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Il Resto del Carlino – I Salesiani aprono le porte ai profughi afghani

Da Il Resto del Carlino, un articolo che racconta l’esperienza dell’accoglienza nella casa di Macerata dei profughi afghani.

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«Mi piace molto l’Italia, a Macerata sto benissimo. Non voglio che il futuro dei nostri figli sia come il mio. Tutto quello che avevo è stato spazzato via. Distrutto in un attimo. Per loro mi auguro una vita tranquilla e piena di gioia». Dai suoi occhi, sempre sorridenti e pieni di gratitudine, non si direbbe che ha vissuto l’inferno: Mustafa Alizada ha appena 24 anni ma ne ha visti già tanti di orrori. E un pezzo di cuore è rimasto a Kabul, nel suo Afghanistan. Con la presa di potere dei talebani ad agosto 2021 è stato costretto a scappare con la sua famiglia: come tutti quelli di etnia Hazara (sciiti), perseguitati dal regime. La decisione presa in un attimo, l’unica possibile per avere una speranza di farcela: un tweet che ha salvato loro la vita e poi via, in macchina, di notte, tutti coperti per non farsi riconoscere, fino in Pakistan. Qui ha trovato rifugio con la moglie, il figlioletto appena nato a Kabul, l’altro di 4 anni e i suoceri: 21 giorni di attesa, poi l’aereo che li ha portati in Italia e la nuova vita. Mustafa, ingegnere specializzato in costruzioni, è qui dall’anno scorso e ha ottenuto da pochi giorni lo status di rifugiato, così come il resto della famiglia: tra un saluto e l’altro ai suoi amici dei Salesiani in viale don Bosco, dove è stato accolto e vive con moglie, figli e suoceri, trova la forza di raccontare la sua storia.

«Quando i talebani hanno preso il potere sapevamo di essere in pericolo, dovevamo lasciare il Paese il prima possibile. Tramite mia cognata e una giornalista, attiviste con Afghanistan women’s political partecipation network, è stato mandato un tweet a Maria Grazia Mazzola, giornalista Rai, che si è mossa all’istante. Doveva nascere il nostro secondo figlio, quei giorni è stato il caos, mia moglie ha partorito a Kabul e poi siamo scappati in Pakistan, abbiamo viaggiato di notte, le donne avevano scoperti solo gli occhi, avevamo paura. Dopo 21 giorni siamo partiti per l’Italia, grazie a quel tweet». Oa Mustafa sta svolgendo il servizio civile ai Salesiani, si occupa delle attività dei ragazzi: a breve inizierà a lavorare con Sardellini costruzioni. Parte come operaio e poi, chissà, potrà aspirare a una qualifica più alta come quella che aveva nel suo Paese: spera nell’equiparazione dei titoli di studio, ci sta già provando tramite un’università online. Da quando è qui non ha mai smesso di studiare: corsi su corsi di italiano, per cercare di comunicare bene. E c’è riuscito, anche se dal farsì all’italiano non è una passeggiata.

«Ringrazio i Salesiani – dice -, che ci hanno tenuto per mano nei momenti più difficili della nostra vita, per averci dato un posto dove vivere e averci aiutato col lavoro. Per noi sono fratelli, sono amici, sono la nostra famiglia». «Quando sono arrivati l’anno scorso, poco prima di Natale – racconta don Francesco Galante, direttore dei Salesiani -, per noi è stato un segno della Provvidenza. Immaginate di trovarvi di fronte una famiglia con un bimbo di poco più un mese. Questo ci ha fatto dare concretezza all’accoglienza, con tutta la fatica che ne consegue, andare dal medico, in questura, poi le impronte digitali, accompagnarli al supermercato con la carne halal, e così via. In meno di due settimane sono andati a dare le impronte e in un anno hanno avuto il permesso, i profughi a Torino aspettano ancora l’appuntamento per le impronte. Allo stesso tempo – dice don Francesco – per noi è stata una lezione: ci ha insegnato a non soffocare gli ospiti riversando su di loro mille premure. Si vede che non sono migranti economici, loro sono stati strappati dalla loro terra, un giorno vivevano normalmente e il giorno dopo erano in fuga e poi accolti in un Paese con una cultura diversa, costretti a fare i conti con la solidarietà, ad essere ospiti. Ci siamo resi conto che l’accoglienza chiede di mettersi in ascolto di chi arriva». Prima di cominciare il servizio civile, «se Mustafa ci vedeva lavorare e per caso non gli chiedevamo di aiutarci, si offendeva – spiega don Francesco -. Ha tanta voglia di fare, di mettersi a disposizione. Ha fatto amicizia con tutti qui». Oltre che con i volontari, Mustafa e famiglia hanno socializzato con gli studenti universitari che vivono nell’appartamento accanto al loro. Della Rete Umanitaria della società civile, fondata dalla Mazzola, fanno parte, oltre a Salesiani per il Sociale Aps, il gruppo Abele di don Ciotti, l’Unione Donne in Italia, le Chiese cristiane evangeliche battiste, la cooperativa ‘Una Città non basta’, l’associazione «Federico nel cuore». Tramite la Rete sono stati accolti 11 nuclei familiari in Italia.

L’oratorio di Chisinau, capitale della Moldavia, accoglie i profughi ucraini

Per far fronte alla crisi, i salesiani di Chisinau hanno trasformato il loro oratorio in un luogo di accoglienza per i profughi ucraini, che stanno scappando dalla guerra. Con l’aiuto dei volontari italiani, il Centro Don Bosco ha ospitato dall’inizio del conflitto, circa cento persone ogni giorno, alcune delle quali ripartivano quasi subito verso altri paesi europei. Quelli rimasti sono soprattutto coppie di anziani, mamme e bambini, che sperano di tornare presto a casa.

In seguito si riporta l’articolo della rivista Credere.

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Dal centro di Chisinau, la capitale della Moldova, la Fundatia Don Bosco si raggiunge in pochi di minuti di auto. Ma l’ambiente urbano cambia drasticamente: lasciata la strada principale, ci si immette in una via laterale che passa attraverso file di baracche e abitazioni precarie. Siamo nella periferia sud, una delle zone più povere della città, che con l’hinterland conta circa un milione di abitanti, quasi la metà di tutta la popolazione presente in Moldova.

Al Centro Don Bosco il campo sportivo all’aperto, che confina con la ferrovia, nel primo pomeriggio è pieno di ragazzini che giocano a pallone. Ad accoglierci è il direttore don Andrea Ballan, 47 anni, salesiano di origine veneta.  E’ arrivato a Chisinau a settembre del 2020, dopo aver trascorso quindici anni – dal 2002 al 2017 – in Russia, vicino a San Pietroburgo, e successivamente tre anni in Italia. Un’esperienza, quella russa, che lo ha segnato nel profondo: «In quel Paese ho lasciato un pezzo di cuore», confessa. «L’Opera salesiana di Chisinau è stata inaugurata nel 2007, da quando è stata riconosciuta dallo Stato attraverso la “Fondazione Don Bosco”, ed è l’unica in tutta la Moldova. Dipende dall’Ispettoria salesiana dell’Italia del Nordest».

Ad aprire il Centro di Chisinau è stato don Sergio Bergamin, 69 anni, che vive tuttora in Moldova. Nella casa di Chisinau ora risiedono quattro salesiani, tutti italiani. L’attività di base è l’oratorio, che coinvolge i bambini nel pomeriggio, e i giovani, soprattutto alla sera, dopo le 20. Giocano a calcio, basket, pallavolo, ping pong. «L’oratorio è aperto a tutti: al momento in questo quartiere non ci sono ragazzi cattolici, quelli che vengono da noi sono tutti ortodossi, cristiani perché battezzati, ma non di fatto. Noi siamo una realtà ecumenica, in tutto ciò che proponiamo c’è alla base la dimensione dell’annuncio cristiano. Ma la nostra non è una proposta esclusivamente religiosa. Il sabato e la domenica pomeriggio abbiamo un gruppo di animatori e un programma strutturato di giochi, laboratori, spettacoli, sotto la guida di don Sergio, che dirige l’oratorio. Abbiamo inoltre un torneo di calcio e uno di ping pong».

I ragazzi che frequentano il Centro provengono soprattutto da famiglie povere, disgregate. In questa periferia difficile uno dei fattori di maggiore criticità è la scuola locale, una delle più fragili a livello formativo di tutta la città. Il Centro Don Bosco offre ai giovani la formazione professionale: «In questo momento abbiamo un corso per saldatori. All’inizio si era progettato un centro di formazione con vari indirizzi, per idraulici, elettricisti e sarte. Ma alcuni non sono mai partiti. Di fatto i nostri edifici non sono adatti a ospitare una scuola: qui prima c’era un service della Mercedes. Ciò che facciamo è collaborare con alcune scuole professionali statali: gli studenti degli istituti vengono da noi per fare pratica nel nostro laboratorio, che è più moderno e perfettamente attrezzato».

Il Centro Don Bosco ospita inoltre una casa-famiglia dove sono accolti ragazzini allontanati dalle famiglie per problemi di violenza, abusi, dipendenze, prostituzione. «Fino allo scoppio della guerra in Ucraina ne ospitavamo sei, dai 7 ai 18 anni. Ora ne sono rimasti due. Gli altri posti da marzo li abbiamo messi a disposizione dei volontari che arrivano dagli oratori salesiani in Italia, alternandosi ogni settimana, per aiutarci a gestire i profughi». Da marzo infatti il Centro si è messo a disposizione per accogliere i profughi dalla vicina Ucraina, in collaborazione con altre realtà cattoliche, la Caritas Moldova e la Fondazione Regina Pacis.

Spiega don Ballan: «Le aule sono diventate dormitori e in palestra abbiamo predisposto materassini, sacchi a pelo e letti forniti dalla Caritas. In questo momento i profughi stanziali sono una trentina, ma all’inizio avevamo almeno cento persone ogni giorno: arrivavano in pullman, si fermavano una notte, al massimo due, poi ripartivano verso altri Paesi europei. Un via vai continuo. Quelli che sono rimasti sono soprattutto coppie di anziani, che speravano di tornare presto a casa loro e non volevano allontanarsi troppo, alcune mamme sole con i loro figli, altri che attendono i visti per emigrare in Paesi come gli Usa o il Canada. I profughi arrivano da Kiev e dalle zone meridionali dell’Ucraina, da Odessa e Mykolaiv».

La Moldavia, la nazione più povera d’Europa, a oggi ha accolto più di 450 mila ucraini in fuga, dei quali 100 mila si sono fermati nel Paese. «Il comunismo», commenta il salesiano, «ha devastato le famiglie. Uno dei problemi più diffusi fra gli adulti è l’alcolismo. A disgregare socialmente la nazione sono state anche le grandi ondate migratorie che l’hanno spopolata: la prima, negli anni Novanta, ha portato via le donne, la seconda gli uomini». Buona parte della popolazione moldava parla russo, è di cultura russa e oggi è a favore di Mosca. «Ma i giovani, che non hanno conosciuto l’Unione sovietica, guardano all’Occidente, per loro la Russia non è attraente. I ragazzi moldavi hanno una gran voglia di Europa».