Da Note di Pastorale Giovanile.
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di Maksym Ryabukha, SDB – Esarca Arcivescovile di Donetsk (Ucraina).
Nei giorni scorsi ho avuto la inattesa ma piacevole sorpresa dell’invito da parte della direzione di NPG a un contributo per una nuova rubrica: PG dalle periferie. Hanno pensato che l’esperienza che sto e stiamo vivendo (e la comunità ecclesiale, e i giovani con me) possa risultare significativa e forse interrogante per giovani ed educatori che vivono in parti del mondo “più fortunate”. Capisco anche che essi considerino il territorio della mia chiesa “periferia”, sia perché ai margini orientali dell’Europa (dove il Centro è ovviamente ben contraddistinto, anche con pastorali elaborate) che in zona invasa o “occupata” o a rischio di invasione e totale occupazione: quale zona dunque più periferica di questa?
Devo comunque dire, tra parentesi per non disturbare troppo, che noi ci sentiamo al “centro”. Perché dove siamo è sempre centro, dove ci stanno i giovani e adulti che si occupano di loro è sempre centro, dove abita Dio (anche se si dice che preferisce le periferie) è sempre centro. Questo che anticipo è quanto ci dà forza e speranza. Allora ecco una voce da una periferia-centro, a un “centro” che si apre alla periferia.
Accetto anche molto volentieri questo invito perché viene dal mondo istituzionale e “carismatico” di cui faccio parte, quello Salesiano, e dalla rivista “Note di pastorale giovanile” che conosco e stimo, dai tempi della mia formazione in Italia, e che ha accompagnato molti dei miei passi pastorali. Restituisco dunque qualcosa di quanto ho ricevuto.
Vorrei articolare la mia risposta alla domanda “Come si fa pastorale giovanile nella periferia e cosa può dire alla PG italiana?” come una “restituzione” di doni. Finora abbiamo ricevuto tanto dalle comunità ecclesiali italiane (e non solo) e dai giovani: non solo la formazione carismatica salesiana che ci ha aperto un vasto campo di servizio in Ucraina, ma negli ultimi anni di guerra in termini di aiuti materiali ed economici (medicine, cibi, tende, suppellettili, l’accoglienza di tanti profughi…), e spirituali con la vicinanza e la preghiera. Ecco, vorrei in qualche modo “restituire” col dono della nostra esperienza, che per noi sta diventando il tesoro che ci resta in un tempo di macerie e di rovina, che è come quel tesoro evangelico che non viene consumato da ruggine e da tarli.
Quali sono allora i doni di esperienza che possiamo offrire ai nostri amici italiani (e forse a vari amici di altri paesi), i nostri tesori?
1. Il dono di un Dio che c’è
Dio c’è, c’è sempre, in qualunque tempo e circostanza. Lui diventa la nostra forza di resistenza anche nei momenti più drammatici se riusciamo ad accorgerci della sua presenza. E qui voglio prendere in prestito le parole (bellissime parole) di un’amica dei giovani, una giovane lei stessa, che ha vissuto in maniera ancora più drammatica una situazione simile alla nostra: Etty Hillesum.
Così lei scrive nel suo Diario il 12 luglio 1942, in una “preghiera del mattino”, ancora nel cuore della guerra mondiale, e nell’oscurità del campo di concentramento di Westerbork, prima dell’ultima tappa della morte ad Auschwitz:
“Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirTi dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che Tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la Tua responsabilità, più tardi sarai Tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te, difendere fino all’ultimo la Tua casa in noi.”
È questa l’esperienza che purtroppo stiamo vivendo, di un Dio sepolto tra le macerie e le devastazioni assieme a coloro che sono sepolti e devastati. È questa dunque l’esperienza di tanta gente, tanti cristiani, tanti ragazzi e giovani. Ma Dio resiste nei cuori, non permettiamo che venga sepolto, perché altrimenti tutto sarebbe veramente finito.
Dio c’è in tutto questo. Non perché l’abbia voluto ma perché ci dà la forza per continuare a tenerlo vivo, la forza per resistere, sperare e nel frattempo vivere la nostra vita cristiana.
C’è appunto nonostante tutto. C’è nei segni delle preghiere che sono diventate molto più significative per noi, c’è nella sua Parola che viene annunciata (magari con i suoni delle sirene di allarme o il fragore dei missili che cadono o delle difese aeree che tentano di impedirlo) con maggior senso, nel gesto di carità di un aiuto a chi ha bisogno, di una parola di conforto, una carezza a un bambino o un anziano… e in tanti altri modi. Non abbiamo bisogno di tante parole di apologetica. Dio si “impone” alla fede e alla vita perché altrimenti saremmo disperati.
Nelle parole di Bonhoeffer, Dio resta quella fontana zampillante del villaggio che permette di dissetarsi e di sentirsi comunità; e lo è sia nella vita gioiosa che in quella pericolante. Me ne accorgo ogni qual volta celebro la Messa o mi intrattengo tra la gente nelle parrocchie e negli oratori. “Al bombardamento tutto esplodeva intorno a me. Ed io – solo una scheggia sotto il naso. Dio c’è”. Quante storie di questo genere assicurano che non siamo lasciati da soli. Egli c’è.
Ecco, questo è il primo “dono” che mi sento di fare, dal pozzo della nostra fontana di villaggio. Dio c’è; in modo misterioso ma reale e sempre interrogante e consolante è presente. Nessuna situazione drammatica potrà convincerci che ci abbia abbandonato o abbia smesso di amarci.
2. Il dono di una quotidianità infranta e di un popolo in sofferenza
La nostra vita quotidiana, dall’oggi al domani, si è infranta al suono delle cannonate e i sibili dei missili. Intendo la quotidianità nella sua normalità di alzarsi col cielo rosso dell’alba o grigio della pioggia, il caldo della colazione profumata, il bacio prima di uscire per il lavoro o la scuola, il rientro serale, il pasto in comune, la notte sicura nel proprio letto e nella propria cameretta… e sogni come tutti i sogni di persone normali.
Da quell’oggi tutti i nostri domani sono cambiati, e l’oggi è diventato un incubo, una tensione costante, una totale insicurezza. Sono rimasti i pezzi, i frammenti della nostra vita usuale, come se si fosse disfatto un puzzle completato. Ma ci siamo resi conto che la guerra non può mettere “in pausa” la vita. Adesso ci tocca ricostruire il quotidiano, ritrovare un filo di senso. Il quotidiano è l’unico luogo dove può avvenire la non perdita del senso e la ricostruzione della speranza, la crescita nell’oggi, la promessa di un futuro. Non possiamo aspettare la fine, quando essa possa venire per la grazia di Dio (e l’impegno degli uomini). Nel quotidiano dobbiamo non sopravvivere ma vivere, e trovare ragioni e modi per dare senso e gusto alle cose. Il quotidiano è non far finta che non stia succedendo niente, ma vivere ogni momento con l’opportunità che ci offre: i rapporti familiari e di amicizia, gli incontri di comunità domenicali e in settimana, il gioco dei bambini, la scuola e lo studio, le azioni di carità. Certo, con gli occhi, le orecchie e le gambe ben pronte per affrontare il pericolo. In questo quotidiano di spazio (rare volte non di macerie) anche il tempo è prezioso, ogni momento è prezioso, ogni attimo è avvertito come dono di Dio, perché il prossimo attimo potrebbe non esserci.
Può essere questo un dono a voi, riscoprire e rivalutare il quotidiano nella sua bellezza e gratuità e meravigliosità? Come la natura a volte ci sa restituire (le piante, gli animali, l’acqua) con la sua resilienza?
Ma non intendo fare poesia a buon mercato. In questa faticosa quotidianità da ricostruire, da ritrovare, siamo un popolo che soffre. Possiamo offrire come dono anche questo? Si può offrire in dono la propria sofferenza? Penso di sì, come esperienza di condivisione umana e anche come esperienza di corpo mistico. La passione e morte di Cristo ha portato la conversione del cuore umano. Credo che il dolore disumano e ingiusto vissuto in questo tempo drammatico potrà convertire il cuore umano e ricostruirlo nella pace.
Penso che la ricostruzione dell’Ucraina partirà da questo impegno della pastorale giovanile: ridare luce alle coscienze, e forse ci aiuterà il vangelo della Beatitudini, quelle che invocano la pace e promettono il dono di Dio a chi ha sofferto per le ingiustizie.
Ho parlato della quotidianità come spazio e tempo (qui-ora) della concretezza della vita. Ma essa non è un contenitore vuoto. Questa quotidianità è abitata, da persone, da cose, da legami, anche da memorie. Essa presenta e pretende un nuovo modo di essere, dove la persona, il giovane riscoprono l’importanza dell’esserci, della relazione, dell’essenziale e del poco. Ho visto riscoprire questi valori (volevo dire la “spiritualità” di questi valori) che probabilmente altrove contano o valgono poco, ma qui sono la distanza tra vita e morte, tra pieno e vuoto, tra senso e insignificanza, tra luce e tenebre. Se dovessi lasciare solo un messaggio, lascerei questo, appunto perché è essenziale e vitale, ed è una cosa che nella sofferenza abbiamo riscoperto con maggior intensità, e la affidiamo anche come tesoro nostro a tutti gli amici.