Il viandante di Samaria. Appunti sulla fraternità

Da Note di Pastorale Giovanile.

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Appunti sulla fraternità secondo la parabola del buon samaritano

A cura di Massimo Maffioletti 

Fraternità, l’unica via

Autunno 2022. Metrò di Parigi. L’occhio viene immediatamente catturato dall’immagine di una magnetica campagna pubblicitaria dove riecheggia il celeberrimo aforisma di Sartre mandato a memoria negli anni del liceo: L’enfer, c’est les autres [1]. L’inferno è gli altri.
Il filosofo esistenzialista padre militante della rive gauche parigina veniva, però, “corretto” da un prete dei poveri piuttosto autorevole in Francia, l’abbé Pierre: L’enfer, c’est soi-même coupé des autres (l’inferno è se stessi quando l’io viene reciso degli altri). Il claim chiudeva così, molto alla francese: Fraternité: quelques lettres de plus pour faire la différence. (Fraternità: qualche lettera in più per fare la differenza) [2]. L’ho trovato perfetto per iniziare il nostro racconto sul viandante di Samaria (la parabola cosiddetta del buon samaritano), ma anche per tratteggiare subito i contorni della stagione culturale che stiamo attraversando dove, forse, è proprio la fraternità a mancarci.
Ci manca l’essere fraterni tra noi. Ci manca quell’essere “Noi” [3] in grado di liberarci dalla tentazione di immaginarci soltanto come monadi autarchiche o delle isole [4]. Ci manca quella fraternità che ci fa sentire tutti sulla “stessa barca” [5] e che fa dell’umanità intera una “comunità di destino” [6]. Ci manca quel senso di ospitalità che fa dell’essere umano quello che deve essere per essere appunto umano.
Quell’ospitalità che viene da lontano, che percorre in lungo e in largo in maniera insistita, come un basso continuo, tutta la letteratura ebraica (ma anche quella greco-latina), fin dal primo omicidio della storia (Caino e Abele in Genesi 4), passando per l’accoglienza dei tre stranieri (o uno solo?) ai quali Abramo offre cibo e attenzione e cura (Genesi 18) per il solo fatto di essere uomini, prima ancora che forestieri o stranieri e comunque mai estranei (filoxenìa, amore gli stranieri). Proprio come recita l’antico adagio del commediografo latino Terenzio: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto» [7].
L’invenzione dell’individuo è stata sinteticamente la grande conquista della modernità, e non va demonizzata, ma l’esito è stato il trionfo dell’individualismo (la “seconda rivoluzione individualistica”) con la conseguente inaugurazione della “cultura dello scarto”: «L’avventura individualistica si rivela più rischiosa di quanto potevamo immaginare! L’individuo non è soltanto più fragile o disorientato; ad essere messa in discussione è la sua intima consistenza» [8]. L’uomo post-moderno è diventato un «uomo di sabbia» [9] o «di vetro» [10].
Sbarazzandosi del “Noi”, l’Io è rimasto solo, anzi l’Unico. Gioca a pensarsi in chiave onnipotentistica – nel classico format del self-made- man – ma in realtà senza l’altro, senza la comunità del “noi”, è solo più povero e triste, non sa più chi è. «Il “noi” (la communitas [11]) sembra ormai sottomesso al potere dell’“io”. Viene così inficiato anche il tessuto della democrazia, che rischia di finire sotto la “tirannia degli individui”» [12]. Viviamo nel tempo della cosiddetta “espulsione dell’Altro” [13]. Espellere l’altro da sé significa espellere sé dalla vita.
Chiuso in sé, l’individuo muore [14].
La fraternità non può essere vissuta come una maledizione, una iattura, una condanna o un inciampo alla realizzazione del nostro Ego; non possiamo nemmeno immaginare che sia una sommatoria di tanti “Io” che s’accordano soltanto per salvaguardare il proprio interesse.
L’altro c’è solo se funzionale al mio stato di benessere. Troppo poco. Eppure, la fraternità è l’unica chance che abbiamo per tenere in piedi il mondo, respingendo le pulsioni di morte di un’umanità che si trastulla pericolosamente sul baratro dell’autodistruzione [15].
Non abbiamo alternative alla fraternità. Oggi, però, della “trinità” laica sembra la più difficile da assicurare. Infatti, mentre la libertà e l’uguaglianza – i fondamentali della società moderna – sono garantiti dalla Legge o dal Diritto, la fraternità no. Bisogna continuamente ricercarla, volerla, perché non si dà in natura, come appunto ci insegna la vicenda di Caino e Abele. Scrive un grande pensatore francese, ormai centenario ma decisamente profetico, Edgar Morin: «Non è possibile imporre la fraternità tramite la legge. La fraternità non può derivare da un’ingiunzione statuale superiore, deve venire da noi. La trinità libertà-uguaglianza-fraternità, per altro, è del tutto differente dalla Trinità cristiana, in cui i tre termini si inter-generano.
Al contrario, dobbiamo associare e combinare libertà e uguaglianza, a costo di fare dei compromessi tra questi due termini, e suscitare, svegliare o risvegliare la fraternità» [16]. La fraternità, dunque, non può essere imposta dall’alto o dall’esterno – e nemmeno Dio la può imporre. «Sin dall’infanzia abbiamo bisogno del “noi” e del “tu” che riconosce “te” come soggetto analogo a “sé” e vicino affettivamente a sé, pur essendo altro. Gli esseri umani hanno bisogno dello sbocciare del proprio “io”, ma questo non può prodursi pienamente che all’interno di un “noi”. L’“io”? Senza “noi” si atrofizza nell’egoismo e sprofonda nella solitudine. L’“io” ha non meno bisogno del “tu”, vale a dire di una relazione da persona a persona affettiva e affettuosa. Pertanto, le fonti del sentimento che ci portano verso l’altro, collettivamente (noi) o personalmente (tu), sono le fonti della fraternità» [17]. Mi piace pensarla come virtù sociale (perfino politica) oltre che attitudine personale. Abito che insignorisce l’uomo che lo indossa. Ma è delicata e ha bisogno di molta manutenzione perché «tutto ciò che non si rigenera degenera, la fraternità che non si rigenera senza posa degenera» [18].
Proprio quel giorno di metà ottobre sul metrò della capitale illuminista e laica, Ville Lumière della liberté, égalité e fraternité, ho pensato che avrei dovuto rileggere la parabola cosiddetta del buon samaritano. Ero convinto che il testo di Luca non parlasse soltanto di un enorme gesto di carità – il che comunque non sarebbe stato poco – ma soprattutto del riconoscimento dell’alterità fraterna (a suo modo una forma di trascendenza in orizzontale) come condizione dello stare al mondo degli umani, che sono tali solo quando misurano la propria identità al passo del riconoscimento dell’altro.
L’altro è la condizione per diventare quello che siamo [19]. La parabola sembra suggerire di primo acchito che per il malcapitato sulla strada da Gerusalemme a Gerico l’altro (i briganti) è l’inferno. La strada è l’inferno. Ci vuole il gesto fraterno del samaritano per restituire alla vita offesa la statura della promessa.
Il racconto dei primi capitoli di Genesi parla chiaro: mai più da soli (Adamo ed Eva), mai senza l’altro (Caino e Abele).
Mai senza l’altro è il titolo di un impareggiabile saggio di Michel de Certeau, gesuita teologo e intellettuale francese, dove l’altro si presenta sempre con il volto dell’estraneo, lo straniero per via, misconosciuto e proprio per questo necessario. Più che necessario. L’altro come condizione per definire la mia stessa identità. L’altro è lo straniero sulla strada di Emmaus (Luca 24,13-53), l’altro è il fratello non riconosciuto nella parabola dei due fratelli (Luca 15,11-32), l’altro è l’uomo lasciato mezzo morto sulla strada da Gerusalemme a Gerico, estraneo per gli uomini della legge ma anche per il samaritano.
Nella prefazione del libro citato si leggono già i temi che anticipano il nostro itinerario: «De Certeau ha indagato con rara incisività su ciò che apre ciascuno all’incontro dell’altro. Comunione attraverso il conflitto, la vita dell’uomo non è mai concepibile senza l’altro: tragedia allora non è il conflitto, l’alterità, la differenza bensì i due estremi che negano questo rapporto: la confusione e la separazione.
In questa nuova stagione dobbiamo imparare ad accettare il mistero e l’enigma di chi non conosciamo, di chi appare come l’estraneo e non solo lo straniero. La sofferenza e la fatica della ricerca dell’unione nella differenza permangono, ma la tragedia incombe sull’uomo soltanto quando rinuncia all’altro e se ne separa. Gli altri non sono l’inferno: sono la nostra beatitudine su questa terra» [20].
«Il mondo inizia plurale» [21] – fraterno – a partire già dagli elementi naturali: dalla coppia cielo e terra alla coppia Adamo e Eva. La congiunzione e è esplicativa. Poi si faranno i conti con il Male che è sempre divisivo (e anti-fraterno, anti-noi) [22].
Più generalmente noi potremmo parlare di prossimità, visto che la domanda del dotto interlocutore di Gesù all’inizio della nostra parabola punta a sapere “chi è mio prossimo”. Nel decimo capitolo del suo vangelo, Luca, autore che ha molto a cuore il tema della misericordia, ci invita a rintracciare le coordinate di questa fraternità perduta e riguadagnata soltanto grazie alla compassione di un viandante di Samaria.
Compassione («passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione») e prossimità («gli si fece vicino»): ruota attorno a queste due categorie il racconto parabolico. Proprio perché fragili vanno custodite. Ancora così inedite vanno scolpite sul cuore, senza se e senza ma, ma anche senza buonismi né facili ingenuità. La cura dell’altro rivela sorprese.
L’altro non sai mai fino in fondo chi è, rimane un mistero [23]. E la cura che si deve a lui non la si deve soltanto perché conosciuto. Sono i volti ignoti quelli cui essere prossimi. L’ignoto è sempre un enigma, l’altro (incrociato per strada) potrebbe essere uno straniero e perfino un nemico. La cura è sempre un rischio. L’altro è un appello alla libertà, un’invocazione alla responsabilità: impossibile sottrarsi. Nessuno può permettersi il lusso di rispondere come Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Genesi 4,9). Perché, sì, parafrasando il testo, il responsabile di tuo fratello sei proprio tu e non un altro. Se ti capita davanti o ti cade (gli cadi) addosso, ricorda che il responsabile sei tu. D’accordo, la carta dell’indifferenza va messa in conto, anche le cronache quotidiane la documentano ampiamente, ma è disumanizzante.
Meglio non giocarla. Ti faresti del male.
Diciamolo subito: la grande storia biblica – nonostante l’originario stato di riconciliazione – si apre con una serie di appelli che hanno subito il compito di decidere la qualità intrinseca dell’umano. E l’umano per la parola divina si declina secondo il paradigma della fraternità compassionevole e della prossimità gratuita. Due domande presiedono i primi capitoli di Genesi dove a parlare è addirittura Dio in persona: «Adamo dove sei?» (Genesi 3,9) e – soprattutto – «Caino, dov’è Abele, tuo fratello? Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Genesi 4,9-10). Scrive Francesco: «Questa parabola raccoglie uno sfondo di secoli. Poco dopo la narrazione della creazione del mondo e dell’essere umano, la Bibbia presenta la sfida delle relazioni tra di noi. Caino elimina suo fratello Abele, e risuona la domanda di Dio: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. La risposta è la stessa che spesso diamo noi: “Sono forse io il custode di mio fratello?”. Con la sua domanda, Dio mette in discussione ogni tipo di determinismo o fatalismo che pretenda di giustificare l’indifferenza come unica risposta possibile. Ci abilita, al contrario, a creare una cultura diversa, che ci orienti a superare le inimicizie e a prenderci cura gli uni degli altri» [24].
La parabola del buon samaritano ricalca la storia dei due fratelli di sangue all’origine del mondo ma ne ribalta completamente l’esito. Sullo sfondo del racconto parabolico di Gesù echeggiano ripetutamente i grandi temi antropologici del libro della Genesi. Innanzitutto, si tratta di comprendere quali sono le coordinate di come deve essere l’umano per essere quello che deve. Secondo la parola di Dio. «Ciò che scopriamo dell’essere umano, questi testi (i vangeli, ndr) lo contengono già e lo lasciano intendere. Nelle loro parole qualcosa parla [ça parle]» [25].
Dio parla sempre la “lingua materna” [26] degli umani, nelle categorie fondative della vita: nascere, generare, soffrire e gioire, morire, amare, essere fratelli, essere giusti, coltivare e custodire il mondo… Le parabole sono sovente racconti che chiamano in causa la responsabilità (e non permettono l’indifferenza o l’ignavia, cioè l’inazione).
Non offrono ricette, aprono strade, coinvolgono la libertà esponendola subito in prima linea: sei tu – uditore della Parola, attento lettore costretto a metterti in gioco – a decidere l’esito finale della parabola e, quindi, il senso della tua vita: “Va’ e anche tu fa’ così”.
(Anche la cosiddetta parabola del padre e dei figli, sempre a firma di Luca, ha la stessa andatura: anche lì c’è un chiaro appello ai due fratelli stanati dalle loro comfort zone – l’una del maudit fascinoso, l’altra del perfettino intransigente – per rispondere dell’altro. Come se la questione – anche per Dio – non fosse tanto quella di riferirsi umanamente a Lui. No, la questione posta da Dio è una sola: occupati tu di tuo fratello, comincia a farlo tu perché non è detto che altri se ne occuperanno. Dio non chiede all’uomo di occuparsi di Lui. Chiede di occuparsi dell’uomo chiunque nel quale egli ha impresso la sua scintilla divina: amore per il prossimo e amore per Dio sono sullo stesso piano.) La parabola introduce «la sfida delle relazioni tra di noi» [27]: teniamo a mente questa sfida perché è il cuore della nostra vicenda umana, cioè del nostro venire al mondo e della destinazione della nostra vita (a chi decidiamo di destinarla, per quale causa decidiamo di spenderla). Le relazioni sono una prova, ma anche una promessa: dipende… Il testo di Luca è stato abbondantemente commentato, quindi noi non possiamo certo pretendere di aggiungere qualcosa di nuovo. Il fatto che noi l’affrontiamo è perché – come già segnalava padre David Maria Turoldo – questa parabola è il cuore dell’umanesimo evangelico, l’«unico umanesimo possibile»: «compendio non soltanto della storia umana, ma prima ancora compendio del vangelo», «un compendio spirituale ed etico della storia del mondo, di come si giocano le sorti dell’uomo», «l’essenza del cristianesimo» perché «qui è tutto l’uomo; ed è tutto il cristiano, che poi è la medesima e unica verità», qui si rivela «lo specifico del cristiano» [28]: «Essere cristiano non vuol dire essere più uomo di tutti gli altri uomini; è invece rivelazione e manifestazione di come dev’essere l’uomo, se vuol essere immagine e somiglianza di Dio. […] Essenza del cristiano è di essere un’epifania di Dio, e perciò realizzazione dell’uomo secondo il progetto di Dio; perciò il Cristo è l’archetipo dell’uomo, il suo modello: come è concepito l’uomo da Dio stesso, nella sua perfetta realizzazione. È scritto che non è altro che l’uomo perfetto, e che noi dobbiamo crescere per raggiungere la statura di Cristo; che vuol dire la pienezza della sua umanità; perché là dov’è questa pienezza d’umanità, c’è Dio, cioè la rivelazione di Dio. […] Dio è amore. Il sogno di Dio è che tutti gli uomini si amino come lui stesso ama» [29].
Nella parabola di Luca noi scopriamo il valore «biologico» del vangelo, da contrapporre alla concezione di vangelo come soltanto un «libro di consigli». Occorre partire dalla seguente convinzione: il vangelo «risponde alle esigenze fondamentali dell’essere» [30]. La crisi conclamata del cristianesimo occidentale (già ampiamente visibile all’interno dei contesti parrocchiali) consiste nell’aver dimenticato che il vangelo non è un ricettario etico né una teoria dottrinale ma lo svelamento dell’essere umano per come Dio desidera che l’uomo sia. L’attuale distanza dal vangelo – distanza dalla chiesa – è frutto anche di questa miopia.
«Questa parabola – scrive Francesco in Fratelli tutti – è un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena.
Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano» [31].
La parabola del buon samaritano ci riporta all’essenza del cristianesimo e di ciò che l’uomo è chiamato ad essere per essere all’altezza dell’umano di Gesù (e quindi di Dio).
Lo scrittore francese Emmanuel Carrère anni fa ha voluto cimentarsi con i testi cristiani della chiesa delle origini. La ricerca, confluita in un lavoro importante dal titolo Il Regno, approda a questa folgorante conclusione: «… anche voi dovete lavare i piedi gli uni gli altri. Se lo farete sarete beati […] mi sembra bello che della gente si riunisca per stare il più vicino possibile a ciò che c’è di più povero e vulnerabile nel mondo e in se stessi. Mi dico che è questo, il cristianesimo» [32]. Ecco, penso che qualcosa del genere si sia mosso nel cuore del nostro samaritano.
Il che dovrebbe interrogare anche il cristianesimo e la chiesa di questo inizio secolo che di tutto ha bisogno ma non di cadere nell’ossimoro già stigmatizzato da Arturo Paoli: «Abbiamo costruito e seguiamo un cristianesimo individualista» [33] con il quale ci si è allontanati dal messaggio originario di Gesù.

NOTE

1 La celeberrima frase di Jean Paul Sartre proviene dai dialoghi dell’opera teatrale Huit clos (in italiano A porte chiuse) che il filosofo compose nel 1943 per poi essere pubblicata nel 1947. Siamo in piena seconda guerra mondiale. Sartre la giustifica così: «Si è pensato che volessi con questo dire che le nostre relazioni con gli altri sono sempre avvelenate, che si tratta sempre di rapporti infernali. In realtà, quello che voglio dire è un’altra cosa. Voglio dire che, se i nostri rapporti con gli altri sono intricati, viziati, allora l’altro non può che essere l’inferno.
Perché? Perché quando noi ci pensiamo, quando cerchiamo di conoscerci noi utilizziamo quelle conoscenze che gli altri hanno già di noi. Noi ci giudichiamo con i mezzi che gli altri hanno, ci hanno dato per giudicarci. Qualsiasi cosa io dica su di me, c’è sempre dentro il giudizio degli altri. Ma questo non vuol dire assolutamente che non si possano avere rapporti differenti con gli altri. Sottolinea semplicemente l’importanza capitale di tutti gli altri per ognuno di noi».
2 La campagna pubblicitaria curata dalla Fondazione Abbé Pierre oltre al manifesto citato aveva prodotto altri tre slogan molto istruttivi anche per il tema della nostra parabola. Il primo: On ne meurt pas d’amour di Marcel Pagnol, scrittore drammaturgo e cineasta francese. In questo caso la correzione dell’abbé Pierre suona così: «Non si può morire d’amore ma si muore d’indifferenza» (mais on meurt d’indifference). Il secondo: Le 21e siècle sera religieux ou ne sera pas.
La correzione: «Il 21° secolo sarà religioso o non sarà proprio» diventa «Il 21° secolo o sarà fraterno o non sarà» (Le 21e siècle sera fraternel ou ne sera pas).
Il terzo di Nietzsche: Souviens-toi d’oublier ritradotto con Souviens-toi d’aimer (Ricordati di amare, non di dimenticare).
3 «La globalizzazione ci ha ravvicinati in un unico “noi”: una sola umanità. Eppure sembra che il “noi” si sia impoverito della sua forza. Anzi che sia crollato. C’è bisogno, e con urgenza, di inventare una nuova fraternità. È la sfida più alta che abbiamo di fronte. Ai “mercati senza frontiere” deve fare da contrappunto una “fraternità senza frontiere”» in V. Paglia, Il crollo del noi, ed. GLF tempi nuovi, 2017 (p. 22). Vedi anche M.M. Zuppi (con L. Fazzini), Odierai il prossimo tuoPerché abbiamo dimenticato la fraternità, ed. Piemme 2019 (pp. 9-33) 4 È rimasta nel Dna della nostra educazione sentimentale il versetto dello scrittore inglese del XVII John Donne, Nessun uomo è un’isola, che successivamente lo scrittore Ernest Hemingway farà propria così come ne farà tesoro anche il monaco americano Thomas Merton.
5 È nella memoria di tutti l’omelia che papa Francesco tenne davanti al mondo la sera del 27 marzo 2020. Da solo, in piena pandemia e in una piazza San Pietro completamente deserta, commentava il vangelo dei discepoli e di Gesù nella tempesta (Marco 4,35-40): «Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: “Siamo perduti”, così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme».
6 «Siamo invitati a una presa di coscienza permanente della comunità di destino del genere umano che è, al tempo stesso, una comunità di pericolo». La categoria è stata da tempo introdotta dal filosofo Edgar Morin e ripresa anche nel suo ultimo Svegliamoci!, ed. Mimesis, 2022 (p. 56).
7 «Sono un essere umano, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me»: Publio Terenzio Afro nella commedia Heautontimorùmenos (“Il punitore di se stesso”) del 165 a.C.
8 J.-C. Guillebeaud in V. Paglia, Il crollo del noi, ed. GLF tempi nuovi, 2017 (p. 9).
Seguo alcune suggestive considerazioni dell’autore.
9 Vedi il suggestivo saggio di C. Ternynck, L’uomo di sabbia. Individualismo e perdita di sé, ed. VeP 2012.
10 V. Andreoli, L’uomo di vetro. La forza della fragilità, ed. Rizzoli 2007.
11 La communitas è il vero antidoto all’immunitas: la condivisione del munus (dono- compito) ci libera dal sogno illusorio di un’immunità che invece di garantirci salvezza ci isola sempre di più. È stata la nostra esperienza della pandemia. Vedi Roberto Esposito, Immunitas, ed. Einaudi 2020.
12 L’osservazione è di C. Todorov in V. Paglia, Il crollo del noi, ed. GLF tempi nuovi, 2017 (p. 10).
13 B.-C. Han in V. Paglia, Il crollo del noi, ed. GLF tempi nuovi, 2017 (23).
14 Le attuali osservazioni non intendono assumere quella certa retorica buonista del noi come se non si dovesse riconoscere che proprio il cristianesimo è stata la religione che ha valorizzato la singolarità di ogni persona.
15 I segnali sono noti: incuria dell’ambiente, sfruttamento delle risorse, crisi climatica, divario sociale planetario, moltiplicazioni dei conflitti, corsa agli armamenti… Sono tutti temi che papa Francesco affronta nelle sue encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti nelle quali invoca una nuova alleanza umana, un “nuovo umanesimo” come da tempo suggeriscono alcuni intellettuali europei come Julia Kristeva, Jürgen Habermas, Edgar Morin. Già qualche anno prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale Simone Weil rilasciava un saggio dal titolo Non ricominciamo la guerra di Troia dove scriveva: «Tutte le assurdità che fanno assomigliare la storia ad un lungo delirio hanno la loro radice in una assurdità essenziale: la natura del potere. […] Per costringere gli uomini alle più assurde catastrofi non servono né dei né congiure segrete: basta la natura umana».
16 E. Morin, Fraternità, perché?, ed. Ave 2020 (p. 13).
17 Ibid., p. 14.
18 Ibid., p. 54.
19 «La nostra identità e la conoscenza di noi stessi sono il risultato di un processo che non finisce mai: si costruisce il nostro “io” avvicinandosi agli altri, incontrando gli altri senza però mai “con-fondersi” con gli altri. L’identità non è un ordito fisso, è invece il risultato di un processo durante il quale è possibile anche incontrare lo straniero che ci sconquassa ma ci fa pensare. Incontri difficili che non vanno affrontati col buonismo. Nel Vangelo non c’è buonismo di sorta» (M. Cacciari, Lectio Magistralis «Dal vangelo (che non è buonista) insegnamenti sul “nostro prossimo”» al Festival della filosofia di Modena, 2010).
20 Vedi la prefazione di E. Bianchi in M. de Certeau, Mai senza l’altro, ed. Qiqajon 2019 (pp. 5-9).
21 V. Paglia, Il crollo del noi, ed. GLF tempi nuovi, 2017 (pp. 33ss).
22 Come illustrano i capitoli 1-11 di Genesi: il peccato originale, Caino e Abele, il diluvio, la torre di Babele… 23 Come nel bellissimo aforisma di Giorgio Caproni: «Errata / Non sai mai dove sei / Corrige / Non sei mai dove sai.» (in Poesie 1932-1986, ed. Garzanti 19954, p. 446).
24 Francesco, Fratelli tutti, n. 57. «Anche Caino muore uccidendo il fratello. Muore una parte di lui, la sua parte migliore» (M.M. Zuppi, Odierai il prossimo tuo, ed. Piemme 2019 [p. 188]).
25 F. Dolto, I vangeli alla luce della psicanalisi. La liberazione del desiderio. Dialoghi con Gerard Sévérin, et al./edizioni 2012 (p. 4).
26 P. Sequeri, Iscrizione e rivelazione, ed. Queriniana 2022.
27 Francesco, Fratelli tutti, n. 57.
28 D.M. Turoldo, Anche Dio è infelice, ed. Piemme 1991 (pp. 44, 51, 59, 62, 65, 75, 100).
29 Ibid., p. 65.
30 Ibid., p. 41.
31 Francesco, Fratelli tutti, n. 67.
32 E. Carrère, Il Regno, ed. Adelphi 2015 (p. 426).
33 A. Paoli, Il cuore del Regno, ed. Dissensi 2011 (p. 21).

L’azione educativa e pastorale della Chiesa

Dalla rubrica: I sogni dei giovani per una Chiesa sinodale /3

di Luigi Amendolagine

(NPG 2024-07-52)

Pietre miliari per una riflessione profonda sull’essere cristiani, non solo per i giovani, sono: la fede, la vocazione, il discernimento e l’accompagnamento. Partendo dalle considerazioni che i giovani hanno condiviso, ci poniamo un interrogativo importante: quale azione educativa e pastorale la Chiesa deve mettere in campo, rimanendo allo stesso tempo coerente ai suoi insegnamenti e al passo della realtà in continua evoluzione?
I giovani desiderano un rinnovamento della Chiesa che possa renderla sempre più prossima, accogliente, umile, in uscita; una casa aperta e pronta ad accogliere tutti, indistintamente, capace e vogliosa di dialogare con tutti, che sia inclusiva e mai giudicante con la sua morale.
La prossimità è sicuramente l’aspetto maggiormente ambito dai giovani nell’azione educativa e pastorale della Chiesa che cammini con loro, anche a costo di uscire dai soliti registri. C’è la domanda di una Chiesa vicina e presente, che sappia rispettare la singolarità delle storie e delle ferite delle persone: “Ma io non esisto” – dice il ragazzo omosessuale quando parla della catechesi – . Come Cristo si è incarnato nel mondo, anche la Chiesa deve saper abitare i tempi ed esserci per i giovani, non solo per alcuni, ma per tutti.
I giovani auspicano che, oltre a farsi prossima, la Chiesa offra loro “spazio” inteso sia come luogo fisico sia come metafora del permettere ai giovani di essere più protagonisti all’interno della Chiesa. I giovani chiedono spazi concreti dove potersi incontrare, dove poter dialogare con gli adulti così da potersi sentire ascoltati, ma anche luoghi dove poter incontrare il “diverso”, inteso come chi la pensa diversamente dalla Chiesa o addirittura come chi non si sente proprio parte di essa. I giovani chiedono, inoltre, di essere considerati in quegli spazi decisionali dai quali troppo spesso, secondo il loro parere, sono esclusi o non sufficientemente valorizzati. A tal proposito propongono di rivedere la gestione della leadership all’interno della Chiesa, per esempio, circa il ruolo della donna.

Chiedono apertura, partecipazione, creatività, aggregazione, bellezza, valorizzazione delle idee giovanili mettendo da parte i tabù. Forte è nei giovani l’attesa di liturgie belle, creative, essenziali, vive, motivanti, che sappiano trasmettere gioia e calore, che raccontino il “mistero”, che sappiano emozionare. Dicono con franchezza che sono stanchi delle lunghe omelie, specie se lontane dai problemi della realtà e della quotidianità.
Ruolo importante e decisivo in un processo di rinnovamento dell’azione educativa e pastorale della Chiesa devono averlo sicuramente i laici. I giovani, infatti, rifiutano il clericalismo, con parrocchie che dipendono esclusivamente dalle peculiarità del parroco. Al contrario vorrebbero sacerdoti meno dediti alle questioni amministrative burocratiche e capaci di dare più tempo e spazio a chi ne ha bisogno di ascolto.

Lo stile della Chiesa cui i giovani aspirano è in sintesi quello di una Chiesa che racconti la bellezza della fede piuttosto che concentrarsi sui doveri morali. Una Chiesa materna e allo stesso tempo fraterna, perché sempre disponibile ad ascoltare. Una Chiesa “formato famiglia” che sappia chiedere e offrire perdono, che sappia sorridere sempre. Una Chiesa al passo coi tempi, tecnologica e presente sui social. Una Chiesa sincera, autentica, libera dai soliti schemi che la ingabbiano e la rendono vecchia e triste. Una Chiesa che proclami chiaramente Gesù Cristo, con un linguaggio fresco e attuale, comprensibile e attraente per i giovani. «Una Chiesa che raggiunga i giovani nella loro realtà evolvendosi e parlando il loro linguaggio; una Chiesa che risponda ai loro interrogativi e alle sfide del mondo (etica, ecologia, orientamento…). Una Chiesa che osa purificarsi dai propri arcaismi, che accetta il cambiamento, la novità, la diversità. Che sia aperta alle nuove iniziative, alla creatività, che sia accattivante. Che osi riconoscere i suoi limiti».
In questa richiesta di cambiamento avanzata dai giovani, questi sono consapevoli che loro stessi sono la Chiesa che si rinnova, i protagonisti di questa trasformazione. Sanno di poter dare un contributo innovativo e alternativo. Vorrebbero essere più corresponsabili, più protagonisti nelle liturgie e nella catechesi, impegnarsi nella missione evangelizzatrice della Chiesa attraverso l’arte, specialmente la musica. Si sentono portati soprattutto per l’educazione e la formazione dei loro coetanei, degli adolescenti, di chi si prepara a celebrare momenti importanti del proprio cammino di fede, come il sacramento della cresima.

Inoltre, non hanno paura nel denunciare che spesso, proprio nella Chiesa, i giovani non vengono incoraggiati ad assumersi delle responsabilità e che le loro potenzialità vengono trascurate e sottovalutate.
Essendo sensibili alle questioni di giustizia sociale, volentieri metterebbero a disposizione la loro freschezza e le loro energie per la pace, la salvaguardia del creato, il servizio ai più poveri e ai disabili, l’ascolto delle persone anziane e sole.
Emerge forte la volontà dei giovani di rendersi protagonisti anche nella società civile attraverso la partecipazione alla vita politica.
I giovani desiderano portare il lievito del Vangelo in tutti gli ambienti, anche in quelli che notoriamente sono facilmente invischiati in dinamiche di potere e di corruzione, per sensibilizzare al bene comune e agli altri principi della dottrina sociale della Chiesa.
Sport, oratorio, associazionismo, animazione, università, servizio civile, arte, mondo del lavoro, educazione sono gli ambiti in cui i giovani sentono di poter dare maggiormente il proprio contributo, facendo fruttare i loro talenti.

Non da ultima vi è la famiglia, primo luogo di missione e di evangelizzazione da non trascurare.
In tutto questo, i giovani non desiderano semplicemente “spazio”, come se volessero a tutti i costi soppiantare chi li precede, ma chiedono di essere accompagnati e non essere abbandonati attraverso un paradigma di reciprocità in cui “Non si tratta semplicemente di coinvolgere i giovani per aiutare la comunità ecclesiale, ma di chiedere cosa la comunità ecclesiale può fare per aiutarli”.Per intessere questo dialogo che mette in relazione Chiesa e giovani, la prima deve configurarsi come una “Chiesa in uscita” capace di evangelizzare non dal pulpito con monologhi, ma nei luoghi quotidiani, come la scuola, per cogliere convergenze di obiettivi e offrire opportunità formative integrate attraverso la via della bellezza. Inoltre non deve dimenticare chi è fuori dai percorsi formativi formali che merita di essere raggiunto attraverso il mondo digitale (internet, social network…) e il mondo del lavoro. La strada, i luoghi di divertimento, le attività sportive e ludico-aggregative, i luoghi di cultura, l’arte, la musica, i bar, i locali, le discoteche: sono tutti ambiti dove poter intessere relazioni semplici e significative.
Non vengono trascurati nemmeno i luoghi ecclesiali “ordinari” di incontro dei giovani: la parrocchia, l’oratorio, l’associazionismo cattolico, i movimenti spirituali. Qui si ribadisce il desiderio di permettere un maggior protagonismo dei giovani, responsabilizzandoli in servizi pastorali e dando loro spazi di dialogo
e confronto.

Nella sua azione educativa e pastorale tra gli strumenti che la Chiesa può e dovrebbe utilizzare in maniera efficace vi è il linguaggio semplice, concreto, diretto, coerente, chiaro, senza fronzoli, mai ambiguo, gioioso, per immagini, pratico, creativo, narrativo. Su tutto i giovani preferiscono la credibilità, cioè il linguaggio “del buon esempio”, della santità. Vogliono ascoltare la testimonianza coerente di chi è impegnato nell’annunciare il Vangelo con una vita gioiosa e fraterna. Sono consapevoli che loro stessi possono essere i primi evangelizzatori dei loro coetanei, perché capaci di comprenderli meglio e di raggiungerli con facilità. I gesti concreti, come le opere di misericordia, sono considerati un linguaggio diretto e fortemente comunicativo, mai scontato e sempre attuale e attraente. L’arte, nelle sue multiformi rappresentazioni, è considerata uno strumento comunicativo ricco, prezioso, accessibile e diretto. Per questo i giovani lo prediligono e chiedono alla Chiesa che siano promosse la letteratura, la musica, le belle arti.

I giovani sono fortemente convinti che la Chiesa debba essere più visibile attraverso i mezzi della comunicazione sociale: in particolar modo i social, ma anche la televisione e la radio.
Nonostante questa particolare predilezione continuano a considerare l’incontro personale come insostituibile.
Infine anche la liturgia, con il suo ricco simbolismo, è riconosciuta come una fonte di ricchezza tante volte inespressa perché sconosciuta, capace di comunicare con immediatezza il mistero della fede che le parole non riescono ad esprimere.

Concludendo con le parole di Papa Francesco nella Christus vivit, “la pastorale giovanile non può che essere sinodale”. Essa si concretizza in un andare insieme, consentendo ai giovani di essere partecipanti attivi del cammino; nell’ascoltare e discernere attentamente per dare risposte adeguate; nel “creare casa”, costruendo legami significativi; nel mettere in relazione le diverse generazioni. La pastorale, così delineata, risponde esattamente ai desideri dei giovani della Riunione presinodale.
Sulla base delle provocazioni offerte dai giovani, nel prossimo articolo proveremo ad immaginare la necessaria conversione ecclesiale che possa consentire alla Chiesa di essere autenticamente a servizio con e per i giovani.

Introduzione al Dossier “Mettiamo ordine nei nostri affetti”

Da Note di Pastorale Giovanile.

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Quattro sguardi per accompagnare i giovani oggi

Rossano Sala

Di fronte alla riduzione del corpo a oggetto di esibizione e alla deriva ludica della sessualità, all’enorme confusione affettiva e alla mercificazione dei legami in atto – il tutto accentuato dalla digitalizzazione delle relazioni, che smaterializza e virtualizza ogni cosa – il Dossier che proponiamo cerca di mettere a fuoco l’originario senso degli affetti umani.
Difficile quindi non comprendere quanto sia strategico quello che ci viene offerto. Sappiamo che nella società della distrazione di massa diveniamo sempre più superficiali e quindi meno sensibili nella percezione dei sentimenti altrui[1]. Quelli che erano i cambiamenti moderni nella vita affettiva e sessuale[2] si sono ancora più rapidamente trasformati nel mondo contemporaneo e soprattutto in quello giovanile[3]. Tendenzialmente tutti siamo tentati da un uso commerciale, vetrinistico e intensivo del nostro corpo[4] e, ancora peggio, di aderire inconsciamente alla cultura dello scarto che si allarga a macchia d’olio[5]. L’esito non può che essere la fine della nostra capacità di desiderare e di amare come si deve[6].
La vita di tutti i giorni, purtroppo anche quella ecclesiale, è ricca di controtestimonianze dal punto di vista affettivo. Tanta immaturità relazionale abbonda e si aggira tra noi. Diventa decisivo domandarsi: come possiamo continuare a sentire, amare e pensare nell’era digitale? La rete, offrendoci molte possibilità, contemporaneamente rischia di toglierci, da una parte, quello spirito critico che ha bisogno di concentrazione e distanza riflessiva per essere vigili e reattivi; dall’altra quella sensibilità affettiva e spirituale che rende l’uomo unico e inimitabile. Sono due grandi pericoli di cui essere profondamente consapevoli e a cui rispondere con intelligenza critica e responsabilità etica.
Per queste ragioni entriamo nel mondo degli affetti con competenza e maturità, attraverso quattro sguardi che ci aiuteranno ad orientare la nostra formazione personale e l’azione educativo-pastorale: il primo contestuale, il secondo biblico, il terzo antropologico e il quarto educativo-pastorale.
Fabio Pasqualetti, esperto del mondo della comunicazione, ci guiderà dentro il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, con uno sguardo specifico al mondo dei social media che tanto plasmano la vita affettiva dei giovani oggi.
Gianluca Zurra, teologo ed ecclesiologo, ci farà gustare attraverso alcuni assaggi il modo di sentire del Signore. Il suo sguardo sulla rivelazione ci aiuterà a cogliere l’ordine degli affetti di Gesù, uomo dal sentire divino che partecipa all’amorevolezza infinita del Padre suo.
Paolo Zini, filosofo, mostrerà come la trama e l’ordito dell’umano è affettivo e affettuoso. La centralità del cuore è un dato fondamentale per cogliere il senso dell’antropologia cristiana, che non è mai divisiva ma sempre unificata intorno all’amore e al desiderio di amare e di essere amati.
Gustavo Cavagnari, teologo pastoralista, ci aiuterà a educare i nostri affetti per poter accompagnare i giovani all’arte del vero amore. Non c’è infatti autentica educazione affettiva che non nasca dalla vita buona di coloro che sono chiamati ad educare.
Un’ultima nota “tecnica”, di certo non inutile. I contributi che seguono sono in piena continuità con un importante Dossier pubblicato nel numero di marzo 2022 (SIAMO CORPO. Dall’emergenza al discernimento), dove abbiamo cercato di indagare l’originario del corpo come dono e compito. Lì si era partiti dalla corporeità nell’autocoscienza del nostro tempo e, passando dal legame tra mente e corpo, si è cercato di comprendere il significato del corpo. Arrivando infine al legame tra corpo e liturgia e al corpo come vocazione.

NOTE

[1] Cfr. L. Iotti, 8 secondi. Viaggio nell’era della distrazione, Il saggiatore, Milano 2020.
[2] Cfr. A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Il Mulino, Bologna 2008.
[3] Cfr. C.M. Scarcelli, Intimità digitali. Adolescenti, amore e sessualità ai tempi di internet, Franco Angeli, Milano 2015.
[4] V. Codeluppi, Mi metto in vetrina. Selfie, facebook, apple, Hello Kitty, Renzi e altre “vetrinizzazioni”, Mimesis, Milano – Udine 2015; Id., Il biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale dei corpi, cervelli ed emozioni, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[5] S. Capecchi – E. Ruspini (ed.), Media, corpi, sessualità. Dai corpi esibiti al cybersex, Franco Angeli, Milano 2009.
[6] M. Marzano, La fine del desiderio. Riflessioni sulla pornografia, Mondadori, Milano 2012.

 

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Attesi dal suo amore: spiritualità apostolica – la definitiva scelta vocazionale di Don Bosco per i giovani

 

Spiritualità apostolica – la definitiva scelta di Don Bosco per i giovani 

La motivazione vocazionale è dettata dall’amore per i giovani: se don Bosco non si occuperà di quei poveri fanciulli nessun altro lo farà al suo posto. Questo dice l’unicità e l’insostituibilità di una chiamata che viene da Dio. Essa ha bisogno di essere onorata in prima persona singolare e in prima persona plurale, perché ogni autentica vocazione diverrà sempre e comunque una convocazione per molti. 

Approfondimento sito MGS

Verso il Giubileo della Speranza

Dalla newsletter di Note di Pastorale Giovanile, l’editoriale di don Rossano Sala.

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I tempi sono maturi

Il 26 novembre 2023, nel messaggio per la 38a Giornata Mondiale della Gioventù papa Francesco concludeva il suo testo con queste parole: «Invito tutti voi, specialmente quanti sono coinvolti nella pastorale giovanile, a riprendere in mano il Documento Finale del 2018 e l’Esortazione apostolica Christus vivit. I tempi sono maturi per fare insieme il punto della situazione e adoperarci con speranza per la piena attuazione di quel Sinodo indimenticabile».
Tale riferimento diventerà per noi il filo rosso degli editoriali di NPG per il 2025, che si prefiggono di prendere sul serio questo invito del Santo Padre, riconoscendo che davvero adesso “i tempi sono maturi”. Perché l’interesse di non dimenticare quel felice e fecondo momento ecclesiale è più che strategico per noi che viviamo di pastorale giovanile. Anzi, sembra che dalle parole del successore di Pietro emerga il desiderio di recepire in pienezza un percorso che per tanti motivi non è stato ancora del tutto preso in carico da chi lo doveva fare. Vi è quindi la necessità di sviluppare le tante potenzialità ancora inespresse da quel Sinodo.
Vale la pena però, prima di rilanciare il metodo, lo stile e i contenuti del cammino sinodale che abbiamo vissuto con e per i giovani dall’ottobre 2016 al marzo del 2019, provare a vedere che cos’è successo alla pastorale giovanile in questi ultimi cinque anni, quelli che vanno dall’inizio del 2020 al termine del 2024, così da renderci conto perché è così importante ripartire con coraggio dall’evento sinodale dedicato ai giovani.

Un quinquennio molto turbolento

A tutti di certo sarà capitato di viaggiare in aereo ad alta quota e sentire la voce del pilota che invitava ad allacciare le cinture in quanto si stava entrando in una fase di “turbolenza”. Eravamo tranquilli, ci stavamo muovendo all’interno dell’aereo, stavamo facendo ciò che meglio pensavamo e abbiamo dovuto riprendere il nostro posto, allacciare le cinture, chiudere il tavolino e metterci in posizione di sicurezza per superare alcuni momenti di agitazione innaturale del velivolo.
Mi sembra una buona immagine per identificare il tempo immediatamente successivo alla conclusione del percorso sinodale con i giovani. Stavamo prendendo le misure e la rincorsa, cercando di comprendere che cosa il Signore avesse voluto dirci con tutto quel movimento innescato nella Chiesa intorno al mondo giovanile, e subito, a nemmeno un anno dalla pubblicazione dell’esortazione apostolica Christus vivit, è arrivata la pandemia in modo tanto inatteso quanto dirompente.
È stata a dire il vero molto più che una turbolenza, perché siamo letteralmente finiti nell’occhio di un ciclone per diversi anni. La pastorale in generale e quella dei giovani in particolare si sono fermate per molti mesi. Tutti ricordano, anche se oramai con una certa distanza e anche distacco, che cosa è successo a noi personalmente, al mondo nel suo insieme e alla vita ordinaria della Chiesa. Siamo entrati in un loop che ci ha in un certo senso risucchiati, paralizzati e frastornati. Da cui per certi aspetti non siamo usciti ancora del tutto.

Una recezione tutt’altro che semplice

Effettivamente a partire dal gennaio 2020 avevamo immaginato un movimento entusiasmante di ricezione, rilancio e potenziamento della pastorale giovanile, spinti dal vento in poppa di un cammino sinodale che aveva dato fiato alle fatiche dei primi anni del terzo millennio, ma che ci sembrava di avere superato.
Avevamo tutta la Chiesa con noi a sostenerci e accompagnarci. Un sinodo dedicato ai giovani è stato un unicum nella storia postconciliare, e non solo in quella storia. Avevamo documenti di qualità con indicazioni rilevanti e perfino profetiche: l’Instrumentum laboris, che faceva il punto della condizione giovanile e della pastorale giovanile, dandoci in mano un quadro di riferimento su scala mondiale che certamente andava poi contestualizzato in ogni territorio, ma che era una bussola assai precisa; avevamo il Documento finale, frutto dell’assemblea sinodale dell’ottobre 2018, ricco della freschezza e della passione di un momento di dialogo e confronto davvero ricco di proposte e stimolante da molti punti di vista; avevamo soprattutto la parola autorevole e propositiva di papa Francesco che aveva ripreso tutto il cammino fatto con l’esortazione apostolica postsinodale Christus vivit, rilanciandolo con originalità, audacia e profondità.
La pandemia ha bloccato praticamente questo cammino, dirottando tutte le nostre energie altrove. Prima di tutto sulla sopravvivenza, e poi nel cercare di immaginare come continuare a fare pastorale giovanile in un contesto così diverso da quello che avevamo fino ad allora vissuto. E la recezione del Sinodo sui giovani è stata messa sullo sfondo, almeno per quegli anni.

Vari tentativi di ripartenza

Il tempo post pandemico è stato vissuto portandosi dietro le ferite accumulate dal tempo della pandemia. Ferite nel corpo fisico e in quello sociale. Ferite affettive e relazionali. Ferite ecclesiali. Tutte cose che non si rimarginano presto e che lasciano il segno a lungo. Soprattutto il bagno di realtà sulla nostra fragilità ha colpito duro. Siamo vulnerabili, non siamo onnipotenti. Non dominiamo davvero il mondo. È bastato poco per metterci in ginocchio, per riscoprirci friabili e debilitati da molti punti di vista, incapaci di risollevarci. È stato un tempo di umiliazione, che purtroppo non sempre ci ha portato a ridiventare umili.
Anche la Chiesa ha preso coscienza della sua debolezza e vulnerabilità. La mancanza della celebrazione in presenza, perno dell’appartenenza e della partecipazione alla vita in Cristo, ha generato i suoi frutti amari: alcuni tentativi di scimmiottare banalmente ciò che non si poteva più vivere realmente ci hanno fatto vergognare, la lontananza dal contatto fisico ha reso il corpo ecclesiale disunito, nervoso e anche lacerato, la mancanza di una pastorale fatta di incontri in carne e ossa ha lasciato strascichi non indifferenti. Il primo è stato quello dell’ampia disaffezione della pratica liturgica seguita alla pandemia, ma il più importante è stato quello della presunta inessenzialità della Chiesa: si poteva vivere senza di essa, questo per molti è stato il punto. Si poteva vivere comunque, anche senza vivere con la Chiesa e nella Chiesa.
La ripartenza è stata dunque difficile. Non è ancora del tutto conclusa. Facciamo ancora fatica a mandare giù quello che abbiamo vissuto. Anche se alcuni segnali luminosi sono arrivati. Per esempio la Giornata Mondiale della Gioventù: al di là di molte aspettative non entusiasmanti da parte di vari attori ecclesiali e civili, è stato un momento in cui la Chiesa ha ripreso coscienza a livello universale che si può andare avanti con speranza, e che i giovani ci sono e ci stanno, che partecipano e appartengono. Che desiderano fare corpo, fare squadra, ed esserci come protagonisti del rinnovamento nella vita della Chiesa.

Siamo arrivati allo snodo del 2025

Ora, dopo questo quinquennio per lo meno “interessante” che ci ha messo alla prova e ci ha riservato molte sorprese, non ultime alcune guerre fino ad alcuni anni fa impensabili che non vedono per ora delle vie di uscita praticabili, siamo davanti al Giubileo della speranza. Si tratta di uno svincolo importante non solo rispetto agli ultimi cinque anni, ma anche rispetto ai 25 anni di inizio di questo agitato Terzo millennio dell’era cristiana.
Il Giubileo ha sempre significato, sia nella storia del popolo d’Israele che nella vita della Chiesa, un’opportunità di cambiare passo, di ripartire in modo nuovo. Un evento di grazia particolarmente abbondante che capovolge le nostre aspettative e offre nuova luce alle nostre prospettive. Un tempo di riconciliazione e di ripartenza, di rinnovato incontro con Dio e solidarietà tra gli uomini.
La stessa venuta del Signore Gesù e l’inizio della sua missione stanno non per nulla sotto il segno e nella luce del Giubileo, perché egli interpreta giustamente la sua presenza nella logica della proclamazione dell’anno di grazia del Signore:

Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore.
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Lc 4,16-21).

Il Giubileo è una rinnovata occasione per ripartire dal Signore Gesù. Quindi è una grande opportunità da tutti i punti di vista. Non ultimo per la pastorale giovanile, che è chiamata a ripartire con speranza, sapendo che il Dio dell’alleanza è ancora disponibile ad entrare in contatto con l’umanità, con tutti i popoli e in particolare con i giovani, da sempre pupilla dei suoi occhi.
Ma di questo, ovvero dell’immensa grazia giubilare, ce ne occuperemo per tutto il 2025. Quindi andiamo avanti con coraggio, cercando di far tesoro di ciò che abbiamo vissuto negli anni scorsi e proiettandoci con speranza e gioia verso gli anni a venire. La Porta Santa, segno di Cristo che ci invita ad entrare in comunione con il Padre, ci aspetta per essere attraversata con fede da noi e da tutti i giovani con cui ci faremo pellegrini in questo anno di grazia.

I doni di una pastorale giovanile in tempo di guerra

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Maksym Ryabukha, SDB  – Esarca Arcivescovile di Donetsk (Ucraina).

Nei giorni scorsi ho avuto la inattesa ma piacevole sorpresa dell’invito da parte della direzione di NPG a un contributo per una nuova rubrica: PG dalle periferie. Hanno pensato che l’esperienza che sto e stiamo vivendo (e la comunità ecclesiale, e i giovani con me) possa risultare significativa e forse interrogante per giovani ed educatori che vivono in parti del mondo “più fortunate”. Capisco anche che essi considerino il territorio della mia chiesa “periferia”, sia perché ai margini orientali dell’Europa (dove il Centro è ovviamente ben contraddistinto, anche con pastorali elaborate) che in zona invasa o “occupata” o a rischio di invasione e totale occupazione: quale zona dunque più periferica di questa?
Devo comunque dire, tra parentesi per non disturbare troppo, che noi ci sentiamo al “centro”. Perché dove siamo è sempre centro, dove ci stanno i giovani e adulti che si occupano di loro è sempre centro, dove abita Dio (anche se si dice che preferisce le periferie) è sempre centro. Questo che anticipo è quanto ci dà forza e speranza. Allora ecco una voce da una periferia-centro, a un “centro” che si apre alla periferia.
Accetto anche molto volentieri questo invito perché viene dal mondo istituzionale e “carismatico” di cui faccio parte, quello Salesiano, e dalla rivista “Note di pastorale giovanile” che conosco e stimo, dai tempi della mia formazione in Italia, e che ha accompagnato molti dei miei passi pastorali. Restituisco dunque qualcosa di quanto ho ricevuto.
Vorrei articolare la mia risposta alla domanda “Come si fa pastorale giovanile nella periferia e cosa può dire alla PG italiana?” come una “restituzione” di doni. Finora abbiamo ricevuto tanto dalle comunità ecclesiali italiane (e non solo) e dai giovani: non solo la formazione carismatica salesiana che ci ha aperto un vasto campo di servizio in Ucraina, ma negli ultimi anni di guerra in termini di aiuti materiali ed economici (medicine, cibi, tende, suppellettili, l’accoglienza di tanti profughi…), e spirituali con la vicinanza e la preghiera. Ecco, vorrei in qualche modo “restituire” col dono della nostra esperienza, che per noi sta diventando il tesoro che ci resta in un tempo di macerie e di rovina, che è come quel tesoro evangelico che non viene consumato da ruggine e da tarli.
Quali sono allora i doni di esperienza che possiamo offrire ai nostri amici italiani (e forse a vari amici di altri paesi), i nostri tesori?

1. Il dono di un Dio che c’è

Dio c’è, c’è sempre, in qualunque tempo e circostanza. Lui diventa la nostra forza di resistenza anche nei momenti più drammatici se riusciamo ad accorgerci della sua presenza. E qui voglio prendere in prestito le parole (bellissime parole) di un’amica dei giovani, una giovane lei stessa, che ha vissuto in maniera ancora più drammatica una situazione simile alla nostra: Etty Hillesum.
Così lei scrive nel suo Diario il 12 luglio 1942, in una “preghiera del mattino”, ancora nel cuore della guerra mondiale, e nell’oscurità del campo di concentramento di Westerbork, prima dell’ultima tappa della morte ad Auschwitz:

“Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirTi dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che Tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la Tua responsabilità, più tardi sarai Tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te, difendere fino all’ultimo la Tua casa in noi.”

È questa l’esperienza che purtroppo stiamo vivendo, di un Dio sepolto tra le macerie e le devastazioni assieme a coloro che sono sepolti e devastati. È questa dunque l’esperienza di tanta gente, tanti cristiani, tanti ragazzi e giovani. Ma Dio resiste nei cuori, non permettiamo che venga sepolto, perché altrimenti tutto sarebbe veramente finito.
Dio c’è in tutto questo. Non perché l’abbia voluto ma perché ci dà la forza per continuare a tenerlo vivo, la forza per resistere, sperare e nel frattempo vivere la nostra vita cristiana.
C’è appunto nonostante tutto. C’è nei segni delle preghiere che sono diventate molto più significative per noi, c’è nella sua Parola che viene annunciata (magari con i suoni delle sirene di allarme o il fragore dei missili che cadono o delle difese aeree che tentano di impedirlo) con maggior senso, nel gesto di carità di un aiuto a chi ha bisogno, di una parola di conforto, una carezza a un bambino o un anziano… e in tanti altri modi. Non abbiamo bisogno di tante parole di apologetica. Dio si “impone” alla fede e alla vita perché altrimenti saremmo disperati.
Nelle parole di Bonhoeffer, Dio resta quella fontana zampillante del villaggio che permette di dissetarsi e di sentirsi comunità; e lo è sia nella vita gioiosa che in quella pericolante. Me ne accorgo ogni qual volta celebro la Messa o mi intrattengo tra la gente nelle parrocchie e negli oratori. “Al bombardamento tutto esplodeva intorno a me. Ed io – solo una scheggia sotto il naso. Dio c’è”. Quante storie di questo genere assicurano che non siamo lasciati da soli. Egli c’è.
Ecco, questo è il primo “dono” che mi sento di fare, dal pozzo della nostra fontana di villaggio. Dio c’è; in modo misterioso ma reale e sempre interrogante e consolante è presente. Nessuna situazione drammatica potrà convincerci che ci abbia abbandonato o abbia smesso di amarci.

2. Il dono di una quotidianità infranta e di un popolo in sofferenza

La nostra vita quotidiana, dall’oggi al domani, si è infranta al suono delle cannonate e i sibili dei missili. Intendo la quotidianità nella sua normalità di alzarsi col cielo rosso dell’alba o grigio della pioggia, il caldo della colazione profumata, il bacio prima di uscire per il lavoro o la scuola, il rientro serale, il pasto in comune, la notte sicura nel proprio letto e nella propria cameretta… e sogni come tutti i sogni di persone normali.
Da quell’oggi tutti i nostri domani sono cambiati, e l’oggi è diventato un incubo, una tensione costante, una totale insicurezza. Sono rimasti i pezzi, i frammenti della nostra vita usuale, come se si fosse disfatto un puzzle completato. Ma ci siamo resi conto che la guerra non può mettere “in pausa” la vita. Adesso ci tocca ricostruire il quotidiano, ritrovare un filo di senso. Il quotidiano è l’unico luogo dove può avvenire la non perdita del senso e la ricostruzione della speranza, la crescita nell’oggi, la promessa di un futuro. Non possiamo aspettare la fine, quando essa possa venire per la grazia di Dio (e l’impegno degli uomini). Nel quotidiano dobbiamo non sopravvivere ma vivere, e trovare ragioni e modi per dare senso e gusto alle cose. Il quotidiano è non far finta che non stia succedendo niente, ma vivere ogni momento con l’opportunità che ci offre: i rapporti familiari e di amicizia, gli incontri di comunità domenicali e in settimana, il gioco dei bambini, la scuola e lo studio, le azioni di carità. Certo, con gli occhi, le orecchie e le gambe ben pronte per affrontare il pericolo. In questo quotidiano di spazio (rare volte non di macerie) anche il tempo è prezioso, ogni momento è prezioso, ogni attimo è avvertito come dono di Dio, perché il prossimo attimo potrebbe non esserci.
Può essere questo un dono a voi, riscoprire e rivalutare il quotidiano nella sua bellezza e gratuità e meravigliosità? Come la natura a volte ci sa restituire (le piante, gli animali, l’acqua) con la sua resilienza?
Ma non intendo fare poesia a buon mercato. In questa faticosa quotidianità da ricostruire, da ritrovare, siamo un popolo che soffre. Possiamo offrire come dono anche questo? Si può offrire in dono la propria sofferenza? Penso di sì, come esperienza di condivisione umana e anche come esperienza di corpo mistico. La passione e morte di Cristo ha portato la conversione del cuore umano. Credo che il dolore disumano e ingiusto vissuto in questo tempo drammatico potrà convertire il cuore umano e ricostruirlo nella pace.
Penso che la ricostruzione dell’Ucraina partirà da questo impegno della pastorale giovanile: ridare luce alle coscienze, e forse ci aiuterà il vangelo della Beatitudini, quelle che invocano la pace e promettono il dono di Dio a chi ha sofferto per le ingiustizie.
Ho parlato della quotidianità come spazio e tempo (qui-ora) della concretezza della vita. Ma essa non è un contenitore vuoto. Questa quotidianità è abitata, da persone, da cose, da legami, anche da memorie. Essa presenta e pretende un nuovo modo di essere, dove la persona, il giovane riscoprono l’importanza dell’esserci, della relazione, dell’essenziale e del poco. Ho visto riscoprire questi valori (volevo dire la “spiritualità” di questi valori) che probabilmente altrove contano o valgono poco, ma qui sono la distanza tra vita e morte, tra pieno e vuoto, tra senso e insignificanza, tra luce e tenebre. Se dovessi lasciare solo un messaggio, lascerei questo, appunto perché è essenziale e vitale, ed è una cosa che nella sofferenza abbiamo riscoperto con maggior intensità, e la affidiamo anche come tesoro nostro a tutti gli amici.

Ceuta: mondi che si incontrano

Dalla rubrica Voci dalle periferie – Per una PG segnata dagli ultimi.

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di Renato Zilio

Come una lingua di terra immersa nell’acqua, la città autonoma spagnola si allunga a partire dell’Africa del Nord e con i suoi 80mila abitanti respira l’Europa: Ceuta.
Le sue “calle” sono gremite di negozi, di bar e di turisti, le sue chiese di ori e statue di santi, come nella madrepatria. Così, le poderose mura, più che difendere, servono ora a proteggere i suoi ricordi e i suoi secoli di storia. Iniziata già con i portoghesi nel lontano 1415, poi passata agli spagnoli, che ancora oggi la vivono come un pezzo di patria, incastonata nel Continente africano (insieme a Melilla).
Autori come Platone, Pomponio, Strabone… sfilano in centro città con il loro busto di marmo: già dall’antichità essi scrivono di lei come “l’invalicabile”, una delle due celebri colonne d’Ercole.
Il suo segreto, però, sta scritto in latino sulla piazza centrale, di fronte alla cattedrale: “Plus ultra”. Andare al di là. Fu questa la chiave del successo nel “secolo delle scoperte”: affrontare il mare e l’ignoto, senza paura. Al di là della fine del mondo allora conosciuto, precisamente Ceuta.
Paradossalmente, il suo senso oggi lo vivono centinaia di giovani migranti. In modo inverso. Spinti ad ogni costo ad andare “al di là” della loro terra africana, dove manca ogni prospettiva. Per entrare, così, in questo pezzo d’Europa ritagliato in terra d’Africa.
«Una vera mattìa!» mi fa don Nicola di Foggia, a Tangeri. Sì, i giovani subsahariani hanno tutti la stessa follia: superare la barrière“.
Nascosti nelle boscaglie alle spalle della città, per giorni senza cibo, o con acqua e pane secco si preparano ad assaltare la barriera di filo spinato alta sette metri. Si nastrano con lo scotch degli uncini di ferro alle mani. Invocano mille volte Allah, in soccorso. E si spezzano le ossa nell’impresa. Il resto lo faranno le due polizie spagnola e marocchina.
Alle parrocchie di Oujda, di Rabat e di Casablanca li ritrovate poi per mesi feriti a decine. Sempre pronti però a riprendere la loro avventura, come in una palestra maledetta. «Sii come il mare che, infrangendosi contro gli scogli, trova sempre la forza di riprovarci»: come un mantra – si direbbe – le parole di Jim Morrison risuonano nella loro testa. L’Europa è il loro sogno.
«È necessario continuare a sognare – scrive Coelho –, altrimenti la nostra anima muore». Anche se oggi, veramente, qualcuno si interroga: «Le merci e le comunicazioni circolano facilmente, perché gli uomini no?».
A Ceuta, il Centro sant’Antonio, come altre strutture, accoglie una quindicina di adolescenti marocchini, entrati via mare. Su delle lavagne i loro nomi, gli orari, i piccoli servizi richiesti. Una regola di casa: imparare l’autonomia.
In un armadio, poi, un paio di pinne sono rinchiuse come una reliquia. Con queste ai piedi si presentava, infatti, un mattino Mohamed, marocchino ventenne, giorni fa. Nell’oscurità della notte aveva attraversato il mare incontrando al largo un adolescente in pericolo, a cui dava un piccolo salvagente, poi un secondo che stava annegando e poi ancora un terzo con una torcia accesa per chiamare aiuto, agganciandoli tutti all’unico salvagente. Raggiungeva da solo, poi, veloce, la riva, allertando i soccorsi…
Ancora commosso il racconto di Giulia, una delle volontarie italiane. La notte, infatti, o i giorni di nebbia e di mare mosso, cioè di pericolo, sono momenti buoni per i giovani marocchini di lanciarsi in mare. Con un tragico esito, molto sovente.
Esprimo, in fondo, la mia ammirazione per questi animatori del Centro nella loro attività su due mondi, in un terreno interculturale, tra due culture. «No, mi ribatte una di loro, quattro!». Ceuta, infatti, città di mare, eredita straordinariamente dalla sua storia una popolazione mista: spagnola, marocchina, ebrea e indù.
E poi, Lucie a spiegarmi come a Natale nella piazza del centro appare una grande scritta luminosa: “Felice Natale!”. Ma, durante il mese musulmano, diventa: “Felice Ramadan!”. E così pure per le feste delle altre due culture si illumina diversamente.
Quale è, per davvero, la regola d’oro? «Il rispetto dell’altro!», pronta la loro risposta.
Così, in un contesto di impietosa e dura chiusura europea, quasi una vera fortezza con telecamere, cani e filo spinato, che blocca qui la meglio gioventù africana, almeno nel cuore della città, una lezione di umanità. In fondo, sarà sempre la storia ad insegnare. Magistra vitae.

Il problema degli altri è uguale al mio

Per una “buona” politica” è una rubrica di Note di Pastorale Giovanile, a cura del Gruppo “Strade e pensieri per il domani” (giovani di Como, Milano, Valtellina)

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di Michele Pitino (Responsabile pastorale vocazionale e universitaria della diocesi di Como. Coautore del libro È ancora possibile una buona politica? (Paoline, 2023)

«Dimmi e dimenticherò, insegnami e forse ricorderò, coinvolgimi e imparerò» (Benjamin Franklin). È iniziato tutto così e forse per questo ha funzionato bene. Non era un tempo che prometteva bene: primavera 2020. Eravamo chiusi in casa per il lockdown, vivevamo nella paura di ciò che accadeva e si soffriva il peso della solitudine. Allo stesso tempo, si avvertiva il bisogno dell’incontro, la spinta ad un impegno di maggiore solidarietà, il sogno (o l’illusione?) di un possibile futuro più buono. “Saremo migliori”, dicevamo.
Tutto è iniziato con un invito. La proposta di incontrarci in videochiamata per qualche chiacchierata su ciò che stava accadendo e per discutere insieme le questioni sociali e politiche che si rivelavano urgenti in quel nuovo contesto. Non tutti si conoscevano già. Io ho solo preso l’iniziativa, ma poi tutto è andato avanti da solo con la forza dell’amicizia, radice e insieme frutto più bello di questo percorso condiviso. Definirlo “corso di formazione socio-politica” è forse troppo per come è iniziato. Più semplicemente, desideravo far incontrare tra loro alcuni giovani che avevo conosciuto negli anni: universitari, ricercatori o da poco avviati ad una prima esperienza di lavoro. Conoscevo la loro passione ed entusiasmo, i diversi campi di impegno e competenza e, soprattutto, la condivisione di valori intorno ai quali poterci ritrovare (la pace e la cura dell’ambiente, la giustizia sociale e la sostenibilità, la difesa della dignità della vita di ogni persona, specialmente se fragile ed esclusa, il sogno europeo…). Il gruppo, pur destinato ad allargarsi, nasceva volutamente ristretto (inizialmente otto) per mantenere un numero adatto al confronto e al dialogo. L’invito aveva la forma dell’impegno: non solo: “Vieni per ascoltare, perché hai qualcosa da imparare”, ma anche: “Vieni, perché hai qualcosa da dire, vogliamo ascoltare la tua passione, la tua competenza, i tuoi studi”. Un percorso di formazione che ha dato vita a una bellissima esperienza educativa.
Da quella primavera abbiamo iniziato ad incontrarci con ritmo settimanale. Due persone alla volta proponevano un tema, a seguire si dialogava e insieme si arrivava a delle buone sintesi. Nessun argomento era tabù, ciascuno proponeva varie tematiche legate alla politica e al bene comune, e così abbiamo parlato di diritto alla salute e di scuola, di educazione e di città più verdi e sostenibili, di urbanistica e di informazione, di divario di genere, di immigrazione e interculturalità… Ci hanno accompagnato, come utili tracce, l’agenda ONU 2030 e la Costituzione Italiana. Gli incontri sono proseguiti online per due mesi, poi finalmente è stato possibile incontrarsi di persona. Tra un incontro e l’altro l’amicizia cresceva e si allargava. Nell’estate 2020 abbiamo anche avviato la tradizione di organizzare campi formativi in montagna aperti a tutti.
Pur con l’allargarsi dei partecipanti e l’evolversi dell’esperienza, una cosa è sempre stata chiara: il focus del gruppo doveva essere la formazione alla “politica”, come parola buona che esprime un servizio al bene comune. Tutti i giovani del gruppo sono impegnati in diversi campi di impegno e volontariato, la prospettiva politica li ha uniti in una visione più ampia. Avvertendone l’assenza, ci siamo esercitarci a maturare quel “pensiero politico” che prova a tenere insieme temi e obiettivi, sogni e visioni, considerando sempre la complessità degli elementi in gioco. Qualcosa di controcorrente rispetto alle semplificazioni riduttive dei populismi che impediscono il dialogo e trasformano tutto in slogan inutili che riempiono di applausi, ma svuotano le teste. Siamo anche consapevoli che il pensiero politico deve tendere all’azione politica che coinvolge tutti senza esclusioni, pur nella pluralità di forme con cui questa si può esprimere. Il contrario – il disimpegno – ci sembra essere il nemico più insidioso. Ci guidano le parole di un grande maestro, don Milani, che scriveva: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne da soli è avarizia, sortirne insieme è la politica” (Lettera a una professoressa). Più volte ci siamo chiesti: “Chi siamo?”. Ci ha aiutato papa Francesco che provocatoriamente si rivolge ai giovani, dicendo: «Tante volte, nella vita, perdiamo tempo a domandarci: “Ma chi sono io?”. Tu puoi domandarti chi sei tu e fare tutta una vita cercando chi sei tu. Ma domandati: “Per chi sono io?”» (Christus Vivit, 286). Questa conversione non riguarda solo le singole persone, ma anche i gruppi e ancor di più chi si dedica all’impegno politico. Scrive ancora papa Francesco in Laudato si’: “Occorre prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare” (n. 19).
Da questa rinnovata consapevolezza, è nato il desiderio di mettere per iscritto quanto emerso e così abbiamo iniziato una nuova avventura. Riprendendo le varie tematiche affrontate, ci siamo accorti che, più che i singoli contenuti, erano importanti alcuni “fili rossi” che sempre ritornavano. Si tratta di alcuni stili e obiettivi che crediamo necessari, affinché il pensiero e l’azione politica possano essere liberati da molte attuali storture. Inizialmente scrivevamo per noi stessi, per aiutarci a riordinare i pensieri, e non avremmo immaginato che questo lavoro potesse diventare un libro. Interessante è stato anche il metodo di scrittura che ci ha visti dividerci in gruppetti, poi rimescolati per ulteriori e costanti revisioni. Così facendo il tempo si è allungato, ma il risultato è un’opera collettiva per cui tutti possiamo sentirci autori dell’intero libro, senza suddivisioni tra i diversi capitoli. Il libro, dal titolo È ancora possibile una buona politica? Stili e obiettivi (Paoline 2023), crediamo possa essere un valido strumento per continuare a creare occasioni di formazione per noi e per altri gruppi e persone. In particolare, è pensato per supportare il lavoro di educatori e insegnanti. Pur con un contenuto denso e impegnativo, è volutamente scritto con un linguaggio semplice e chiaro, accessibile a tutti. Il volume si arricchisce di diversi elementi, tra cui molte citazioni, una sintesi dell’agenda ONU 2030 e una postfazione del cardinal Oscar Cantoni, vescovo di Como, che ci ha sempre sostenuti e incoraggiati. Oggi desideriamo diffondere il messaggio contenuto nel libro, poiché crediamo che la politica – “sortire insieme” – possa davvero essere una forma di servizio attraverso cui realizzare valori che contribuiscono a far crescere le persone e le comunità. Crediamo che educare sia soprattutto questo: aiutarci, insieme, ad essere migliori.

 

 

Seminario “Il primo annuncio e il dialogo interreligioso” della Regione Mediterranea a Madrid

Dall’11 al 13 ottobre, nella Casa Don Bosco di Madrid si è svolto il seminario “Il primo annuncio e il dialogo interreligioso” della Regione Mediterranea. Ecco li racconto di don Elio Cesari, presidente del Centro Nazionale delle Opere Salesiane.

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Un gruppo di salesiani e laici delle undici ispettorie della Regione Mediterranea si è riunito a nella nuova Casa don Bosco di Madrid dall’11 al 13 ottobre 2024 per riflettere e condividere alcune esperienze pastorali su “Il primo annuncio e il dialogo interreligioso”, seguendo il piano elaborato dalla Conferenza degli Ispettori della Regione al termine del CG28.

Nei giorni del seminario hanno predominato in noi due atteggiamenti.

  1. In primo luogo, volevamo ascoltare e contemplare la realtà con una prospettiva di fede. Il Concilio Vaticano II ha affermato che Dio è nascosto nei segni dei tempi e che per conoscere e interpretare i segni dei tempi abbiamo bisogno del dono dello Spirito e di assumere Gesù Cristo come criterio di discernimento.
  2. Il secondo atteggiamento è stato quello di cercare la forza teologica e pastorale della parola “dialogo”: “la Chiesa deve entrare in dialogo con il mondo in cui vive. La Chiesa diventa parola; la Chiesa diventa messaggio; la Chiesa diventa dialogo” (ES 34).

La finalità di questa nostra riflessione seminariale era di aiutare ed orientare le nostre Ispettorie nell’elaborazione dei PEPSI affinchè esse siano all’altezza delle sfide che il mondo di oggi ci presenta.

Siamo partiti con il primo passo, grazie alla relazione di Don Jesús Rojano, approfondendo il contesto socio-culturale odierno secolarizzato e pluralista pone alcune sfide per l’azione pastorale salesiana.

All’interno del seminario i giovani sono stati riconosciuti come produttori di cultura. Essi non sono solo ricettori di una situazione sociale, ma ne sono anche fautori e questo rappresenta una sfida per il carisma salesiano, il quale pone un forte accento sul protagonismo giovanile.

La posizione contemporanea dei giovani nei confronti della religione non assume (più) i caratteri di opposizione e di rifiuto tipici dei decenni passati, semmai i giovani appaiono piuttosto dubbiosi e scettici. Inoltre i confini tra credenti e non credenti si sono fatti più labili, soprattutto tra i giovani. Questo può rappresentare sia una preoccupazione sia un’opportunità pastorale.

L’Evangelii Nuntiandi di Paolo VI ha segnato il cammino post-conciliare della Chiesa circa la comprensione dell’evangelizzazione, Giovanni Paolo II ha rilanciato la tematica aprendo la riflessione circa la Nuova Evangelizzazione e Benedetto XVI ha colto il testimone istituendo e promuovendo il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Papa Francesco sceglie di connotare l’inizio del Suo Pontificato offrendo una riflessione sul tema dell’Evangelizzazione. Essa viene presentata nei suoi riflessi ecclesiali, nei suoi risvolti sociali e nelle sue esigenze spirituali e morali.

A livello salesiano, l’ultimo Capitolo Generale ha offerto alcune riflessioni circa il tema del nostro seminario:

Di fronte alla crisi globale dell’autorità, della tradizione e della trasmissione siamo sfidati sugli stili, sui contenuti e sulle modalità di annunciare Gesù Cristo, in quanto ci sentiamo tutti chiamati ad essere “missionari dei giovani”. Convinti della necessità di arrivare al loro cuore, sentiamo l’urgenza di proporre con più convinzione il primo annuncio, perché «non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio» (Christus vivit, n. 214)

Il secondo passo è stato offerto grazie a don Gustavo Cavagnari, che ha approfondito la missione evangelizzatrice della Chiesa come il compito principale e l’identità più profonda della Chiesa stessa. L’evangelizzazione, per dirla con le parole di San Paolo VI, “è un processo ricco, complesso e dinamico” e consiste nel realizzare con parole e opere la trasmissione del Vangelo, favorire l’incontro e la conoscenza con la Persona stessa di Cristo. L’evangelizzazione è un processo composto e articolato. Essa si realizza innanzitutto attraverso la testimonianza: non può esistere una evangelizzazione che non passi attraverso la testimonianza di vita cristiana dei fedeli, tutto nasce da un incontro, da una condivisione di vita.

La testimonianza però da sola risulta insufficiente: è necessario un annuncio esplicito della persona di Gesù, affinché possa essere svelato il mistero che abita la testimonianza di vita dei cristiani. Senza l’annuncio la testimonianza rischia di rimanere indecifrabile agli occhi e al cuore degli uomini del nostro tempo. Senza la testimonianza l’annuncio risulta vuoto e sterile. In questi giorni abbiamo imparato a riconoscere la testimonianza e l’annuncio come i due polmoni di un unico respiro.

Nel Seminario abbiamo anche riflettuto su alcune concretizzazioni pastorali legate all’accompagnamento, facendo un terzo passo grazie al contributo di don Koldo Gutierrez:

  1. Il Vangelo non è per alcuni, ma per tutti. Partiamo dalla consapevolezza che il Vangelo è per tutti, senza esclusione, perché il Signore ci manda a tutti. È quanto ha detto Papa Francesco ai giovani: “Non abbiate paura di andare a portare Cristo in qualsiasi ambiente, anche nelle periferie esistenziali, anche a coloro che sembrano i più lontani, i più indifferenti. Il Signore cerca tutti, vuole che tutti sentano il calore della sua misericordia e del suo amore” (ChV 177).
  2. La proposta pastorale non è tanto ciò che facciamo quanto un’espressione di ciò che siamo. La proposta pastorale, prima di essere intesa come azione, deve essere considerata come espressione di ciò che siamo. In questo senso, la prima cosa da affermare è che la nostra pastorale richiede di riconoscere che siamo comunità cristiane che hanno qualcosa da proporre ai giovani, anche a quelli che professano altre fedi o non ne professano affatto, e questa proposta pastorale si sostanzia nel Vangelo. Questo apre un interessante campo d’azione volto alla cura e alla formazione sia dei giovani che degli stessi operatori pastorali.
  3. Proporre una pastorale che tocchi il cuore del giovane e dell’evangelizzatore. Ciò significa riconoscere l’importanza della conversione: personale, intellettuale e religiosa. A tal fine, cerchiamo vie pedagogiche per suscitare e risvegliare il desiderio di fede, per avviare e accompagnare all’esperienza di Dio. I primi passi di questo processo mirano a risvegliare il desiderio di Dio, a rendere le persone consapevoli della propria interiorità, ad aiutarle a connettersi con le domande di senso, a riconoscere di essere abitate da una Presenza.
  4. Credere con il cuore e vivere con gioia. Nel testo della conversione dell’etiope negli Atti degli Apostoli, vediamo come la fede tocchi il suo cuore e poi si metta in cammino con gioia. L’eunuco, immagine di un uomo debole, crede di cuore. Qualcosa ha toccato il suo cuore e ha raggiunto le profondità della sua vita: Gesù stesso. La gioia è il frutto della fede.
  5. Dialogo e apprendimento. Annunciare il Vangelo ai giovani significa dialogare con loro, ma anche imparare da loro. Parlare ai giovani è possibile solo se prima li ascoltiamo. Dobbiamo prendere sul serio ciò che il Sinodo dice sui giovani quando afferma che i giovani sono un luogo teologico: “Il Sinodo ha cercato di guardare ai giovani con l’atteggiamento di Gesù, per discernere nella loro vita i segni dell’azione dello Spirito. Crediamo infatti che anche oggi Dio parli alla Chiesa e al mondo attraverso i giovani, la loro creatività e il loro impegno, così come le loro sofferenze e le loro richieste di aiuto” (FD 64).
  6. Una pastorale di crescita. Crescere significa andare avanti, andare oltre. Come accompagnatori, piantiamo semi di pienezza. I semi di pienezza aprono orizzonti ampi e ci fanno guardare oltre noi stessi. Molte delle nostre proposte pastorali si collocano in questa pastorale della crescita. In particolare, dobbiamo sottolineare l’importanza degli itinerari formativi, e soprattutto dell’itinerario di educazione alla fede, sapendo che la fede non è una conquista ma un dono che dobbiamo accogliere.
  7. Una pastorale della ricerca. Questa preoccupazione per la pastorale della ricerca è urgente, soprattutto in quei contesti dove le tracce religiose hanno perso forza e vigore, o nel contesto di minoranza religiosa. Saper comunicare con i cercatori significa aprire ponti di relazione; significa intendere il dialogo non solo come comunicazione di idee ma soprattutto di doni; significa curare i semi della Parola. In questi semi la Parola è già presente, anche se in forma incipiente, e la direzione verso cui puntano è la Parola.

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Fés. Una buona novella

La nuova rubrica online su NPG, “Voci dalle periferie” racconta cosa significa fare pastorale giovanile in territori della periferia, dove i soggetti vivono altre esperienze: “Vogliamo non certo mettere a confronto i diversi modi di pensare e fare pastorale giovanile, ma almeno vedere come ci vedono gli altri; magari ci può aiutare a calibrare, a rovesciare gerarchie di attenzioni, e forse ad aprire gli occhi sul mondo. In questo ci aiuteranno alcuni amici che vivono “altrove”, in zone particolarmente difficili perché segnate da povertà o guerra. Insomma, per una pastorale giovanile più missionaria, essenziale, evangelica. Con riflessioni, lettere, storie, racconti di iniziative”. 

Fés. Una buona novella

Testimonianza di don Matteo Revelli, Parroco di Fès *

Le attività dell’anno pastorale sono iniziate, tanti studenti africani che l’anno scorso erano qui e formavano il nerbo della comunità, dedicandosi con tutto il cuore al servizio della nostra chiesa, sono partiti. Altri studenti sono arrivati – da circa 25 Paesi africani diversi – per iniziare i loro studi universitari a Fes. Così, ogni tre anni la nostra comunità cristiana cambia volto, persone, storie… Alcuni studenti scherzando dicono che il nostro lavoro pastorale assomiglia a una catena di montaggio: non bisogna perdere il ritmo, altrimenti tutto si inceppa… Mi trovo qui a Fes da 24 anni, appassionato del lavoro apostolico di qui, così le nostre attività mi paiono quasi ovvie e scontate…
Per « rinnovare il mio sguardo », ho pensato di affidarmi allo sguardo nuovo di italiani, che in questi giorni sono venuti in Marocco per servizio o turismo: uno sguardo attento a questa Chiesa, che vive semplice e discreta, ma si percepisce viva e dinamica…
Un gruppo di pellegrini di Montegrotto Terme, accompagnato da Don Roberto, mi scrive: « Il nostro viaggio è stato un vero e proprio pellegrinaggio. Davvero viaggiare apre occhi e cuore e mette in crisi pregiudizi così tanto radicati nella mente e nella società. Siamo stati affascinati da questa Chiesa del dialogo, della sua prossimità come il buon Samaritano, mettendo in pratica il Vangelo senza porre etichette. Ci siamo scoperti cristiani autosufficienti e autoreferenziali tanto da perdere il senso della Missione e del Regno di Dio, che non è fatto di numeri o di organizzazione. »
Anche un piccolo gruppo della Comunità « Papa Giovanni » è venuto a svolgere un’attività di animazione in un villaggio berbero di montagna. Li ho accolti per una notte. Mariaserena, la portavoce, mi scrive « Provenienti da diversi Paesi del Mediterraneo, siamo partiti per una settimana di incontri, condivisione, fraternità nel cuore del Marocco.
In un piccolo villaggio tra le montagne dell’Atlante, tanti bambini e ragazzi aspettavano gioiosi la settimana della “colonie” per spezzare la routine del loro mondo. Dopo una settimana condivisa con le famiglie del villaggio berbero, sei parole ci risuonano: accoglienza, amicizia, gioia, semplicità, stupore e amore. Cioè è bello sperimentare il sentirsi accolti ancora prima di conoscersi, e la cura che queste persone hanno avuto per noi. Abbiamo sperimentato come l’amicizia sia un dono di Dio e come questa permetta di andare avanti. I bambini ci insegnavano a donare sorrisi e ad accogliere col cuore: questo genera gioia.
Gli uomini e le donne del villaggio vivono, poi, una vita molto semplice, fatta di cura della famiglia, della terra, degli animali, di preghiera e di vita comunitaria. I bambini vi crescono con una sensibilità al prossimo molto maggiore che in città. In fondo, non si può non rimanere sbalorditi dalle tante bellezze e novità che in ogni persona e in ogni cosa si possono trovare. Abbiamo sperimentato, insomma, il miracolo della fraternità: l’accogliere e il farsi accogliere.”
“La conoscenza di alcuni responsabili della catechesi e della Caritas della parrocchia di Fès – mi scrivono, invece, Luca e Claudio Margaria, due fratelli sacerdoti del Cuneese – hanno fatto apprezzare da un lato la capillarità della conoscenza delle persone e delle situazioni che vivono e, dall’altra, la mole di lavoro e di relazioni che, pur nel silenzio e nel nascondimento, vengono portate avanti alle volte con finanze inadeguate. Ci portiamo in cuore la testimonianza di una presenza cristiana che offre uno stimolo di profondità e di umiltà, nell’essere segni di Vangelo, soprattutto per chi è più fragile ».
Alla fine, tutti questi sguardi nuovi sulla nostra presenza cristiana, mi spingono a rinnovare il mio per portare avanti un’azione pastorale impegnata, efficace, ma leggera, senza il peso di grandi strutture. Una vera, buona Novella.

* Testimonianza raccolta da Renato Zilio, missionario in Marocco