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La nostalgia di Dio nell’arte moderna e contemporanea /4

Da Note di Pastorale Giovanile, la rubrica: Nostalgia della bellezza, di Maria Rattà.

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Bellezza, desiderio, estasi. Il trinomio della nostalgia in rapporto al bello.
Ma come si può definire il bello, e di cosa, esso, ci dà nostalgia?
Fin dalla sua radice, la parola bellezza rimanda a un concetto di ordine, armonia, proporzione. Come non pensare, allora, a ciò che avviene nelle prime pagine della Scrittura, quando Dio, creando l’universo in ogni sua componente, rimane incantato a contemplare la propria opera, definendola come «buona», e addirittura «molto buona» (Gn 1,31) in riferimento all’essere umano?
La storia della bellezza è infatti una storia antica che ci riporta alle nostre origini, e che viene espressa, nel linguaggio biblico, con la parola tob, termine che non implica, in realtà, solo e semplicemente il buono, ma anche la stessa bellezza: «L’antica versione greca della Bibbia detta “dei Settanta” usava almeno tre diversi aggettivi: oltre all’ovvio agathós, “buono”, e a kalós, “bello”, aggiungeva anche chrestós, “utile”, introducendo l’aspetto pratico» [1].
Storia di lunga data, dunque, quella della bellezza, e se così è – e se è necessario partire fin dal momento in cui Dio (visto non a caso nel Medioevo come architetto del cosmo [2]) crea ogni cosa –, allora questa è anche una storia che riguarda il capolavoro, il culmine della creazione, l’opera “molto buona/bella/utile” che esce dalla mente del Creatore: l’essere umano. «Il messaggio biblico su Dio mostra qui la sua novità proprio al nostro contemporaneo che non crede più nella bellezza unica dell’uomo. Trova Dio nella natura, ma non nel viso di un uomo o di una donna. L’uomo ha difficoltà, soprattutto, a credere alla propria bontà e bellezza. Ed, invece, egli è un capolavoro» [3].
Una contraddizione in termini, dunque, se, come recita il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 341), «la bellezza della creazione» – anche quella dell’essere umano – «riflette la bellezza infinita del Creatore». Ecco, allora, il legame con la nostalgia: ciò che è bello in senso biblico (buono, armonico, utile, con una vocazione specifica, ordinato cioè a un principio di verità e riflesso della verità stessa che è Dio) ci porta al desiderio di Colui che esso rispecchia, alla nostalgia del divino. Per dirla con un termine forse più comprensibile, perché parla dell’esperienza dei sensi concreti, la bellezza, in sintesi, ci conduce all’estasi, poiché ci fa uscire da noi stessi per andare verso un altro, anzi, verso l’Altro. «L’animo umano» – sottolineava Maria Scalisi sulle pagine di questa rivista – «ha caratteristiche “trascendentali”: Unità, Verità, Bontà e Bellezza sono già insite nell’uomo, sono la dote che Dio ha dato ad ogni singola persona. Quando nell’uomo emerge anche uno solo di questi caratteri, allora l’uomo si eleva verso Dio, perché lo spirito si auto-riconosce e trova in se stesso quelle caratteristiche proprie dell’Essere» [4]. D’altronde, come scriveva Clive S. Lewis, «noi non ci accontentiamo di vedere la bellezza, anche se il Cielo sa che gran dono sia questo. Noi vogliamo qualcos’altro, che ci è difficile esprimere a parole – vogliamo sentirci uniti alla bellezza che vediamo, trapassarla, riceverla dentro di noi, immergerci in essa, diventarne parte» [5].
Così, anche nelle complicate vicende della storia, nelle intricate e confusionarie attitudini e azioni umane, alla fine rimane una certezza da riscoprire, quella che il poeta Ugo Fasolo descrive in questi versi: «Date bellezza agli uomini che gridano / il pane e l’odio, cercate bellezza / per gli uomini affamati e d’occhi rossi / conturbati in disperazione, / irosi chiedono il pane poiché non lo sanno / di morire per fame di bellezza. / […] È il nostro canto d’uomini / e l’abbiamo rinnegato con Dio; / perciò moriamo in ansia di bellezza» [6]. Parole a cui sembrano fare eco quelle rivolte da Paolo VI agli artisti: «Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione» [7].
Da qui, dunque, il collegamento alla grazia e alla salvezza: perché se la bellezza è antidoto alla disperazione, essa ci conduce proprio al suo opposto, alla grazia che salva. E la salvezza è, per forza di cose, “relazione”, prima di tutto con il volto bello di Dio, che si manifesta nel volto del “buon/bel” pastore [8]: non ci può essere una bellezza salvifica autoreferenziale; la vera bellezza è sempre quella dell’altro con cui mi incontro/scontro (Platone parlava di una “scossa” salutare, concetto che Benedetto XVI non ha mancato di riprendere [9]). Dove non c’è relazione c’è infatti narcisismo e, nei rapporti umani, la rottura di ogni collegamento con l’altro. Il rapporto uomo-donna, che meglio esprime a livello umano la bellezza come nostalgia in tutte le sue dimensioni di desiderio, estasi, salvezza, da immagine di paradiso si traduce allora in inferno, come sembra descrivere nella sua tela Eco e Narciso (1913-16 c.) Rupert Bunny: tutto sembra rimandare a uno scenario naturale lussureggiante, ma quel rosso che imperversa – rimando alla passione che consuma in modo diametralmente opposto i due protagonisti – diventa anche un fuoco di sangue che li brucia entrambi nell’impossibilità di dare sfogo al loro amore. Oppure, come nella fiaba di Biancaneve (pur se questa descrive una relazione matrigna-figliastra), la bellezza dell’altro si trasforma in un pericolo, perché rischia di far perdere un podio di autocelebrazione: insorgono allora l’invidia, la rabbia, l’aggressività.
Alla bellezza, perciò, bisogna anche educare: ecco la necessità di una via pulchritudinis, che spetta tracciare tanto alla Chiesa quanto all’arte.
Alla prima il compito di farlo attraverso la catechesi e la liturgia, quest’ultima da coltivare nella sua dimensione di bellezza come squarcio sul Cielo; alla seconda quello di educare al desiderio in un momento in cui il concetto di bello diventa sempre più relativo, scisso dalla verità e, dunque, dall’intimo rimando al sacro che esso detiene per natura.
La bellezza, potremmo allora dire, ha una sua dimensione liturgica, da questo punto di vista, perché contemplando lo splendore della natura, dell’uomo, della donna e di ogni cosa creata, possiamo avere un anticipo dello splendore di Dio, una “preview” del Paradiso.
«Noi non siamo solo luce» – ha recentemente affermato papa Francesco incontrando gli artisti in Vaticano – «e voi ce lo ricordate; ma c’è bisogno di gettare la luce della speranza nelle tenebre dell’umano, dell’individualismo e dell’indifferenza. Aiutateci a intravedere la luce, la bellezza che salva. L’arte tocca i sensi per animare lo spirito e fa questo attraverso la bellezza, che è il riflesso delle cose quando sono buone, giuste, vere» [10].
Un invito certamente stringente per chi dell’arte fa un mestiere e una scelta di vita, ma un monito anche per ciascuno di noi, in quanto tutti chiamati a essere portatori e fruitori di una bellezza quotidiana, ordinaria: quella che giorno dopo giorno aiuta a seminare e ritrovare, nel mondo feriale, le tracce di quella stessa Bellezza che salva. Perché, e chiudiamo con le parole di Kahlil Gibran, «bellezza non è bisogno: è estasi. / Bellezza è eternità che contempla se stessa in uno specchio. / Ma siete voi eternità, voi specchio» [11].

NOTE 

[1] Gianfranco Ravasi, TÔB: buono, bello, utile, Sito internet di “Famiglia Cristiana”, https://www.famigliacristiana.it/blogpost/tob-buono-bello-utile.aspx
[2] Si tratta di un concetto già presente nella filosofia greca, e che il Medioevo rielabora.
[3] Andrea Lonardo, Credo in Dio Padre creatore onnipotente. Parlare di Genesi 1-3 nella catechesi, Sito internet Gli Scrittihttps://www.gliscritti.it/blog/entry/1750
[4] Maria Scalisi, La bellezza dell’uomo, in “Note di Pastorale Giovanile”, 2010-09-62, disponibile alla pagina https://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=5062:la-bellezza-delluomo&Itemid=101
[5] Clive Staples Lewis, Le Lettere di Berlicche e Il Brindisi di Berlicche, Jaca Book, 1990, p. 225.
[6] Ugo Fasolo, da L’Isola assediata, 1957.
[7] Paolo VI, Messaggio agli artisti a chiusura del Concilio Vaticano II, 8 dicembre 1965.
[8] Nell’originale greco di Gv 10,11;14, infatti, il termine impiegato è kalòs, bello, «dove l’aggettivo “bello” sta per “che va bene”, “giusto”. La traduzione esatta sta ad indicare che Gesù non si presenta solo come il Pastore mite e affettuoso, ma come il Pastore giusto, bravo: egli è il modello di pastore». Il buon pastore, Sito internet Note di Pastorale Giovanile, https://notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=10763:il-buon-pastore&Itemid=1070
[9] Cfr. Benedetto XVI, Discorso nell’incontro con gli Artisti, 21 novembre 2009.
[10] Francesco, Discorso agli Artisti partecipanti all’incontro promosso in occasione del 50° anniversario dell’inaugurazione della Collezione d’Arte Moderna dei Musei Vaticani, 23 giugno 2023.
[11] Kahlil Gibran, Il profeta, Paoline, 2011, pp. 155-159.

 

Nostalgia del padre. Guida alla lettura delle opere d’arte citate

Da NPG di febbraio 2023.

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di Maria Rattà

Stelle, cielo… padre: il viaggio sui percorsi della nostalgia si arricchisce di una nuova parola dalle molte declinazioni (padre biologico, padre adottivo, padre celeste) incardinate nell’unica essenza dell’ancestralità e della generazione. Come infatti il desiderio delle stelle e dell’Assoluto è connaturale all’uomo, così la nostalgia del padre nasce con noi (lo sottolinea anche la psicologia): è una delle prime necessità dell’essere umano, espressione del bisogno di essere accuditi nel corpo, e di sentirsi al sicuro, protetti dai pericoli, al riparo dalla paura che scatta in noi venendo al mondo. È così importante, il padre, che perderlo significa sentirsi mancare il terreno sotto i piedi, specialmente se la perdita è prematura. Giovanni Pascoli, nella sua lirica X Agosto, ne parla in toni intensi, paragonando la figura paterna, barbaramente uccisa, a una rondine che faceva ritorno al proprio tetto portando nel becco un insetto per i rondinini. Si rimane così ibernati nell’attesa di colui che non farà più ritorno: un dolore immenso, come quel pianto di stelle che dal Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale, inonda quest’atomo opaco del Male che è il mondo. Nel pianto delle stelle, come in un gioco etimologico, è tutto il desiderio, la nostalgia di ritrovare chi non abita più questa terra.
Ma è anche figura “ambivalente”, il padre: uomo della protezione e uomo della legge, di quel divieto non scritto per cui non tutto è possibile, ma, anzi, per il quale ci sono dei limiti, il limite, come elemento fondamentale per la maturazione del figlio.
Dall’amore per e dal bisogno del padre si può passare allora al rifiuto del, alla fuga dal padre. Tematiche che la fiaba, nella sua sapiente pedagogia, fin da piccoli ci presenta attraverso uno dei suoi protagonisti più conosciuti: il Pinocchio di Carlo Collodi. Una storia per grandi e piccini, in verità, perché nelle vicende di questo burattino di legno creato dal buon Geppetto, e che fugge dal proprio “padre” e “creatore” per andare alla ricerca della libertà, ritroviamo anche il riflesso della vicenda di un altro figlio ribelle: il figliol prodigo. «Quella di Pinocchio» – diceva il card. Biffi – «è la sintesi dell’avventura umana. Comincia con un artigiano che costruisce un burattino di legno chiamandolo subito, sorprendentemente, figlio. E finisce con il burattino che figlio lo diventa per davvero. Tra i due estremi c’è la storia del libro. Che è identica, nella struttura, alla storia sacra: c’è una fuga dal padre, c’è un tormentato e accidentato ritorno al padre, c’è un destino ultimo che è partecipazione alla vita del padre. Il tutto grazie a una salvezza data per superare la distanza incolmabile, con le sole forze del burattino, tra il punto di partenza e l’arrivo. Pinocchio è una fiaba. Ma racconta la vera storia dell’uomo, che è la storia cristiana della salvezza».
Nelle pagine della Bibbia si parla di un padre terreno da cui due figli (non uno!) fuggono in modo differente, e James Tissot, nella sua serie Il figliol prodigo nella vita moderna (realizzato in quattro tele fra il 1880 e il 1882) con sottigliezza psicologica descrive il mondo interiore dei personaggi che ruotano attorno alla parabola, interrogando, attraverso di essi, gli spettatori di tutti i tempi: perché la modernità del contesto in cui cala i suoi protagonisti dipinti è in verità la modernità di chi guarda. Siamo tutti dei prodighi e siamo tutti anche come l’altro figlio che resta, ma è in realtà lontano, con un piede dentro e uno fuori di casa (cfr. quarto dipinto del file pdf); possiamo anche vivere l’esperienza di una genitorialità difficile, incompresa, che fatica a rapportarsi alla gioventù inquieta e desiderosa di inseguire un sogno di indipendenza e affrancazione dalla famiglia di origine, a volte anzitempo e senza le risorse necessarie (soprattutto morali!) per farlo senza perdersi nella giungla del mondo.
E la fine della parabola non solo esprime l’attrito fra legge e desiderio che spesso si avverte guardando il padre solo con gli occhi del figlio ansioso di trovare (e capire) la vera libertà, ma ci racconta anche chi è veramente il padre.

«La legge del padre non è contro il desiderio, ma supporta il desiderio. Freud dice: un padre è qualcuno che sa tenere gli occhi chiusi. Il padre è il volto umano della legge, e il suo compito è umanizzare la legge, e per umanizzare la legge bisogna renderla un po’ cieca, non bisogna vedere tutto. Ecco, questa possibilità di chiudere gli occhi rappresenta la maniera paterna di declinare in senso umano la legge. La legge è umana in quanto ospita il perdono, in quanto sa fare delle eccezioni, non si applica come un dispositivo acefalo, automatico» (Massimo Recalcati, Lessico famigliare. Il padre).[1]

Solo riconoscendo nel padre questa capacità di contemperare giustizia e misericordia è possibile “riconciliarsi” con lui, e passare dalla fuga all’obbedienza non cieca, ma voluta, ragionata… in una parola, libera. Anche l’esperienza di Gesù, come uomo, lo testimonia. A lui viene dato un padre terreno, Giuseppe, non padre nella carne, ma certamente vero padre, incaricato da Dio di assumerne le veci, tanto da esserne l’ombra, proprio come Jan Dobraczynski, scrittore polacco del secolo scorso, definisce san Giuseppe in uno dei suoi romanzi, usando una felice espressione ripresa anche da papa Francesco nella sua lettera apostolica Patris Corde (dedicata proprio alla figura del santo patriarca). Per parlare del padre terreno di Gesù facciamo uno strappo alla regola di questa rubrica, e ci caliamo anche in espressioni artistiche un po’ meno recenti. Sono infatti tele e sculture più antiche a esprimerne la paternità in una chiave ricca di sfumature. Così Philippe de Champaigne, ne Il sogno di san Giuseppe (1642-43) dipinge alla perfezione il padre umano che accetta i piani del Padre celeste, accostando l’annunciazione al falegname a quella della Vergine Maria, in una concretezza che si manifesta attraverso i dettagli dell’abbandono al sonno (la docilità alla voce di Dio) e dei calzari deposti, indice di un uomo che sa mantenere il contatto con la realtà pur essendo capace di coltivare grandi sogni. Giuseppe è un riflesso coerente del Padre: la Legge non si fa per lui un ostacolo ad accogliere Maria quando l’Onnipotente gli indica una strada che va al di là della Legge stessa. E così egli non diventa non un padre-padrone, ma un padre tenero, espressione della tenerezza del Padre Celeste, in grado di accompagnare Gesù sulle strade della vita, insegnandogli ben più di un mestiere. Se ne trova traccia artistica soprattutto nell’arte del XVII e XVIII sec., in rappresentazioni in cui Giuseppe cammina tenendo per mano il piccolo Gesù. Se Cristo ha nostalgia del Padre Celeste, di quel Dio che in tutte le religioni trova il suo titolo più antico proprio in quello di “padre”, di quel Dio di cui è venuto a mostrarci il volto paterno (insegnandoci a pregarlo come “Padre nostro”), ciò è certamente anche merito di Giuseppe, in cui il Figlio di Dio ha potuto rintracciare alcuni dei tratti della paternità divina. La nostalgia del Padre raggiungerà l’apice, in Gesù, nel momento più duro della sua vita: sulla Croce. Lì, nel grido angoscioso che Ann Kim esprime nella sua tela Eloi, Eloi, lama Sabachthani? (1998), citando anche L’Urlo di Munch, la parabola umana del Cristo ci dà la risposta alla nostalgia del Padre: la fede, il pieno abbandono nel Dio che non lascia soli i propri figli. Con le parole del poeta Bartolo Cattafi (poesie È qui che Dio e Libertà) potremmo riassumere questa nostalgia, che si fa certezza dell’amore paterno che mai lascia i propri figli in balia del caso:

È qui che Dio m’assiste / lungo la parte più assurda della curva / saldamente incollato / su questa traiettoria / ad occhi chiusi vinco / la vertigine il vuoto la mia storia.

Oh sì non alzo/ abbasso le mie ali/ ai Tuoi piedi mi metto/ libero lieve occhi socchiusi/ aspetto assorbo accetto/ dall’ultimo al primo i Tuoi soprusi.

Perché è più facile volare in alto se a sollevarci sono le braccia del Padre.

Nostalgia del cielo

Da NPG

La nostalgia di Dio nell’arte moderna e contemporanea

di Maria Rattà

Perché bramo Dio? si chiude con questa domanda inquietante una lirica del poeta italiano Ungaretti. Una domanda universale, che dà voce ai mille quesiti di ogni uomo che si ritrova, prima o poi, a incontrarsi/scontrarsi con il desiderio di assoluto e di infinito che lo inabita.

In questo punto interrogativo si riversano tutte le paure dell’essere umano dinanzi alla possibilità di un mondo sovraumano, del desiderio dell’Altro che sta Oltre, in una dimensione sconosciuta ai sensi materiali. Un contrasto così forte che Ungaretti lo esprime senza mezzi termini fin dal titolo: Dannazione.

Dannazione. Parola forte che riassume la lotta, il tormento della nostalgia: arriverò mai a quello di cui sento, in fondo, la mancanza? Ed è reale ciò che mi manca? È dunque una benedizione o una condanna sperimentare la nostalgia del divino? È una sentenza di morte in vita, aspettando ciò che non esiste, oppure una benedizione che fa aprire gli occhi in questa vita sulla vera vita? La risposta (che per il poeta arriverà poi con la conversione) presuppone, secondo la declinazione ungarettiana, una domanda di Dio che è domanda di cielo: Chiuso fra cose mortali / (Anche il cielo stellato finirà). Sono i versi iniziali che precedono l’interrogativo in chiusura e tracciano un vero e proprio itinerario nella mappa della nostalgia del divino. Come si può credere che esista un Cielo che non avrà fine, un Cielo-Paradiso le cui luci brilleranno per sempre, squarciando il buio più pesto, quando ci vediamo come in un inferno, “chiusi”, “condannati” fra cose che ci parlano tutte di sofferenza, termine ultimo e, in sintesi, di morte?
In queste poche righe Ungaretti condensa molti concetti, ma uno su tutti, ossia l’ancestrale collegamento fra il cielo, quale metafora del Cielo divino, e la terra quale mondo degli uomini assetati, bisognosi di appoggiarsi a una creatura differente, che sia altro da sé: un dio più grande, più buono, più potente di tutta l’umanità. Questa connessione è evidente fin dalla preistoria anche nel modo umano di pregare, con le braccia rivolte al cielo, una modalità di cui si trovano tracce artistiche in alcune incisioni rupestri della Val Camonica.

A dimostrare che fin dall’antichità il cielo è considerato la dimora degli dei, e nella sua immensità, nella sua luce, nella sua capacità molteplice di influenzare la terra (basti pensare agli agenti atmosferici) esso si identifica con l’Essere supremo (cfr. Christian Cannuyer, Dio è nei cieli?, Sito internet della Documentazione Interdisciplinare di Scienza&Fede, https://disf.org/dio-nei-cieli). Nemmeno la Bibbia, espressione della fede del popolo ebreo prima e dei cristiani poi, si sottrae a questa identificazione: quel cielo che Dio ha creato e che testimonia la sua gloria, Dio lo abita anche. Di più: Dio stesso con la sua luce squarcia le tenebre della creazione, irrompendo nel mondo materiale. Il pittore russo Aivazovsky, non a caso, presenta il Creatore come un personaggio di luce che tutto crea, tutto domina, tutto illumina. Sono tele in cui si evidenzia come la nostalgia del divino sia, in fondo, la nostalgia di ciò che porta calore e luce (amore) nelle vite umane, dissipando il buio delle paure, le nuvole delle incertezze, delle sofferenze e delle fragilità; calmando e illuminando le tempeste che ci agitano e ci fanno temere per la nostra stessa incolumità.

Di luce che squarcia le tenebre parla anche il tramonto, uno dei momenti privilegiati del cielo per il nostalgico e per l’arte che parla di nostalgia. Già la parola stessa dice tutto, nella sua etimologia: andare oltre i monti, oltre ciò che è puramente visibile, per cogliere l’invisibile. E proprio Tramonto si intitola un’altra poesia di Ungaretti, i cui versi recitano: Il carnato del cielo / sveglia oasi / al nomade d’amore. L’uomo nostalgico è in viaggio, preso da un nomadismo d’amore che lo spinge a guardare il cielo come fosse un volto, un incarnato colorato, contemplandolo dalla terra e trovandovi un’oasi. Perché in sostanza il tramonto – ogni tramonto – ci spinge a guardare alla fine come alla possibilità/speranza di qualcosa di nuovo. Nel tramonto, infatti, come nell’esperienza della vita, si uniscono la fine e l’inizio, in un passaggio di continuità fra un giorno che si conclude e la notte che sopraggiunge, passaggio necessario perché un altro giorno possa arrivare.

In questa ricerca siamo tutti coinvolti, che ce ne rendiamo conto o meno. Lo sottolinea il pittore Caspar D. Friedrich nel suo quadro intitolato Il tramonto, anche conosciuto come I fratelli. I due protagonisti, visti di spalle, nell’aspetto simili a viaggiatori, e probabilmente fratelli, sono fermi a contemplare il calar del sole. Anche noi, come osservatori, siamo lì con loro, collocati idealmente, grazie al punto di osservazione, qualche passo indietro, partecipando dal di dentro alla scena. Perché tutti siamo fratelli, figli di uno stesso Padre, in cammino verso di Lui, verso il cielo come Paradiso, Regno di Dio.

Davanti al cielo nel suo affascinante divenire, nella sua alternanza di luce e buio, l’uomo si interroga sulla Verità, e anche quando rimane chiuso in una sorta di scetticismo, la speranza non sembra del tutto abolita, come sottolinea il cantautore Grignani in conclusione della sua Solo cielo: «Perché credo che sia solo cielo / quello che vedo lassù / Nessun Dio, niente mistero / solo cielo e niente più / Eppure, oltre al tempo / qualcos’altro ci sarà / Non voglio immaginare / tutto qua». L’uomo, in effetti, porta dentro di sé un’ancestrale e insopprimibile «nostalgia delle stelle», secondo la definizione dello scrittore greco Nikos Kazantzakis. E il cielo stellato è paradigma per eccellenza della nostalgia di Dio anche nella Scrittura, come ben sottolinea il Salmo 8,4-5: «Quando vedo i tuoi cieli, / opera delle tue dita, / la luna e le stelle che tu hai fissato, / che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, / il figlio dell’uomo, perché te ne curi?». Così anche le tele dei grandi pittori si riempiono di cieli stellati, come in Van Gogh, che nel periodo (uno dei più difficili della sua vita) in cui dipinge varie versioni della Notte stellata, scrive al fratello: «Quando sono colto dal mio “terribile bisogno di religione”, vado fuori di notte a dipingere le stelle […] e sogno sempre un quadro così, come un gruppo di amici vivi». D’altronde nel Cielo brillano le costellazioni dei santi, con in testa Maria, la stella del mare che guida la Chiesa – e ogni credente – verso Dio. Proprio come la si vede in mosaico della basilica di Notre Dame de La Garde (Marsiglia): astro luminoso sul mare in tempesta, a orientare la Chiesa – quale barca di Pietro – in cammino verso suo Figlio Gesù.

In questo viaggio nostalgico verso Dio non siamo dunque soli: ci accompagnano Gesù, Colui che discese dal Cielo e al Cielo fece ritorno promettendo di rimanere sempre con noi, e sua Madre Maria, la Vergine alla quale, con le parole di un’antica preghiera, ci rivolgiamo con fiducia, dicendole: Ave, stella del mare, / madre gloriosa di Dio, / vergine sempre, Maria, / porta felice del cielo. / […] Veglia sul nostro cammino, / fa’ che vediamo il tuo Figlio, / pieni di gioia nel cielo».

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Nostalgia, viaggio dal passato al futuro

Da Note di Pastorale Giovanile.

di Maria Rattà.

Nostalgia: parola potente, evocativa di un viaggio nel tempo e nello spazio; in mondi lontani, passati o futuri; fra volti conosciuti e incontro a persone e paesi ancora distanti; verso dimensioni possedute o da possedere; termine che scatena nell’uomo sentimenti contrastanti e che scava nell’animo con la trivella del rimpianto, del dolore… o della speranza.
Nostalgia è vocabolo a noi tutti familiare, ma non antico quanto ciò che significa. Fu “inventato” nel 1688 da un medico, Johannes Hofer, giovane laureando all’università di Basilea. La parola nacque con connotati prettamente scientifici, per descrivere lo stato patologico dei soldati mercenari svizzeri di Luigi XVI, afflitti dalla mancanza del proprio paese.
Un termine nuovo per indicare qualcosa di ancestrale come l’uomo, così “secolare” che già al mondo greco si deve il primo poema della nostalgia: l’Odissea, storia di un uomo che si lascia muovere dal desiderio struggente della propria terra e della propria famiglia, rifiutando, pur di farvi ritorno, finanche i doni dell’immortalità e dell’amore di una dea.
Per lungo tempo la nostalgia rimase un “malanno”, così come era nata. E in effetti, anche se poi essa si è staccata da questa sua connotazione strettamente patologica, non si può negare che contenga in sé un aspetto oscuro, dato che la tristezza che essa ingenera può portare fino alla malinconia e alla depressione. Lo stesso Ulisse, in diverse rappresentazioni pittoriche, appare ora come impietrito dalla sua nostalgia, ora come in corsa verso ciò di cui sente il richiamo. Perché, come scrive anche lo psichiatra Eugenio Borgna, «ci sono nostalgie che fanno vivere, e nostalgie che fanno morire» (L’arcipelago delle emozioni, 2001). La nostalgia, allora, può essere una malattia che pietrifica e paralizza oppure una risorsa che fa guardare a ciò che rappresenta la casa dell’uomo in senso lato: le sue radici (abitazione fisica, infanzia, affetti, patria, in primis), ciò che ne forma l’identità più profonda e che fa andare avanti, per costruire il futuro senza dimenticare il passato.
E, così, la nostalgia, a ben vedere, se parla di radici, di identità e di origine, parla – volente o nolente – anche di Dio, vera e propria sorgente di ogni essere umano. E vera meta, anche, verso cui andare. Furono sempre gli antichi Greci a teorizzarlo per primi, con il filosofo Plotino, secondo cui l’anima del saggio, comprendendo che tutto è “uno”, si può innalzare verso l’Alto, verso il divino, verso l’Uno da cui proviene, per fare ritorno alla propria casa.
Nella letteratura spirituale cristiana è Agostino l’uomo che forse meglio canta questa nostalgia di Dio. Quel Dio di cui si ha spesso desiderio senza saperlo, come poi ammette lo stesso santo nelle sue Confessioni (10, 27.38) prorompendo nelle famose parole: «Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai». L’esperienza di Agostino è il paradigma di chi vive inconsapevolmente la nostalgia del divino come nostalgia di molte, mille altre cose, a cominciare soprattutto da quelle materiali, sulle quali gettarsi “deforme” (dice sempre Agostino), ma senza mai esserne appagati. Solo prendendo coscienza del limite che la nostalgia stessa comporta (non tutto si può “ritrovare” o trovare” in maniera totale e definitiva in questo tempo terreno; non ogni cosa che che desideriamo di riavere è un bene per noi; quanto bramiamo è rimando a una realtà più alta) è possibile intraprendere un cammino di fede, in cui la nostalgia non è più una catena che imprigiona, ma una chiave di libertà.
Non è però facile o scontato arrivare a questa consapevolezza, e l’arte ha saputo e sa esprimere bene questa lotta interiore, questo conflitto fra passato, presente e futuro, fra mondo materiale e mondo immateriale, fra tempo interiore e tempo cronologico. Ungaretti scriveva nella sua poesia Dannazione: «Chiuso fra cose mortali / (Anche il cielo stellato finirà) / Perché bramo Dio?» (Vita d’un uomo. Tutte le poesie, 1992), esprimendo il tormento dell’uomo che comprende che il solo mondo terreno non basta e che finanche le cose più vaste e lontane, come il cielo, danno in verità sete di bellezza, di eterno, di infinito… sete di Dio. Una sete colma dell’interrogativo esistenziale sul futuro ultimo dell’uomo. Così ogni nostalgia contiene in sé il “dubbio” del “non ancora”: non ancora raggiunto, non ancora visto, non ancora esistente, non ancora ritrovato. Viaggiare nella nostalgia è come imbarcarsi per mare, proprio al pari di Ulisse, e attraversare anche la nebbia, come ben rappresenta Il viandante sul mare di nebbia ritratto da Caspar David Friedrich nel 1818.
Incognita e possibilità sono i due poli entro cui ci si muove nella mappa della nostalgia, e l’arte, quale linguaggio della nostalgia stessa, consente di recuperare con arte il passato, proprio come si evince dalla conclusione dell’opera di Proust, Alla ricerca del tempo perduto.
«Forme di linguaggio quali la poesia e la narrazione mostrano come quello a cui non si può tornare possa trovare una nuova presenza. Mostrano come dall’irreversibile possano salire parvenze, immagini, figure con cui dialogare. E come il finito possa rivivere, facendosi ritmo di un dire e di un pensare» (Prete, Nostalgia. Storia di un sentimento).
La nostalgia, che si declina attraverso mille sfaccettature (nostalgia dell’amore, della bellezza, del cielo, del proprio paese), può diventare un viaggio di ritorno verso la nostra personale Itaca, quell’Itaca vista dal poeta greco Kavafis quale metafora della vita. Perché «non provare nostalgie non è vita, o almeno non è vita che si riconosca fino in fondo nei suoi orizzonti di senso. Certo, i luoghi, le stagioni della vita, e soprattutto il tempo, a cui ci portano i sentieri tracciati dalla nostalgia, sono, o almeno possono essere, lieti o dolorosi, oscuri o luminosi, ma in ogni caso ci fanno pensare agli sbagli commessi, al bene che non abbiamo fatto; e allora la nostalgia ci consente (anche) di ripercorrere il cammino, più o meno lungo, della nostra vita, aiutandoci a riconoscere le cose che avremmo dovuto fare, e quelle che potremmo ancora fare: rimeditandole, e modificandole, nella loro realizzazione» (Borgna, La nostalgia ferita, 2018).
Fanno eco a queste parole quelle di una canzone di Enrico Ruggieri, Nostalgia del futuro: «Ogni rimpianto di questa giornata / sarà una commedia lasciata nel tempo / Ogni occasione che è stata perduta / non può ritornare in un altro momento / La nostalgia del tuo futuro / non deve incatenarti più / Ogni ripiego sul sicuro / è una limitazione / Prendi la vita al volo / e portala via».
In questa nuova rubrica online cercheremo di prendere la vita al volo, parlando delle varie declinazioni della nostalgia, dei suoi mille volti di un’unica sostanza: la nostalgia di Dio, di ciò che è l’Altro per eccellenza, ma che assume poi le fattezze delle molte nostalgie che attanagliano il cuore dell’uomo e lo uccidono dentro o, al contrario, lo fanno rinascere a vita nuova, in attesa di quella vita eterna in cui non ci sarà più nostalgia, ma appagamento totale di ogni desiderio buono che alberga già in noi.

Cattedrali gotiche d’Europa

Da Note di Pastorale Giovanile.

Al di fuori della Francia è l’Inghilterra a recepire per prima lo stile gotico, apportandovi però una serie di varianti: attenzione alla decorazione, specialmente sulla facciata; lo sviluppo orizzontale delle facciate stesse; presenza del transetto incrociato al centro della navata; mancanza del deambulatorio absidale e delle cappelle radiali.
Ai lettori di Follett, ricordiamo la cattedrale di Peterborough, che ha ispirato I pilastri della terra.

Queste le periodizzazioni del gotico inglese: Early English (1170/1300 ca.); Decorated English (1300-1375 ca.); Perpendicular English (1375-1500 ca.)

Ecco una pubblicazione di Maria Rattà sulle Cattedrali Gotiche d’Europa con un focus sul Gotico inglese

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Anno giuseppino: Magistero, Bibbia, Riflessioni, Arte

Sul sito di Note di Pastorale Giovanile c’è una rubrica a cura di Maria Rattà sull’anno giuseppino indetto da Papa Francesco.

«Dopo Maria, Madre di Dio, nessun Santo occupa tanto spazio nel Magistero pontificio quanto Giuseppe, suo sposo. I miei Predecessori hanno approfondito il messaggio racchiuso nei pochi dati tramandati dai Vangeli per evidenziare maggiormente il suo ruolo centrale nella storia della salvezza: il Beato Pio IX lo ha dichiarato Patrono della Chiesa Cattolica, il Venerabile Pio XII lo ha presentato quale “Patrono dei lavoratori” e San Giovanni Paolo II come Custode del Redentore. Il popolo lo invoca come «patrono della buona morte».
(papa Francesco)Ann

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Cattedrali gotiche d’Italia: la nuova rubrica su NPG

Su Note di Pastorale Giovanile è iniziata una nuova rubrica di arte e religione, a firma di Maria Rattà, sulle cattedrali gotiche d’Italia. I testi saranno disponibili sulla newsletter e sul sito.

«Le cattedrali gotiche mostravano una sintesi di fede e di arte armoniosamente espressa attraverso il linguaggio universale e affascinante della bellezza, che ancor oggi suscita stupore […]. Un altro pregio delle cattedrali gotiche è costituito dal fatto che alla loro costruzione e alla loro decorazione, in modo differente ma corale, partecipava tutta la comunità cristiana e civile; partecipavano gli umili e i potenti, gli analfabeti e i dotti, perché in questa casa comune tutti i credenti erano istruiti nella fede. La scultura gotica ha fatto delle cattedrali una “Bibbia di pietra”, rappresentando gli episodi del Vangelo e illustrando i contenuti dell’anno liturgico, dalla Natività alla Glorificazione del Signore».
Così parlava Benedetto XVI nell’Udienza generale del 18 novembre 2019 tracciando a grandi linee la preziosità dell’arte gotica, capace di innalzare maestose cattedrali, da alcuni definite come “merletti in pietra” e anche “grattacieli di Dio”. Dietro l’arte gotica si cela un mondo nuovo che nel corso del Medioevo si sviluppa; un mondo fatto di concezioni spirituali e filosofiche, di commerci e di politica, di abilità tecniche e di arte. Un mondo in cui luce e bellezza si materializzano, come per incanto, proprio in queste slanciate e delicate cattedrali, parlando di una realtà che non è semplicemente quella che si vede coi propri occhi, ma sopratutto quella che – attraverso di essa – si può intuire, scoprire, conoscere.
Invitiamo allora il lettore a viaggiare con noi, lasciandosi “prendere per mano” da questi giganti di pietra e vetro, alla ricerca del mistero di Dio che i maestri gotici hanno cercato di tradurre in capolavori che sembrano sfidare le leggi fisiche della statica per innalzarsi arditi verso il cielo. È questo un altro itinerario da percorrere in quella “via della bellezza” che sembra via privilegiata di evangelizzazione oggi, soprattutto per i giovani…  ma anche un altro modo di scoprire la “tradizione” della nostra cultura e della storia della fede e della società.
La pubblicazione di tali contributi avverrà quasi mensilmente nelle Newsletter di NPG e qui nel sito, in un’apposita rubrica.

 

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I Profeti maggiori

di Maria Rattà

Uomini dall’aspetto più o meno imponente, quasi sempre barbuti, volto corrucciato, sguardi cupi; accompagnati da una pergamena, un libro oppure un cartiglio. In questi pochi tratti si inquadra già la figura del profeta a livello artistico, sebbene ogni singolo personaggio, di volta in volta, si connoti anche per elementi più specifici. In molti casi è l’iscrizione cui ciascuno di essi si accompagna a chiarirne l’identità, perché si tratta di versetti estrapolati dai loro libri; in altri – meno frequenti, tuttavia – sono alcuni attributi propri a svelare l’arcano, come il ramo fiorito per Isaia (p. 16), rimando alla profezia “Un germoglio spunterà dal tronco di Jesse” (Is 11,1). E proprio dal libro di Isaia nasce l’iconografia dell’Albero di Jesse, che nella sua prima rappresentazione (Vyšehrad Codex del 1086) vede il profeta seduto di fronte al patriarca, mentre lo avvolge con un cartiglio su cui è riportato il vaticinio (p. 19).
Anche in altri casi i profeti compaiono nelle scene da essi preannunciate: Geremia e Isaia si ritrovano nel quattrocentesco Trittico dell’Annunciazione di Barthélemy d’Eyck, (p. 13), e tutti e quattro i profeti maggiori compaiono nella trecentesca Annunciazione tra i santi Ansano e Massima di Lippo Lemmi e Simone Martini (p. 14). Ezechiele è inoltre spesso inserito nelle scene della natività di Gesù, come per es. in quella (dello stesso secolo) di Duccio di Buoninsegna (p. 22).
Gli artisti danno poi particolare risalto alle scene di vocazione dei profeti. Isaia è ritratto in immagini di grande intensità nel momento in cui l’angelo sta per toccare le sue labbra con il carbone ardente (Tiepolo, p. 26 e Chagall, p. 27). Anche per Geremia è immortalato l’istante in cui il Signore stende la mano e tocca la sua bocca: il miniaturista della Winchester Bible e Marc Chagall tratteggiano con estrema delicatezza l’umiltà del profeta (pag. 37).

Figure femminili dell’Antico Testamento: Eva, Dalila, Ester, Rut

Maria Rattà

Il volto femminile che emerge dalla Bibbia è complesso, multisfaccettato, e affiora di pari passo col procedere della narrazione. Dove poi il testo tace, molto spesso è l’arte a sopperire, inserendo frammenti ipotizzabili del mondo interiore di questi personaggi.

Non sono solamente profili di eroine in lotta per il bene. Certamente esse incarnano sempre il modello della donna coraggiosa e della femme fatale, che col proprio potere seduttivo rovescia le sorti di una storia saldamente tenuta in mano dagli uomini, e già scritta. Ma non in tutti i casi questo è il frutto di una riflessione ponderata sulle proprie azioni o sull’affidamento a Dio. Impavida ma irriflessiva è Eva, che da creatura quasi senza vitalità, come la presenta il Veronese (p. 8) prima che il Creatore le apra gli occhi, e così pura da sembrare quasi una Madonna Immacolata (Blake, p. 9), diventa la seduttrice che assale l’uomo, ammaliandolo per indurlo a mangiare la “mela” dell’albero proibito (Shaw, Loth e Tintoretto, pp. 14; 17), dispiegando tutta la potenza del proprio assalto sul dubbioso Adamo. Solo dopo la cacciata dall’Eden Eva comincia a portare coraggiosamente il fardello della “croce” (sotto la quale la immortala Calandrucci, p. 34), diventando così una figura degna di comprensione perché simile a tutti gli uomini nel loro cammino di cadute e risalite, di peccato e perdono, di gioie e dolori, di lavoro quotidiano e drammi familiari. E rimane pur sempre la madre dei viventi, prefigurazione di Maria che sarà la nuova Eva: interpretazione tipologica espressa chiaramente in una ricca miniatura del quattrocentesco Messale di Salisburgo (p. 30), ma a cui fa pensare anche Verbruggen nel suo pulpito in legno (1699) per la Cattedrale di san Michele e Gudula a Bruxell (p. 29).

Personaggio completamente negativo è invece Dalila, che con coraggio gioca coi sentimenti di Sansone – uomo dalla forza sovrumana – fino a carpirne il segreto per lui letale. Gli artisti la presentano come donna bellissima e consapevole del proprio “potere” (Cabanel, p. 68), mostrandone a volte il lato più immorale e venale (Steen, p. 56). C’è pentimento, in lei? La narrazione biblica non spende una parola sul punto, ma alcuni artisti instillano un dubbio nello spettatore attraverso gesti e sguardi che lasciano spazio per un possibile rimorso, per un senso di dispiacere e dolore… forse anche per il rimpianto. È questa la scelta di Rembrandt e Rubens (pp. 55; 58), in cui l’ultima carezza e l’ultimo sguardo di Dalila a Sansone aprono un universo di interrogativi sull’interiorità di questa donna.

Poi c’è Ester, una sorta di “Cenerentola” biblica. Anche lei bellissima, come molti artisti dell’Ottocento la ritraggono in un mix di orientalismo e sensualità (Chassériau e Hayez, pp. 70; 119); il suo sangue freddo non è tuttavia quello di un essere umano insensibile o senza paura, ma si connota per quella debolezza attraverso cui i piccoli riescono a vincere i potenti, e le donne, in un contesto sociale che le privava di poteri “effettivi”, riescono ad averne al pari degli uomini. È in particolare un artista che punta su questo aspetto: Gortzius Geldorp (p. 97) che presenta Ester e Assuero come una coppia di innamorati e, soprattutto, come due sovrani di pari grado: il re tiene saldamente lo scettro, ma lo porge alla moglie, che lo tocca delicatamente con entrambe le mani.