitale”: chiede ai due viandanti di esprimersi e lascia che l’angoscia e la delusione escano allo scoperto e le respira nella sua anima. È il momento del riconoscere, che ci chiede silenzio interiore e disponibilità a lasciarci toccare dalla realtà così com’è. Sine glossa, senza fronzoli: nella sua drammaticità e anche tragicità. E questo ascolto, quando è vero, genera turbamento del cuore e stravolgimento degli affetti. Papa Francesco in Christus vivit ci chiede di saperci commuovere, di saper piangere per e con i giovani di oggi (cfr. nn. 75-76).
Ascolteremo con grande interesse fr. Alois, priore di Taizé. È il secondo bagno: il bagno della spiritualità. Al Sinodo la sua presenza è stata molto qualificante. La sua presenza, ho detto: semplice e profonda, riconciliata e gioiosa, radicale e normale. Prima delle sue parole, che sono state altrettanto efficaci. Perché la spiritualità è prima di tutto questione di presenza prima che di parola, di bellezza prima che di riflessione, come avremo occasione di percepire visitando i tesori di Monreale. La verità cristiana, nella sua delicatezza potente e nella sua attrattività luminosa ci apre il campo per interpretare alla luce della grazia le sfide emerse dall’ascolto. Certo, perché non basta il contatto e il confronto con la realtà, è necessario ritrovare i criteri della fede per poterla prima illuminare, poi comprendere e infine trasformare.
Infine il terzo bagno: il bagno della decisione. Il dialogo e il confronto fra don Salvatore Currò e don Giuliano Zanchi, mediato da suor Alessandra Smerilli ci porterà ad entrare nella concretezza della nostra Chiesa italiana, che è chiamata a prendere posizione, a fare la sua parte, a mettersi in gioco con coraggio, a non restare con le mani in mano. Come ha fatto don Pino Puglisi, con cui avremo il dono di confrontarci. Il Papa ce lo aveva detto a Firenze il 10 novembre 2015: «Ma allora che cosa dobbiamo fare, padre? – direte voi. Spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme». Lo ha ripetuto in Christus vivit: «Esorto le comunità a realizzare con rispetto e serietà un esame della propria realtà giovanile più vicina, per poter discernere i percorsi pastorali più adeguati» (n. 103).
È importante questo passaggio: papa Francesco non vuole decidere per noi, allo stesso modo in cui Gesù non decide al posto dei due viandanti con cui cammina! Entrambi ci chiedono di attivarci attraverso un autentico discernimento che arriva a scegliere ciò che nel Signore riterremo più opportuno. Emmaus non si conclude con un invio esplicito da parte di Gesù, ma con la scelta da parte dei due di ritornare a Gerusalemme, nel cuore della comunità, per portare loro la gioia del Vangelo. Gesù li ha ascoltati con pazienza, gli ha aperto la mente con determinazione, li ha nutriti con cura, gli ha riscaldato il cuore con ardore. E poi li ha delicatamente abbandonati, è sparito dalla loro vista, nascondendosi in loro. Ora devono essere coerenti rispetto all’incontro avuto e prendere posizione. Sono chiamati ad uscire allo scoperto, a illuminare la notte!

Tre doni che diventano compiti

Vorrei chiedere per voi e con voi tre grandi doni per questi giorni di crescita spirituale e di condivisione operativa. Essi diventano per noi compiti, perché ogni dono è sempre qualcosa che ci impegna per il suo sviluppo. I doni sono sempre talenti da investire e semi da far fruttificare, mai tesori da trattenere e nascondere.
Prima di tutto il dono/compito dell’ascolto. È il primo passo per entrare con verità nel ritmo del discernimento. Ascolto delle persone e ascolto dello Spirito che parla in loro e in noi. Ascolto empatico, capace di lasciarsi cambiare da ciò che ci tocca l’anima. La cartina al tornasole di un autentico ascolto è il mutamento del proprio punto di vista, una conversione del cuore. Un Padre sinodale – un delegato fraterno – nel suo intervento ci aveva augurato che l’ascolto dei giovani potesse provocare in noi ciò che la parola della donna di origine siro-fenicia aveva provocato in Gesù (cfr. Mc 7,24-30): un cambiamento di sguardo, una diversa posizione e una nuova decisione. È stato un bell’augurio, speriamo di farlo diventare nostro anche qui a Terrasini! D’altra parte – va detto – non è per niente facile entrare nel ritmo dell’ascolto, perché esso scardina alcune nostre sicurezze e convinzioni: è molto più facile restare al livello dell’udire (che rimane solo sul piano intellettuale) o del sentire (che ci tocca solo le emozioni), senza mai arrivare ad un autentico ascolto, che arriva ad una profondità esperienziale ed esistenziale integrali.
Il secondo è il dono/compito dell’annuncio. Il dono di accogliere la verità e il dono di dire la verità. I giovani vanno cercati nella loro sete di verità. Soprattutto oggi. Anche qui vi racconto un piccolo episodio sinodale. Un altro Padre sinodale, il superiore generale dei domenicani, padre Bruno Cadoré, un uomo di grande finezza intellettuale e spirituale, mi raccontava come tutti i giorni scendendo dalla Curia generalizia di santa Sabina sul colle Aventino per venire al Sinodo passava davanti alla Chiesa di Santa Maria in Cosmedin, dove si trova la famosa “bocca della verità”. E mi diceva che ogni mattina c’era sempre fila, e in fila molti erano giovani. “Hanno sete di verità”, mi diceva, “e noi siamo chiamati ad incontrarli esattamente lì, nel loro desiderio di verità”. E ad annunciare loro la verità che è il Vangelo. In un mondo gremito di fake news e dominato dalla post-truth siamo chiamati a farci portatori del “grande annuncio a tutti i giovani” (cfr. Christus vivit, nn. 111-133).
Il terzo è il dono/compito dell’accompagnamento. È l’acquisizione della signorilità e della discrezione di Gesù, che sa camminare con noi, aprirci la mente e scaldarci il cuore, e poi ci dice di diventare adulti, di prendere coraggiosamente in mano la nostra vita. Un Padre sinodale diceva che a Emmaus Gesù ha il coraggio di “sparire nella missione della Chiesa”, di nascondersi in noi e di lasciare alla nostra libertà lo spazio della decisione e dell’azione. Grande azzardo di Dio e immensa responsabilità per ciascuno di noi! Abbiamo parlato molto al Sinodo della presenza e dell’iniziativa dei giovani nella Chiesa e nel mondo. Abbiamo sentito Padri sinodali che hanno denunciato una pastorale che non lascia spazio ai giovani, che più accompagnarli li sostituisce, più che liberarli li incatena, più che attivarli li rende innocui, più che vivificarli li mortifica. Gesù invece rianima, riattiva, riabilita la libertà. In questo senso «Gesù esercita pienamente la sua autorità: non vuole altro che il crescere del giovane, senza alcuna possessività, manipolazione e seduzione» (Documento finale, n. 71). L’autorità non è un potere direttivo, ma una forza generativa: chiediamo dunque di diventare come Eli, che offre a Samuele la sua esperienza di vita e poi si fa da parte con prontezza ed eleganza; di imparare da Giovanni Battista, che sa indicare ai suoi discepoli l’agnello di Dio e chiede loro di seguirlo, facendo lui per primo quello che chiede loro di fare.
Soprattutto chiediamo di imitare Gesù, che non è venuto per derubarci della nostra esistenza, ma per chiederci di prenderla in mano con entusiasmo e metterla a servizio degli altri con generosità. Perché Egli desidera che noi tutti, insieme con tutti i giovani, abbiamo la vita l’abbiamo in abbondanza (cfr. Gv 10,10).
Penso, per concludere questo momento introduttivo, che la corretta e profetica integrazione di queste tre dinamiche decisive della nostra missione con e per i giovani – ascolto, annuncio e accompagnamento – possa essere il frutto maturo di questa breve, intensa e promettente esperienza spirituale che abbiamo appena incominciato. Buon Convegno a tutti!

 

Come degli sherpa: che cosa significa accompagnare

Pedagogia dell’accompagnamento educativo /1

Raffaele Mantegazza

(NPG 2019-04-64)

Taciti, soli, sanza compagnia
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
come frati minor vanno per via.
Dante, Commedia, Inferno, XXIII, 1-3

Che cosa significa accompagnare spiritualmente ed educativamente un ragazzo o un adolescente? Si sa che la parola “accompagnare” deriva dal latino “cum+panis”: compagno è colui che mangia il pane insieme a me, che mangia il mio pane o che condivide il suo fino a che le parole “mio” e “suo” perdono di senso; e non può non venire in mente la narrazione dei discepoli di Emmaus nella quale proprio il pane spezzato trasforma lo sconosciuto pellegrino da casuale percorritore della stessa strada a vero accompagnatore spirituale, al quale i discepoli (che adesso si sanno tali) hanno appena chiesto di prolungare il piacere della sua compagnia: “quando fu a tavola con loro prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede loro. Allora i loro occhi furono aperti e lo riconobbero” (Lc 24, 30.31). “Accompagnare” significa diventare compagni e spezzare il pane insieme, ri-conoscersi, dunque, conoscersi di nuovo sulla strada che si sceglie di percorrere insieme.

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“Adulti, per favore: stateci a sentire”: lettera aperta di una tredicenne

Virginia Di Vincenzo, 13 anni, frequenta la II media nella scuola Oscar Levi a Chieri (Torino). In questa lettera aperta, rivolta agli adulti – genitori, insegnanti, educatori – Virginia scrive delle riflessioni sul mondo “dei grandi” e rivolge a tutti delle domande.

LA PAROLA AI RAGAZZI

(NPG 2019-04-60) 

Cari adulti,

perché scrivo? Perché vi scrivo?
Ho solo 13 anni, ho già 13 anni; ovviamente non sono ancora adulta ma lo diventerò, e intanto ci siete nel nostro mondo e noi ci siamo nel vostro. Insomma, condividiamo tante cose, ma in tante altre siamo diversi.
Anche se ci dite che a volte siamo incomprensibili a voi (ma anche voi, credetemi, lo siete per noi), e anche se a volte ci fate tenerezza, a volte rabbia, vorrei dialogare con voi, perché ho delle cose da dire, e non mi va più di stare soltanto ad ascoltarvi.
Parlo per me, ma parlo anche per i miei amici e compagni. Cosa credete che facciamo nelle nostre interminabili conversazioni e telefonate? Parliamo di noi, certo, ma parliamo anche di voi e di come vi vediamo, cosa proviamo, cosa vorremmo.
Ecco, dunque, un dialogo con voi in forma di lettera (sperando che leggere vi costi meno fatica che ascoltarci). E parto subito da una parola che forse voi avete abolito dal vostro vocabolario per senso di “realismo” (o opportunismo?), ma che noi ci fa ancora sobbalzare e ci attrae: la Felicità.
Essa deriva – lo abbiamo appreso da alcuni libri di letteratura che studiamo a scuola e anche da alcuni film che ci hanno emozionati e che rivediamo quasi ossessivamente – dal compimento di un sogno inseguito, soprattutto se con fatica, anche con sofferenza. E ci chiediamo: perché ci dite subito che la realtà non è così e non volete lasciarci sognare? Perché “addomesticate” la parte della nostra mente che ci fa desiderare di raggiungerla? Perché ci fate sentire esagerati quando puntiamo ad arrivarci, in alto? Forse perché avete dimenticato cosa significhi immaginare, darsi degli obiettivi, per quanto grandi e “impossibili” sembrino. Beh, questo proprio non ci va, non vogliate in questo essere per noi “modelli”! Non capiamo la vostra indifferenza nei confronti di quei piccoli dettagli “perfetti” che ci capita di incontrare ogni giorno; non capiamo la vostra disillusione e la vostra paura che si tratti solo di un’illusione; non capiamo la vostra carenza di curiosità e di domande, sì, proprio quelle domande che ritenete stupide quando ve le poniamo. Eppure un uomo che non si pone domande “stupide” non è un uomo intelligente.
Ricordate quando, camminando per strada, osservavate le facce di tutti i passanti e immaginavate una storia per ognuno di loro? Ricordate cosa si prova ad amare per la prima volta e ad essere amati per la prima volta? Ricordate tutte le litigate coi genitori senza un motivo, forse per sfogo, forse per stanchezza? Ricordate cosa si prova ad essere adolescenti? Probabilmente no, e allora è un gran peccato perché forse, se ricordaste, potreste aiutarci ad affrontare questa fase che ci rende spavaldi e intimoriti. Ma, in parte, è una cosa positiva, perché questa, oltre ad essere l’età della speranza, delle nuove emozioni e dei castelli in aria, è anche l’età in cui dobbiamo imparare a cavarcela da soli, a maturare e a raggiungere l’autosufficienza.
Siamo ad-olescenti… e la parola stessa (ci avete “linguisticamente” spiegato, ma noi lo sentiamo sulla nostra pelle, e nel nostro corpo e nella nostra mente) indica tensione in direzione di una pienezza. Oggi questa pienezza – lo constatiamo – viene in genere associata all’essere apprezzati da tutti, al rispettare gli standard imposti dalla società, invece che rappresentare per ognuno un proprio modo di essere. Siamo obbligati a stare dentro a dei limiti che vorremmo valicare, ma nei quali rimaniamo per paura di essere criticati. Tutto questo è difficile da capire e soprattutto da accettare. Posso sognare? Vorrei un mondo nel quale ognuno possa mostrare ed esprimere la parte più autentica di sé, senza maschere né timore del giudizio altrui. Ognuno di noi ha dei propri pregi e valori, degli aspetti che ci contraddistinguono dalla moltitudine, e dovremmo imparare a mostrarli e a sfruttarli. Dovremmo imparare ad aiutare gli altri a comprendere le loro peculiarità specifiche e soprattutto a rispettarle, per quanto diverse dalle nostre siano. Sarebbe un passo in avanti verso il sentirci e condividere una comune umanità.

 

 

 

NPG, sul numero di aprile/maggio focus sugli oratori della Lombardia

Ancora nella scia del Sinodo sui/dei giovani, il numero cartaceo di NPG di aprile/maggio affronta un tema che è risuonato molto al Sinodo stesso e che la pastorale giovanile intende rilanciare: l’oratorio come casa dei giovani, o meglio come luogo della comunità ecclesiale dove si esprime la passione educativa verso i ragazzi e i giovani.
Questo numero racconta storia, progettualità, realizzazione di una esperienza che in Italia è tra le più vive e ammirate, quella degli ORATORI LOMBARDI.
Non ovviamente per “negare” altre vive esperienze italiane, quanto per rilanciarne l’idea e la pratica anche attraverso modalità diverse e tradizioni legate a territori e congregazioni religiose.
Tutto per tenere desta una fiamma che ha alimentato tanta pastorale giovanile nel passato e nel presente. 

 

NPG, i “cantieri di rinnovamento aperti dal Sinodo”

Di Don Rossano Sala (NPG-2019-04-2) 

Nel suo discorso di apertura all’Assemblea sinodale, il 3 ottobre 2018, papa Francesco ci esortava a risvegliare i nostri cuori. Coloro che erano presenti hanno sentito il calore e la soavità delle sue parole. Proviamo almeno ad immaginarci il clima di entusiasmo e di attesa all’inizio di un momento così bello di Chiesa. Ecco il passaggio preciso:

Fratelli e sorelle, che il Sinodo risvegli i nostri cuori! Il presente, anche quello della Chiesa, appare carico di fatiche, di problemi, di pesi. Ma la fede ci dice che esso è anche il kairos in cui il Signore ci viene incontro per amarci e chiamarci alla pienezza della vita. Il futuro non è una minaccia da temere, ma è il tempo che il Signore ci promette perché possiamo fare esperienza della comunione con Lui, con i fratelli e con tutta la creazione. Abbiamo bisogno di ritrovare le ragioni della nostra speranza e soprattutto di trasmetterle ai giovani, che di speranza sono assetati; come ben affermava il Concilio Vaticano II: “Legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza” (Gaudium et spes, 31).

Non c’è nessun momento nella storia in sé troppo negativo da non poter essere affrontato con la forza e la tenerezza della fede. Nemmeno quello che stiamo vivendo, seppur carico di novità, complessità e grande cambiamento. Mi sono chiesto in questi ultimi mesi se nell’insieme ecclesiale siamo in grado di trasmettere ai giovani ragioni di vita e di speranza. La vita, d’altra parte, è destata solo dalla vita, e la speranza è un qualcosa che si trasmette solo per contagio.
Se abbiamo vita e speranza lo possiamo però vedere attraverso dei segni. È quello più importante, a mio parere, è la laboriosità. Avere vita e speranza non ci fa stare con le mani in mano, ma ci mette decisamente in movimento. La regola che ci ha trasmesso san Paolo – «Chi non vuol lavorare neppure mangi» (2Ts 3,10) – vale anche per noi oggi! Vale per coloro che camminano quotidianamente con i giovani. C’è una buona laboriosità da risvegliare: spirituale, culturale, educativa e pastorale. Senza questa tensione pratica il Sinodo non decollerà nei nostri ambienti.

Rimbocchiamoci le maniche! Non basta pensare per i giovani, non basta nemmeno pregare per e con loro. Bisogna mettersi in movimento, aprire cantieri per loro e con loro. Di don Bosco si racconta che alla domanda di come avrebbero dovuto vestirsi i suoi figli spirituali, la risposta fu chiara: “In maniche di camicia”! Gente che lavora per i giovani, non semplicemente che parla dei giovani! I giovani ci chiedono questo: prossimità, creatività e concretezza! Se il nostro cuore si è risvegliato, di certo la nostra intelligenza si è rimessa in moto e quindi anche le nostre mani devono agire con decisione.

[continua a leggere sul sito di NPG]

 

 

NPG, sul numero di marzo approfondimenti sul Sinodo diocesano

La nuova Newsletter 

Abbiamo inviato ai nostri “abbonati on line” la Newsletter di MARZO, il cui tema principale (con materiali aggiuntivi di approfondimento) è IL SINODO DIOCESANO. Esperienze in territorio.
Ma nel MENU /NPG VINTAGE riproponiamo anche due NL speciali: quella dei 50 anni di NPG e quella su Riccardo Tonelli a tre anni dalla sua morte.

La rivista NPG: novità del 2019

– Tutta l’annata 2018 si è concentrata sui temi del Sinodo sui giovani, a cominciare dallo speciale di febbraio 2017: LA CHIESA IN CAMMINO VERSO IL SINODO, idealmente collegato con il dossier di gennaio 2018, le RISPOSTE (italiane) AL QUESTIONARIO DEL SINODO, e il numero di settembre-ottobre 2018: NEL CUORE DEL SINODO. Vedere anche nella rubrica apposita gli Editoriale del Direttore.
– Il nostro impegno per il 2019 è di continuare e approfondire le tematiche proposte.

– Proponiamo qui la PROGRAMMAZIONE 2019.

Il sito NOTE DI PASTORALE GIOVANILE

Abbiamo cercato di razionalizzare le tematiche trattate, unificando, dando un ordine sia logico che “visuale”. Per esempio, sul lato sinistro della HOMEPAGE, tutto ciò che riguarda NPG; sul lato destro le rubriche attuali, non solo di NPG. Il lavoro proseguirà ancora, anche con i suggerimenti dei visitatori.

Intanto il visitatore potrà gustare il nuovo format del sito (Joomla3.9 invece del precedente 1.5). Il lavoro è ancora in fase di rodaggio. Ogni comunicazione al riguardo è gradita.

Nel menu la voce TUTTO IL SITO presenta in forma organica la strutturazione del sito quanto ai suoi contenuti. L’articolo MAIN MENU DEL SITO presenta invece la visualizzazione dei contenuti come appare al visitatore (nella parte in alto della pagina).