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Un ponte tra scuola e Chiesa, a doppio senso di circolazione

Da Note di Pastorale Giovanile di luglio e agosto, l’introduzione al dossier sull’Insegnamento della religione cattolica: IRC, Comunità cristiana e pastorale giovanile. 

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di Ernesto Diaco (Direttore dell’Ufficio Nazionale per l’educazione, la scuola e l’università e del Servizio Nazionale per l’insegnamento della religione cattolica della CEI)

“La Chiesa non si serve della scuola per finalità estranee ad essa, ma si ritiene sua alleata e la considera un bene primario della comunità umana”. E ancora: “Nelle forme di proposta e di elaborazione educativa e culturale proprie della scuola stessa, e nel rispetto del pluralismo che caratterizza questo ambiente così come la società attuale, la Chiesa offre il suo primo e fondamentale servizio alla scuola presentando la bellezza dell’umanesimo cristiano”[1].
In queste due brevi citazioni del documento “Educare, infinito presente. La pastorale della Chiesa per la scuola”, pubblicato dalla Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università della CEI nell’estate del 2020, è racchiuso l’orientamento di fondo con cui la comunità cristiana guarda a quella scolastica, ossia con spirito di testimonianza, di responsabilità e di servizio.

Un’alleanza educativa a favore dei giovani

L’insegnamento della religione cattolica (IRC) nella scuola è forse il massimo esempio che si può citare a tale riguardo. Esso infatti si configura come una vera e propria alleanza educativa, pubblicamente riconosciuta e regolata, e concretizzata in “patti educativi” che prendono forma nella quotidianità delle aule grazie all’operato delle autorità scolastiche e dei vescovi diocesani, degli insegnanti di religione, delle famiglie e degli alunni che scelgono di frequentare tale insegnamento. Alla base dell’IRC così come è presente da circa quarant’anni nelle scuole italiane, infatti, ci sono la libertà e la responsabilità della scelta, la definizione di obiettivi e strumenti adeguati, l’incontro fra le domande educative dei ragazzi e dei giovani e proposte culturali pienamente integrate nel contesto scolastico. Tutti elementi indispensabili per un’esperienza formativa di qualità durante l’età della crescita.
Sull’identità scolastica di tale disciplina non ci sono dubbi. L’IRC è condotto nel quadro delle finalità della scuola, che il Ministero dell’istruzione definisce così: “Nella consapevolezza della relazione che unisce cultura, scuola e persona, la finalità generale della scuola è lo sviluppo armonico e integrale della persona, all’interno dei principi della Costituzione italiana e della tradizione culturale europea, nella promozione della conoscenza e nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità individuali, con il coinvolgimento attivo degli studenti e delle famiglie”[2]. Non che manchino questioni aperte o difformità nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme, ma – anche a fronte dell’altissima percentuale di studenti che se ne avvalgono – non è possibile oggi vedere l’IRC come un’anomalia o un corpo estraneo alla scuola.
Nei quarant’anni trascorsi dalla revisione del Concordato, a cui si deve l’attuale configurazione dello studio della religione nelle aule, l’IRC ha trovato casa nella scuola e nei suoi ordinamenti, nella riflessione pedagogica e nella sperimentazione didattica, nella definizione dei traguardi per le competenze e degli obiettivi di apprendimento, nei nuovi percorsi di formazione teologica e nella produzione editoriale. La scelta del presente dossier, dunque, riguarda l’altra faccia della medaglia, ovvero il legame dell’IRC con la comunità cristiana.

La responsabilità della comunità cristiana verso l’IRC

L’insegnamento scolastico della religione è una risorsa per la scuola. E per la Chiesa? Trattandosi di una disciplina con finalità proprie, complementari ma distinte da quelle della catechesi o della pastorale in senso stretto, quale ricaduta può avere nella vita della comunità ecclesiale? E quale attenzione merita da parte sua?
Il rischio dei percorsi paralleli, lo sappiamo, è sempre in agguato. D’altronde i vescovi italiani mettevano in guardia da questo già nel 1991, nella nota pastorale che accompagnava l’avvio del nuovo sistema dell’IRC: “Urge che la comunità ecclesiale cresca nella consapevolezza delle sue precise responsabilità circa l’insegnamento della religione cattolica. Non sempre infatti l’insegnamento della religione cattolica e il servizio del docente di religione sono collegati con l’azione pastorale che deve esistere fra la Chiesa e la scuola e fra la Chiesa e il mondo giovanile. Le nostre comunità devono considerare l’insegnamento della religione cattolica parte integrante del loro servizio alla piena promozione culturale dell’uomo e al bene del Paese”[3].
La comunità ecclesiale può ricevere molto dall’IRC in termini di ascolto e vicinanza al mondo giovanile, di sperimentazione di linguaggi e itinerari formativi adatti alla vita delle persone, di educatori preparati dal punto di vista teologico e pedagogico. Non solo. Con l’IRC è sollecitata la responsabilità della Chiesa “perché offra se stessa come segno storico, concreto e trasparente di quanto viene insegnato nella scuola”[4]. Con l’insegnante, in aula, “entra” tutta la comunità.

IRC e pastorale “per” la scuola
L’attenzione della Chiesa per il mondo scolastico si compone di diverse forme e occasioni. Oltre al compito proprio della scuola cattolica, vi è un’articolata serie di iniziative che si pongono a servizio della formazione e della testimonianza degli insegnanti, degli studenti, delle famiglie. Momenti culturali e di spiritualità, progetti di solidarietà e animazione, percorsi offerti dalle associazioni professionali, doposcuola e iniziative di sostegno allo studio e contrasto alla povertà educativa. Tutto finalizzato a contribuire alla crescita delle persone e ad una scuola di qualità, fedele alle sue finalità e creatrice di cultura veramente umana. L’IRC si colloca in questo alveo, ne è protagonista e ne riceve a sua volta sostegno. La pastorale per la scuola prende forma per lo più negli istituti scolastici e nei luoghi educativi, ma non solo. Diverse iniziative sono promosse a livello diocesano e nelle stesse parrocchie. È soprattutto nella vita ordinaria delle comunità cristiane che l’IRC può essere promosso e valorizzato, e “restituire” il frutto dell’incontro quotidiano con studenti e insegnanti. È in parrocchia, inoltre, che nascono spesso nuove vocazioni all’educazione e all’insegnamento della religione in particolare. Anche questo è un segno di vitalità per una Chiesa.

L’insegnante di religione, uomo della sintesi
Il primo “luogo” di incontro fra Chiesa e scuola non è nelle attività, ma nelle persone che incarnano l’alleanza fra questi due mondi. “La Chiesa vive già dentro la scuola – ricordano i vescovi – perché in essa operano adulti e giovani credenti: insegnanti, studenti e famiglie”[5]. E i docenti di religione, “senza confondere missione evangelizzatrice e insegnamento scolastico, assolvono un servizio prezioso di testimonianza e di animazione cristiana nella scuola, innanzitutto attraverso il migliore svolgimento del loro insegnamento”[6]. Essi appartengono pienamente alla scuola e alla Chiesa. L’idoneità che ricevono dal vescovo, infatti, non è da vedere come un ulteriore titolo per l’insegnamento, ma come una relazione viva, che abilita, sostiene, dà formazione e fiducia. Come tutte le relazioni, essa non è a senso unico, ma si rafforza nella reciprocità: nel contributo che l’insegnante porta alla scuola e in quello, diverso certamente ma non meno importante, che offre alla Chiesa. Per questo egli è uomo della sintesi: tra fede e cultura, tra Vangelo e storia, tra i bisogni degli alunni e le loro aspirazioni profonde[7].
Non è possibile assolvere a questo compito senza coltivare un’adeguata spiritualità: “una spiritualità cristiana ed ecclesiale, ma anche, in rapporto alla struttura in cui si opera, una spiritualità laicale, forgiatrice e animatrice di una nuova umanità nella scuola”[8].

NOTE

[1] CEI – Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università, Educare, infinito presente. La pastorale della Chiesa per la scuola, 4 luglio 2020, pp. 23 e 21.
[2] Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, settembre 2012, p. 9.
[3] Conferenza Episcopale Italiana, nota pastorale Insegnare religione cattolica oggi, 19 maggio 1991, n. 27.
[4] Ivi.
[5] Educare, infinito presente, cit., p. 9.
[6] Ivi, p. 28.
[7] Cf. Insegnare religione cattolica oggi, cit. n. 23.
[8] Ivi, n. 24.

 

L’amore è assurdo perché esiste

Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” a cura del MGS su Note di Pastorale Giovanile.

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di Giuseppe Fusaro (26 anni, animatore salesiano e volontario del Servizio Civile Universale presso l’oratorio di Corigliano Rossano (ispettoria meridionale). Laureato in Storia e Filosofia, quasi laureato in Scienze Filosofiche. Consigliere Comunale della propria città, giocatore semiserio di padel e ama scrivere cose che assomigliano alle poesie. Zio di Sila e di Nives.

Due anni e mezzo fa ho perso mia madre, dopo un periodo terribile di malattia, proprio il giorno del suo compleanno, con una torta in frigo che non è mai stata tagliata. Potrei scrivere migliaia di parole su quei giorni, ma non servirebbe adesso. Mi basta dire che era per me la persona più cara al mondo: più di una madre, era una maestra, una guida, un faro. O forse era proprio veramente una madre.

“Sei bravo solo se scrivi una canzone che non parla solo di te” sentivo in una canzone qualche anno fa. Questo motivetto mi è sempre rimasto impresso ed è forse il motivo per cui non ho mai pubblicato nulla. Raccontare il dolore molto spesso serve solo a chi scrive, raccontare ciò che ha generato il dolore nel cuore serve a chi sta vivendo una situazione simile in un certo momento, ma raccontare ciò che il dolore ha generato nella testa può servire a tutti. Nella mia testa generò questa domanda quasi bizzarra che mi accompagnò in tutti quei mesi: “ma perché non sto perdendo la fede?” Mi sentivo quasi in colpa, pensavo che forse non stessi soffrendo abbastanza per mia madre, forse non stavo provando abbastanza rabbia per disconoscere Dio in quel momento e incolparlo in tutti i modi. Ma ora forse c’è bisogno che dica qualcosa del me adolescente, visto che per molti dovrebbe/potrebbe essere normale rinsaldare la propria fede in un momento di grande sofferenza.
A 15 anni ero marxista (per quel che potevo capire, ma a me sembrava di esserlo davvero), anticlericale, filosofetto da quattro soldi che cercava qualsiasi tipo di dio tranne quello di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (e di Gesù). I momenti di difficoltà non erano occasioni per riscoprire il rapporto con Dio, ma solo altre argomentazioni da aggiungere all’elenco dei motivi per non credere in lui. Frequentavo l’oratorio ma solo perché riconoscevo la sua funzione aggregativa, solo per giocare a calcio e stringere nuove amicizie.

Non c’era nulla di strano per me, finché un bel giorno un don mi disse: “Ti va di fare l’animatore del gruppo delle medie?”. “Ma io non credo in Dio” gli risposi. Quello che mi ribattè, probabilmente con un ghigno, è una delle cose più divertenti e assurde che io ricordi: “Non ti ho chiesto di credere in Dio, ti ho chiesto di fare l’animatore delle medie”.
Era ovviamente l’occhio lunghissimo di un salesiano esperto, e io quindi non so dire il momento esatto in cui ho “sentito” di credere in Gesù, però ad un certo punto la mia fede c’era. Quasi magicamente, nei giorni, nei mesi, negli anni. C’è uno spazio meraviglioso dentro di noi che definirei di germogliazione… è quello spazio che c’è fra il momento in cui sorge qualcosa dentro di noi e il momento in cui ti rendi conto che questa cosa è un FATTO evidente, scontato, incontestabile della tua vita. La mia fede è nata in questo spazio. Un po’ come la nascita delle parole secondo Saussure (lui filosofone, non filosofetto), non si riesce a capire come una nuova parola passi dall’avere significato solo per qualche individuo e all’avere significato per tutta una popolazione. Però accade. Ad un certo punto te la trovi nel dizionario, lì, incontestabile. Come un fatto. Allo stesso modo si era piantata quella domanda nella mia testa dieci anni dopo: “Ma perché non sto perdendo la fede?”, mi era già capitato di fare questa domanda a me stesso qualche anno addietro, quando per una serie di dinamiche ho scoperto che per un animatore salesiano il luogo dove più si può soffrire al mondo è il proprio oratorio. Il paradosso della vita è che più forte è un amore, più grande è il dolore che può nascondersi dietro. Mi sono ritrovato fuori dal mio oratorio, ho sofferto molto, perché senso di appartenenza e amarezza dell’esilio sono due linee che crescono parallelamente. Lì ho scoperto che don Bosco non è perfetto e forse per questo è ancora più bello. Don Bosco è un essere umano come tutti gli altri.

Sono momenti dove arrivi ad autoconvincerti che forse la tua fede è finta, questa fede è finta oppure è assurda, perché il presupposto banale e implicito che spesso guida i nostri cammini spirituali è che Dio dovrebbe farci stare bene o perlomeno ridurre il dolore che stiamo provando. Ma quando il dolore è immenso, come è possibile che non si perda la fede? Anche questo è un mistero assurdo. L’assurdo. Mi piace rubare qualche riga da una riflessione di Ignazio Silone:

“Se diciamo che l’assurdo è l’illogico, il contrario alla ragione, lo stiamo raffreddando parecchio. L’assurdo arriva a una dimensione intellettuale, ma ha una sostanza percettiva. Non serve un ragionamento per cogliere l’assurdo, l’assurdo si sente – e in origine lo si sente letteralmente. L’absurdus latino è il dissonante, lo stonato. La sua costruzione resta un po’ enigmatica, abbiamo un prefisso ab che di solito indica allontanamento mentre qui forse ha un valore rafforzativo, e una radice forse onomatopeica, forse indoeuropea, che trova connessione col sordo e col sussurro. Fatto sta che questa dissonanza tutta sonora già in latino prende la dimensione di qualcosa che per la ragione è immediatamente inaccettabile.”

Ho in mente una canzone di Anastasio, artista che io seguo con grande attenzione. Nel primo ritornello dice: “il dolore è assurdo perché esiste”, semplicemente perché esiste, è una presenza che la ragione non riesce a metabolizzare da millenni. Quando diciamo che nessuno merita di soffrire intendiamo dire forse proprio questo, che nessuno dovrebbe convivere con questa cosa inspiegabile. Però la cosa divertente è che esiste un’altra presenza assurda con la quale abbiamo a che fare quotidianamente e alla quale non ci ribelliamo con la stessa insistenza. Il secondo ritornello di Anastasio: “l’amore è assurdo perché esiste”. È questa la risposta che mi sono dato alla domanda di cui parlavo sopra: penso di non aver perso la fede perché ho contemplato bene entrambi i lati del mistero, e prima di chiedermi cosa ho fatto per meritarmi questo dolore, mi chiedo anche cosa ho fatto per meritarmi tutto questo amore. Perché è assurdo che io sia ritornato in oratorio, è assurdo che il nostro oratorio si sia nuovamente riempito, è assurdo che la mia ragazza oggi sia qui con me, dopo esserci lasciati più volte. È assurdo che il mio migliore amico oggi sia qui con me, e che ci riparliamo… dopo non esserci parlati per anni. È assurdo che io sia di nuovo animatore di uno splendido gruppo di ragazzi, è assurdo che io sia stato scelto per rappresentare l’MGS meridionale all’assemblea nazionale di Firenze qualche mese fa, è assurdo che io venga invitato a scrivere per questa rubrica. È assurdo che fra milioni di donne io sia stato proprio figlio di mia madre. Non è assurdo che Dio esista, ma Dio è assurdo perché esiste.

Pastorale giovanile del quotidiano. Comunità, giovani e scuola

Da Note di Pastorale Giovanile, numero di luglio e agosto.

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di Rossano Sala

Una lamentela spesso ricorrente

Una delle critiche regolari che vengono rivolte alla pastorale giovanile è la sua concentrazione sugli “eventi”. Il loro primato di visibilità e di organizzazione d’altra parte emerge: pensiamo alla Giornata Mondiale della Gioventù, che è il “grande evento” che ad intermittenza si ripropone. Ma pensiamo anche al prossimo anno giubilare, dove molti momenti riguardanti il mondo giovanile sono già calendarizzati, primo fra tutti il “Giubileo dei giovani” a cavallo tra luglio e agosto 2025.
Tale focus alimenta legittimamente l’idea che la pastorale giovanile sia lontana dalla vita quotidiana dei giovani. E che, in fondo, la Chiesa stessa lo sia. Vite parallele che talvolta si incrociano senza lasciare segni né dall’una né dall’altra parte, mantenendo la divaricazione un dato scontato e incontestabile: la Chiesa nel suo insieme non sembra essere toccata se non tangenzialmente dall’esperienza di fede dei giovani, e i giovani nel loro insieme non entrano nei circuiti ecclesiali se non occasionalmente, ma senza esserne intimamente toccati.
Effettivamente, sulla questione degli “eventi” la riflessione pastorale ha già fatto il punto: se non riescono a fecondare la vita quotidiana sono sostanzialmente avvicinabili all’esperienza di alcune sostanze stupefacenti, come ad esempio all’eroina: quest’ultima fa entrare in un mondo altro e ci fa andare altrove, e non ci aiuta ad affrontare le sfide dell’esistenza. Ci porta ad essere distopici rispetto alla vita quotidiana.

Immersi nel quotidiano dei giovani

Una pastorale giovanile seria e incisiva non ha paura del quotidiano. Non ha timore di vivere e operare dove la vita dei giovani si svolge concretamente. Non teme di giocare sul campo dell’esistenza concreta. Anzi, al contrario e con entusiasmo si posiziona strategicamente lì dove i giovani vivono e crescono, gioiscono e soffrono.
Questo è il caso specifico – e con un grande peso specifico – del mondo della scuola e della formazione professionale. La scuola, lo si deve riconoscere, è uno degli spazi privilegiati in cui la vita di un giovane avviene. Molto del loro tempo tutte le giovani generazioni lo vivono a scuola: luogo di socializzazione primaria, spazio privilegiato di istruzione, casa per la formazione, esperienza di affetti e legami condivisi. Questa è la scuola, anche quella italiana, che con tutti i suoi difetti continua ad essere una struttura accogliente e generativa per i giovani. E non dimentichiamo, per tutti i giovani, nessuno escluso.
Dove la scuola non arriva o non è incisiva lì c’è degrado, criminalità, inciviltà. Lì si cresce allo stato brado, lì tutto diventa possibile. Abbiamo esperienza continua di tutto ciò, perché dove la scuola non riesce a far scattare la scintilla della passione tutto si deprime, si appiattisce e diventa spazio aperto per ogni barbarie.
Questo la pastorale giovanile lo deve vedere, apprezzare e coltivare. E, senza nessuna indecisione, è chiamata a fare alleanza con chi in questo mondo spende la vita da sempre: dirigenti scolastici, insegnanti, educatori e formatori. È strategico più che mai, soprattutto oggi, perché siamo nel tempo della sinodalità!

In alleanza con il mondo della scuola

E così arriviamo al Dossier che viene presentato, curato magistralmente da E. Diaco e E. Cesari. Una pietra miliare che vuole confermare l’interesse della pastorale giovanile per il mondo della scuola. Qui, e non altrove, sta la vera sinodalità, quella capacità di camminare insieme che ci fa crescere tutti. La scuola è uno spazio privilegiato di alleanza, e la nostra Rivista da anni oramai batte questa strada.
Lo ha fatto qualche anno fa – cfr. il Dossier del dicembre 2018, intitolato La Chiesa e la scuola. Un rapporto che viene da lontano e che vuole rinnovarsi alla luce delle nuove sfide pastorali, culturali, educative, reperibile on line sul nostro sito – a cui è seguita una rubrica che ci ha accompagnato dal 2019 al 2022, significativamente intitolata La Chiesa per la scuola, anch’essa completamente on line sul nostro sito.
Tutto materiale di alta qualità facilmente fruibile da non lasciar cadere, ma da legare al Dossier di questo numero di NPG, perché si tratta di una vera continuità e un autentico approfondimento tematico.
Noi a tutto questo ci crediamo! Siamo convinti che il mondo della scuola e quello della pastorale (giovanile, ma non solo) si debbano incontrare, debbano collaborare, siamo chiamati per vocazione a vivere in unità d’intenti un’inclusione reciproca. Se ciò non avviene uno degli ambienti privilegiati della vita dei giovani viene escluso dal nostro raggio d’azione, generando pericolosi cortocircuiti civili ed ecclesiali.

Agenti “in incognito” di pastorale giovanile

Veniamo ora al tema specifico di questo Dossier, ovvero alla focalizzazione sul docente di IRC. Mi piace definirlo un “agente in incognito di pastorale giovanile”. Nell’ordinamento italiano è un professore riconosciuto come tutti gli altri, ma ha la particolarità di avere un legame diretto con la Chiesa, perché secondo il Concordato vigente egli deve avere un’approvazione ecclesiastica, oltre che i titoli adeguati derivanti da una formazione specifica.
È una doppia appartenenza la sua, civile ed ecclesiale. E se il suo compito è primariamente legato ad una presentazione “culturale” del fenomeno religioso in generale e del cristianesimo in particolare – chi potrebbe vivere non solo in Italia, ma anche nel mondo attuale, senza conoscere la storia (e il presente) delle istituzioni religiose e dei dinamismi di ricerca spirituale dell’umanità tutta? – non possiamo pensare che la sua presenza sia pastoralmente insignificante.
È esattamente vero il contrario. Egli è mandato dalla Chiesa per dire la verità della fede. Senza alcun intento proselitistico, ma con una missione di verità e di chiarezza. Per combattere l’ignoranza religiosa, per istruire sul fenomeno permanente e pervasivo della fede, per mostrare come essa ha plasmato il mondo in cui viviamo e come dobbiamo sempre fare i conti con i suoi dinamismi.
Un autentico docente di IRC vive di una missione ecclesiale e cerca di farla emergere entro i confini del suo ruolo istituzionale. Non confonde il suo ruolo con quello del catechista parrocchiale e nemmeno con il predicatore carismatico, ma fa valere lo spessore culturale del cristianesimo con professionalità impeccabile, passione profonda e sapienza pedagogica.

Parte di una comunità di fede

Il Dossier che segue ha anche – ultimo ma non ultimo! – un’intenzionalità decisiva: quella di riportare il mondo della scuola, l’insegnamento dell’IRC e la pastorale giovanile in dialogo e all’interno di una comunità cristiana che sa riconoscere e vivere la sua apertura verso il mondo.
La pastorale della scuola è una “pastorale in uscita”, ovvero capace di vivere in un contesto non direttamente legato alla comunità cristiana, ma con i tratti assunti dalla frequentazione della vita della Chiesa. È la Chiesa missionaria questa, che sa abbattere le barriere per essere presente altrove, ma senza abbandonare gli stili amorevoli e i passi educativi imparati dalla frequentazione della pedagogia della fede che affonda le sue radici nel vangelo.
Pedagogia che sa coltivare la certezza che non di solo pane vive l’uomo, e che questo fa parte dell’umano che è comune a tutti gli uomini. Proprio così: si sta nel mondo della scuola da cristiani quando si insegna che non solo di istruzione vivono i ragazzi, adolescenti e i giovani, che per loro natura sono creati per l’infinito e nessun sapere potrà mai saziare la loro inquietudine spirituale. Aprire spiragli di trascendenza nel mondo della scuola e della formazione professionale è l’impegno prioritario di un docente di IRC.
E questo lo si fa a nome e per conto di una Chiesa locale che ha a cuore i giovani: tutti i giovani, nessuno escluso. È importante, anzi decisivo, per un docente di IRC essere e sentirsi parte di una comunità. Purtroppo spesso ciò non capita, soprattutto quando un docente non partecipa alla vita di fede e al cammino di una comunità locale e di una Chiesa particolare.
Altrettanto importante per una comunità cristiana è riconoscere, sostenere e accompagnare queste persone che si impegnano con la Chiesa e per la Chiesa. Non solo con corsi di aggiornamento specifici, ma soprattutto con cammini ecclesiali di appartenenza e di condivisione. A loro modo, tutti i docenti di IRC sono missionari dei giovani. Possono fare molto se non vengono lasciati soli.

Padre Henri Didon, l’educatore

Da Note di Pastorale Giovanile, dalla rubrica Sport e vita cristiana, legata al numero speciale sulla Proposta Pastorale 24/25.

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di Angela Teja

Henri Didon (1840-1900), predicatore domenicano di grande fama in Francia nella seconda metà dell’800, per le sue famose dispute sui temi dell’attualità di allora, alcune delle quali (quella sul divorzio per esempio) gli erano costate un periodo di “ritiro” forzato in Corsica, ha mantenuto la sua fama nel tempo soprattutto per essere stato amico di Pierre de Coubertin. La menzione più frequente che se ne fa riguarda il famoso motto olimpico Citius, altius, fortius del quale gli si attribuisce la paternità. A voler essere pignoli, in realtà sono stati i suoi studenti a “inventarlo”, come vedremo, e a riportarlo su stendardo e bandierine ai primi giochi scolastici sportivi che si siano svolti a Parigi, desiderati e ottenuti da Coubertin presso l’istituto s. Alberto Magno di cui p. Didon era rettore, ad Arcueil, una zona periferica di Parigi.
Era il 1891 e Coubertin non riusciva a trovare accoglienza per le sue idee sportive negli altri istituti privati dove si era recato, per esempio dai Gesuiti dove aveva studiato, ma che a sua detta praticavano solo “giochi infantili”. Nella scuola pubblica sarebbe stato inutile andare, nelle sue palestre si praticava l’educazione fisica tradizionale, con la preponderanza nei curricula scolastici delle materie “intellettuali”, con un grosso disequilibrio che lo stesso Coubertin aveva iniziato da tempo a stigmatizzare come “surmenage intellettuale” per i giovani, a discapito della loro salute e soprattutto di una loro formazione integrale pronta e vivace. Quest’ultima era evidente infatti che non potesse derivare da un’istruzione libresca, piuttosto essa richiedeva la partecipazione di tutte le componenti della persona a una piena e completa educazione. L’educazione fisica che all’epoca si praticava nelle scuole francesi occhieggiava infatti quanto succedeva in Europa, e cioè la necessità di rinforzare il corpo (prevalentemente quello maschile, essendo i ragazzi quelli che in maggior misura frequentavano le scuole) a fini addestrativi alla guerra, insomma una ginnastica prussiana adattata all’ambito francese, con qualche attenzione in più agli aspetti salutistici, ma in fondo non molto lontana dai principi del Turnvater Friedrich Ludwig Jahn (1778-1852)[1]. Una preparazione che però non era stata sufficiente vista la sconfitta a Sédan (1870), che anzi aveva fortemente fiaccato lo spirito identitario francese mettendo in evidenza l’assoluta impreparazione dei suoi giovani alla guerra. Pertanto si iniziò a capire che era lo sport di stampo inglese quello che serviva alla gioventù, come poi ben si sarebbe manifestato con l’espandersi degli insegnamenti anglosassoni in tutta Europa a seguito della Grande guerra. Le truppe inglesi e americane avrebbero ben evidenziato infatti in quella occasione come, più che l’ubbidiente muscoloso ginnasta, sul campo di battaglia servisse lo sportivo ardimentoso, in grado di organizzarsi anche in assenza di un comandante, capace di strategie e soprattutto generoso nell’impegno, capace di lavorare in squadra. Ma torniamo alla fine dell’800.
Conosciamo l’attrattiva che i metodi educativi dei colleges inglesi, ricchi di momenti di recupero, alternativi allo studio, che consistevano prevalentemente in competizioni tra squadre in giochi all’aperto, oltre che in gare di tipo atletico, colpirono l’immaginazione di Coubertin e ancor prima di p. Didon, entrambi viaggiatori, ed entrambi attirati dal Regno Unito alla scoperta delle sue nuove tendenze pedagogiche, molto attente ai giovani, il futuro delle nazioni.
Sappiamo anche come sia stato il college della cittadina inglese di Rugby quello che ha attirato entrambi questi personaggi per i metodi educativi qui messi in atto da Thomas Arnold (1795-1842), il suo rettore, un padre protestante. Per cui quando Coubertin bussò alla porta dell’istituto di Arcueil, dove era stato iscritto suo nipote, alla ricerca di humus fertile all’idea sportiva, trovò in p. Didon un amico entusiasta dell’idea di poter mettere in pratica, con una guida esperta, quanto aveva osservato al di là della Manica.
Era dunque il 1891, gennaio per l’esattezza come ci racconta Jean Durry, uno degli studiosi più accurati di Pierre de Coubertin, quando il Padre dell’Olimpismo si trovò a correre con p. Didon «nelle paludi» circostanti il San Alberto Magno, svolgendo entrambi il ruolo di «lepri» in un rally-papier, «secondo una formula allora spesso in vigore, in base alla quale verrà fondata l’Associazione Atletica del Collegio di Arcueil»[2]. Ecco in nuce il primo gruppo sportivo scolastico, con tanto di motto che inizialmente era Citius, fortius, altius, come ci racconta Norbert Mueller[3] tra i maggiori esperti di storia dell’Olimpismo. Parole che furono ricamate sullo stendardo con l’invenzione anche di un inno ginnastico, un’abitudine per la verità già diffusa nelle società ginnastiche che dopo i turnen prussiani si erano diffuse in tutta Europa: piuttosto la novità ad Arcueil fu che il suo gruppo di studenti si sarebbe allenato per disputare gare di atletica all’aperto, con un passaggio dunque dalla ginnastica di stampo tedesco allo sport di tipo inglese. Il fatto che fossero stati gli studenti stessi a inventare il motto evidenzia la volontà pedagogica sottesa all’idea, nel senso che p. Didon, proprio come aveva visto fare nel college di Rugby, volle affidare ai ragazzi stessi la responsabilità di quella invenzione, come pure dell’organizzazione del gruppo sportivo, dei suoi orari, delle regole, dell’attenzione alla temperanza, alla prudenza, al coraggio, alla disciplina del loro vivere. Attraverso la pratica sportiva, dunque, p. Didon avrebbe dato corpo e visibilità all’atto educativo del “tirar fuori” dai ragazzi la loro volontà di autonomia e maturazione, consapevole di una prima attività sociale introduttiva al senso di responsabilità che, in un prossimo futuro, avrebbero dovuto manifestare come cittadini liberi, eguali e fratelli. Una consapevolezza quest’ultima che la Rivoluzione aveva impresso in maniera indelebile nell’anima dei francesi.
L’idea olimpica prese dunque vita in ambito scolastico con sorte analoga a quella dello sport nei colleges inglesi. L’istituto s. Alberto Magno era collegato ad altri due istituti parigini, il S. Domenico e il Lacordaire, scuole per la formazione delle élites destinate alle grandi carriere pubbliche (con le stesse finalità dunque dei colleges inglesi dove si educavano i futuri quadri dell’Impero britannico) e Didon a fine anno radunava studenti e genitori, autorità e maggiorenti per tirare le fila del suo metodo pedagogico con mirabili discorsi che sono stati poi raccolti in un unicum pubblicato nel 1898 a Parigi con il titolo di L’éducation présente. Discours à la jeunesse, per i tipi dell’Editore Plon. In questo volume, la cui lettura si presenta come molto utile per chi vuole meglio comprendere il metodo pedagogico attuato da p. Didon nei suoi istituti, si nota la sua insistenza sul richiamo alla volontà nell’esercizio delle virtù richieste ai suoi studenti, la principale tra tutte ma non l’unica. Tutto il pensiero di p. Didon è difatti intriso di tomismo, tanto il Domenicano aveva affiancato per i suoi studenti il fedele insegnamento della teologia tomista ad una lettura degli sport atletici come estrinsecazione di Virtù[4]. Lo stesso motto voleva infatti contraddistinguere le attività sportive come incarnazione delle Virtù stesse, laddove la palestra diventava essa stessa «palestra di Virtù». I suoi discorsi di fine anno sono espliciti al riguardo e ricchi di insegnamenti spirituali sulla falsariga di quelli di s. Tommaso, con l’evidenza che p. Didon abbia voluto rendere comprensibile ai giovani alcuni aspetti del pensiero del Dottor Angelico attraverso una lettura a loro accessibile dell’esercizio delle Virtù, e cioè attraverso lo sport.

NOTE

[1] Friedrich Ludwig Jahn, prussiano di nascita, è stato l’iniziatore di un metodo ginnico di stampo militare che fu molto diffuso in tutta Europa agli inizi dell’800 per la formazione del cittadino-soldato, futuro combattente nelle numerose guerre del XIX secolo. Cfr. M. Di Donato, Storia dell’educazione fisica e sportiva. Indirizzi fondamentali, Studium, Roma 19983, pp. 64-73.
[2] J. Durry, Le vrai Pierre de Coubertin, Comité Pierre de Coubertin, Paris 1997, p. 26. La gara era una corsa a inseguimento di «lepri» che lasciavano come tracce sul terreno per chi le inseguiva dei pezzetti di carta.
[3] P. de Coubertin, Olympism. Selected Wrintings, N. Müller (ed.), Cio, Lausanne 2000, p. 585. Norbert Müller ricorda che l’ordine dei comparativi in origine sarebbe stato questo, con fortius prima di altius, poi cambiato dal CIO.
[4] Per questa lettura si veda la ricca bibliografia in A. Teja, P. H. Didon, un domenicano alle radici dell’olimpismo. Citius altius fortius tra corpo e spirito, Ave, Roma 2024.

“Virginia e il professore”: nuovo libro di Elledici

Da NPG.

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Nuovo libro in uscita: Virginia e il Professore – di Virginia Di Vincenzo e Marco Pappalardo, edito da Elledici.

IL LIBRO
Una corrispondenza di e-mail tra una studentessa e un insegnante che vivono a molti chilometri di distanza…
Lei alle prese con il liceo classico e la voglia di vivere “senza fretta” questa avventura che si chiama adolescenza…
Lui tra famiglia, scuola, giornalismo, social e volontariato e il desiderio di aiutare altri a credere nei propri sogni…
Frammenti di vita vera attraverso un’amicizia epistolare.

GLI AUTORI
Virginia Di Vincenzo, ha 18 anni, vive a Chieri, in provincia di Torino. Frequenta il quinto anno del liceo classico e si immagina già a studiare “Lettere o Filosofia” in qualche città d’arte italiana. Ha scritto per il sito web di Note di Pastorale Giovanile.
Marco Pappalardo, classe 1976, giornalista pubblicista di Catania, docente di Lettere presso il Liceo Classico “Cutelli – Salanitro”. Dirige l’Ufficio per la Pastorale Scolastica dell’Arcidiocesi di Catania. Scrive per il quotidiano Avvenire, per il settimanale Credere, per il quotidiano La Sicilia, per diversi siti (tra cui Note di Pastorale Giovanile). Ha scritto libri su temi educativi, scolastici, sociali, religiosi, formativi per varie case editrici.

Intervista a Pappalardo

Mantenere viva la fiamma

Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” del MGS su Note di Pastorale Giovanile.

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di Paola Migliore (19 anni, originaria di Gela (Sicilia), studia alla facoltà di Medicina e Chirurgia all’Università Kore di Enna. Fa parte del Movimento Giovanile Salesiano di Sicilia ed è animatrice nell’oratorio Salesiano San Domenico Savio di Gela, all’interno del quale trovano spazio tutte le sue passioni: la musica (si occupa di una band di ragazzi), il canto, i ragazzi (è animatrice di un gruppo formativo)

“Tu sei la mia Luce e splendi sempre dentro l’anima, anche in questa notte, questa lunga notte”. È questo il motivetto di una canzone che mi accompagna ormai da un paio di giorni e che penso potrebbe ben rendere l’idea di “rifugio, conforto” che il Signore è per me.
Una sensazione interiore che ha “invaso” una ragazza diciannovenne, che vive il suo periodo di maturazione – come tanti altri coetanei – attraversando varie esperienze e – diciamo – di “transizione”.
A contatto con i miei amici constato che ciascuno vive questa “transizione” in modo diverso: c’è chi la vive oramai in quella certa sicurezza che offre un ambiente lavorativo, chi con certe garanzie familiari, e chi, come me, catapultata al primo anno di università.
Fino a poco tempo fa, questa realtà mi sembrava così lontana da pensarla quasi come un’utopia, eppure è ormai diventata la mia quotidianità. Non è stato semplice abituarmici.
All’inizio riuscivo a vedere solo un’aula immensa, di quelle che sino ad allora avevo visto nei film, con altrettanti immensi posti a sedere, disposti a mo’ di platea di teatro greco; e infine in quest’aula c’erano docenti e colleghi.
Non nascondo che di tempo ne è passato un bel po’, prima di riuscire ad abbattere gli schemi banali e apprendere a relazionarmi con una realtà nuova, e vedere i VOLTI delle persone. È stato un difficile apprendimento, ma assolutamente necessario, di quelli che “ti aprono gli occhi e la mente”.
La mia crescita personale è stata, e continua ad essere, alimentata da una formazione che mette insieme la dimensione religiosa e quella umana, in un clima “salesiano”; per cui ho sempre provato ad assumere un atteggiamento empatico e cordiale, reciprocamente condiviso con quelli che frequentavano il mio stesso ambiente. La cosa era un pochino più complicata nei confronti degli “altri”, con cui pure ero in relazione. E così ho sperimentato che cerchi una reciprocità, e se non ce l’hai, tutte le tue buone intenzioni vanno a farsi benedire. Insomma, questa logica molte volte ha preso il sopravvento su di me: una logica “del mondo”, dove vige il “do ut des”, non la logica di Dio che si regge sulla gratuità!
Ecco, in quel momento mi è arrivata in soccorso una frase abituale nei nostri ambienti salesiani, e che qualche anno fa fece da slogan ad un anno formativo, “Puoi essere santo lì dove sei”.
Applicata alla mia vita, ho capito che, in qualunque posto ci si trovi e con chiunque abiti quel posto, sia possibile rimanere sé stessi e mantenere viva la propria fiamma, che non arderà costantemente allo stesso modo, ma comunque sarà lì, presente, a riscaldare chi ci sta accanto. D’altronde, diceva San Paolo che “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”. E questo, tanto più nel nuovo mondo universitario da me frequentato.
Ho sempre pensato che il mondo universitario richiedesse una costanza e una dedizione assidue, tali da dover accantonare ogni altro impegno, come quelli in oratorio. Ma un amico salesiano un giorno, durante una lectio, disse che “il Signore non sceglie persone capaci, ma rende capaci le persone che sceglie”. Ecco un altro bagliore di quella luce di cui parlo all’inizio.
Certo, vivere questo, e soprattutto fidarsi di questo, non è stata cosa semplice, non lo è tuttora e probabilmente non lo sarà in futuro. Ma sicuramente, posso testimoniare che a settembre dell’anno scorso non avrei mai pensato che sarei riuscita a conciliare la mia fede con il mondo universitario, non avrei neppure ipotizzato che sarei riuscita a vivere, per un fine settimana al mese, un percorso formativo di vita cristiana con giovani di altri oratori, che oggi sono ormai famiglia.
Il Signore ci sorprende: quando pensiamo di non essere all’altezza, di non valere nulla, di non essere abbastanza, Lui silenziosamente si avvicina, se necessario giunge fino alla mia “Gerico”, il punto più basso della propria geografia interiore, per recuperare anche solo una delle pecorelle che si sono smarrite, e anche Paola. Ho davvero sperimentato personalmente come non esista la possibilità di sottrarsi alla misericordia di Dio e di non essere redenti: nulla gli è impossibile, lo posso garantire!
E poi ti prende la gioia. Ricordo un’esperienza “totale”, di fede, di fraternità e di divertimento, che ho vissuto nell’agosto 2023: la GMG.
Lì a Lisbona ho veramente toccato con mano la felicità, quella ti irrompe dentro e sembra ti faccia scoppiare, quella che dura giorni interi, ti fa ballare per ore e camminare per chilometri. Ho sperimentato la gioia di essere cristiana e l’ho condivisa con altri due milioni di persone: non ero più un ago in un pagliaio, non ero più l’eccezione, ma mi sentivo accumunata da uno stesso sentimento.
E a quel fiume di gente il Papa parlò, toccando le corde più profonde e misteriose dell’anima: “A voi che volete cambiare il mondo e che volete lottare per la giustizia e per la pace; a voi, giovani, che mettete impegno e fantasia alla vita ma vi sembra che non bastino; a voi, giovani, di cui la Chiesa e il mondo hanno bisogno come la terra della pioggia; a voi, giovani, che siete il presente e il futuro; sì, proprio a voi, giovani, Gesù oggi vi dice: non temete, non temete!”.
Queste parole mi sono penetrate dentro, mi hanno commossa e incoraggiata, spronata e fatto sognare. Lì, in quei giorni, quelle parole mi hanno scombussolata facendomi capire che sognare è possibile e che non fa parte di una realtà parallela; per noi salesiani, dovrebbe essere anche più semplice dato che siamo figli di un sognatore.
In questi giorni il MGS di Sicilia ha vissuto un evento improntato sui sogni, la festa Giovani, che coronava il cinquantesimo anniversario del MGS nella mia regione.
Come una degli “Animatori at work” che organizzavano l’evento, ho fatto parte della “commissione dei sogni”. E così mi ritrovai a studiare i sogni meno conosciuti di don Bosco, i cui nomi erano anche insoliti. A prescindere dal loro contenuto, la cosa che mi ha affascinato di più è la frequenza con cui don Bosco “sognava”. E io invece non ricordo nemmeno l’ultima volta che ho sognato!
In questo contesto le parole del Papa sono sembrate profetiche e restano un raggio di luce nei momenti di ombra, e mi ricordano quale terra devo abitare.
Certamente, oltre ai momenti di “Tabor”, che vanno vissuti e custoditi gelosamente, nei momenti di ombra sono essenziali soprattutto delle figure concrete, capaci di essere fraterne e spirituali insieme.
Quando la mia fede ha vacillato, quando solo pensieri negativi invadevano la mia mente, quando mi sembrava di aver perso la bussola, di non riuscire a far parlare il cuore e mi sembrava di aver perduto quelle poche importanti certezze… in quel momento, solo il confronto con la mia guida spirituale mi ha fatto ritornare in carreggiata, facendosi da tramite tra me e Dio, non lasciandomi da sola, e anche se il dialogo non era sempre assiduo, la sua vicinanza con la preghiera riuscivo a sentirla.
Sembrerò ora retorica o romantica se mi rivolgo ai miei coetanei?
Caro giovane amico, non è sicuramente un cammino semplice quello cristiano. Come un sentiero di montagna: ci sono sassolini e pietre, salitine facili e rocce scoscese: ma è un cammino che porta a vette e orizzonti, felicità pura, un cammino il cui Pastore guida i passi del tuo esistere, senza mai lasciarti in balia della tempesta. E poi non siamo soli: abbiamo la “Maestra” che ci illumina la strada e ci incoraggia.
Impareremo così l’umiltà, la forza, la robustezza (come l’invito fatto a Giovanni Bosco nel suo sogno a 9 anni), e apprenderemo a cogliere la presenza di Dio nelle persone della nostra vita quotidiana. E soprattutto ti sentirai amato, tanto da voler rispondere con lo stesso amore.
Non ti sembra un bel cammino?

Sei qui per prendere o per perdere?

Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” a cura del MGS su Note di Pastorale Giovanile.

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di Giulia Meucci (23 anni, studentessa di Letteratura, Filologia e Linguistica Italiana e maestra di scuola primaria; fa parte dell’équipe di Animazione Missionaria dell’Ispettoria salesiana ICP (Piemonte), ed è animatrice dei gruppi giovani nell’oratorio della Crocetta a Torino). 

Me lo disse un salesiano, ma prima di tutto un grande amico, una mattina di agosto in Kenya. Ero lì in quell’esperienza di estate missionaria con altri giovani, e in quel momento nel mio cuore calò il silenzio. Da quel giorno la mia vita interiore è in perdita, ma in senso buono. In tutti gli anni di oratorio e servizio non avevo mai capito davvero il senso del “dare la vita”, o per lo meno non avevo mai capito come si mettesse in pratica, dovevo fare quasi diecimila km, una follia, una cosa decisamente antieconomica, decisamente “in perdita”… per il mondo forse, per Dio no (e decisamente alla fine neanche per me).
Il sogno di consumarmi, di perdermi per gli altri mi accompagna da tanto tempo, e ha assunto forme diverse nelle varie fasi della mia vita: l’animazione, la missione, l’insegnamento. Sono tutte dimensioni che hanno bisogno di più persone per esistere, questo è perché sono fermamente convinta che da soli non si va da nessuna parte (talmente tanto convinta che questa frase campeggiava nella prima pagina della mia tesi di triennale). Gli altri per la mia vita sono fondamentali, prima di tutto perché è attraverso gli altri che mi sono arrivati i messaggi più importanti, mica cadono dal cielo (o forse sì, ma non nel mondo che penso io o si vede nei film); e poi perché è nel contatto con gli altri che posso mettere davvero a frutto, cioè a servizio, i miei talenti, compreso quello di riuscire a parlare anche con i sassi, che fanno di me quella che sono. Inoltre, senza alcuni altri, le amicizie più profonde, il mio ragazzo, la mia guida spirituale e il mio confessore, non sarei riuscita a dare forma a quello che davvero mi serviva per diventare capace di amare sul serio. Niente corsi o nozioni strane, ma due piccoli-grandi “passi possibili” (Chiara Corbella Petrillo è un’amica che mi accompagna da qualche anno): scoprirmi amata e amabile. Solo così ho smesso di aver paura di perdermi e ho scoperto la direzione chiara e luminosa a cui in realtà da sempre puntavo. Non sono arrivata e non è sempre facile rimanere fedele a questa identità che, per quanto senta forte, resta faticosa e imperfetta; quello che mi rincuora sempre è pensare che tra me è Dio almeno Uno dei due davvero fedele per sempre. Ed è solo alla luce di tutto questo che ora come ora ho un’idea anche abbastanza chiara di chi sono.

Sono un’animatrice in oratorio, ci sono arrivata per caso, o per grazia, perché una mia compagna di pallavolo mi ci ha portata visto che non sapevo cosa fare l’estate appena finita la prima superiore. Da quel giorno sono passati 10 anni e più di un oratorio, eppure la scelta ultima di radicarmi in un posto solo, anche quando le cose non funzionano come vorrei, mi ha fatto scoprire un primo pezzo di strada. Il mio desiderio di servizio, che spesso faceva a pugni con il desiderio altrettanto forte di essere apprezzata, a un certo punto ha vinto. Scoprire che qualcuno mi vuole bene non per quello che faccio o per quanto faccio, ma solo perché sono. oltre ad avermi ribaltata come un calzino mi ha spalancato gli occhi. Mi ha insegnato a chiamare per nome le mie fragilità e a farne squarci che fanno entrare la luce, non perché sono speciale, ma perché anche quegli angoli bui possono essere spazi di servizio verso gli altri. D’altronde, la mia professoressa di italiano del liceo (a cui devo la scelta dell’università e della carriera) diceva sempre che la parte interessante della frase sta sempre dopo il “ma”.

Sono un’insegnante, ho sempre voluto esserlo; da bambina mettevo in fila i miei peluche e spiegavo loro quello che imparavo a scuola (e davo anche i voti!). Sogno di fare l’insegnante di italiano perché ho sempre creduto che la bellezza vada raccontata e che la bellezza sia capace di educare. La cosa più bella (e faticosa allo stesso tempo) però è stata imparare – nel mio piano perfetto e ben calibrato – a lasciar spazio all’imprevisto, a perdere il controllo. È vero che sono un’insegnante, ma non una prof (non ancora), sono una maestra. Lavoro da quasi un anno in una scuola primaria, io che a estate ragazzi ho sempre animato dalle medie in su. Nonostante stia ancora finendo l’università, ho accettato questa proposta e ho scoperto quanto i nostri sogni, quando vengono lasciati nelle mani di Qualcun altro, possono allargarsi a dismisura. Non fraintendetemi, non voglio fare la maestra per tutta la vita, ma questa esperienza ha messo alla prova la mia vita interiore, chi sono e chi voglio essere.
Ho imparato ad avere pazienza, tanta pazienza, con i bambini sì, ma ancora prima con me stessa; a darmi il tempo di imparare e ad avere il coraggio di chiedere aiuto.
Ho imparato che quando i Pinguini Tattici Nucleari cantano “meglio bruciare che spegnersi lentamente, lo ha detto chi non deve illuminare gli altri” hanno proprio ragione.
Ho imparato a imparare dai più piccoli, anche a costo di perdere ogni tanto l’essere più alta di loro.

Sono una missionaria, nel senso più lato del termine. È vero anche però che sono partita per tre esperienze in terra di missione; quindi, forse lo sono anche in senso proprio. A parte questo, la missione dice chi sono e chi voglio essere: mi ha fatto scoprire che la giustizia è qualcosa di molto più concreto e di molto più importante per me di quanto pensavo. E dove la giustizia terrena non c’è, ho scoperto la speranza verso il Paradiso. Ho perso (sempre in senso buono) il desiderio di essere una supereroina e di “salvare” le situazioni; il palcoscenico è bello, ma è ancora più bello quando è condiviso. Andare lontano da casa mi ha aiutata a mettermi in gioco, a uscire dalla comfort-zone e dalla routine, non per scappare, ma per tornare e viverle meglio. Sì ma nel concreto? Forse suonerà come banale, ma se non fossi andata in missione non sarei stata capace di vivere l’università come uno spazio di relazione invece che solo come un insieme di esami da dare per avere in mano il tanto declamato pezzo di carta. Oppure non avrei mai visto con i miei occhi delle persone, dei missionari veri, mica come me, proprio grandi; quelli che dopo anni e anni sono ancora lì, sono ancora entusiasti e amano e si consumano ancora come se fosse il primo giorno. Sogno di essere anche solo un po’ come loro.

Sono Giulia, non un groviglio di pezzi sconclusionato. Non sono perfetta, non ho tutto in chiaro e spesso sbaglio, ma mi sento unificata, pacificata. E per deformazione professionale devo far notare che le due forme verbali precedenti sono passive. Non lo sono per caso.

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Il dritto e il rovescio di un ordito

Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” a cura del MGS su Note di Pastorale Giovanile.

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di Silvia Casson (24 anni e vive, da prima della nascita, il clima frizzante e le esperienze profonde dell’oratorio Salesiano di Chioggia. Capo scout e animatrice, si sente a casa con i più piccoli. Studia Filologia e letteratura italiana all’Università Cà Foscari, insegna nelle scuole del territorio. Le piacciono la musica, i giri in bicicletta, la santa allegria insieme agli amici, i tramonti in laguna). 

«Io sono la stoffa»

“Non so cos’è l’amore, ma a volte lo percepisco” canta Alfa. Penso che questa frase descriva bene l’inizio della mia storia, la mia storia interiore. Si sa, da ragazzini si vive tutto amplificato, tutto risuona forte: ogni esperienza, ogni incontro arrivano e si posano dentro come mattoni, e col passare del tempo costruiranno quelle che sono le nostre fondamenta, senza che noi ce ne rendiamo conto. A 16 anni, vivevo tutto così: grinta, entusiasmo, una ricerca instancabile di un di più. L’animazione in oratorio, la prima relazione a tu per tu con Don Bosco, l’estate ragazzi, le attività con il gruppo, la bellezza delle responsabilità, le nuove amicizie, i primi incontri in Ispettoria mi facevano percepire quest’amore, ma non ne capivo la portata. Non ero consapevole. Ero piena di vita, ma una vita confusa perché tutta la Bellezza che vivevo non era poi ordinata e chiamata per nome. Andava tutto bene così. Ma è quando meno te l’aspetti che arriva quel qualcosa che ti cambia la vita. Ricordo molto bene quel momento, eravamo ai Corsi Animatori Ispettoriali a Mestre, e alla sera viene proposta l’adorazione. Proprio in quel momento, si è aperta una voragine nel mio cuore. Ero mendicante di un amore che ora veniva a cercarmi, parlava al mio cuore. Quest’Amore si era svelato ai miei occhi e finalmente capivo chi fosse l’artefice di tutto quello che stavo vivendo. Capisco che era arrivato il momento di prendere in mano la mia vita e di camminare in maniera più decisa. Comincio a parlare più spesso con un salesiano, cerco di scavare in profondità, cerco di aprire il mio cuore. Solo una era la frase che riecheggiava in me: “Io sono la stoffa, lei ne sia il sarto. Ne faccia un bell’abito per il Signore”. C’era in me un forte desiderio di scoprire, un’enorme curiosità nel conoscere più da vicino chi avesse pensato questa vita per me. Questo desiderio continua ancora oggi e si fa sempre più attuale. Nella mia vita riconosco una trama, un ordito che Qualcuno ha pensato per me ben prima che io lo scoprissi. E sono felice!

«Lei ne sia il sarto»

Guardando la mia vita di oggi, vedo tante cose diverse rispetto a prima. Ed è giusto così. Ci sono però alcuni punti fermi che porto avanti e custodisco. Innanzitutto, le relazioni. Volgendo lo sguardo indietro vedo come ci siano stati tanti sarti che hanno cucito sulla mia vita. Le relazioni, per me, sono importantissime, fondamentali! È necessario, però, circondarsi di amici dell’anima, coetanei e adulti. Persone che ti conoscono nel profondo, ti aiutano a camminare sulla retta via con costanza. Se prima pensavo che da sola avrei affrontato tutto, ora sono convinta che è l’insieme a creare l’uno! Io sono anche le mie relazioni, le mie amicizie, i miei amori. La bellezza di queste relazioni sta nel fatto che c’è Gesù in mezzo. Lui è lì, soffia sulla nostra vita, sulle nostre azioni e anche quando non ce ne rendiamo conto, Lui è con noi. Sempre. Tutto questo dà alle mie relazioni una marcia in più, perché il legame che si crea diventa quasi indissolubile, va oltre lo spazio e il tempo, ed è costruito sulla roccia. Non è semplice portare avanti questo tipo di relazioni senza essere intaccati da pensieri che non nascono dal Bene. Nella mia vita ho trovato sempre fondamentale l’aiuto con gli adulti, che mi hanno fatto da padri e madri e si sono presi cura di me come una figlia. E così è anche oggi. Alla mia guida spirituale consegno tutto, certa che le mie parole siano custodite ed elevate al Cielo. È rileggendo i fatti della mia vita che scopro come io sia un dono per gli altri e come nella mia vita io sia chiamata ad amare per prima, anche se costa fatica. Tutto questo si complica quando si è chiamati ad uscire dall’oratorio, come luogo protetto, per andare nel mondo a vivere testimoniando. In questi anni di lavoro e università, ho scoperto la radicalità della mia scelta e di quanto Don Bosco abbia scalfito il mio cuore. Essere nel mondo, portando quella luce in più, soprattutto a livello relazionale con adulti e ragazzi. Voler bene ai colleghi, lasciare un pensiero buono, essere vicina ai ragazzi, provare a vedere cosa si nasconde dietro le maschere. Questo me lo insegna Don Bosco, è il mio valore aggiunto!
Mi rendo conto che questa vita non più da ragazzina disordinata sia in salita e di come siano la condivisione, la vita relazionale ad aiutarmi a camminare. Serve camminare ogni giorno un po’, piccoli passi possibili, solo così si allena la perseveranza ed è con questa fatica giornaliera che ci ricordiamo di essere continuamente in ricerca, continuamente assetati di quell’Acqua Viva. C’è una frase di Don Bosco che mi è tanto cara: “piedi per terra, sguardo verso il Cielo”. È quella la via che sento di dover seguire quando sono chiamata ad essere una giovane in uscita, rimanere aderente alla realtà, senza misticismo ma con un guizzo nel cuore in più!

«Faccia un bell’abito per il Signore»

Ora riesco a intravedere il mio abito e mi rendo conto che non è cucito con un’unica stoffa, ma ha più pezzi, più colori. Questi pezzi diversi sono dati delle esperienze che ho vissuto, dal mio bagaglio. Non è un vestito finito, c’è ancora da cucire. I vari colori, le varie trame, le varie pesantezze dei tessuti mi ricordano come la vita possa essere imprevedibile, elettrizzante, faticosa, l’importante è che le cuciture siano fisse. La cucitura della mia vita è proprio quella scelta cristiana e salesiana che ogni giorno provo a rendere mia. Tenere la vita unita non è per nulla scontato, ma se c’è qualcosa su di me che funziona è proprio questo rapporto personale con il Signore. Sentire una mano che ti viene ad alzare quando sei seduto all’angolo, qualcuno che rompe il tuo guscio, qualcuno che è già dentro di te prima ancora di volerlo. Dio è il mio sarto! La strada è in salita, la perseveranza è una virtù che si conquista con un duro lavoro, ma il panorama lassù è meraviglioso. Non è semplice e sono molte le volte in cui anche io mi trovo in difficoltà e mi chiudo. La cosa importante è tenere accesa la fiamma, per scoprirsi continuamente in ricerca!

Oggi parlo a voi, parlo alla Silvia sedicenne tanto curiosa dell’Infinito: noi sappiamo cos’è l’Amore, lo percepiamo se ci innamoriamo di Gesù e lo scegliamo ogni giorno!

Attenzione antropologica e proposte pedagogiche

Dal nuovo numero di Note di Pastorale Giovanile, la presentazione del nuovo dossier a firma di don Rossano Sala.

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Un Dossier di stampo e stile genuinamente pedagogico è una bella occasione per riflettere su temi educativi che, sappiamo, sono parte integrante dell’assetto strutturale della pastorale giovanile. Nel Dossier di questo numero di NPG il prof. Raffaele Mantegazza, pedagogista di rara finezza e da sempre amico della nostra rivista, individua tre “buchi neri” dell’educazione: la storia, la politica, la teoria. Avere la memoria corta o perderla del tutto, dimenticare la nostra natura di esseri sociali e pensare poco o male sono tre tarli della pedagogia che l’hanno depotenziata, afferma il nostro. Non possiamo che convenire su questa analisi e appoggiarlo con convinzione nelle proposte che avanza.
L’immagine del “buco nero” è decisamente forte: qualcosa viene attirato, risucchiato e infine annichilito. E non sono cose da poco la buona memoria, la partecipazione attiva, l’intelligenza critica. Perderle significa lasciarsi vincere dal presentismo, dall’autoreferenzialità e dalla superficialità. Tre istanze che ci rimandano a temi di natura antropologica e che, a mio parere, evidenziano che le attuali emergenze educative che stiamo affrontando affondano le loro radici ultime in un terreno genuinamente umano.
Nelle riflessioni che seguono vorrei mostrare quanto l’attenzione antropologica sia decisiva per qualificare la proposta pedagogica. La tesi che porto avanti è molto semplice: ogni emergenza educativa affonda le sue radici in una disattenzione o riduzione antropologica. Tale idea è ben rinvenibile nel percorso storico che la Chiesa ha fatto negli ultimi vent’anni. A partire da Benedetto XVI, che nel lontano 2007 lanciò l’espressione “emergenza educativa”, possiamo seguire un filo rosso che ci porta fino a noi. Proviamo a ripercorrere insieme, seppur per brevi cenni, questa strada.

Benedetto XVI e l’emergenza educativa

Con coraggio apostolico e intelligenza profetica, papa Benedetto XVI attraverso una memorabile lettera alla diocesi alla città di Roma “sul compito urgente dell’educazione”, ha chiarito una volta per tutte la posta in gioco della questione e le sue possibili conseguenze in ambito ecclesiale e civile. È una lettera che in un certo senso raccoglie e ordina il disagio diffuso e conferma un immaginario sociale ed ecclesiale condiviso: «Educare non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”»[1].
È interessante per noi andare a vedere come Benedetto XVI, pur rilevando tutta una serie di questioni pratiche legate all’educazione, vada al cuore antropologico e perfino teologico del problema evidenziando la radice ultima dell’emergenza educativa in atto. La tentazione di rinunciare all’opera educativa dipende, per il pontefice tedesco, non solo da questioni tangenziali o da difficoltà circoscritte, ma da un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita[2].

In ultima analisi tutto ciò rimanda a Dio, che in un’antropologia cristiana non può che essere il destino ultimo dell’uomo. Proprio l’educazione, nel senso più nobile e alto del termine, rimanda a Dio. Egli è il grande educatore del suo popolo e insieme offre speranza certa e sostegno efficace a questo compito inderogabile: «Anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile. Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti e rischiamo di ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini “senza speranza e senza Dio in questo mondo”, come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12). Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita[3].

Un decennio dedicato all’educazione

Prima ancora che la diocesi di Roma, è l’Italia nel suo insieme che si sente interpellata dalle parole profetiche del papa teologo. Nella Conferenza Episcopale Italiana stava allora terminando un decennio dedicato a Comunicare il vangelo in un mondo che cambia e si sta pensando agli orientamenti per il prossimo decennio in arrivo. Tra le tante possibilità prende corpo, nel dialogo e nel confronto, la necessità di concentrare la propria attenzione esattamente sull’educazione. E il punto di partenza, la bussola orientativa, la stella polare viene riconosciuta in quella lettera.
Gli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, significativamente intitolati “Educare alla vita buona del vangelo” sono il tentativo di rendere sistemica e comunitaria l’intuizione ratzingeriana intorno all’emergenza educativa, attenzione che il Santo Padre non cessava di ribadire ad ogni incontro programmatico con l’episcopato italiano. Tale debito di riconoscenza è affermato fin dall’inizio del documento programmatico: «È questo un tema a cui più volte ci ha richiamato Papa Benedetto XVI, il cui magistero costituisce il riferimento sicuro per il nostro cammino ecclesiale e una fonte di ispirazione per la nostra proposta pastorale»[4].
Gli orientamenti pastorali appaiono operativi: il testo si sviluppa in cinque capitoli: il primo legato al contesto attuale, il secondo ad alcuni spunti di teologia dell’educazione, il terzo alla pratica educativa, il quarto alla Chiesa definita “comunità educante”, e il quinto orientato alla progettazione pastorale. Nell’insieme sembra essere un grande appello alla comunità cristiana perché ritrovi audacia e passione per un compito educativo che non affascina più il mondo degli adulti, talvolta più ripiegati su loro stessi piuttosto che aperti all’accoglienza delle giovani generazioni.

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Io, capitano. Il film… e il lavoro con gli studenti

Dalla rubrica “Sguardi in sala. Tra cinema e teatro” a cura del CGS.

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di (Fabio Sandroni (Docente, formatore e presidente CGS Regione Marche; co-direttore dell’Ufficio diocesano per la cultura della Arcidiocesi di Ancona – Osimo.)

Quando abbiamo pensato alla proposta di raccontare alcuni itinerari progettuali di animazione culturale a partire dal Cinema in un periodico di pastorale giovanile ed educazione, avevamo ben presente un presupposto irrinunciabile: non esistono film in sé “educativi”, ma qualunque buon film può divenire educativo solo attraverso un lavoro di “ermeneutica laboratoriale”, come possiamo definirla dopo molte esperienze, cioè di graduale scoperta della sua ricchezza di linguaggi, senza forzarne in alcun modo i significati, con strategie operative che arrivino alle competenze teoriche attraverso la prassi del lavoro condiviso. Un film, infatti, è sempre un’operazione di linguaggio ed è proprio questo tipo di approccio laboratoriale a farne un’occasione di crescita sia interpretativa che spirituale, affinando soprattutto nei più giovani la capacità di cogliere quell’ “oltre” sotteso ad ogni vera opera d’arte.
Molto finora si è scritto su IO, CAPITANO di Matteo Garrone, per cui non proporremo l’ennesima recensione di un prodotto italiano premiato a Venezia a settembre 2023 con il Leone d’Argento per la miglior regia, il premio Mastroianni per il migliore attore esordiente al giovane Seydou Sarr e anche con diversi premi collaterali tra cui la Lanterna Magica della giuria CGS, fino ad essere in corsa per l’Oscar al miglior film straniero. Cercheremo invece di ripercorrere il lavoro svolto con questo film dal CGS Dorico con 600 ragazzi delle scuole superiori di Ancona e di proporre un percorso formativo.
Prima della proiezione ai ragazzi in sala è stato dato un triplice mandato:
● confrontare l’incipit del film con la sua conclusione, anche in termini di messa in scena;
● provare a trovare elementi o situazioni narrative ricorrenti;
● tentare di definire il genere narrativo/i generi narrativi scelti dal regista.
Sulla scorta di queste indicazioni il dibattito al termine della proiezione è divenuto opportunità per andare al di là di una più immediata fruizione emotiva e valorizzare la profondità dello sguardo dei ragazzi in sala, grazie ad un lavoro di scoperta guidata, con la figura dell’animatore culturale che ha il compito di aiutare a collegare le diverse sollecitazioni, inizialmente frammentarie, in itinerari di senso.
Al momento di tirare le conclusioni, tuttavia, ogni percorso coerente non va mai considerato come unica interpretazione, ma come possibilità supportata da elementi oggettivi di linguaggio filmico.

GLI ITINERARI DI SENSO RICOSTRUITI DALLE RISONANZE DEI RAGAZZI E DALLA DISCUSSIONE GUIDATA

Il racconto (la cui prima inquadratura su una mappa geografica scolorita è analoga all’ultima, dopo l’assolvenza dal volto del protagonista) inizia con un risveglio, quello del sedicenne Seydou, mentre il sonoro lo circonda di voci di bambini. Lo spazio su cui si apre è quello del paese del Senegal ove Seydou vive con la madre, i fratelli e le sorelle: uno spazio gioioso in cui i piccoli personaggi si stanno mascherando per una festa tradizionale. Il mascheramento è un primo indizio della cifra stilistica scelta da Garrone: quella della fiaba, in cui la realtà traspare senza ingombrare lo spazio narrativo. In questa prima parte, di circa venti minuti, l’Africa è connotata con colori caldi e vivaci e non viene assolutamente rappresentata come luogo da cui fuggire. Infatti il protagonista Seydou e il cugino Moussa scelgono di partire non per necessità, ma per seguire un sogno, e in questo hanno in comune molto di più con qualsiasi giovane del mondo che con i figli di una marginalità con cui spesso i ragazzi africani vengono rappresentati.
Un altro elemento caratterizzante della presentazione dei personaggi è il loro ricorrere a piccole bugie per nascondere le proprie intenzioni agli adulti e anche per raccontare a se stessi una versione “tranquillizzante” del viaggio: esorcizzano le minacce dell’uomo che cerca di dissuaderli rivelandogli che il cammino per raggiungere l’Europa è un cammino di morte, ad esempio, dicendo che “è fuori di testa!”. Il loro infantile credere ad una illusione, il mentire alla madre, i soldi seppelliti per pagarsi il viaggio, che richiamano il precedente film di Garrone (“Pinocchio”, con la vicenda dell’albero degli zecchini), rinforzano il riferimento al genere fiabesco, anche se la narrazione, nella parte iniziale del film, resta ancorata ad una verosimiglianza abbastanza realistica.
Ma dal momento dell’incontro con lo stregone del villaggio, la storia compie una prima virata verso la dimensione magico/onirica, che si svilupperà attraverso molteplici avvenimenti: dalla scena poetica della donna volante nel deserto, al sogno del ritorno a casa dalla prigione con lo spirito Malika per vedere, non visto, la propria madre, fino ad intrecciarsi sul piano narrativo con il provvidenziale incontro del carpentiere Martin, unica vera figura paterna, e all’improbabile, suggestiva edificazione di una fontana nel deserto, con in premio la libertà, un dono degno del Mangiafuoco di Collodi… La cifra della favola rende accettabile anche una serie di altri avvenimenti: dal ritrovamento a Tripoli di Moussa, all’insperato aiuto di Samir il barbiere per curarlo, fino alla possibilità di imbarcarsi senza soldi.
La vicenda si dipana come un racconto di viaggio, che è anche racconto di formazione (e qui si moltiplicano i riferimenti a Dante, Omero, Virgilio…) durante il quale non possono mancare le esperienze di morte, sfruttamento e tortura; Garrone, infatti, coerente con la sua scelta di genere, non affonda il coltello nel crudo realismo, ma non nasconde drammi ed orrori, collocandoli solo apparentemente sullo sfondo della narrazione. È suggestivo l’intrecciarsi di tradizioni favolistiche e mitologiche più “europee” con altre di origine prettamente africana, come lo spirito jinn Malika appartenente alla cultura marocchina, figura in genere benevola, di aiuto in situazioni difficili; o lo stregone/sciamano del villaggio, che prima della partenza invia i due ragazzi a chiedere ai morti l’autorizzazione a partire, per ottenere quasi un pronunciamento oracolare, un viatico che rappresenta il consenso “cosmico” all’impresa dei protagonisti. L’impresa del viaggio, così, non è più solo individuale, ma riceve la protezione spirituale della Terra d’origine, indispensabile per affrontare un percorso difficilissimo secondo le predizioni.
Superando le molteplici e dolorose prove Seydou cresce, proprio come in un rito di iniziazione, e, se all’inizio erano le illusioni di Moussa a spingere alla partenza, ora è la sua determinazione a permettere ad entrambi di proseguire il viaggio e a fare di lui una guida, un “capitano”, prima per sé, poi per il cugino, quindi per i tanti profughi sulla barca verso la Sicilia.
Il film si conclude in prossimità delle coste italiane, proprio dove iniziano i tristi drammi dei soccorsi e dell’accoglienza, tanto che, mentre assistiamo al rimpallo di responsabilità tra guardia costiera italiana e autorità di Malta, sarà Seydou a prendersi sulle spalle il destino dei suoi compagni di viaggio. La macchina da presa si muove con affanno tra i profughi che sovraffollano l’incerto natante guidato dal ragazzo: un parto in grande emergenza, la salvezza di alcuni uomini stipati sotto coperta, il rischio sventato di rovesciare la barca per il panico, tutto può avvenire grazie alla grande forza d’animo del sedicenne. L’invocazione “Allah Akbar!” degli immigrati sulla barca, che per gli occidentali è divenuto sinonimo di fanatismo, con un significativo ribaltamento semantico qui è preghiera e richiamo alla speranza, indice anche questo di un altro ribaltamento rispetto alla narrazione ricorrente: dal “viaggio come fuga e necessità” al “viaggio come diritto a Sognare”, un diritto che appare sempre più frequentemente negato ad una larga parte del nostro mondo, che tende a normalizzare in modo inquietante anche le più ingiuste disuguaglianze.
La salvezza è nell’ultimo orgoglioso grido di Seydou, quasi sommerso dal rumore degli elicotteri: “Io, Capitano” ripete più volte. Un urlo che, rivendicando la propria assunzione di responsabilità, denota la compiuta transizione all’età adulta.
Dalle voci dei bambini del risveglio dell’incipit fino al lungo primo piano del finale, la narrazione ha al centro la crescita di un giovane, che avviene solo quando si accettano le proprie responsabilità, cosa che l’Occidente “adulto”, il Vecchio Mondo, sembra non saper più fare.

LA SFIDA NECESSARIA

Organizzare la visione di un film in sala cinematografica in orario curricolare, vincendo le resistenze di chi pensa che siano “ore perse” di didattica “vera” (ossia frontale), ragionare sulla designazione dei docenti accompagnatori, scrivere la circolare con tutte le istruzioni e gli orari, con il consenso dei genitori, accertarsi che non ci siano barriere architettoniche, guidare la mattinata… Tutto questo è molto faticoso e basta averlo fatto una volta per capire di che stiamo parlando.
Però alla fine della giornata, dopo aver visto in 600 e in silenzio il film sul telo e con il buio in sala per cui l’autore l’ha pensato, rimangono le prove indelebili della necessità educativa intrinseca in queste “avventure”: la partecipazione dei ragazzi e dei colleghi, le domande profonde, la ricostruzione fatta insieme rivelatrice di significati “altri” rispetto a quelli percepiti in superficie e in visione solitaria.

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