Dal sito di Vatican News.
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I “meninos de rua” solcano con i loro piccoli piedi non solo le strade di Rio e di tutto il Brasile, da dove viene il loro nome più conosciuto, ma quelle spesso pericolose e quasi sempre indifferenti di tutto il mondo. Street children, chicos de la calle, mosquitos, bambini di strada: secondo l’Onu, che nel 1989 ha approvato la Convenzione sui diritti dell’Infanzia, e nel 2017 il Commento generale sui bambini di strada, sono quasi 150 milioni, nel mondo, i minori “per i quali la strada rappresenta la casa e/o la principale fonte di sostentamento e che non sono adeguatamente protetti o sorvegliati”. La definizione è dell’Unicef, il Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia, ma la Giornata mondiale dei bambini di strada, che si celebra oggi 12 aprile, è stata istituita nel 2011 dal Consorzio per i bambini di strada (Csc), rete globale che riunisce oltre cento ong che lavorano in 135 Paesi per offrire un futuro ai bambini di strada e far sentire le loro voci.
L’Onu chiede ai governi di dar loro i diritti di tutti i minori
I bambini di strada sono privati dei loro diritti fondamentali, primi fra i quali quello alla protezione, all’accesso ai servizi essenziali di assistenza sociale e sanitaria, all’istruzione, alle cure della famiglia. E in Etiopia come nel Congo, in India e in Myanmar, a Timor Est e nelle Filippine, in Equador e in Brasile, ma anche in Europa, continuano a crescere, anche a causa della pandemia e dell’impoverimento delle famiglie. Questo nonostante l’Onu, nel suo Commento generale del 2017, abbia fornito ai governi linee guida autorevoli per assicurare che i bambini di strada abbiano l’accesso agli stessi diritti di cui godono tutti gli altri minori. Ma è difficile anche fare stime sul loro numero reale, poiché questi bambini sembrano quasi non esistere, sfuggono alle statistiche e ai censimenti e sono esclusi dalle politiche statali. Finiscono per avere la strada come casa per povertà, instabilità familiare, violenza ed abusi, guerre o cataclismi naturali, e naturalmente migrazione solitaria per tutte queste cause.
Rwanda: i bambini di strada di Rango e la scuola Don Bosco
A Rango, nel sud del Rwanda, distretto di Huye, nella parrocchia San Giovanni Bosco, creata nel 1996 dai missionari salesiani, è arrivato a chiedere un pezzo di pane Kande (nome di fantasia, n.d.r), che racconta di essere finito in strada “quando avevo 10 anni. Ora ne ho 16. La vita era dura. A volte la polizia veniva ad arrestarci e ci portava al centro di riabilitazione di Mbazi e stavamo lì per circa cinque mesi, e tu tornavi e lottavi per trovare anche solo dove dormire e alla fine dovevamo dormire sotto i ponti”. Accanto a lui mangia la sua minestra offerta dal parroco don Remy e dai suoi volontari, Dakarai, andato a mendicare in strada dopo che la madre ha ucciso il padre in una lite familiare ed è finita in carcere. “Ho continuato a vivere in strada per circa 13 anni – racconta – finora ho avuto la possibilità di studiare meccanica grazie ai salesiani di Don Bosco “.
Un centro di formazione dal 1996, 2 anni dopo il genocidio
Accanto alla parrocchia è attivo infatti, sempre dal 1996, due anni dopo il terribile genocidio di 800 mila tutsi e hutu moderati, il Centro di Formazione Professionale “Don Bosco” di Rango, che nell’anno scolastico 2020, prima dell’arrivo della pandemia, aveva 100 studenti nei corsi di edilizia, sartoria, saldatura, meccanica, cucina, falegnameria, discipline alberghiere e parrucchieria, che di recente offre anche corsi per estetiste.
“Anche se non mangi, torni a scuola per un obiettivo”
“Sono grato ai sacerdoti perché mi hanno portato alla formazione professionale – spiega Juvenal – oggi studio meccanica con i miei coetanei ma non abbiamo tutto quello che ci serve. Ci mancano uniformi scolastiche, e anche camicie e scarpe sono difficili da trovare a causa della povertà. Ma se ti manca qualcosa da mangiare sopporti e torni a scuola perché hai un obiettivo da raggiungere”.
Don Remy: presto una cucina per il pranzo
“Vengono dalla strada chiedendo di mangiare e molti riusciamo ad inserirli nei corsi professionali come quelli di meccanico e calzolaio – racconta il parroco don Remy Nsengiyumva – gli offriamo materiale scolastico e uniformi, ma il problema è il cibo. Alcuni infatti vivono completamente per strada, altri ricevono da mangiare nelle famiglie di accoglienza. altri ancora mangiano solo la sera dove studiano per i corsi tecnici”. Per loro, don Remy e i suoi parrocchiani stanno organizzandosi per realizzare una piccola mensa e cucinare a mezzogiorno, quando finiscono le lezioni al Centro professionale.
“Quando vedono che li trattiamo bene, lasciano la strada”
Non è ancora un vero progetto, si schermisce il parroco salesiano, originario del Burundi, anche se ha già un nome “Ejo heza”, “Meglio domani”, ed è stato avviato quando all’inizio della pandemia in Rwanda, nella primavera dal 2020, i bambini dalla strada hanno cominciato a bussare alla parrocchia. Con il passaparola, “visto che i loro compagni sono stati trattati bene”, ricorda don Remy, “ora vengono in gran numero. Non li abbiamo ancora registrati, ma lo faremo presto. Chiediamo a tutti coloro che possono di darci una mano”.
Una scuola dalle porte aperte per i minori vulnerabili
Il Centro salesiano di Rango ha una lunga tradizione di accoglienza dei minori in difficoltà: nel settembre del 2015 ha aperto le porte dei suoi corsi professionali a 75 giovani rifugiati provenienti dal Burundi, e i parrocchiani si sono impegnati per offrire generi alimentari, abiti e altro materiale per aiutare i rifugiati che vivevano nel campo profughi allestito in città. Ma anche i tanti giovani locali che hanno frequentato il corso hanno raccontato ai media salesiani storie terribili di abbandono, come quella di Ishimwe, nata nel 1996 in un campo profughi nella Repubblica Democratica del Congo, dove la sua famiglia si era rifugiata per sfuggire al genocidio del 1994. Aveva solo tre mesi quando scoppiò una guerra civile anche in Congo, i ribelli attaccarono il campo e i genitori furono separati. In braccio al padre tornò in Rwanda, e fu affidata alla nonna materna, mentre il padre si risposò e non si fece più vivo. La madre intanto si era rifatta una famiglia in Congo, e la nonna anziana, raccontava la ragazza, “non ha più la forza di lavorare nei campi per mantenermi e pagarmi le spese scolastiche”, chiedendo aiuto per poter proseguire il suo corso di cucina a Rango. Storie simili di ragazzi orfani o abbandonati dai parenti, che vedono nello studio l’unica salvezza, riempiono le aule del Centro di formazione professionale dei salesiani.
Don Hubert: i loro diritti violati, di più nella pandemia
In tutto il Rwanda l’Unicef stima che vi siano circa 7 mila bambini di strada, ma altri 300mila che vivono in 65mila famiglie (quindi quasi in 5 fratelli e sorelle) con un minore come capo famiglia. La pandemia, con la conseguente crisi economica di molte famiglie, la chiusura delle scuole e la violenza domestica hanno portato all’aumento del numero di bambini di strada. “Per farli uscire da questa vita senza speranza, la prima cosa di cui hanno bisogno è che gli venga mostrata gentilezza, che abbiano qualcosa da mangiare e che tornino a scuola” ci dice don Hubert Twagirayezu, 39 anni, rwandese, economo della visitatoria salesiana “San Carlo Lwanga” dell’ Africa Grandi Laghi (Agl), che copre Rwanda, Uganda e Burundi. Don Hubert, come molti dei ragazzi di Rango, è rimasto molto presto senza genitori, morti prima della guerra civile in Rwanda, ed è stato cresciuto dai nonni. Così ci racconta gli sforzi dei salesiani “per il futuro dei bambini e dei giovani più vulnerabili”.