NPG, “No balconear” la rubrica ispirata (da) a Papa Francesco

Il gergo di Francesco
Non “balconear” la vita, ma tuffarsi come ha fatto Gesù
Jorge Milia

Nel gergo del lunfardo [i] argentino il verbo “balconear” significa “stare a guardare dalla finestra” o dal balcone. Come in italiano, descrive un atteggiamento di pura curiosità, dove non c’è partecipazione, come uno spettatore davanti al quale sta accadendo qualcosa che non lo riguarda, e quindi può permettersi di criticare sempre degli aspetti che non gli piacciono o su cui non è d’accordo; lui, comunque, non si coinvolge mai, si tiene da parte.
Negli anni della nostra infanzia e adolescenza, quando il giovane insegnante Bergoglio era nostro professore, la scuola dell’Immacolata Concezione di Santa Fe partecipava con altre scuole cattoliche alla processione del Corpus Christi assieme ai fedeli. Durante il lungo percorso che attraversava tutto il centro cittadino, era comune vedere molti “balconeros”: famiglie che con qualche immagine religiosa e un paio di candele sul balcone attiravano l’attenzione e si dedicavano a salutare i fedeli in processione e a fare dei commenti. In certe zone, quasi ogni cento metri, c’erano una o due case con delle persone che si dedicavano alla stessa “pratica”. A me stupiva un po’ perché i miei nonni materni, quelli che erano ancora vivi, anche se anziani e pieni di acciacchi camminavano con i membri della loro parrocchia e non avevano mai preso in considerazione l’idea di “balconear”.

 

“Caro prof, quali sono i bravi docenti?”

Dalla rubrica di Note di Pastorale Giovanile: “Parole adolescenti”

Caro Prof,
anche in questa lettera voglio parlarle della scuola e spero di non stancarla visto che lei la vive tutti i giorni; del resto è così pure per me, forse più difficile visto che quest’anno è un mondo nuovo. Nuovo sì, ma ogni giorno mi piace sempre di più e il latino e il greco sono lingue meno morte di quanto si dica. Faccio fatica, studio con impegno, e poi non posso trascurare le altre materie, per quanto abbia una passione per il mondo classico come avrà capito. Con i miei compagni al momento tutto bene, ma perché ci sia una buona scuola e un buon ambiente servono dei bravi professori (e qui tocco un po’ il suo ambito, spero non si arrabbi se le dico io cose che certamente Lei conosce già). E quali sono i bravi professori? Per me è bravo un professore che, al posto di mettersi davanti a una classe di ragazzi semi-addormentati e ripetere in modo stanco ciò che è scritto sul libro, riesce a mettere un po’ del suo sapere e dei suoi studi in ciò che spiega, e faccia capire che la cosa che sta spiegando è la più importante del mondo, e che ha cambiato lui quando l’ha scoperta. Un bravo professore, secondo me, non perde la voglia di spiegarti dieci venti cento volte lo stesso concetto e, soprattutto, non perde la voglia di farti mettere in gioco, di darti anche un tuo spazio dove poter condividere il tuo personale pensiero. Un professore che non perde la voglia di farti essere assetato di conoscenza e di essere assetato lui stesso di conoscenza. Perché in fondo è così, un bravo professore fa imparare ai ragazzi ma, allo stesso tempo, impara tantissimo da loro. È per questo tipo di confronto e di scambio che vorrei essere una professoressa, un giorno. Per essere in grado di dare e ricevere, per dare le cose belle che avrò dentro, per ricevere le cose belle che incontrerò negli allievi.
Comunque, sia con bravi che con pessimi professori, a scuola bisogna anche fare dei sacrifici. Ad esempio ci sono delle materie che, indipendentemente dai professori o dai compagni, ci “pesano”. A quel punto tocca a noi fare qualche sacrificio, impegnarsi un po’ di più, dire di no a qualche uscita con gli amici piuttosto che un pomeriggio di ozio. È successo a tutti di essere stanchissimi e di non avere voglia di studiare o fare i compiti. Ma bisogna fare la nostra parte, faticare ogni tanto se si vuole arrivare in alto. Se si vuole arrivare alla cultura, alla conoscenza, al “sapere” che, a parer mio, è la miglior risorsa su cui un uomo possa contare. Può farci vivere consapevoli di ciò che ci sta intorno e di noi stessi, rendendo tutto un po’ più interessante o almeno meno superficiale, meno grossolano.
Ma il primo passo per avere una cultura è essere curiosi. La curiosità è uno dei pregi che preferisco nelle persone (anche se a volte può diventare un difetto, un’invadenza). La curiosità ci spinge “oltre”, elimina tanti limiti. Ci fa rendere conto del fatto che c’è sempre qualcosa in più da sapere, da fare, da chiedersi. Quindi quando mi chiedono come mai la scuola, tutto sommato, mi piaccia, io rispondo che sono una persona curiosa. E attenzione, una persona curiosa non è “secchiona” né “pazza”. Conosco tante persone curiose che hanno amici, hanno il tempo di uscire e avere hobby e piaceri.
Visto che prima ho parlato di “arrivare in alto”, voglio concludere con una frase che davvero racchiude tutto ciò che mi sta a cuore e che ho cercato di dire in questa lettera scritta tra un giorno di scuola e un altro. Le ha dette un “classico”, un greco la cui lingua dicono che sia morta, ma il cui pensiero ancora esprime civiltà: Plutarco. Egli scriveva: “La mente non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere”.
Buona scuola, La saluto.
Virginia

NPG – Il compito della recezione. Le “Linee progettuali” per la pastorale giovanile italiana

di Don Rossano Sala

Noi di NPG siamo sempre contenti e onorati di accogliere, condividere e amplificare le parole dei Convegni Nazionali di Pastorale Giovanile della Conferenza Episcopale Italiana. Quest’anno eravamo tutti a Terrasini (PA) dal 29 aprile al 2 maggio. Come sempre un’esperienza coinvolgente e luminosa, ben articolata tra le diverse relazioni, le qualificate esperienze sul territorio e un clima sempre amichevole e costruttivo.
È stato un piccolo tassello del compito che non solo ci attende, ma che sta diventando in molti nostri ambienti educativo-pastorali una realtà tangibile: la ricezione del Sinodo. Ricezione viene da “ricevere”, da “fare proprio”. Il Sinodo è dunque un dono di cui dobbiamo appropriarci, facendolo diventare vita della nostra vita. È una dinamica di incarnazione operativa, quella della ricezione. Cioè bisogna ascoltare ciò che la Chiesa universale ha detto e fatto in questi ultimi tre anni per poterlo creativamente e coraggiosamente ritradurlo nelle nostre Chiese locali, mettendo in campo scelte educative e pastorali concrete.
È evidente infatti che tra il livello mondiale, quello nazionale e quello locale va fatta un’opera di mediazione sapiente che non né semplice, né immediata, né automatica. Papa Francesco dice cose per tutti e porta nel suo cuore le gioie e le speranze della Chiesa universale, e al Sinodo ci siamo accorti che il mondo è sì piccolo ma anche molto diverso nei diversi contesti, nelle differenti sfide e nelle dissomiglianti opportunità. D’altra parte chi ha un minimo di conoscenza della situazione sociale, giovanile ed ecclesiale italiana sa che anche qui c’è molta continuità, ma insieme tanta discontinuità. Non si può proporre una cosa che vada bene per tutti senza metterci mano con sapienza e prudenza.
La parola giusta nel tempo della ricezione è allora creatività. Per essere più precisi: fedeltà creativa. Ci può essere infatti una “fedeltà ripetitiva”, che applica senza intelligenza e senza criterio. E ci può anche essere una “creatività infedele”, incapace di inserirsi nei percorsi della Chiesa, sia universale che nazionale. Invece si tratta davvero di fedeltà creativa: cioè di quella capacità di liberare le proprie qualità innovative e i talenti ricevuti in un autentico spirito di continuità con i cammini ecclesiali in atto.
Mi preme a questo proposito ricordare che la prima parola d’ordine del cammino sinodale di questi tre anni è stata discernimento. La Chiesa, in un cambio d’epoca dove non è possibile applicare delle ricette pronte (per il semplice motivo che non ne abbiamo!) deve mettere tutte le proprie energie in campo – energie del cuore, della mente e delle mani – per aprire cammini di rinnovamento pastorale:

Non possiamo pensare che la nostra offerta di accompagnamento al discernimento vocazionale risulti credibile per i giovani a cui è diretta se non mostreremo di saper praticare il discernimento nella vita ordinaria della Chiesa, facendone uno stile comunitario prima che uno strumento operativo. Proprio come i giovani, molte Conferenze Episcopali hanno espresso la difficoltà di orientarsi in un mondo complesso di cui non hanno la mappa (Instrumentum laboris, n. 139).

In tale direzione, la mia convinzione è chiara e radicata: la pastorale giovanile può e dev’essere un laboratorio permanente e un banco di prova per il rinnovamento della pastorale della Chiesa intera nel cambio d’epoca che stiamo vivendo. Se fallisce la pastorale giovanile, la Chiesa sta preparando il suo tracollo; se la pastorale giovanile riesce a trovare vie inedite e creative di coinvolgimento dei giovani, il rinnovamento ecclesiale sarà inevitabile e il cambio di passo avverrà con una certa naturalezza! Proprio perché avere a che fare con le giovani generazioni significa frequentare il futuro che ci attende come Chiesa nella società del nostro tempo.
E questo bisogna farlo insieme. Per questo la seconda parola d’ordine al Sinodo è stata proprio sinodalità. Bisogna fare squadra, costruire relazioni lavorando in rete, è necessario cercare alleanze, soprattutto essere convinti che da soli non si va da nessuna parte. I giovani al Sinodo ce lo hanno ripetuto in mille declinazioni: siate davvero fratelli, lavorate insieme, prediligete la comunione come via regale della missione e così sarete credibili ai nostri occhi e anche noi potremo essere con voi come protagonisti del cambiamento che tutti auspichiamo:

La pastorale giovanile non può che essere sinodale, vale a dire capace di dar forma a un “camminare insieme” che implica una «valorizzazione dei carismi che lo Spirito dona secondo la vocazione e il ruolo di ciascuno dei membri [della Chiesa], attraverso un dinamismo di corresponsabilità. […] Animati da questo spirito, potremo procedere verso una Chiesa partecipativa e corresponsabile, capace di valorizzare la ricchezza della varietà di cui si compone, accogliendo con gratitudine anche l’apporto dei fedeli laici, tra cui giovani e donne, quello della vita consacrata femminile e maschile, e quello di gruppi, associazioni e movimenti. Nessuno deve essere messo o potersi mettere in disparte» (Christus vivit, n. 206).

“Parole adolescenti” è la nuova rubrica online di Note di Pastorale Giovanile

“Parole adolescenti” è una nuova rubrica online di Note di Pastorale Giovanile: una adolescente di oggi in dialogo con un professore sui temi caldi della sua nuova età.

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Caro Prof,
mi sono presentata, ora le presento (o ricordo) l’adolescenza.
(Di passaggio, La ringrazio per la risposta. A dire il vero poi mi sento un po’ “presuntuosa” a parlarle di una realtà con cui certamente ha contatto ogni giorno, e che ha imparato a conoscere e a trattare con essa nel quotidiano della scuola… ma chissà che anche questa “presunzione” non faccia parte dell’età in cui sono entrata!).
Adolescenza, dunque: età di transizione e cambiamento, delle prime gioie e tristezze, dove non ci sentiamo (e non vogliamo sentirci) né piccoli né grandi. Leopardi dice:

Cotesta età fiorita
È come un giorno d’allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita

paragonando l’adolescenza al sabato di preparativi per la festa dell’indomani. Così avverto e mi figuro l’adolescenza: periodo di preparativi per l’età adulta (e con il rischio di viverla “di corsa”), età in cui nascono i sogni che domandano di essere inseguiti, in cui nasce l’amore qualunque cosa esso sia, età in cui nasce la curiosità che verrà poi rimpiazzata dalla conoscenza e dalla cultura, in cui nascono la fragilità e la forza, età in cui abbiamo più bisogno degli altri e quella in cui vogliamo fare tutto per conto nostro, senza aiuti.
È davvero difficile spiegarla. È difficile spiegare la confusione che si prova quando si prova qualcosa per la prima volta. Ad esempio, quando per la prima volta ci si rende conto di avere un vero amico, o quando per la prima volta ci si rende conto che chi consideravamo un vero amico non lo è in realtà. La prima volta che si litiga con i genitori senza motivo, quando si sente il bisogno di farlo e basta. E ci sono tantissime altre occasioni in cui la confusione ha la meglio su di noi. Questa confusione è ciò da cui nascono le mille domande che ci passano continuamente per la testa. Domande insolite, talvolta considerate “stupide” dagli altri (anche se sono dell’idea che l’unica cosa stupida sia non porsi alcuna domanda. E non sa quanto mi fa rabbia sentire un adulto sbarazzarsi facilmente di esse – e di noi -, con la frase condiscendente: sono cose da adolescenti, passeranno!). Sono domande a cui gli altri tante volte non sanno dare risposte adeguate, perché le vere risposte devono essere provate sulla pelle, così come sono le domande: solo così possono essere comprese e diventare patrimonio di vita.

 

“Sollevare dalla paura”: l’omelia del card. Bassetti al convegno CEI di Pastorale Giovanile

Il testo del Vangelo e l’omelia del Card. Bassetti durante il convegno di PG della CEI a Palermo dal 30/04 al 2/05.

Subito dopo costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!”. Pietro allora gli rispose: “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”. E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”. Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”.
Matteo 14,22-33

Questa sera abbiamo il dono di pregare in un luogo straordinario: la bellezza e la storia sembrano guardarci attraverso gli occhi di decine e decine di figure che raccontano il legame fra Dio e l’uomo. In particolare gli occhi di quel Gesù Pantocratore ci rivelano la mitezza del cuore del Padre. Sono contento di essere qui con voi che rappresentate la cura della Chiesa italiana per i bambini e i ragazzi, gli adolescenti e i giovani.
Il brano di Matteo potrebbe essere riletto in chiave di pastorale giovanile, una sorta di piccolo “romanzo di formazione”, perché questo forse sono i vangeli: l’ostinato tentativo di Gesù di “tirar grandi” o educare i suoi discepoli. Introdurre nella vita, offrendo la fiducia come lo stile con cui noi possiamo “stare al mondo”. Le cose che Gesù compie sono, innanzitutto, in chiave pedagogica: Gesù sente il compito di preparare i suoi al drammatico “dopo di lui”. C’è un “dopo di lui” per ogni uomo. La fede/fiducia che serve per non sprofondare nelle acque (nella morte, nella depressione, nel senso del fallimento…) è sempre un voler vivere con lui sapendo del “dopo di lui”. Questo episodio racconta già il dopo-Gesù. Qui, il protagonista è Pietro, ma Pietro in nome di tutti i discepoli spaventati, terrorizzati dalla morte del maestro, e l’unica domanda è: come vivere quando lui non c’è o non ci sarà più? Come si fa a vivere se si spezza il legame con la fonte? Come continuare a vivere credendo che davvero il maestro non ci ha abbandonato? Quindi, siamo davanti a un racconto di resurrezione, come spesso accade nei vangeli.

“Stare, per accogliere una presenza”: il Vangelo di Giovanni commentato dalla comunità di Bose

11In quel tempo Maria stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro 12e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. 13Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». 14Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. 15Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». 16Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa: «Maestro!». 17Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro»». 18Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto.
Gv 20,11-18

Se nel Vangelo secondo Giovanni ritorna a più riprese, quasi come un filo conduttore, il tema del “rimanere” del discepolo nel Signore, questo filo conduttore trova nella fede di Maria di Magdala il suo estremo: Maria resta, “sta” (v. 11), mentre tutti gli altri discepoli se ne sono andati, tornandosene a casa (cf. Gv 20,10). Maria osa stare presso la tomba del Maestro, all’aperto, alla luce – simbolo spaziale della disponibilità coraggiosa all’accoglienza di una novità ancora possibile –, mentre tutti gli altri discepoli si rinchiudono nella casa, a “porte chiuse” (Gv 20,19), nell’ombra – simbolo spaziale della chiusura impaurita su di sé che non attende più nulla.
Ma lo stare, il rimanere luminoso e audace di Maria nello spazio drammatico di un’assenza può divenire il luogo dell’accoglienza di una presenza che rimette in moto ciò che si era inesorabilmente fermato solo grazie alla qualità di quello stare, di quel rimanere. Colpisce, nella lettura dei versetti che il lezionario ci propone come meditazione nella festa di Maria Maddalena, la presenza attiva, vigile, energica di questa donna. Nessuna rassegnazione all’ineluttabile, bensì tensione interiore fortissima, che la muove dal di dentro, e che il suo pianto esprime bene.

“Stava … vicino … e piangeva” (v. ,11). Solo l’amore tenace, pervicace, profondo per chi essa ha amato fin oltre la morte le permette di stare così vigile, di fronte a una presenza che è ormai solo dentro di lei. Ma una presenza ancora fortissima, che quella morte non ha potuto strappare dal suo cuore. Le sue lacrime vedono. E implorano di vedere altrimenti.
Dentro questa dinamica di implorazione di un “altrimenti” entra Gesù, con una domanda che si lascia bagnare da quel pianto cogliendolo come il bacino di una ricerca intensissima: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?” (v. 15). Il pianto di Maria diviene breccia, diviene canale d’acqua che conduce la “nuova” presenza di Gesù, ora vivo, a incontrare dentro il cuore di Maria quella “vecchia” presenza di Gesù ormai morto. Dentro l’acqua di quel pianto di Maria, come dentro il liquido amniotico di un utero fecondato, si genera il “nuovo” Gesù, quello della fede. Dentro quel pianto, come dentro l’acqua del battesimo, nasce una “nuova” fede in Gesù. E come fa chi battezza, Gesù pronuncia il nome, segno della vita nuova: “Maria!” (v. 16). La novità non è nel nome, quello suo di sempre, bensì nella vita nuova messa dentro a quel nome vecchio dall’uomo nuovo, Gesù risorto.
Allora “Maria si voltò” (v. 16), in un movimento di scoperta attonita di un “nuovo” Gesù, in perfetta continuità con il “vecchio”, ma in una qualità di relazione nuova. Nel cuore ha ancora parole vecchie, quelle con cui si rivolgeva al Rabbi lungo le strade della Galilea: “Maestro mio!” (v. 16), il nome usato tante volte e che naturalmente risorge spontaneo dal cuore.
Ma Gesù osa rivolgerle parole nuove: “Per continuare a stare con me devi andare”. Questo le dicono al cuore le parole tramandate da Giovanni: “Non mi trattenere … ma va’” (v. 17). E “Maria di Magdala andò” (v. 18), per restare con il suo Maestro e Signore, per dimorare con il suo vecchio Maestro divenuto suo nuovo Signore.

Giovani e Bibbia nella prospettiva del Sinodo dei giovani

Abbiamo fin qui ricercato la componente biblica nel Sinodo dei giovani, esaminando il Documento Preparatorio (v. NPG 8/2017, pp. 44-57) e nello Instrumentum Laboris (v. NPG 7/2018, pp. 60-64). Ora intendiamo mettere in luce tale tematica nell’Esortazione Apostolica Christus vivit (Chv) di Papa Francesco, e lo facciamo in diretta connessione con il Documento finale (Df) del Sinodo, in ciò motivati dall’espressa volontà del Papa (Chv. n. 4). Prendiamo quindi avvio da Christus vivit per integrarlo poi con il Documento finale.[1] Da tali documenti riceviamo il pensiero conclusivo del Sinodo: non una visione analitica ed esaustiva sul rapporto Giovani e Bibbia, ma una prospettiva di fondo entro cui impostare una pastorale biblica giovanile.[2]
Procediamo prima esaminando Christus vivit (I) e poi l’integrazione offerta dal Documento finale (II). Una parola ultima propone una sintesi di insieme (III).

I. IL FILO BIBLICO DI CHRISTUS VIVIT

Osserviamo subito tre cose.
* Lo scopo dei due documenti (Chv e Df) non è per sé biblico, non aspettiamoci quindi una riflessione esplicita in tal senso, e quindi se si appellano alla Bibbia, come di fatto ampiamente fanno, ciò assume un significato speciale, un ruolo particolare nei due testi.
* Nei due documenti tutto ciò che si dice di Bibbia, in forma diretta o indiretta, ha per riferimento i giovani, ma in un’ottica diversa: nel suo documento Papa Francesco intende fare una “esortazione”, cioè parlare direttamente ai giovani, dando loro del tu, in funzione di un convincimento dell’intelligenza e del cuore; invece il documento finale del Sinodo nomina i giovani in terza persona, ponendosi davanti a loro come una fonte ufficiale di sicura informazione.
* Si noterà che pur nella voluta connessione di Chv con Df, anche i contenuti biblici e il modo di enunciarli sono diversi. Si pensi soltanto al titolo dei due documenti: Christus vivit, attinto da una fonte paolina per il testo del Papa; “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale” per il testo sinodale. Si potrà parlare di una differenza nella continuità.

Un dato statistico

Punto di partenza illuminante in documenti come questo è il dato statistico, che in certo modo, dalla ripetizione o meno di termini, rivela l’intenzione dell’autore, cosa gli sta a cuore. Nel caso del nostro tema, abbiamo fatto una attenta ricerca a proposito delle citazioni dell’ AT e NT, dei vocaboli Bibbia, Sacra Scrittura, Vangelo, e specificamente sulla nomina della persona di Gesù, sia in citazioni bibliche sia in termini assoluti. Sono arrivato a questi risultati.
* Assolutamente maggioritario e centrale è la nomina di Gesù, a partire dal titolo dell’Esortazione Christus vivit. Il più delle volte si nomina Gesù a se stante, altre poche volte si usa il termine Cristo, Gesù Cristo, Signore. (ove il riferimento è a lui e non genericamente a Dio). Sovente è nominato con il pronome in terza persona “Egli, Lui…”. Si registrano 164 volte. È presente in tutti i 9 capitoli, il maggior numero compare nei cc. 2, 5.
Il riferimento alla persona di Gesù è continuo. Egli è il dato biblico dominante.
* Ma non mancano riferimenti espliciti alla Bibbia: 47 sono le citazioni dell’AT, in particolare nei cc. 1 e 4; 105 le citazioni del NT, in particolare dei vangeli, e ciò nei cc. 1,2,5. Sono citazioni pertinenti all’argomento, anche se esegeticamente non approfondite. Chiaramente il referente maggiore è Gesù.
*Infatti il vocabolo Vangelo è nominato 21 volte; Sacra Scrittura solo 3 volte, e così Bibbia 3 volte. In compenso si usa il termine Parola di Dio, 16 volte, per indicare la fonte biblica.

Puoi essere santo #lìdovesei: orientamenti per il Tema Pastorale

Il percorso sinodale su “Giovani, fede e discernimento vocazionale” che ci ha coinvolto e appassionato prosegue nella sua fase di recezione e attuazione. Il Convegno Nazionale di Pastorale Giovanile che si è tenuto a Palermo i primi giorni di maggio ci ha consegnato delle “parole coraggiose” e ha prospettato delle linee progettuali che sono in fase di definizione. Aspettiamo con trepidazione questa “scatola degli attrezzi” per camminare come Chiesa con i giovani facendo tesoro dell’intero Sinodo, dall’Istrumentum Laboris al Documento Finale all’Esortazione Christus Vivit. In attesa di indicazioni su cui intendiamo articolare il prossimo triennio, i Salesiani, le Figlie di Maria Ausiliatrice e il Movimento Giovanile Salesiano Italia hanno, come da tradizione, elaborato alcuni orientamenti per il Tema del prossimo anno educativo-pastorale, fonte per l’elaborazione dei sussidi per le fasce d’età: fanciulli, preadolescenti, adolescenti. In particolare il “Quaderno Giovani” è un punto di riferimento, base per gli educatori nel comprendere e contestualizzare il tema nel percorso ecclesiale. L’anno in corso chiude un triennio contrassegnato dalla ripresa dei nuclei della Spiritualità Giovanile Salesiana alla luce della Esortazione Apostolica di papa Francesco Evangelii Gaudium. Nel 2016-2017: “Maestro, dove abiti?” #Con Te o senza Te non è la stessa cosa – Incontro con Gesù e quotidiano; nel 2017-2018: “Casa per molti, Madre per tutti” #nessunoescluso – L’appartenenza gioiosa alla Chiesa e la Vergine Maria; nel 2018-2019: “Io sono una missione” #perlavitadeglialtri – Il servizio responsabile e la risposta vocazionale.

Il prossimo anno avrà come tema “Puoi essere santo #lìdovesei”il dono, la chiamata, il compito della santità. Il tema prende spunto dalla Strenna per il 2019 che il Rettor Maggiore, don Ángel Fernández Artime, ha indirizzato alla Famiglia Salesiana: “Perché la mia gioia sia in voi (Gv 15,11). La santità anche per te”. Il referente della santità è nato nel Rettor Maggiore a partire dalla Esortazione Apostolica Gaudete et exsultate; in essa il Papa, nell’additare la santità come “autentica fioritura dell’umano” e come una chiamata e dono che il Signore rivolge a tutti, ripresenta come testo biblico di riferimento quello delle Beatitudini nella versione dell’evangelista Matteo (Mt 5,3-12), suggerisce per ciascuna una efficace espressione sintetica (nn. 67-94), fornisce cinque caratteristiche della santità nel mondo attuale che ci sono parse concrete, praticabili e decisive (nn. 110-157). Particolarmente ispirativo è il riferimento alla “giovinezza dei santi” così come suggerisce il n. 114 dell’Instrumentum Laboris:

… Tutti i Santi sono passati attraverso l’età giovanile e sarebbe utile ai giovani di oggi mostrare in che modo i Santi hanno vissuto il tempo della loro giovinezza. Si potrebbero così intercettare molte situazioni giovanili non semplici né facili, dove però Dio è presente e misteriosamente attivo. Mostrare che la Sua grazia è all’opera attraverso percorsi tortuosi di paziente costruzione di una santità che matura nel tempo per tante vie impreviste può aiutare tutti i giovani, nessuno escluso, a coltivare la speranza di una santità sempre possibile.

La santità infatti non è sinonimo di élitarismo spirituale riservato a predestinati o a eroi, ma è la risposta a un dono di Dio che si costruisce giorno per giorno attraverso fragilità, fallimenti e continue riprese. Se tutti sono chiamati alla santità, ciascuno la realizza nel tempo senza omologazioni ma con una risposta personale e inedita come frutto di una vita cristiana non anonima. Essa è cura dell’umano, non sua dimenticanza, fatta di fecondi intrecci relazionali, amicali e comunitari sorretti dalla parola di Gesù: “non vi chiamo più servi… ma vi ho chiamato amici” (Gv 15,15). Il Rettor Maggiore connota la santità in chiave di partecipazione alla gioia di Gesù, frutto del rapporto con Lui e del dono di sé.
Le Beatitudini nel Vangelo di Matteo (Mt 5,1-12) sono il testo biblico di riferimento così come raccomandato da papa Francesco: Ci possono essere molte teorie su cosa sia la santità, abbondanti spiegazioni e distinzioni. Tale riflessione potrebbe essere utile, ma nulla è più illuminante che ritornare alle parole di Gesù e raccogliere il suo modo di trasmettere la verità. Gesù ha spiegato con tutta semplicità che cos’è essere santi, e lo ha fatto quando ci ha lasciato le Beatitudini (cfr Mt 5,3-12; Lc 6,20-23). Esse sono come la carta d’identità del cristiano. Così, se qualcuno di noi si pone la domanda: “Come si fa per arrivare ad essere un buon cristiano?”, la risposta è semplice: è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù nel discorso delle Beatitudini. In esse si delinea il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita”.
(Gaudete et Exultate, 63)

Per la loro sobria solennità, la loro forza programmatica, la loro capacità di esprimere sinteticamente la bellezza del volto di Gesù e l’itinerario spirituale del discepolo, le beatitudini fanno sperimentare la sapienza illuminante e la potenza trasformante della Parola: “Cristo non solo annuncia la Parola, ma è la Parola che si annuncia. Ogni proclamazione di beatitudine è innanzitutto l’offerta di un incontro con Lui che non solo la annuncia e la spiega, ma la rende possibile e la fa accadere… Nelle beatitudini Gesù intende coinvolgere gli ascoltatori nella sua stessa esperienza” (Sicari). Esse sono il condensato di una “vita nuova” da vivere con radicalità; esse ci aiutano a vivere con maggior pienezza la nostra personale vocazione. La scelta di avere come testo biblico di riferimento le Beatitudini permette, senza tralasciare l’opzione di una strutturazione in base all’anno liturgico, di raccogliere altresì l’istanza di offrire un itinerario pedagogico-spirituale.
Il titolo “puoi essere santo # lìdovesei” è stato scelto dalla Segreteria Nazionale dei giovani del Movimento Giovanile Salesiano; interpella interiormente e mobilita esteriormente. Don Rossano Sala così lo commenta: È un frutto del loro impegno appassionato per l’edificazione del Regno che viene… Sono stati insieme ingenui, geniali e genuini! Tre parole che rimandano ai “geni”, cioè a quelle piccole sequenze del nostro DNA che garantiscono una originalità inimitabile in ciascuno di noi. 
Ingenui perché davvero credono ancora ai loro sogni: “Puoi essere Santo”. Questa sentenza è per molti di noi solo un’utopia, un’idea teorica di certo irraggiungibile, un desiderio che forse si può coltivare, ma in fondo destinato alla frustrazione. Insomma, ad una realtà senz’altro bella e attraente, ma innegabilmente lontana e impossibile. Invece questi ragazzi ci dicono che non bisogna cedere sul desiderio della santità! È un “potere” a cui dobbiamo credere, quello di essere e diventare santi! Se ci crediamo, può essere un sogno che giorno dopo giorno si avvera. Questa della santità è una fiducia che dobbiamo riacquistare dalla vita, per non cedere alla sua mediocrità. 
Geniali perché rimandano alla vita di tutti i giorni: “#lìdovesei”. Non cercano le condizioni ineccepibili per poter essere santi, ma sono certi che ognuno di noi, a partire esattamente dalla sua condizione storica – età, stato, incarico, ruolo, situazione sociale ed economica, salute, fragilità, e così via – ha tutte le carte in regola per essere santo. Non si tratta di trovare condizioni diverse rispetto a quelle che abbiamo, ma di far fiorire la nostra umanità a partire dalla realtà in cui siamo e dalla realtà che siamo…
Genuini perché molto immediati e concreti: “Puoi essere Santo #lìdovesei”. In poche semplici parole riescono a dire il compito di una vita intera… Queste quattro parole rappresentano bene la concretezza dell’ordinario che siamo chiamati ad abitare in modo straordinario. Il Signore Gesù chiede ad ognuno di noi di vivere una santità nell’ordinario della vita di tutti i giorni
(Introduzione al Quaderno Giovani).

Il cammino del prossimo anno pastorale ci permetta di risentire la voce del Signore che ci chiama, ci sproni a seguirlo comunitariamente nel cammino delle Beatitudini per poter un giorno in Cielo “gaudere et exsultare” al compimento dei nostri giorni.

NPG, è uscito il nuovo numero: proposta pastorale salesiana in primo piano

Il nuovo numero di Note di Pastorale Giovanile è uscito: ecco l’indice

Voci dal Sinodo /5
Venite in Africa per apprezzare la vita
Intervista a monsignor Andrew Nkea Fuanya, Vescovo di Mamfe (Camerun)
A cura di Gioele Anni

DOSSIER

MGS: PROPOSTA EDUCATIVO-PASTORALE 2019-2020
La santità anche per te
Le Beatitudini come via e metodo per una santità giovanile “in vita quotidiana”

1. Introduzione
Orientamenti per il Tema Pastorale 2019-2020
Puoi essere santo # lidovesei
Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice d’Italia – Movimento Giovanile Salesiano Italia

2. Beatitudini, vocazione alla felicità
Aspetti letterari e teologici di Mt 5,1-12
Giuseppe De Virgilio

3. La “bella” follia della santità
Paolo Paulucci

4. Le Beatitudini, strada alla santità genuina
Diego Goso

5. Santi come modelli e compagni di viaggio
I Santi: testimoni delle Beatitudini nella vita quotidiana, ognuno a suo modo!
Pierluigi Cameroni

6. Cherofobia? No, grazie
Cristiano Ciferri

7. Magari fossi beato!
La beatitudine come stato giovanile
Raffaele Mantegazza

8. Le Beatitudini nell’arte: un percorso “visivo” di santità
Maria Rattà

9. Beati voi
Riflessioni-testimonianze dei giovani del MGS-Italia

Giovani e Bibbia
(nella prospettiva del Sinodo dei giovani) /3

La proposta finale in CHRISTUS VIVIT 
Cesare Bissoli

Temi di pastorale universitaria /12
Lo studio come vocazione
Angelo Tumminelli

Il ricordo di don Tonelli, il direttore coraggioso

Da Note di Pastorale Giovanile

di don Giancarlo De Nicolò

Le pagine che seguono non sono – come gli interventi precedenti – nella forma di un studio o di un saggio , bensì una testimonianza, un atto di omaggio verso colui che a diritto può essere considerato il “padre e fondatore” di NPG: colui che dall’inizio l’ha ideata (anche se non formalmente “fondata”) e condotta negli anni/decenni) fino a farla diventare una rivista conosciuta e apprezzata non solo in ambito ecclesiale ma anche in ambito laico, sui temi dei giovani e della loro educazione: uno spazio di dibattito, di innovazione educativa e pastorale, di pensiero e di azione verso il soggetto “giovani” che rientra come “soggetto-destinatario” privilegiato nel carisma di don Bosco (e del salesiano d. Riccardo Tonelli) ma anche come nuovo soggetto sociale e culturale soprattutto verso la fine degli anni Sessanta in Italia e nel mondo, e dove esso comincia anche ad essere cura e “preoccupazione” specifica della Chiesa.

Tali pagine dunque non hanno nulla di “scientifico” propriamente detto (accurato studio e citazioni delle fonti…), ma si presentano come un racconto empatico (tanto più con l’avvenuta morte di d. Tonelli il 1 ottobre 2013, mentre questi appunti venivano redatti, procurando sconcerto e il senso di un grande vuoto, ancora più in chi scrive queste note), fatto più a colpi di memorie e di sentimenti, di un amico e collaboratore che quasi dagli inizi (dal 1978, poi più direttamente dal 1987) ha lavorato, condiviso, progettato con d. Tonelli, in una collaborazione franca e rispettosa, che – almeno per me – mi ha fatto crescere nella comprensione sempre più viva della progettualità salesiana che si chiama pastorale giovanile (almeno, confido), pur conservando un certo spirito “critico” perché proveniente da altri riferimenti teorici e studi accademici. Non si tratta dunque di una smaccata “laudatio” del “capo”, quanto di un racconto dal punto di vista “interno” di un amico, collaboratore, estimatore, che ha redazionalmente gestito la rivista da ormai 25 anni.