“Umile, forte e robusto”: testimonianze di vita

Il numero estivo di NPG lancia la proposta pastorale dell’Italia Salesiana per il prossimo anno: “Amati e chiamati. Renditi umile, forte e robusto”. Di seguito, alcune testimonianze sul tema.

***

In ascolto del sogno della vita
Emanuele Bonazzoli *

Quante volte ho invidiato don Bosco per avere avuto un sogno che, per quanto ermetico indicasse la via. Io non sono bravo a sognare, o almeno, a sognare al modo di don Bosco. Ho inseguito un po’ di sogni (erano soltanto miei desideri) ma quasi mai sono riuscito ad arrivare laddove “sognavo”. Forse perché, a differenza di don Bosco, ciò che sognavo era solo nella mia mente, non nel cuore di Dio. Eppure sento di avere anch’io seguito l’indicazione di un sogno, che mi ha accompagnato: cercare la gioia del cuore, coltivarla, “perché la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Ci sono esperienze nella vita che alimentano il desiderio, altre che alimentano il cuore. Sono queste ultime che mi hanno formato, mi hanno dato un respiro e mi hanno arricchito come persona portandomi su sentieri che non avrei percorso e trovando là la gioia inaspettata. Ho vissuto in questo senso l’invito a rendermi “umile, forte e robusto”. L’umiltà si è più volte scontrata con la testardaggine di fare secondo la mia volontà, di mettere sulla bocca di Dio il mio pensiero, anche quando mi mostrava un’altra via; per me umiltà è ascoltare, guardare il proprio percorso, avere il coraggio di cambiare anche radicalmente la propria condizione di vita. Nella fortezza riconosco la resistenza allo sbandamento, all’inseguire vie meno impegnative: la fortezza si è concretizzata nello stare, nell’allenare la perseveranza e la costanza e, soprattutto, nel coltivare la pazienza. La robustezza è la capacità di non essere spezzati ed è una condizione che uno non si può dare da solo: è robusto chi ha costruito insieme, chi sa di appartenere ad una famiglia, chi riconosce le sue radici e non le recide, chi anche nel momento di aridità pesca nella sua bisaccia i valori che ha custodito durante i tempi della ricchezza umana e spirituale. Oggi penso di vivere con la consapevolezza di questi tre doni che mi permettono di essere quel che sono in un quotidiano che ritengo molto semplice e ordinario. Ho sempre sognato per me esperienze straordinarie, impegni con grandi responsabilità, viaggi per il mondo. Ho trovato un’ordinarietà quasi banale, agli occhi di molti. L’ordinarietà della vita di marito, papà e insegnante. Eppure un quotidiano che mi richiede di rimettere in gioco quell’umiltà, quella fortezza e quell’essere robusto di chi cammina e fa camminare, di chi indica la strada e contemporaneamente ascolta chi cammina con lui, anche se più piccolo, perché la strada si fa insieme. Mi sono accorto che per essere uomini ed educatori che fanno sognare serve essere uomini in ascolto dell’altro: un ascolto positivo, propositivo, senza giudizio e portatore di bellezza. Mi sono allenato ad ascoltare me stesso, così rigido, testardo e sicuro di essere nel giusto: ho imparato che oltre al bianco e al nero, esiste il grigio. Mi sono allenato ad ascoltare la coppia: un noi che comprende un io e un tu e lo supera, che non annulla le individualità ma le può plasmare; una famiglia che non può sentirsi arrivata solo perché è economicamente e affettivamente stabile. Mi sono allenato ad ascoltare i miei figli quando sono seduto a terra a giocare alle costruzioni, quando racconto per la settantesima volta la stessa fiaba, quando vengo interpellato sui poteri di un Superpigiamino, quando faccio l’ennesimo richiamo: ho intuito la pazienza di Dio Padre nella mia “mistica del pannolino”. Mi sono allenato ad ascoltare i miei allievi, scovando nello sguardo e nelle storie (in questo momento storico filtrate dai silenzi degli schermi) le scintille di futuro e di Speranza, costruendo l’autostima la cultura, rileggendo insieme la bellezza dell’arte. Se io credo nei sogni (ma non quelli della mia testa), gli altri intuiscono che è possibile credere in un sogno e cercano il proprio. Che bello essere cacciatori e accompagnatori di sogni! In questo momento sto vivendo in un periodo di muta, di cambiamento. La pandemia mi ha molto interrogato sul valore delle cose, sul chi voglio essere, sul dove voglio essere e per chi. La condizione attuale ha molto toccato il senso di comunità proprio della Chiesa, ha rimesso in discussione il valore dell’uomo, del creato, della prossimità. Come famiglia siamo in un momento in cui restiamo robusti perché stiamo mettendo fondo alla bisaccia della nostra esperienza; ma percepiamo che non possiamo più accontentarci del “tornerà tutto come prima”. Sappiamo che è scritto un sogno per noi e ci siamo messi in ascolto, facendo attenzione che i flutti dell’ordinario non ci travolgano. Dove andremo? Sarà il sogno, speriamo indicato da Lui, a dircelo.

* 41 anni, marito e papà felice. Insegnante di storia dell’arte e italiano L2. La sua vita è quella di un “normale milanese”: casa, lavoro e parrocchia (che vorrebbe fosse più presente). Gli manca l’oratorio: al momento la mia parrocchia non ne ha uno!!!


Un’impronta forte

Cristiana Calogiuri *

Ho messo piede in Oratorio che ero proprio piccola, una bambina dell’età che hanno oggi i miei bambini di prima elementare. Di quei tempi conservo il ricordo della mia catechista che non era come le altre, era più giovane. Cantavamo, coloravamo e poi ci raccontava tante storie su don Bosco e su Domenico Savio. Sembravano favole. Soprattutto il sogno dei 9 anni, con gli animali, era simile alle favole che colpiscono l’immaginazione di ogni bambino. Crescendo mi sono sentita in prima persona parte di quel ‘campo’ nel quale ogni giorno qualcuno si prendeva cura di me. Ho prima ammirato, poi osservato e infine veramente copiato i miei educatori, i salesiani che erano al mio fianco. Crescere e sentire l’invito a rendersi ‘umile, forte e robusto’ come rivolto anche a me è stato naturale. Il mio percorso in oratorio come persona e come animatrice è stato un impegno quotidiano, costruito giorno per giorno e mai da sola. Il lavoro su se stessi non è mai solitario. Ho avuto accanto sempre un gruppo di persone con le quali il confronto, la discussione, le gioie, sono servite tanto, soprattutto a scegliere quell’impegno continuamente. Ed oggi, guardandomi indietro, ringrazio Dio per l’opportunità che ho avuto, per le persone che ho conosciuto, per i miei amici. Sono cose su cui rifletto oggi, perché quel periodo è stato un’immersione completa, una successione di impegni, di lavoro, di ragazzi e ragazze che ho conosciuto piccoletti e che oggi sono uomini, donne, belle persone, padri e madri. Per questo dico che è stato tutto naturale, perché quasi non me ne sono accorta. Il mio carattere, un po’ puntiglioso, cocciuto, insofferente, è stato plasmato con dolcezza, senza strappi. Forse l’umiltà non l’ho imparata proprio fino in fondo, ma la forza sì. Una forza che si è fatta coraggio in tante occasioni, ma che ha avuto sempre accanto qualcuno a sostenerla. Talvolta una forza che nasceva dal cercare di guardare sempre lontano, oltre gli ostacoli che puntualmente arrivano per farci desistere. Una forza che prima di tutto ha aiutato me a fare scelte non sempre facili e comode, ma che alla fine si sono rivelate le più giuste per la mia vita. La cosa più faticosa è stato ‘irrobustirmi’. L’ho vissuta come la capacità di dare valore e qualità alle cose. Per questo ho dovuto frenare l’impulsività o la frenesia di gettarmi nelle attività, per lo studio, la riflessione, la preghiera. Per andare in profondità e non rimanere in superficie nei rapporti, nell’accompagnamento dei giovani o nel lavoro. Oggi sono un’insegnante di scuola primaria. Se penso a vent’anni fa, non l’avrei mai detto perché avrei voluto insegnare nelle superiori e avere ragazzi grandi così come in oratorio. Ma la vita prende strade strane e l’abilitazione nella primaria è una di quelle. Avevo fatto tutto un altro percorso come educatrice professionale e mi vedevo in una comunità, con ragazzi difficili…Invece no, proprio una cara amica di un altro oratorio mi mise la famosa ‘pulce nell’orecchio’. Ed eccomi qui oggi a fare la maestra. Lo dico con tutto il rispetto che è dovuto verso un mestiere antico e nobile che cerco di onorare ogni giorno. Quest’anno ho una classe prima. È emozionante! Bambini piccoletti, nanerottoli di 5 e 6 anni che sbocciano giorno dopo giorno. E non parlo solo del fatto che all’inizio non sanno né leggere né scrivere e adesso sono dei campioni, o del fatto che riescono a seguire per ore delle lezioni al computer con la maestra che si commuove a vedere i loro occhietti attenti e le manine virtuali alzate. Mi riferisco al lavoro educativo fatto su ciascuno di loro. Sarà la deformazione professionale da animatrice, ma li guardo e li vedo grandi, e mi immagino quante cose bellissime faremo in questi cinque anni e quando torneranno a trovarmi per raccontarmi cosa fanno, cosa studiano, se quello che abbiamo fatto insieme lo ricordano, se è servito. È il lavoro più bello del mondo. Ogni tanto mi fermo a pensare a tutto quello che mi sarei persa oggi se non avessi avuto la forza di cambiare strada, mettere la retromarcia e poi dare un’accelerata in avanti. Penso anche ad un’altra cosa, che mi dicono spesso le mie colleghe. Dicono che sono una persona sorridente. In verità c’è poco da sorridere in questo periodo, però io non riesco a non farlo. Sono cresciuta così, con i ‘segreti della santità’ che don Bosco suggerisce a Domenico Savio. Ed anche lì, oltre all’allegria e al fare del bene, c’è l’impegno nei doveri di studio e di preghiera, l’invito a quel ragazzino a crescere robusto, di spessore. Concludo, come spesso faccio, con un grazie a Don Bosco che per me è stato veramente un padre, un maestro e un amico, una mano poggiata sulla spalla, una guida ‘nel cercare il bene delle anime nostre e la salvezza del prossimo’, un’impronta forte nella mia vita, solo in minima parte per merito mio.

* Del 1975. Animatrice e Salesiana Cooperatrice dell’OCG dei Salesiani di Lecce. Membro della Segreteria Nazionale del Movimento Giovanile Salesiano e Coordinatrice Nazionale dal 2004 al 2007. Laureata in Scienze dell’Educazione e in Scienze della Formazione Primaria, presidente dell’Associazione di promozione sociale StradeGiovani che opera nell’ambito dell’animazione culturale e vicepresidente della Coop. Don Bosco che gestisce il DB d’Essai Cinema e Teatro di Lecce. Docente di Scuola Primaria con esperienza nell’ambito della didattica speciale e dell’uso delle tecnologie applicate all’insegnamento.


Con i piedi in terra… nel segno di Don Bosco

Sebastiano Manzella *

Il sogno dei nove anni e le indicazioni ricevute dal piccolo Giovannino hanno avuto effetto su di me e sulla mia vita, plasmandomi e rinnovandomi sul piano della vitalità spirituale, senza dubbio durante il periodo universitario. Partecipavo regolarmente all’oratorio e al grest estivo, conoscevo già Don Bosco e la sua storia, ma durante il periodo di frequenza dell’università ne ho approfondito la sua spiritualità e la sua pedagogia facendo mio quel “renditi umile, forte e robusto” del sogno. Non è facile per nessun diciottenne lasciare la famiglia, cambiare città e amici per raggiungere l’obbiettivo di studiare per professionalizzarsi e per me in particolare il passaggio dalla scuola al mondo universitario è stato un grosso ostacolo. Ho imparato sulla mia pelle e sulle notti insonni che non bisogna mai darsi per vinti e di rimboccarsi sempre più le maniche e con umiltà affrontare le difficoltà una dopo l’altra. Mi sono circondato di amici e colleghi universitari con cui studiare, ma allo stesso tempo ci incoraggiavamo e ci sostenevamo facendoci forza l’uno con l’altro, riconoscendo che nella vita si ha molto da imparare con l’umiltà di non sentirsi superiore a nessuno e il coraggio di affrontare qualsiasi situazione. Nel mio caso, a differenza del piccolo Giovannino Bosco che poteva far riferimento solo su Mamma Margherita, ogni sforzo è stato condiviso e supportato dalla mia famiglia, che mi ha protetto e irrobustito, senza non pochi sacrifici, per poter fronteggiare le ansie e le paure pre-esame. Nello stesso periodo ho vissuto anche forti esperienze di fede e di Chiesa con il movimento giovanile salesiano: una su tutte la Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid 2011. Queste esperienze hanno portato in me sempre una nuova vitalità che si è trasformata in intraprendenza e fiducia nelle varie situazioni che sono stato chiamato ad affrontare, senza perdere i tratti della gioia e dell’allegria tipiche dello stile salesiano. Quanto provato e imparato in quegli anni “di palestra” è diventato preziosissimo quando ho deciso, al termine degli studi, di trasferirmi a Milano per motivi lavorativi. Nonostante le nuove e diverse difficoltà, avevo già maturato i miei punti fermi che al contempo si erano radicati in me: gli insegnamenti di Don Bosco, sempre validi, attuali, adattabili a ognuno di noi. Tutto ciò ha contribuito sicuramente al mio percorso di crescita umana e spirituale oltre che professionale, diventando ciò che sono nella vita di tutti i giorni e con chiunque io incontri, portando con me anche tanta buona volontà, disponibilità e pazienza perché come dice Madre Teresa di Calcutta: “C’è chi crede che tutto gli è dovuto, ma non è dovuto niente a nessuno. Le cose si conquistano con dolcezza e umiltà!” e solo così potremo raccogliere miglioramenti dalle vicissitudini che incontriamo. Ci sono e ci saranno sempre momenti difficili, situazioni di sconforto, come ad esempio la pandemia che stiamo vivendo e che sta mettendo tutti a dura prova, e rimanere chiusi in sé stessi nella propria solitudine sicuramente non porterà mai benefici. Al contrario, ritornare a ciò che sono stati i punti forti del proprio vissuto, rimettendosi in cammino, magari facendosi supportare da una persona fidata, può rimetterci in “carreggiata” e renderci più forti e robusti di prima, senza avere paura delle scelte giuste o sbagliate che possiamo fare, e dei rischi che esse comportano.

Se pianti onestà, raccoglierai fiducia.
Se pianti bontà, raccoglierai amici.
Se pianti umiltà, raccoglierai grandezza.
Se pianti perseveranza, raccoglierai vittoria.
Se pianti considerazione, raccoglierai armonia.
Se pianti duro lavoro, raccoglierai successo.
Se pianti perdono, raccoglierai riconciliazione.
Se pianti apertura, raccoglierai intimità.
Se pianti pazienza, raccoglierai miglioramenti.
Se pianti fede, raccoglierai miracoli.

* 31 anni, nato a Siracusa, per motivi di lavoro trasferito a Milano. Laureato in Ingegneria Informatica a Catania, al momento si occupa di ricerca e sviluppo di soluzioni software nell’ambito dei Big Data e del Machine Learning.


Un tesoro da custodire

Valentina Mazzer *

Ultimamente una suora dell’oratorio (nel quale, ahimé, sono meno presente di quanto vorrei rispetto al passato, sperando di essere “perdonata” per questo) mi ha chiesto di fare una piccola testimonianza alla Comunità animatori locale per parlare del “travaglio interiore” che si prova intorno ai 20/21 anni, suggerendomi di ripensare a quel periodo della mia vita e di come don Bosco vi abbia inciso. Ritornare con la mente e con il cuore ad uno dei periodi più appassionati e profondi della mia vita è stata l’occasione anche per completare la riflessione di cui sto scrivendo. Negli anni dell’università Dio e don Bosco hanno fatto irruzione nella mia vita, mettendola un po’ a soqquadro. Questa confusione mi ha permesso di cominciare a guardare davvero a me stessa e riconoscere che anche negli anni precedenti, pur se a piccoli passi, la vita in oratorio mi stava strutturando interiormente: quelle mura, quelle persone, quei momenti condivisi, stavano permettendo ad una fragile e insicura Valentina di scoprire se stessa e iniziare a camminare nel mondo. A volte mi spaventa pensare a quanta Grazia sia passata per quel cortile. Le scoperte di tutti quegli anni, le lotte, le mie fragilità emerse, sono state senza dubbio il cammino per rendermi forte, interiormente forte. Tuttora vacillo, tuttora sono fragile, ma il ricordo della profondità di alcuni momenti vissuti in quegli anni agli esercizi spirituali, ai ritiri, nelle giornate di comunità o di servizio sono una roccia che riscopro, sempre più a distanza di tempo, molto salda. Un aspetto che ancora mi stupisce è come crescere in oratorio con i miei amici, inseguendo un po’ quei passi di don Bosco che vedevamo qui e lì, non mi abbia mai snaturata. Da sempre nutro una passione per il mondo della giustizia, del diritto e vengo simpaticamente presa in giro perché “voglio la pace nel mondo” e sono sempre troppo diplomatica. Abitando l’ambiente salesiano a volte può essere forte il rischio di pensare che per tutti esista solo la declinazione dell’impegno educativo puro: tutti insegnanti ed educatori. Ma questo è un falso mito e per me, come per molti altri, non è stato così. Grazie ad una guida sapiente, dopo un iniziale smarrimento, ho scoperto che essere cristiani e salesiani aveva parecchi snodi comuni con i miei studi di giurisprudenza, con la passione per la giustizia e il senso dello Stato. “Buoni cristiani e onesti cittadini”, così insegnava don Bosco ai suoi ragazzi e queste parole risuonavano nel mio cuore, tracciavano involontariamente i passi della mia vita, facendomi scoprire che potevo avere un posto nel mondo e che per farlo dovevo rendermi “umile, forte e robusto”. Si tratta di un cammino che dura per sempre, ma a poche settimane del matrimonio, pensando che con Luca mi accingo a costruire una nuova famiglia, rileggere alcuni passaggi della vita e scorgervi in essa un piccolo progetto educativo, di cui ero inconsapevolmente la protagonista, mi commuove molto e suscita enorme gratitudine. Non sono convinta che il racconto della mia esperienza sia particolarmente edificante per chi mi legge, ma spero che susciti almeno un po’ di naturale speranza nel fatto che tutto il nostro operare per i giovani non va mai smarrito, e che, anche se in modi a noi non sempre chiari, segna la loro vita. Aveva proprio ragione don Bosco quando intuiva che, fornendogli l’occasione per crescere umili, forti e robusti, i giovani avevano l’occasione di custodire il proprio tesoro interiore e prepararsi a spenderlo nel mondo da adulti. Dopo qualche anno nel Movimento giovanile salesiano, la vita mi conduce ora verso altre quotidianità, fatte di lavoro, studio e famiglia. Lo raccontavo ridendo ai ragazzi della Comunità animatori qualche giorno fa: lo stile salesiano e il metodo preventivo si possono esercitare anche all’Inps e studiando. Nel mondo del lavoro l’essere buoni cristiani e onesti cittadini passa per lo scegliere di esercitare la propria attività, qualunque essa sia, con cura, in modo preparato e senza sotterfugi. I colleghi, gli utenti, le mie compagne di studio sono il prossimo che incontro ora nelle mie giornate e che meritano quello sguardo, tutto salesiano, di semplicità e accoglienza che don Bosco insegnava. Quotidianamente, cercando di studiare per costruire il mio sogno, mi sforzo di non mirare al risultato ad occhi chiusi, vivendo invece tutto ciò che la vita mi riserva. Nonostante le fatiche e i sacrifici su questa strada siano tanti, io continuo a sperarci e affido al Signore il mio cammino: comunque vada mi sforzo di ricordare sempre che lo studio mi ha formata anche come persona, non solo professionalmente. Da ultimo, l’essere umile, forte e robusto come voleva don Bosco mi fa pensare alla famiglia che con Luca mi accingo a costruire. Condivido con voi la speranza che questa crescita interiore sia il sostegno saldo per la vita familiare e, forse, genitoriale che ci attenderà. Nel raccogliere e scrivere tutti questi spunti mi sono sentita un po’ come se questa occasione di riflessione fosse il momento buono per aprire la mia valigia da viaggio, quella con cui sposterò tutte le mie cose nella nuova casa, e scegliere cosa portare di essenziale, di prezioso, di indispensabile da ricordare e custodire. La gratitudine è davvero tanta per tutto ciò che in questi anni ho ricevuto dal Signore e da don Bosco: ciò che sono oggi lo devo a loro tramite le persone che mi sono state messe accanto, con cui ho camminato e cammino tuttora.

* Prez per gli amici dell’oratorio. 31 anni, cresciuta nell’oratorio delle FMA di Conegliano. Vicinissima al matrimonio con Luca. Dopo l’abilitazione come avvocato, persegue il sogno di diventare magistrato; nel frattempo lavora all’Inps, alternando le ore di lavoro in ufficio con quelle sui libri e i corsi di preparazione per magistratura. È stata coordinatrice della Consulta MGS negli anni 2015-18.

La speranza dell’uomo nel sogno di un ragazzo
Michele Zecchin *

Quante volte, in particolare nei periodi di crisi come questo, lo sconforto e la tristezza raggiungono uomini e donne senza distinzioni, in ogni luogo del mondo, cercando di far morire anche le più grandi luci di speranza presenti nel cuore di ogni essere umano? E il terreno che incontrano è dei più propizi, con affetti che vengono meno, senso di solitudine, difficoltà nel vedere la fine del tunnel. Ma è proprio in questi momenti che un cristiano, in particolare se cresciuto in ambienti salesiani, ha un’“arma” in più, una strada da percorrere, una modalità per affrontare le situazioni, che ha potuto sviluppare per mantenere viva la speranza ogni giorno, per superare le crisi e donare affetto e fiducia anche al prossimo. E, per quanto possa essere bizzarro, parte tutto da un sogno di un ragazzo.

L’adolescenza e l’esperienza MGS
La prima volta che ascoltai il sogno dei 9 anni, frequentando le scuole salesiane, ero piccolo e lo considerai un racconto fine a se stesso, come molti miei coetanei: con il tempo, le occasioni di ascoltarlo più volte, le numerose esperienze vissute nel MGS, le condivisioni con amici, salesiani e FMA, capii invece quanto quel “renditi umile, forte e robusto” fosse una chiave vincente per formare il carattere e pian piano diventare “adulto”. Oppure, per dirla come don Bosco, “buon cristiano e onesto cittadino”. Ed è stato proprio così, perché guardandomi indietro, oltre all’educazione datami dalla famiglia, dalle persone care e dalla scuola è stata anche l’interiorizzazione delle parole di Maria a don Bosco che mi hanno pian piano aiutato (anche se, ovviamente, non ci sono sempre riuscito) ad essere umile, a cercare di imparare dalle diverse situazioni della vita, a “capire” prima di “agire”, a diventare forte e robusto senza “abbattersi” negli insuccessi o quando le cose non andavano come sperato, cercando sempre il lato positivo in tutto ciò che accade ancora oggi. E naturalmente affidandosi a Dio e al Suo disegno su ognuno di noi. Certo non è stato (e non è) facile, i momenti di “caduta” sono numerosi, le sofferenze pure: ma l’umiltà è sempre stata una parola che quotidianamente sentivo attorno a me e che dovevo sforzarmi di fare mia.

La vita adulta
Ed è proprio così che una formazione iniziata (inconsapevolmente) da piccolo e cresciuta lentamente (ma in modo continuo) ha portato prima ad una scoperta e poi alla consapevolezza di una speranza interiore data dalla presenza di Dio in ogni cristiano. E tutto ciò mi ha permesso di affrontare il passato, il presente (e con l’aiuto di Dio anche il futuro) con rinnovata fiducia e un certo ottimismo. E così le diverse scelte che mi si sono poste davanti nel corso della vita ho sempre cercato di farle con umiltà e con la certezza di Qualcuno accanto: che non vuol dire averle fatte in modo superficiale ma, al contrario, sono state frutto di una crescita e di una “robustezza” interiore che consente poi di affrontare anche il peso delle conseguenze di queste scelte. Eh già, perché l’umiltà nello scegliere non ci rende esenti poi da quanto queste scelte comportano: un cambio di stile di vita, di lavoro, di città, ecc. non ci lasciano di certo indifferenti. Pensare e decidere in modo umile è una cosa bella, ma il diventare forti e robusti è sicuramente necessario per “sopportare” quanto i cambiamenti comportano, per mantenere fede alle decisioni prese, per poter essere capaci di perseverare nel nostro cammino. Cammino che non è di certo privo di rischi e insicurezze che anch’io, come la vita di ogni persona che non è semplice e senza salite, ho dovuto affrontare ogni tanto (un lutto, una malattia, la perdita di una persona cara, del lavoro). A volte mi è capitato che proprio la scelta più umile mi ha fatto poi affrontare le conseguenze più gravose e pesanti (quante volte sarebbe più facile scegliere la strada più semplice o in discesa…ma non lo facciamo perché sarebbe a scapito di altre persone?): ed è proprio qui che l’esser diventato robusto mi viene in soccorso, per permettermi di arrivare ugualmente alla metà anche se con sforzi maggiori. Quant’è bello arrivare in cima ad una montagna con i propri sforzi e le proprie gambe, senza prendere scorciatoie o una funivia? La sensazione al raggiungimento dell’obbiettivo è tutt’altra cosa: e questo accade nella vita di tutti i giorni e in tutti gli ambiti in cui operiamo. Non posso di certo paragonarmi al Santo dei giovani (non sarebbe umile, non trovate?) ma devo dire che nel corso della mia vita le parole “umiltà” e “robustezza” sono state compagne di viaggio: dove c’era la prima serviva anche l’altra e dove c’era la seconda era necessaria la prima per capire cosa servisse fare in quel determinato momento. Come anticipato non è stato sempre facile e non lo è tutt’oggi e non nascondo che varie volte non ci sono riuscito, ma la metodologia “insegnata” da Maria è sicuramente vincente e porta molto frutto: di questo ne sono certo e la auguro a tutte le persone che sono alla ricerca di un aiuto per uscire dai momenti più tristi e difficili della propria vita.

* Lavora da oltre 18 anni in un’azienda per refrigerazione e condizionamento; attualmente è responsabile di un team di progettisti hardware nell’ufficio tecnico della stessa azienda. Salesiano Cooperatore dal 2015 e membro del Consiglio locale di Belluno dei Cooperatori. È stato Coordinatore della Consulta MGS nel triennio 2007-2009.


“A suo tempo tutto comprenderemo”

Marco Lardino e Ivana Borruso *

Quando abbiamo conosciuto il Movimento Giovanile Salesiano eravamo Marco, un animatore dell’Oratorio San Paolo di Torino e Ivana, animatrice del Valentino di Casale Monferrato. Grazie a un campo animatori della Pastorale Giovanile ci siamo conosciuti e a partire dall’autunno successivo il servizio nell’ambito della Consulta Ispettoriale e poi Nazionale del MGS è stato la prima esperienza salesiana vissuta insieme. Nei dieci anni di servizio nel MGS abbiamo potuto toccare con mano il sogno dei 9 anni. Quasi correndo lungo il filo che lega i Becchi al Sacro Cuore di Roma, siamo entrati in quel “tempo” in cui la vita scorre senza che ancora se ne colga il senso finale. È il tempo del “a suo tempo tutto comprenderai”. Ad ogni arrivo a Roma avevamo occasione di sostare davanti all’altare di Maria Ausiliatrice nella Basilica del Sacro Cuore e salire quei tre gradini della Sacrestia da cui l’anziano don Bosco rivelava che quel tempo in cui comprendere era compiuto. In quegli anni ponevamo le basi di un progetto di vita che si alimentava alla comune passione educativa e all’amore per don Bosco. Quel progetto è diventato la nostra famiglia. Il giorno del nostro Matrimonio abbiamo scelto di essere fecondi come famiglia restituendo ciò che avevamo ricevuto. La fedeltà verso questa scelta, maturata anche nella promessa di Salesiani Cooperatori, ci ha reso capaci di generare anche nei momenti più duri. Proprio nei momenti di maggior difficoltà abbiamo sperimentato come la fecondità dell’amore si realizzi se si accoglie la Croce nella propria vita con autentica libertà, affrontando con coraggio le proprie fragilità. Oggi siamo mamma e papà di un meraviglioso bimbo che da sempre ci attendeva dall’altra parte del mondo. Ci sono volute l’umiltà di accettare le nostre fragilità, la forza di camminare lungo un percorso lungo e tortuoso, la robustezza che solo la Fede, seppur messa alla prova, può dare. Forse anche a noi Maria ha sussurrato al cuore infinite volte “a suo tempo tutto comprenderete”. Non sappiamo quale sarà il tempo in cui comprenderemo ma cogliamo nell’arrivo del piccolo Gaon un segno dolcissimo della Provvidenza sul nostro cammino insieme. Possiamo dire di essere cresciuti nel Movimento Giovanile Salesiano. Servire come animatori nazionali del MGS è stata una palestra di vita eccezionale. Con gli altri giovani con cui abbiamo condiviso il nostro servizio abbiamo imparato ad assumerci delle responsabilità e siamo grati ai Salesiani e alle Salesiane che ci hanno lasciato uno spazio di protagonismo così importante. Abbiamo studiato tanto, approfondito i documenti della Chiesa, della Famiglia Salesiana e il lavoro di chi ci aveva preceduto in quel ruolo. Poco più che ventenni abbiamo avuto la fortuna di collaborare con adulti, laici e consacrati, che ci hanno incoraggiati di fronte alle nostre timidezze, stimolati a prendere iniziative, sostenuti nei progetti, anche i più ambiziosi. Non sono mancate le incomprensioni e i dibattiti. Abbiamo imparato a mediare e a rispettare le differenti esperienze e sensibilità che compongono un mondo complesso come quello salesiano. Abbiamo imparato il senso della corresponsabilità, parola chiave per descrivere il ruolo che i laici devono avere nella Chiesa e il rapporto da costruire tra laici, religiosi e consacrati. Nel MGS abbiamo potuto condividere con i Salesiani e le Salesiane la responsabilità di dare il nostro contributo al lavoro nel campo indicato da Maria a don Bosco. Oggi, superato il confine del “giovanile”, da “adulti” del Movimento Salesiano, abbiamo scelto di impegnarci nella stessa missione giovanile come descritto dal Progetto di Vita Apostolica dei Salesiani Cooperatori: “condividendo con i giovani il gusto di vivere con autenticità i valori della verità, libertà, giustizia, senso del bene comune”. Proviamo a farlo nel nostro lavoro, nella nostra famiglia, nell’impegno sociale e nell’animazione di un gruppo di giovani universitari e lavoratori della nostra Comunità Salesiana a Torino. La foto che accompagna questa nostra testimonianza è la migliore sintesi che potevamo offrire del lungo percorso che ci ha portati fino a qui. Era il 2013, si era appena concluso il Confronto MGS Italia al Colle don Bosco e ci siamo trovati insieme, membri di due diverse Segreterie nazionali, a festeggiare una grande festa salesiana che con coraggio e perseveranza avevamo sognato, progettato e, con l’aiuto di Maria, realizzato. Queste righe non sarebbero complete se non elencassimo i compagni di questo incredibile viaggio. Lo facciamo da sinistra verso destra: Orazio di Modica, Mattia di Conegliano, Renato di Roma, Myriam di Portici, Marco di Torino, Chiara di Civitanova Marche, Marco, oggi don Marco, di Genova, Ivana di Torino, don Claudio Belfiore, Suor Giuseppina Barbanti oggi in Paradiso, Emanuele di Milano.

* Marco, 38 anni, sposato con Ivana e papà di Gaon. Lavora nella comunicazione sociale in una Fondazione torinese. Ivana, 39 anni, sposata con Marco e mamma di Gaon. Lavora come maestra elementare in una scuola pubblica di Torino. Entrambi sono Salesiani Cooperatori dal 2011 e svolgono il loro servizio nell’Oratorio San Paolo di Torino.

Direttorio per la catechesi: una sezione dedicata nel sito di NPG

Nel sito di Note di Pastorale Giovanile è disponibile una sezione sulla catechesi, con articoli rivolti anzitutto agli animatori giovanili, perché siano catechisti e perché quanto di formativo viene proposto sia trasformato in catechesi genuina. A cura di Cesare Bissoli.

Vai al sito
Abbonamenti

Note di pastorale giovanile – Come stanno gli adolescenti?

Dal sito di Note di Pastorale Giovanile, una conversazione con Gustavo Pietropolli Charmet  di Anna Stefi (Doppio Zero Editoriale)

***

Incontro Gustavo Pietropolli Charmet rigorosamente a distanza, come in dad, dietro a uno schermo. Non ha bisogno di grandi presentazioni: è noto il suo lavoro con gli adolescenti e i suoi libri credo siano lettura cui non possa sottrarsi chiunque lavori – insegnante, formatore, psicologo, educatore – con i ragazzi. Ho letto il suo Il motore del mondo, uscito ad agosto e già recensito su queste pagine, ma la ragione per cui gli domando un appuntamento è che, come ho raccontato, sono in un vuoto di senso che rende difficile il mio tempo in classe e mi fa pensare urgente la necessità di interrogare la scuola, quanto accaduto, dove siamo e cosa questo tempo ci ha mostrato in modo più evidente di prima.

AS: Professore, come stanno gli adolescenti? Come è stato questo tempo di restrizioni, di frequenza con i coetanei ridottissima, a stretto contatto con la famiglia: cosa ha determinato?
GPC: Come stanno? La pandemia ha fatto due vittime: gli anziani li ha fatti fuori, e gli adolescenti li ha malmenati. Non lei direttamente, ovviamente, perché gli adolescenti non hanno nemmeno visto la morte e la malattia atroce; in primo piano hanno visto le misure preventive, le restrizioni, le rinunce, tutte apparentemente rivolte a loro: calcio, concerti, sport. Ogni cosa. Chiusi in casa. Tutto questo, in una famiglia, generalmente si definisce “castigo”: impedire di uscire, impedire l’allenamento di calcio, il vedere gli amici, sono dei castighi. Castigo, dunque? E per che motivo? Non si trattava di un castigo, sono state date delle regole, apparentemente insensate, che dovevano essere seguite. Certo è che queste regole hanno comportato deprivazioni importanti e significative. In famiglia non mi sembra che ci siano stati problemi, globalmente, la famiglia contemporanea è una famiglia a scarso contenuto etico, prevale più l’attenzione alla relazione che la regola, l’occasione di conflitto è stata dunque tollerabile. Certo, c’è stato un lungo tempo nella cameretta e un riflusso verso attività di marca regressiva: cucina, recupero della gastronomia, giochi in scatole, repertorio di cose dismesse tornate di moda per il maggior tempo a disposizione.
Il gruppo è rimasto accessibile – per loro un amico virtuale è un amico reale – e con la famiglia è stata una sorta di tempo di vacanza prolungato, con genitori a casa tutto il giorno. Socialmente invece le privazioni sono state molte, gli è stato impedito il movimento, il divertimento, il ballo, ma anche cose importanti, iniziatiche: il concerto in centomila a San Siro è un’occasione importante, che reimmerge nel clima della propria generazione. La colonna sonora diventa un’esperienza reale, con la sua ritualità.

AS: E la scuola? Come hanno vissuto la dad? Ho faticato a capire i loro vissuti, del resto molto diversi tra loro. Credo tuttavia che non si possa negare che sia visibile, da che siamo rientrati, un generale smarrimento, anche in chi era ben contento di dormire un’ora in più e connettersi indossando una maglietta sopra il pigiama.
GPC: Sento sempre dire che la loro malinconia e la loro protesta dipendano dalla difficoltà dell’andare scuola: gli amici, il gruppo classe, la dad, il contatto artificiale con gli amici. In verità non credo che sia questo il tema: loro hanno la grande risorsa di poter avere, con la loro rete, ampi contatti di natura erotica, aggressiva, virtuale, di conoscenza. Quando entrano nella loro cameretta a noi pare che vadano a studiare e dormire, ma nei fatti entrano in un centro sociale, in un’agorà piena di occasioni. Non credo sia stato questo che li abbia fatti soffrire, credo che, molto indirettamente, li abbia fatti soffrire – senza che se ne possano troppo accorgere né lo possano ammettere – il fatto che la scuola, come tutte le organizzazioni di lavoro, in questo periodo ha traballato: chiusi, aperti, socchiusi, eccetera. Questo li ha messi in difficoltà coralmente: è vacillata la loro istituzione di lavoro, che garantisce ruolo sociale, identità, appartenenza, colonizzazione del futuro, fraternizzazione – mica poco! Si tratta di cose grosse, importanti, sono le cose che fa un’università o un luogo di lavoro, un’azienda, per un adulto, senza i quali è molto facile cadere in depressione: non si sa più chi si sia, non si hanno progetti, si perde valore sociale. Ecco la scuola è l’unico momento sociale che gli consentiamo di avere, ha una funzione di appartenenza, seppur precaria, ed è il luogo dove possono prendere minimamente contatto con la propria vocazione: cosa mi piace fare? Si tratta di un contatto vago, la scuola lo sappiamo non aiuta molto in questo senso, però ci prova, nel confronto con discipline diverse qualcosa di uno stile, di un gusto, si delinea. Questa secondo me è stata la perdita più grave: il loro lavoro, quello che dava loro una qualche forma di identità, è stato sottratto. Questo ha creato un’anomia e questa, sì, è una perdita reale. Son andati in “cassa integrazione” da questo punto di vista: studenti a mezzo servizio, con tutta la sottrazione di queste benemerenze che la scuola ha, indirettamente. La scuola consente a un adolescente di sapere perché è in colpa o perché si vergogna: se apre gli occhi la mattina un adolescente incontra interrogativi su compiti, interrogazioni, scadenze. La scuola è un grande organizzatore dei sentimenti, e questa è una funzione enorme. Se un adolescente deve per contro proprio la mattina decidere se è in colpa o meno, se si deve vergognare, rispetto a che cosa, è complicato! Il figlio dell’uomo, spontaneamente, prima di aver accesso alla gioia, è portato a liberarsi di colpa e vergogna, in agguato appena apriamo gli occhi.

AS: E il rapporto con gli insegnanti?
GPC: È andato male, purtroppo. Gli insegnanti, non addestrati a insegnare a distanza, hanno ripetuto la lezione che avevano preparato. Non viene bene, non funziona: le occasioni di distrazione in camera o in cucina – dove ad ascoltare c’è anche il nonno – sono troppe. La dad non può sostituire l’insegnamento tradizionale, è necessario che si proponga dell’altro, un altro modo. Il paese sta andando verso questo – si lavora da casa, l’università sarà a casa e forse anche la scuola. È necessario pensare a modalità nuove. Così è deludente. Quello che è venuto a mancare non è tanto l’apprendimento, o una modalità di fare cultura diversa da quella che si fa a scuola, è che la scuola è una liturgia, è entrare in Chiesa, è entrare in una istituzione, è la forte richiesta sulla soglia di uscire dal ruolo di adolescente e entrare in quello di studente, con una offerta di mediazioni, nei confronti dei compagni e dei docenti, importante. La dad non offre tutto questo.

AS: Si parla poi molto del rapporto di controllo: telecamere spente e accese; la mole di verifiche non appena si è tornati in classe; la rincorsa alla valutazione…
GPC: Ne sento parlare spesso dai ragazzi, mi sembra strano, ma è anche comprensibile: i docenti sono diventati molto sospettosi nei confronti dei ragazzi, sono ricorsi a verifiche, valutazioni continue. L’immagine della ragazza bendata coglieva nel segno. Diminuendo il controllo visivo aumenta una specie di controllo rafforzato, per vedere se effettivamente qualcosa è passato. Mi diceva il dirigente di un grande istituto che c’è il tema di verificare se si connettano davvero, se siano davanti allo schermo. Ovviamente ci sono stati docenti che si sono fatti in quattro per trovare modalità alternative, capire bisogni, intercettare modalità di relazione che siano contestualizzate al momento che i ragazzi vivono: in fondo alcuni docenti fanno lezione a ragazzi al primo anno di scuola che dunque non si conoscono nemmeno tra loro, al quinto anno c’è il tema della maturità, insomma ci sono situazioni differenti da considerare.

AS: La sensazione che ho, in classe, nell’assenza-presenza, è che il controllo, diventato delirio di controllo, sia esito di un vissuto dell’insegnante di grande solitudine, che non è data tanto dal tema della telecamera accesa o spenta, quando da interrogativi di senso rispetto al proprio operare. Si è interrotto un agire automatico che abitava la scuola, il “cerimoniale”, e si è persa un po’ la capacità di collocarsi. Mi è parso che questo sia accaduto da entrambi i lati. In un primo tempo, al rientro, i ragazzi portavano un desiderio di restare a casa, e mi pare che a dare corpo a questo desiderio contribuisse una sensazione si spaesamento: aprile sembra giugno, come ho scritto. Si è provvisori, come se l’anno fosse finito (o, forse, nemmeno iniziato).
GPC: In questo senso io non credo che sarà possibile recuperare la normalità. Siamo usciti dal setting. Vale anche nella mia professione: ho lavorato a distanza e ora raggiungere lo studio mi sembra un’impresa, mi sembra di essere meno protetto e meno competente. È un discorso complicato quello che andrebbe fatto, ma devo dire che sono stato molto colpito e ho cambiato alcune convinzioni. Ero prevenuto rispetto alla possibilità di costruire una relazione a distanza con i ragazzini, soprattutto quelli che stavano peggio. Ho invece avuto l’impressione che questo strumento consenta, se si vuole, un’intimità, una confidenza, e un approfondimento che nel mio mestiere sono valori di riferimento. Quello che ancora non so dire è quanto tale intimità, tale ‘serietà’ – che fa il mio gioco in questo lavoro –, dipenda dal fatto che fuori c’è la pandemia e dunque qualcosa arriva a loro della gravità della situazione.

AS: C’è dunque stato un incontro con la morte?
GPC: Percepire la serietà della situazione, cosa che è accaduta anche se non lo ammettono esplicitamente, non ha voluto dire che abbiano visto la malattia grave o la morte orrenda, non hanno visto il rischio della distruzione della specie umana, né che abbiano paura dell’una o dell’altra. E questo è stato un errore educativo grossolano che è stato fatto dal nostro paese. Ci siamo lasciati sfuggire una occasione, un’occasione per dire, con la morte lì, “parliamo di questa faccenda che corre insieme alla vita”. Letteratura, poesia, la morte imprigionata, risolta: siamo immersi nella morte, non sappiamo se la nostra specie sopravvivrà – e se non dovesse succedere? Perché non si è alzata una voce sobria, autorevole, comprensibile – ma anche un po’ stupefacente – per parlare ai ragazzi di tutto questo. È difficile parlare con loro della relazione con la morte eppure loro ci pensano, il 20% degli studenti liceali ha fantasie di suicidio, che non attueranno, ma è un passaggio obbligato.
È la scoperta della loro mortalità. Sono lasciati soli con tutto questo e abbiamo perso una grande occasione, perché per evitare che le fantasie diventino azioni bisogna che siano trasformate in parola. Loro hanno visto le misure, le regole, più delle ragioni che hanno determinato tali misure. Al più si è messo a tema il “non portare a casa il virus ai nonni”, mentre invece si sarebbe potuto convocare i ragazzi, responsabilizzarli, un grande volontariato nazionale, si sarebbe potuto trovare dei modi di coinvolgerli per portare il cibo, accompagnare per i vaccini, e soprattutto evitare i contagi con misure più significative, con un livello di responsabilità maggiore, non con una legge cieca. Il discorso sui nonni, paradossalmente, ha avvallato la loro immortalità: l’identikit della persona a rischio non erano loro. Ecco questo credo sia stato un grande errore, proprio adesso si poteva accogliere il loro: “mamma ma tu lo sapevi che sarei morto? E allora perché mi hai fatto nascere?”. Lo hanno questo problema in qualche modo, perché li abbiamo lasciati soli con questo?

AS: La scoperta della propria mortalità, dice, i fatti di cronaca registrano in questo ultimo anno un numero di passaggi all’atto che spaventa: è così o è la messa a fuoco dei media su questo che crea l’impressione che sia un fenomeno in aumento?
GPC: Credo si possa dire che, al di là dei dati statistici in questo ambito sempre opinabili a causa delle difficolta di registrazione, senza dubbio se ne parla di più di quanto accadeva un tempo. La “propria morte” è stata sdoganata, un adolescente in grave crisi sente che quella è una possibilità, si sente libro di scegliere la soluzione migliore al proprio dolore e il rifiuto di crescere è a portata di mano. Ecco perché parlo di occasione mancata, mi pare davvero fondamentale costruire una educazione sul tema della morte che non li lasci soli a decidere nel momento più cupo della loro vita.

AS: E per quel che riguarda l’esplosione del disagio psichico? Ho l’impressione che siano aumentati, almeno al mio sguardo, attacchi di panico, atti autolesivi, fenomeni di chiusura…
GPC: Non c’è dubbio che dalla pandemia sia venuta fuori una quantità notevole di ragazzi che stanno male. Ci sono indici di richieste di ricovero nelle neuropsichiatrie infantili, nei servizi di neuropsichiatria, che sono segnale del fatto che c’è davvero un esito cicatriziale di questo insieme di situazioni di malessere generalizzato e di mancanze. Attacchi di panico, disturbi della condotta alimentare, paradossalmente anche il ritiro sociale è esploso: i ragazzi lo facevano già prima, chiudersi nel virtuale, e si sono ancora più radicati. Sarà ancora più complicato tirarli fuori. C’è una relazione tra pandemia e aggravamento epidemiologico di situazioni di malessere abbastanza gravi, soprattutto – stranamente – fenomeni di autolesionismo. Le crisi di panico sono momenti orrendi, terrificanti – in quel momento sei morto o sei pazzo –: è una radicalizzazione della grande paura del figlio dell’uomo. Paradossalmente hanno una loro efficacia: hai paura ma non muori e non impazzisci, per quanto rimarrà il ricordo di quel momento davvero orribile. Nel consultorio gratuito dove lavoro abbiamo una richiesta importantissima di aiuto, strettamente correlata alla pandemia: molti sono i ragazzi traumatizzati dalla morte che hanno avuto in famiglia – spesso morti multiple, vista la contagiosità del virus. Complessivamente c’è sempre una frangia di ragazzi che sta male, potremmo dire per ragioni statistiche, ma ecco quello che vedo è che il disagio si è aggravato. Io ho scelto di lavorare con questi ragazzi: ritiro sociale, disturbi della condotta alimentare, atti autolesivi. Tutto questo quarant’anni fa, quando ho iniziato questo lavoro, non c’era. L’autolesionismo era allora un sintomo gravissimo di esordio psicotico, il corpo non si toccava era la casa del Signore o comunque apparteneva alla madre, sacro. L’uso del corpo per risolvere un problema della mente è nuovo e soprattutto è nuova l’intensità dei sentimenti violenti, intollerabili, in assenza di una diagnosi clinica. Questi cambiamenti sono un po’ sconcertanti, le metodologie sono sconcertanti: tagliarsi, digiunare, chiudersi nella stanza. Insomma rende la misura del dolore. Ma non è solo questo: c’è stato anche un ingigantirsi, a seguito della pandemia, di alcuni vissuti, come la noia e la tristezza. Questo ha prodotto depressione, apatia, perdita di progettualità, disinteresse, e poi soprattutto il disprezzo per chi prova ad avvicinarsi con proposte – sport, cultura, gastronomia – non interessanti. Gli adolescenti han molto sofferto, direi che si è slatentizzato qualcosa che era già presente, che è stato messo in forma dal periodo di pandemia ed è diventato qualcosa da curare, mentre prima si tendeva a ignorare.

AS: Dice di queste proposte che arrivano a loro: mai interessanti. Incontro questo, in classe. In Il motore del mondo (Solferino, 2020) lei scrive che la scuola non insegna il futuro, l’impressione che ho, in questo tempo, è che non solo la scuola non lo insegni ma che la fatica ora sia proprio reperirlo, un futuro. E dunque, come adulti, che si fa? Come ci rapportiamo, come rispondiamo a questa sfiducia, questa assenza di desiderio generalizzata.
GPC: Non c’è una risposta. Insomma come adulti con che faccia tosta ci presentiamo ai ragazzi vagheggiando il futuro come momento felice di realizzazione dei talenti? Siamo preoccupati, lo eravamo già prima di tutto questo. Sarebbe bello che la scuola potesse qualcosa, ma non è così. I docenti si ritrovano con una storia imponente da raccontare ai ragazzi, tutte le materie sono impregnate di questa storia, di come l’uomo ha costruito teoremi ed è arrivato su Marte. A forza di studiare il passato non si riesce a insegnare il futuro. È ovvio che si debba fare la storia, la storia della letteratura, ma qualcosa nell’impostazione attuale non aiuta a vedere il futuro, a dargli spazio. Forse mettere insieme le discipline in modo integrato, forse portare questo grande tema che li riguarda, il fatto che c’è da aggiustare la Terra, prima di tutto, aggiustare i rapporti umani, l’organizzazione sociale. Il lavoro che c’è da fare è il futuro, ma non si arriva a mettere a tema nella scuola. Si tratta di temi che possono essere affrontati solo in un dialogo tra diverse discipline e io credo che questo per i ragazzi sia molto importante: il disastro che è sotto i nostri occhi va messo a posto e c’è poco da fare, tocca a loro. Non è male come compito, è un compito eroico.

AS: Mi sembra tuttavia che più che il futuro i ragazzi soffrano della propria, singolare, inettitudine alla vita: in fondo io, nei loro discorsi, non sento che non c’è il futuro, sento che c’è la propria impotenza, il loro essere inadatti, come qualcosa di irredimibile. Forse è l’adolescenza, forse è stato così anche per noi, ho l’impressione – ma magari è il mio sguardo dimentico – che oggi sia più radicale. Non c’è modo di uscire dalla propria inettitudine alla vita.
GPC: È così. Se parliamo di futuro bisogna pensare che per loro il futuro è domenica. Sarò capace, domenica, di fare quel che non ho fatto? Se non sono capace sono inadeguato alla vita: mi ritiro, mi taglio, mi ammalo. Risolvono così l’inadeguatezza. Se però si accetta che al posto del padre siede il gruppo e che è il gruppo che decide cosa è importante o meno – esser bello? aver successo? occuparsi del pianeta? – il pensiero del gruppo può essere usato per accendere l’interesse, la vocazione. Il valore personale dell’insegnante è avere questo tesoro pazzesco di informazioni sul passato da trasmettere, ma parla del passato.

AS: Ma un po’ ci si illude che nel passato si trovi qualcosa di sé, in fondo mi pare che dire il passato sia trovare tracce, rendere complessa l’inadeguatezza, svelare che è fatto antico.
GPC: Non è semplice con gli adolescenti che ci troviamo davanti oggi. Quello che li attacca non è il vecchio e amabilissimo Super-Io, non è la legge morale, il parroco, il dovere. Il tema sono gli ideali della società dei consumi: la vergogna produce un sentimento di inadeguatezza irreparabile, crudele, non è come la colpa, che si ripara con la confessione. Chi è inadatto deve solo vergognarsi e scomparire, è più grave. Come fare a valorizzarli a fronte di esperienze personali mortificanti? Sono marginali, non riescono a essere popolari. Vivono in un cono d’ombra. Riuscire a tirarli fuori da tutto questo non è semplice: bisogna valorizzare la loro età, la loro generazione, la loro sottocultura. Non è impossibile, non è peggiore delle altre, ma è un compito difficili e bisogna fare attenzione; molti docenti amici, di grande volontà, rischiano di trasformare la scuola in un servizio: ma se la scuola è un servizio hai dei clienti e devi soddisfarne le esigenze, e dunque è finita l’educazione. I ragazzi oggi sono più vicini al disprezzo che all’aggressività. Una volta al docente disobbedivano, oggi lo disprezzano: non gliene frega niente. Quello che non riescono a fare è davvero indossare il ruolo di studente e restituire alla scuola un valore istituzionale ed etico. Sono in classe ma, anche nelle mura dell’aula, restano adolescenti e non studenti. Hai voglia tirarli dalla parte della cultura e della ricerca! A un adolescente non interessa, interessa a chi è entrato nel ruolo di studente, ma non è così scontato che questo accada. Bisognerebbe rendere il ruolo di studente molto accattivante, farne non solo un fatto di merito e votazione, ma promuovere ingegno, capacità, motivazione. Del resto gli allievi che portiamo avanti nei nostri studi sono persone ingegnose, creative, anche se – secondo me – con una coscienza sindacale esagerata! Ma è anche giusto, certo, fatto sta che spesso mi trovo da solo a lavorare e loro alle cinque sono andati a casa. Io ero l’ultimo a spegnere la luce quando c’era il Professore e ora accade lo stesso, sono sempre l’ultimo a uscire: sono il Professore e spengo la luce!

L’idea del futuro tra i giovani: prima e dopo la pandemia

I valori della vita dei giovani tra i 18 e i 30 di Italia, Germania, Polonia e Russia sono fortemente orientati verso valori che riguardano la vita sociale e privata, evidenziando, invece, una lontananza rispetto ai valori politici e a quelli spirituali. È quanto emerge da un’indagine realizzata nei quattro paesi europei sui giovani e la loro idea di futuro. L’iniziativa, i cui risultati possono essere messi a confronto con quelli registrati in due precedenti ricerche sull’idea di futuro tra i giovani condotte nel 2018 e nel 2019, è stata promossa da un gruppo di esperti appartenenti a diversi enti: per l’Italia, l’Eurispes che si è avvalso anche dalla collaborazione del dipartimento Coris della Sapienza Università di Roma e dell’università Mercatorum di Roma, del dipartimento di scienze economiche dell’Università degli studi di Bologna. Nell’indagine 2020 emerge una sorta di “apatia dei valori” espressa dai giovani italiani. Un netto crollo è registrato nella posizione dei valori come “una vita onesta” (-22,5%), “il rispetto della legge” (-21,2%), “seguire ideali, princìpi” (-19,4%), “indipendenza personale, libertà” (-19%) e “l’istruzione” (-20,8%). In una situazione segnata da una mortalità crescente e diffusa e dagli appelli delle autorità e dall’enfasi della comunicazione a proteggersi dalla aggressione del virus, il valore “salute”, ha ceduto la sua posizione rispetto al valore “democrazia” (valore complessivo “democrazia” pari al 90,6%; valore “salute” pari all’85,9%; era pari al 97,8% nel 2018).

Per le giovani donne italiane l’importanza centrale della famiglia ha perso il suo carattere assoluto. Le ragazze riconoscono l’importanza dell’istruzione (79,1%) e della carriera (78,1%), del lavoro (81,1%) e del denaro (84,8%), dell’indipendenza e della libertà personale (77,5%), della libertà di parola (76,7%) e dell’adesione a ideali e princìpi (78,5%), così come l’importanza di famiglia (78,4%) e figli (78,3%) solo il 17,9% dei giovani italiani vuole restare con i genitori. Infatti l’82,1% dei giovani italiani dichiara di volere intraprendere una vita indipendente in futuro e ritiene che l’età ottimale per questo cambio di vita sia di 23,7 anni (valore medio). Ma negli altri paesi c’è maggiore desiderio di autonomia. In molti casi il timore di spiccare il volo è correlato alla condizione economica.

Le idee dei giovani italiani sul numero ideale di bambini (2,2 bambini) superano di poco la cifra necessaria per la semplice riproduzione generazionale (per gli altri paesi le indicazioni sono: Francia 2,0, Polonia, 2,2, Russia 2,0). Quando poi si collega questa proiezione ideale alle condizioni reali di vita dei giovani, il loro orientamento immediatamente cala fino ad indicare un numero medio di 1,61 figli per donna. Secondo i giovani italiani, un’esistenza comoda e dignitosa senza tensioni inutili si ottiene quando il reddito mensile raggiunge i 2.349 euro. Nel confronto con i giovani degli altri paesi questo obiettivo si raggiunge con il seguente livello di reddito: Francia 9.878,87 euro, Polonia 908,99 euro, Russia 1.258,72 euro.

Continua a leggere
Per abbonamenti

Ripartiamo da salute e cura

Da Note di Pastorale Giovanile

di Silvia Landra –  Psichiatra e responsabile della formazione presso la Casa della carità di Milano

Per lo meno da una prospettiva lombarda, l’esperienza della pandemia ci ha mostrato come paghiamo duramente le conseguenze di un’organizzazione sociosanitaria da tempo sbilanciata su eccellenze ed emergenze, e invece assai meno attenta a universalità e continuità delle cure a fronte di condizioni di malessere prolungate o invalidanti e di grave emarginazione. Sulla base dell’esperienza di questi mesi appare più condiviso quanto dicevamo da tempo, e cioè che la salute deve essere un criterio che guida e orienta le scelte programmatiche, non ultime quelle economiche, con riferimento all’uso del territorio e alle forme di scambio praticate nell’ambito della collettività. Attraverso la prospettiva della salute si evidenziano bisogni dei singoli e dei diversi gruppi sociali e si possono valorizzare le risorse comunitarie reali e potenziali, pubbliche e private, formali e informali.

Nella sua accezione di benessere globale del singolo e della comunità, la salute non è una merce da acquistare in un centro specializzato, ma un bene comune, qualcosa in cui è in gioco la ragion d’essere della comunità. Così, non può esserci un solo luogo a cui fare riferimento per la realizzazione del benessere di ciascuno, perché la salute, nella concezione dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) implica una molteplicità di dimensioni: ambiente, benessere fisico, psichico e spirituale, autonomia economica, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, relazioni sociali, sicurezza, ecc. La salute non è solo e tanto una questione individuale, ma una costruzione sociale, un bene da perseguire socialmente, l’esito di un preciso disegno di governo delle comunità. Per questo è un banco di prova per un rinnovato esercizio della politica, che la assuma come riferimento primario della propria azione, senza distinzioni di provenienza geografica, censo, genere, livello di istruzione, abilità.

In particolare, dare attuazione a questa idea di salute richiede la riorganizzazione della cura e lo sviluppo di un’azione politica, ecologica e solidale, che conduca a superare la cultura dello scarto, lo scandalo delle discariche fisiche e umane disseminate nel pianeta cui si continua a rispondere in termini esclusivamente assistenziali e riparativi. Non pensiamo solo a quei luoghi che sono diventati un esempio di degrado a livello globale, come le periferie delle megalopoli del Terzo mondo, ma anche a contesti istituzionali delle nostre città, persino puliti e organizzati, che tuttavia possono raccogliere la tendenza espulsiva di una collettività che estromette e dimentica alcuni dei suoi membri, al punto da non rendersi conto per tempo del rischio di mescolare soggetti sani e soggetti contagiati. È quello che è successo, in Lombardia e probabilmente non solo, a molti anziani o malati non autosufficienti con la cosiddetta “strage nelle RSA”.

Continua a leggere
Per abbonamenti

Il ministero del catechista – Cosa dice alla Chiesa italiana

da NPG – di Cesare Bissoli 

UNA PREMESSA
I Catechisti nella Chiesa italiana

Leggendo il recente documento di papa Francesco sui catechisti e il loro ministero (2021) mi è venuto alla mente una esperienza tra le più belle e promettenti: i due Convegni Nazionali dei Catechisti a Roma nel 1988 e nel 1992, presenti le autorità della Chiesa italiana e del Papa. Il grandissimo numero di partecipanti da tutte le regioni, diocesi, parrocchie, associazioni e movimenti attestarono il grande “dono vivente” presente e operante nella Chiesa italiana che sono i catechisti. E in effetti si tratta della presenza in Italia oggi di circa 200.000 e più di uomini e donne (con la netta maggioranza di queste) che si dedicano alla catechesi secondo le tappe delle varie età, con la maggioranza dedicata a bambini e ragazzi per l’iniziazione cristiana, potendosi avvalere del Catechismo per la vita cristiana (in più volumi), edito dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI).

Si deve riconoscere che dal rinnovamento del Vaticano II, tradotto e applicato catechisticamente nell’indimenticabile Documento Base, Il rinnovamento della catechesi (1970) si svolse il momento della giovinezza del nuovo cammino della catechesi italiana. Ma la sua attuazione non fu senza difficoltà per i rapidi mutamenti culturali e religiosi. A partire dal secondo millennio fino ad oggi si può far cominciare il momento della maturazione. La necessità di cambio, motivata dalla crisi di fede specie fra i giovani e fra gli adulti, richiamò pastori e fedeli, sollecitati da S. Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e ora, con notevole energia da Papa Francesco, a ripensare, rivedere, rafforzare il progetto catechistico italiano secondo la nuova impostazione, che investe tutto il servizio ecclesiale imperniato sull’evangelizzazione missionaria e dunque comprende e conforma il servizio di catechesi a processo di evangelizzazione missionaria. Per questo scopo, il compito dei catechisti assume valore strategico e ineludibile.

Tutto ciò comporta necessariamente una revisione adeguata dell’identità del catechista, della sua formazione, dei suoi compiti. Intorno a questo serio problema si muove una ricerca fatta di riflessione, di convegni e di pubblicazioni. Non possiamo dimenticare i diversi Sinodi della Chiesa, in cui il ruolo dei catechisti o con altro nome, viene nominato, in particolare quello sulla Parola di Dio (Verbum Domini) (2008) e l’altro dedicato ai giovani (Christus vivit) (2019). Da essi provengono dati aggiornati per l’annuncio catechistico e per chi lo deve animare. Da ultimo va ricordato il filo rosso dei Direttori: Direttorio Catechistico Generale (1971), Direttorio Generale per la catechesi (1997) e il più recente Direttorio per la catechesi (2020), cui fa seguito – fin qui ultimo documento catechistico – la Lettera Apostolica sui catechisti di Papa Francesco (2021).
Domanda: cosa ci viene proposto da essa?

Continua a leggere
Per abbonamenti

“Giovani, Chiesa e comune umanità”: il nuovo libro di Salvatore Currò

Dal sito di Note di Pastorale Giovanile, riportiamo la segnalazione del nuovo  libro di Salvatore Currò, “Giovani, Chiesa e comune umanità”.

***

Il libro
Il percorso proposto, uno anche se si concretizza in percorsi diversificati («percorsi di teologia pratica sulla conversione pastorale»), è una scommessa e, insieme, una via da percorrere e una trasformazione da operare. Questa è, infatti, l’originalità del cammino proposto: trovare una base sufficientemente ampia nella quale tutti possano ritrovarsi (le «relazioni» e la «sincerità dell’umano»: I e II parte) e passarla al crogiolo della sua trasformazione per opera di Dio stesso (una pratica alla «misura della rivelazione» e la «conversione come trasfigurazione»: III e IV parte). L’opera è in sé stessa un itinerario, ma anche un cambio di paradigma. Quando si parla di educazione cristiana, di catechesi, di Scrittura o di Rivelazione, è sempre per situarsi nell’uomo e orientarsi verso Dio. La proposta prende le distanze da ogni ottimismo ingenuo (di chi pensa, ad es., che l’umanità sarebbe sempre in ricerca della divinità) e si misura con ciò che molti nostri contemporanei ormai sperimentano: la possibilità di fare a meno di Dio, e il fatto che non ci sarebbe più bisogno di invocarlo per vivere.
(Dalla Prefazione di Emmanuel Falque)

L’Autore
Salvatore Currò è religioso della Congregazione di San Giuseppe (Giuseppini del Murialdo). È docente e Direttore dell’Istituto di Teologia Pastorale dell’Università Pontificia Salesiana di Roma. Insegna anche all’Istituto Filosofico-Teologico San Pietro di Viterbo, di cui è stato Preside. È stato Presidente dell’Associazione Italiana Catecheti (AICA) e fa parte del Direttivo dell’Équipe Europea Catecheti (EEC). Ha partecipato, in qualità di esperto, al Sinodo dei Vescovi su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale” (2018). È Consigliere generale della sua Congregazione. Con Elledici ha pubblicato: Alterità e catechesi; Il senso umano del credere: pastorale dei giovani e sfida antropologica; Perché la Parola riprenda suono: considerazioni inattuali di catechetica.

Abbonamenti

Sport e ecologia integrale, per una conversione pastorale

Collaboratori dell’ufficio turismo, tempo libero e sport della Conferenza Episcopale Italiana

(NPG 2021-04-37)

Il mondo dello sport sta mostrando da anni un profondo cambiamento, nelle modalità e negli approcci alla pratica sportiva, rispetto alla popolazione dei praticanti, alle finalità per cui si pratica, ai luoghi dove viene praticato. La pandemia ha ulteriormente accelerato questo processo di metamorfosi in atto, facendo vacillare l’intero sistema e creando ulteriore sconcerto. In questo contesto, il sistema sportivo italiano e le istituzioni politiche faticano ad offrire una visione nuova di sport, convincente e proiettata al futuro.
Il magistero di Papa Francesco appare oggi come una delle poche bussole in grado di offrirci una strada sicura. È una bussola esigente, che stimola e sprona a fare un cambio di rotta deciso e talvolta radicale. La sfida è quella che il Papa nell’enciclica Laudato si’ chiama “ecologia integrale”: non si tratta di una questione esclusivamente ambientale legata alla preservazione del creato, ma si tratta essenzialmente di una questione antropologica e culturale:

La cultura ecologica non si può ridurre a una serie di risposte urgenti e parziali ai problemi che si presentano riguardo al degrado ambientale, all’esaurimento delle riserve naturali e all’inquinamento. Dovrebbe essere uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma ad una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico[1].

La “galassia sport” oggi è segnata da innumerevoli spinte centrifughe: lo sport spettacolo, il fitness, lo sport “fai da te”, lo sport dilettantistico… Saprà giocare un ruolo da protagonista nel costruire una ecologia integrale o sarà con-centrata su se stessa alla ricerca di mantenere questo equilibrio instabile?
Quella lanciata da Papa Francesco è per lo sport una sfida complicata, ma che potrebbe rivelarsi anche un’occasione di ritrovare la propria identità vocazionale, frammentata e dispersa in molteplici finalità, spesso nemmeno troppo congeniali con lo sport stesso.
Del resto… «direi che quella dello sport è una questione fondamentalmente ecologica. L’abitante di una città moderna sta oggi in una casa sua o in un luogo impervio, che costringe alla fatica quotidiana dell’adattamento? Forse lo sport è una prova di aggiustamento spontaneo»[2]. Oggi emerge sempre di più il disagio della civiltà metropolitana «a quella che W. Sombart ha chiamato la tassametrizzazione della vita, insomma a tutte quelle condizioni che, opprimendo, fanno desiderare la fuga all’aria aperta, la libertà dalla routine»[3]. Per questo risulta sempre più urgente la valorizzazione di contesti “puliti” dallo stress della ferialità, dalla logica strettamente funzionalista, materialista ed economica, con il recupero del senso della festa, del riposo, dello svago (nel senso del «vagare fuori dalle rotte ordinarie ed obbligate”), del divertimento (nel senso etimologico del divertere), del gioco. Lo sport oggi ha un valore di “compensazione” nella vita delle persone, rappresentando un’occasione di ri-generazione della qualità della vita. «Il riconoscimento della peculiare dignità dell’essere umano molte volte contrasta con la vita caotica che devono condurre le persone nelle nostre città»[4]. Pensare alla pastorale sportiva nell’ottica dell’ecologia integrale, da un lato obbliga ciascuno ad un cambio di stile e di mentalità dal punto di vista personale, dall’altro ci pone di fronte anche alla necessità di un cambio di stile e mentalità a livello comunitario e pastorale, di riorganizzazione e ripensamento strategico dei nostri gruppi sportivi, alle loro finalità e al loro rapporto con la parrocchia e il territorio. «La conversione ecologica che si richiede per creare un dinamismo di cambiamento duraturo è anche una conversione comunitaria»[5].
A seguire si offrono alcuni spunti di riflessione alla luce della Laudato si’ che possono aiutare a delineare alcuni orientamenti per la pastorale sportiva all’interno delle nostre comunità ecclesiali, ma non solo.

 

Continua a leggere
Abbonamenti

“Pedagogia salesiana dopo Don Bosco”: la ricerca di Michal Vojtáš

Sul sito di Note di Pastorale Giovanile sono pubblicati alcuni stralci della nuova ricerca sulla pedagogia salesiana dopo Don Bosco di don Michal Vojtáš , pubblicato dalla casa editrice LAS 2021.

***

La pedagogia salesiana sviluppa riflessioni che superano la ricostruzione storica dei contesti, delle esperienze e delle visioni originarie di don Bosco sull’educazione. La ricerca di Michal Vojtáš pubblicata in questo volume, proseguendo su tale traiettoria, studia primariamente le formulazioni pedagogiche delle generazioni salesiane successive e, a livello di metodo, tenta di superare la sterilità delle pure ricostruzioni documentaristiche con un confronto sincronico e diacronico tra gli autori.

L’intenzione di connettere don Bosco con le sfide educative di oggi passa per il vissuto delle diverse epoche con i loro differenti modi di pensare. Queste mentalità rinforzano alcune nuove idee pedagogiche omettendone delle altre, preferiscono alcune modalità di azione, sviluppano delle riflessioni, alcune profetiche e coraggiose, altre piuttosto piegate alla mentalità corrente o a soluzioni di emergenza.

Vai agli altri materiali
Per abbonamenti

Pensaci bene, pensati bene!

Dalla rubrica “16 anni, mestieri di vivere” di NPG, un articolo di Giorgia Cona, giovane studentessa dell’I.S. Majorana-Arcoleo di Caltagirone.

***

Cogito ergo sum: “Penso e quindi esisto”. Queste parole di Cartesio, se decontestualizzate, hanno la capacità di essere molto attuali. Cosa intendo?
Noi ragazzi siamo invasi da dubbi esistenziali come “ho veri amici?”, “appaio alla gente come davvero sono o traspare altro di me?”, “sto facendo la cosa giusta per me?”, “cosa ne sarà del mio futuro ?”, ma soprattutto “chi sono?”.
Non credo che qualcuno riuscirà mai a trovare soluzione a tali questioni, ma forse Cartesio una strada la suggerisce. Calcutta in “Blue Jeans” canta che «delle volte per vederci chiaro, serve stare al buio, e per essere davvero sicuri, occorre avere un dubbio».
Sembra quasi un ossimoro quello di raggiungere sicurezza passando per le incertezze. Eppure puoi dubitare di tutto, ma ci sarà per forza qualcosa che non sarà scalfito da questo dubitare “metodologico” ovvero la tua esistenza e quindi l’esistenza, non tanto di te come corpo, ma dei tuoi pensieri. Una cosa è certa, e su questa devi fondare tutto il resto attorno, come dice Cartesio. Ciò che hai nella tua testa, in quanto essere pensante, quelle idee, quei contenuti mentali, quello sei tu. Allora apriti ad esperienze nuove e piene di vita, confrontati con altri, alimentati con l’arte, la cultura, la danza, la letteratura, la musica; rendi i tuoi pensieri forti, unici, indipendenti e liberi.
Trovare certezza in questo, porta a trovare delle sicurezze che ti permettono di conoscerti e di capire ciò di cui hai bisogno. Sei tu e solo tu con i tuoi pensieri e, se ti trovi nella confusione, in un mare di incertezze a cui non sembra esserci soluzione, riparti da lì, riparti da te. Pensa a ciò che è conforme con il tuo pensiero, ciò che è compatibile con te stesso, allora troverai le prime certezze. Questo genere di consapevolezza non è assolutamente facile da conseguire, ma è ciò che ti aiuta a rispondere a tutte quelle domande di cui ogni persona inizialmente non ha trovato risposta. Sei i tuoi pensieri: rispettali, curali, amali, perché solo questi ti porteranno lontano e grideranno al mondo chi sei.

Per abbonamenti