Un anno per pensare

Editoriale del numero gennaio/febbraio 2024 di Note di Pastorale Giovanile.

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di don Rossano Sala

Il 2023 è passato molto velocemente. Per la pastorale giovanile certamente sarà ricordato per la Giornata Mondiale della Gioventù. Lisbona è stato un momento importante per la Chiesa tutta dopo la pandemia, perché ha segnato il passo verso un rilancio dell’esperienza di fede condivisa. La Chiesa può davvero essere una Chiesa di tutti e per tutti, come papa Francesco ha detto più volte durante quei giorni in terra lusitana.
La sfida della Giornata Mondiale della Gioventù è quella di mettere a frutto nel quotidiano quell’esperienza di fede attraverso scelte concrete e possibili di appartenenza e impegno come discepoli missionari del Signore Gesù nella propria Chiesa locale. Tutto nella GMG è predisposto perché si diventi sempre più discepoli e sempre meglio apostoli del Signore. Quell’esperienza va fatta fiorire e fruttificare.
Sappiamo che ciò non è scontato.
Per la Chiesa tutta poi c’è stato un momento importante di convocazione, quello della prima sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi dal tema Per una Chiesa sinodale. Comunione, partecipazione, missione. Abbiamo visto com’è andata: c’è stato il tempo per dialogare e ascoltarsi, con la partecipazione di diversi membri del popolo di Dio che hanno potuto portare il loro apporto al discernimento in atto. Abbiamo un Documento di sintesi votato dall’assemblea interessante, anche se ancora interlocutorio.
A questa prima sessione ne seguirà un’altra nell’ottobre del 2024, che certamente sarà chiamata a focalizzare meglio almeno alcune questioni e offrire su di esse orientamenti più puntuali e precisi. Certamente il tempo intermedio tra la prima e la seconda sessione – che è sostanzialmente quest’anno 2024 – non è un tempo vuoto. Sappiamo per esempio che il Concilio Vaticano II si è svolto in quattro sessioni e ha avuto quindi tre momenti intermedi molto fecondi: tempo di approfondimento teologico delle tematiche in discussione, tempo per il confronto tra le diverse parti in campo, tempo di sedimentazione e di preghiera rispetto ai compiti della Chiesa, tempo per fare proposte e per ascoltarsi reciprocamente.
Penso che il 2024 sia un anno di approfondimento ecclesiale, anche perché non ci sono all’orizzonte particolari eventi che in un certo senso potrebbero “disturbare” la pastorale ordinaria e il discernimento sinodale. È un tempo dedicato ad andare in profondità: ci vogliono attenzione e concentrazione, preghiera e studio, intimità e contemplazione. Si tratta di cogliere quali sono le vie verso cui il Signore ci vuole condurre per rimanere all’altezza della nostra chiamata ad essere luce del mondo e sale della terra.
Vorrei in questo editoriale di inizio anno soffermarmi su due aspetti che meritano attenzione specifica e approfondimento necessario. Li considero i due temi fondamentali per il presente e il futuro della Chiesa: il primo verte sull’identità della Chiesa, il secondo su quella del cristiano.

L’identità della Chiesa: missionaria ed evangelizzatrice

La prima, principale e forse l’unica parola dell’attuale pontificato consiste sostanzialmente nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. Per molti aspetti quanto è seguito a questo importante documento è un insieme di sviluppi coerenti, specificazioni particolari e realizzazioni più o meno complete di questa ispirazione di fondo, che rimane come scenario del pontificato e diapason permanente per ogni successivo passo e decisione.
Penso in maniera specifica al tema fondamentale della conversione missionaria e della svolta evangelizzatrice della Chiesa, che porta con sé ogni altra cosa, perché è uno stile di Chiesa che ne esprime la sua identità propria:

Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, “ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale”[1].

Il nucleo rovente di questa proposta affonda le sue radici nel Vangelo: uno ritrova se stesso proprio nel momento in cui perde se stesso attraverso il dono di se stesso. È proprio uscendo da se stessa che la Chiesa ritrova la sua identità più profonda. Di Gesù dicevano che era «fuori di sé»[2], ma se ci pensiamo bene questa affermazione coincide con la pienezza della sua identità, che è perfettamente decentrata e completamente radicata nel Padre suo. Gesù è se stesso solo nella relazione e nel legame con il suo Abbà, nel suo riceversi continuo. La dimensione estatica è quella che gli offre contenuto, sostanza e consistenza.
Solo uscendo da me stesso divento me stesso, questa è la verità del mio essere! Ecco il senso dell’invito fatto ai giovani in Christus vivit, quando vengono spinti a uscire da loro stessi per andare incontro agli altri: «Che tu possa vivere sempre più quella “estasi” che consiste nell’uscire da te stesso per cercare il bene degli altri, fino a dare la vita. Quando un incontro con Dio si chiama “estasi”, è perché ci tira fuori da noi stessi e ci eleva, catturati dall’amore e dalla bellezza di Dio»[3].
Nel tempo del narcisismo generalizzato – vero virus che contagia giovani e adulti, società civile ed ecclesiale, comunità religiose e istituzioni di ogni tipo – l’invito è, non semplicemente, a tirar fuori il meglio di sé, ma ad uscire da se stessi, abbandonando il proprio “io” egoistico e autoreferenziale. È doveroso pensare oggi all’educazione in questo senso: uscire da se stessi, più che tirar fuori il meglio da se stessi!
Tanti documenti cercano poi di realizzare questo nei diversi ambiti della vita della Chiesa. Faccio solo tre esempi, tra i tanti possibili. Primo, la Costituzione apostolica Veritatis gaudium sulle Università e le Facoltà ecclesiastiche. Lì si dice con chiarezza che il motore del rinnovamento nasce dalla necessità di «imprimere agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa “in uscita”»[4]. Secondo, la Costituzione apostolica Episcopalis communio sul Sinodo dei Vescovi, che con la medesima chiarezza afferma che

in un momento storico in cui la Chiesa si introduce in una nuova tappa evangelizzatrice, che le chiede di costituirsi in tutte le regioni della terra in uno “stato permanente di missione”, il Sinodo dei Vescovi è chiamato, come ogni altra istituzione ecclesiastica, a diventare sempre più un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. Soprattutto, come auspicava già il Concilio, è necessario che il Sinodo, nella consapevolezza che il compito di annunciare dappertutto nel mondo il Vangelo riguarda primariamente il Corpo episcopale, si impegni a promuovere con particolare sollecitudine l’attività missionaria, che è il dovere più alto e più sacro della Chiesa[5].

Infine, la Costituzione apostolica Praedicate Evangelium sulla riforma della curia romana, in cui si dice che «nel contesto della missionarietà della Chiesa si pone anche la riforma della Curia Romana» e che «questa nuova Costituzione apostolica si propone di meglio armonizzare l’esercizio odierno del servizio della Curia col cammino di evangelizzazione, che la Chiesa, soprattutto in questa stagione, sta vivendo»[6].
In tre ambiti strategici – quello della cultura, quello della sinodalità e quello dell’organizzazione della Curia Romana – è il principio della missione evangelizzatrice che ispira il rinnovamento, spinge alla conversione, propone i cambiamenti necessari. La teologia stessa, secondo Francesco, ha il compito di ripensarsi in ottica missionaria ed evangelizzatrice, perché «a una Chiesa sinodale, missionaria e “in uscita” non può che corrispondere una teologia “in uscita”»[7].
La prima grande domanda a cui rispondere sembra essere questa: quanto e in che modo ci stiamo impegnando per riscoprire l’identità missionaria della Chiesa e il suo compito prioritario, che è l’evangelizzazione?

L’identità del cristiano: discepolo e missionario

Per rimettere al centro il volto missionario della Chiesa e il suo compito essenziale, che è quello dell’evangelizzazione, bisogna che ci impegniamo con serietà nella riscoperta dell’identità propria del cristiano. In sintesi diciamo, con una formula sintetica: siamo “discepoli-missionari”, siamo “tutti discepoli, tutti missionari”, e tutto ciò a partire dalla piattaforma battesimale. Questo lo leggiamo a chiare lettere in un famoso passaggio dell’Evangelii gaudium:

In virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati[8].

Nella mia esperienza accademica e pastorale di questi ultimi anni vedo che l’accento sul binomio identitario del cristiano è tutto spostato verso la seconda parte. Ovvero si sottolinea con forza, ma a mio parere in forma spesso unilaterale, la dimensione missionaria dell’identità cristiana e si dimentica facilmente il lato del discepolato[9]. Il risultato è che manchiamo di profondità e non abbiamo una base solida per sostenere adeguatamente il nostro apostolato.
Penso che la trasformazione missionaria della Chiesa sarà un’illusione se non ripartiamo dal discepolato. L’identità del cristiano – come quella di Gesù – è prima di tutto filiale e quindi discepolare. Come Gesù è figlio e discepolo del Padre suo, così il cristiano lo è di Gesù. Egli rimane «il primo e il più grande evangelizzatore»[10] e quindi il modello a cui ispirarsi sempre di nuovo quando si tratta di ripartire o di dare slancio al proprio cammino di discepoli missionari.
Non possiamo pensare che la questione contemplativa – e anche quella dell’adorazione, su cui papa Francesco ha richiamato diverse volte l’attenzione proprio durante il cammino sinodale in atto – sia altro rispetto alla questione pastorale: è invece da ritenersi fondamentale che per essere efficaci animatori pastorali sia necessario prima essere degli autentici discepoli: è sempre dietro l’angolo il rischio di pensarsi apostoli del Signore senza prima essere suoi discepoli! Ecco perché è necessario uno spirito contemplativo: capace di rimanere ammirato davanti all’Evangelo, sempre stupito di fronte alle opere di Gesù e continuamente rapito dal suo stile unico. Contemplare insieme, seppur brevemente, il suo rapporto con il Padre, la sua vita nascosta a Nazareth e lo stile della sua missione ci offre elementi di rinnovamento sempre antichi e sempre nuovi.
Gesù è amico e confidente del Padre suo che è nei cieli. Il segreto profondo della vita di Gesù sta nel suo rapporto con il Padre, che egli chiama volentieri Abbà. Il punto di osservazione privilegiato, la chiave di volta decisiva, il centro prospettico strategico dei Vangeli è la relazione tra Gesù e il Padre. Spiega J. Ratzinger, introducendo il primo volume del suo Gesù di Nazareth, che

“Senza il radicamento in Dio la persona di Gesù rimane fuggevole, irreale e inspiegabile” (R. Schnackenburg). Questo è anche il punto di appoggio su cui si basa questo mio libro: considera Gesù a partire dalla sua comunione con il Padre. Questo è il vero centro della sua personalità. Senza questa comunione non si può capire niente e partendo da essa Egli si fa presente a noi anche oggi[11].

La relazione incomparabile di Gesù con il suo Abbà illumina e spiega la novità inaudita del suo insegnamento e il coinvolgimento dei discepoli, che propriamente saranno chiamati ad entrare anch’essi, per grazia, in questa filialità: figli nel Figlio. Non sarebbe possibile, eliminando questo legame o mettendolo in disparte, cogliere l’originalità di Gesù, che si può invece percepire in ogni pagina di Vangelo. Per questo Francesco ci invita con forza ad abbeverarci alla fonte della Parola di Dio, perché

tutta l’evangelizzazione è fondata su di essa, ascoltata, meditata, vissuta, celebrata e testimoniata. La Sacra Scrittura è fonte dell’evangelizzazione. Pertanto, bisogna formarsi continuamente all’ascolto della Parola. La Chiesa non evangelizza se non si lascia continuamente evangelizzare. È indispensabile che la Parola di Dio “diventi sempre più il cuore di ogni attività ecclesiale”.
L’evangelizzazione richiede la familiarità con la Parola di Dio e questo esige che le diocesi, le parrocchie e tutte le aggregazioni cattoliche propongano uno studio serio e perseverante della Bibbia, come pure ne promuovano la lettura orante personale e comunitaria. Noi non cerchiamo brancolando nel buio, né dobbiamo attendere che Dio ci rivolga la parola, perché realmente “Dio ha parlato, non è più il grande sconosciuto, ma ha mostrato se stesso”. Accogliamo il sublime tesoro della Parola rivelata[12].

Per essere missionari bisogna prima mettersi alla scuola del Signore Gesù: è questo in fondo il senso proprio del discepolato! La missione cristiana non s’improvvisa e senza un’adeguata contemplazione e formazione non siamo altro che dei “dilettanti allo sbaraglio”, missionari senza radicamento in Dio, annunciatori di qualcosa che non abbiamo accolto né assimilato!
L’evangelizzazione – che viene concretizzata storicamente dall’azione pastorale – non è solo in continuità storica rispetto alla rivelazione, ma è generata da quest’ultima. La rivelazione non è solo il suo inizio contingente, ma la sua origine permanente. Ciò significa che non è mai possibile essere missionari separandosi dallo stile, dal metodo e dai contenuti della rivelazione cristologica. Per questo la pastorale, se non affonda le sue radici nella spiritualità e non si sostiene al tronco della formazione, è un albero che non potrà mai portare frutto.
Ecco allora una seconda domanda importante che condivido con i lettori, e da cui invito a partire in questo anno 2024: siamo una comunità che si lascia evangelizzare, prima di divenire evangelizzatrice? Oppure presumiamo di essere missionari senza essere discepoli, ovvero senza un serio cammino di contemplazione, conversione e formazione?

NOTE

[1] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 27.
[2] Cfr. Mc 3,21; Gv 10,20.
[3] Francesco, Esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit del 25 marzo 2019, nn. 163-164.
[4] Francesco, Costituzione apostolica Veritatis gaudium del 27 dicembre 2017, n. 3.
[5] Francesco, Costituzione apostolica Episcopalis communio del 15 settembre 2018, n. 1.
[6] Francesco, Costituzione apostolica Praedicate Evangelium del 27 dicembre 2022, n. 3.
[7] Francesco, Lettera apostolica in forma di “motu proprio” Ad theologiam promovendam del 1 novembre 2023. «Si tratta del “timbro” pastorale che la teologia nel suo insieme, e non solo in un suo ambito peculiare, deve assumere: senza contrapporre teoria e pratica, la riflessione teologica è sollecitata a svilupparsi con un metodo induttivo, che parta dai diversi contesti e dalle concrete situazioni in cui i popoli sono inseriti, lasciandosi interpellare seriamente dalla realtà, per divenire discernimento dei “segni dei tempi” nell’annuncio dell’evento salvifico del Dio-agape, comunicatosi in Gesù Cristo» (ivi).
[8] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 120.
[9] Come esempio recente ci basti vedere, anche solo a livello statistico, come nella Relazione di sintesi della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi al termine della Prima Sessione (4-29 ottobre 2023), compaiano per circa 110 volte i termini che si riferiscono alla missione e invece meno di 15 volte quelli che si riferiscono al discepolato.
[10] Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, dell’8 dicembre 1975, n. 9; Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 12.
[11] J. Ratzinger, Gesù di Nazareth, Rizzoli, Milano 2007, 10.
[12] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, nn. 174.175.