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Lo spessore della bellezza

Introduzione al dossier “Quale bellezza per i giovani?”, di don Rossano Sala.

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L’esperienza della bellezza

Da sempre ho vissuto nel mondo dell’educazione. L’ho conosciuto fin da piccolo, vivendo l’oratorio ambrosiano e la scuola salesiana. Non l’ho mai più abbandonato, né desidero farlo. E se devo dire qualcosa di sintetico su quelle esperienze che mi hanno strutturato il cuore e la mente, posso dire che “andare all’oratorio era bello” e che frequentare la scuola salesiana “è stato davvero bello”. Così come andare in Chiesa per vivere la liturgia era nel suo insieme bello, attraente. Un po’ meno, nei miei ricordi, lo era il catechismo!
Evidentemente dicendo questo non ci si riferisce solamente alla bellezza di un edificio, magari ben progettato e ben mantenuto. Si tratta invece di un giudizio sintetico rispetto ad un’esperienza vissuta, che può avere nell’esteriorità di una struttura un segno tangibile. È una questione complessiva che tiene insieme ascolto e dialogo, affetti e legami, strutture e spazi, tempi e ritmi. Armonia e sinfonia che lasciano un buon sapore e un profumo gradito che mai più si dimenticano e che si riconoscono all’istante, dovunque si ripropongano.
Capita spesso di fare un’esperienza con i ragazzi – un campo-scuola, un pellegrinaggio, una situazione di servizio, un cammino di gruppo – e nel chiedere loro informalmente com’è andata la risposta ha sempre a che fare con la bellezza di un insieme: “È stato bello”, “una bella esperienza”, “mi è piaciuto davvero”. Quando si attesta che un’esperienza ha avuto a che fare con la bellezza si fa una valutazione globale positiva su ciò che si è sperimentato. Che comprende, anche se non è quasi mai tematizzato, istanze forti di verità, bontà, giustizia e santità che la rendono tale.

Avvolti dalla bellezza

Nella sua accezione più ampia la bellezza segnala qualcosa che nel suo insieme è ben riuscito. Non è quindi solo una questione “estetica” nel senso più superficiale del termine. Sarebbe troppo poco, e correrebbe il rischio di essere cosa effimera. Certo, come la verità può cadere nel dispotismo e la bontà regredire nell’interesse proprio, anche la bellezza potrebbe divenire una terribile arma di seduzione, trasformandosi in qualcosa di perfido. Uno specchietto per le allodole che ci fa perdere la vita. Un’attrazione fatale, appunto. Il marketing attuale vive di questo, ne ha fatto una scienza e una tecnica sopraffina in nome del profitto.
Il peso specifico dell’autentica bellezza invece segnala – a partire dalla rivelazione di Dio, come ci ha insegnato nella sua lezione indimenticabile H.U. von Balthasar – che il mistero da cui siamo avvolti è amorevole, e viene ad esprimersi fino alla dedizione totale di sé per la nostra felicità nel tempo e nell’eternità. È una tesi di “ontologia trinitaria” questa – parola difficile che dice una cosa assai semplice: che il Dio unitrino è amore sino alla fine e null’altro, lo è da sempre e lo sarà per sempre – che ci fa bene rispolverare qui.
Bisogna saper riconoscere che la salvezza non viene da una bellezza che seduce, illude e abbandona. Viene invece da una bellezza che si fa dono concreto, capace di pagare in prima persona, che si fa carne e sangue attraverso gesti e parole che illuminano perché ardono. La vita del Signore Gesù è bella e felice perché brucia d’amore, perché è totalmente pro-esistenza, perdita di sé per la vita dell’altro e che per questo diventa pienezza di vita risorta. Espressione dello spirito di quelle beatitudini che egli ha respirato da sempre nel seno del Padre suo.

Lo sguardo di Dio (nella mia vita)

Da NPG, rubrica I mille volti della carità

di Elena Barbizzi*

“Quando sono arrivata a “Casa Pinardi” partecipavo alla Messa ogni giorno ma rimanevo seduta, con lo sguardo basso. Mi chiedevo dove fosse Dio. È stata dura: i primi tempi sono stati difficili perché c’è stato anche il lockdown. Però io la carità l’ho sperimentata davvero, quando mi sono affidata alla Comunità, mi sono fatta accompagnare. Lì ho visto lo sguardo di Dio nella mia vita”.
Elena è cresciuta in oratorio a Civitanova Marche dove viveva con la mamma e la sorella. Ha fatto un’esperienza missionaria in Egitto, poi in Brasile con le Suore Missionarie di Cristo Risorto. Lì ha sperimentato la prima vita di comunità con tre ragazze conosciute prima di partire. “Siamo state un mese insieme, condividendo la vita e la missione. Però quando sono tornata non volevo proseguire questa esperienza: non trovavo attraente la vita comunitaria per come la vedevo, ho rifiutato diverse opportunità in questo senso, non vedevo nessuna testimonianza che illuminasse”.
Frequentando Macerata, però, qualcosa cambia: Elena va spesso in oratorio per parlare con il direttore dell’epoca, don Flaviano D’Ercoli, e inizia a vedere questi giovani di “Casa Pinardi”. “Alcuni li avevo conosciuti ai campi del Movimento Giovanile Salesiano, altri prima di partire per il Brasile”, racconta. Lì trova uno sguardo attraente, accogliente: “Ho trovato una testimonianza autentica di giovani che vivevano la loro vita senza stravolgerla, ma che semplicemente la condividevano. Non è stato facile lasciare la mia casa, mia mamma, le mie sicurezze. Ci ho pensato molto perché il salto mi sembrava troppo. Però mi sono affidata, e tutto è cambiato”. La frase che più mi iniziava a risuonare era quella di San Paolo nella lettera ai romani al capitolo 8: “Tutto concorre al bene per coloro che amano Dio”. In “Casa Pinardi” vivono otto ragazzi tra i 18 e i 26 anni, condividendo la vita quotidiana e le esperienze formative e di spiritualità. “Noi ci sentiamo parte integrante della casa salesiana. Accolti da una Comunità educativa pastorale e in particolare dai confratelli salesiani, da alcuni membri dell’ADMA e dal sostegno di una Figlia di Maria Ausiliatrice che con noi condividono più da vicino il quotidiano, ci sentiamo coinvolti nella vita pastorale specie nell’attenzione ai giovani e ai ragazzi più poveri. Non nascondo che ci ha aiutato anche imparare a riconoscere quello che l’articolo 55 delle Costituzioni dei Salesiani affida alle comunità e cioè che il Direttore della casa – che oggi è don Francesco Galante – è “Padre, maestro e guida spirituale della comunità”. A nome della comunità tutta è diventato per noi un po’ il punto di riferimento dell’esperienza di vita insieme. Con lui ci confrontiamo mensilmente, facciamo il punto della situazione e impariamo a trovare il nostro posto nella vita della casa”, spiega sottolineando con forza questo aspetto: “Per molti è tanto difficile da accettare, riconoscere una figura alla quale fare riferimento, avvisare quando si esce, se si rientra più tardi. Ma l’affidamento alla Comunità, la fedeltà all’impegno preso ha cambiato la mia vita”.
Vorrei concludere l’articolo con la frase di Giosue 1,9: “Non te l’ho io comandato? Sii forte e coraggioso; non avere paura e non sgomentarti, perché l’Eterno, il tuo Dio, è con te dovunque tu vada”.

* 24 anni, studia Giurisprudenza a Macerata e da tre anni condivide con altri otto ragazzi l’esperienza della vita comunitaria di “Casa Pinardi”, nella casa salesiana di Macerata.

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Grammatica e cantieri di sinodalità nella Pastorale Giovanile

Nella programmazione di NPG per il 2022 sono presenti diverse rubriche online. “Grammatica e cantieri di sinodalità nella PG” è una di queste ed è curata da Gianluca Zurra.

Ascolto

“Ascolto” è la prima parola fondamentale per lo stile sinodale della Chiesa. Dal Concilio Vaticano II in poi è stata riscoperta la Parola di un Dio che parla agli uomini e alle donne come ad amici[1], agendo nella storia quotidiana tramite il soffio imprevedibile dello Spirito. Amicizia e sorpresa, affetto e novità si rivelano così come il cuore stesso del Dio biblico, che chiede una grande apertura delle orecchie per essere percepito nelle pieghe e nelle curvature del mondo.

Senza questa disposizione di ascolto, sinonimo di una fiducia che ha il coraggio di non voler sapere ogni cosa in anticipo rinunciando alla tentazione del controllo, la Chiesa non potrebbe cogliere ciò che oggi lo Spirito sta realizzando, dentro e oltre i suoi stessi confini. Lo ricorda il documento preparatorio del sinodo dei vescovi: il cammino sinodale “richiede di mettersi in ascolto dello Spirito Santo che, come il vento, ‘soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va (Gv 3,8), rimanendo aperti alle sorprese che certamente disporrà per noi lungo il cammino”[3]. Dunque, prendere sul serio fino in fondo l’incarnazione significa congedarsi dal dottrinalismo, che trasformerebbe la sinodalità in una pura applicazione, seppure più allargata, di decisioni o di concetti considerati a monte rispetto alle forme concrete del vissuto umano. Si tratta invece, per la Chiesa, di approdare al riconoscimento grato di come lo Spirito abiti l’imprevedibilità della storia, senza averne paura e senza difendersi: ascoltare la realtà diventa così non un esercizio successivo al cammino sinodale, né puramente preparatorio, ma è la sua stessa condizione, poiché non c’è Vangelo che possa risuonare prima o a lato delle esperienze elementari della vita comune, anche e soprattutto per le nuove generazioni. È necessario, tuttavia, che la parola “ascolto” non sia generica. Per darle corpo affrontiamo tre passaggi: il senso umano dell’ascolto, lo stile di ascolto proprio di Gesù e infine una Chiesa in ascolto sinodale.

Il senso umano dell’ascolto

Fin dal primo istante della nascita, le orecchie sono protese verso i suoni che provengono dal mondo circostante. Ascoltare, dunque, è un atto contemporaneamente passivo e attivo: se non ci fosse qualcuno che ci parla e cose che risuonano per noi, non sarebbe possibile attivare l’ascolto, ma al tempo stesso se ci si chiudesse alle parole e ai suoni, nulla di nuovo potrebbe accadere in noi. Ascoltare è un intreccio tra l’umiltà che lascia parlare la realtà, senza volerla incasellare prima del tempo, e il coraggio di rielaborare ciò che si ascolta.

I suoni del mondo, in effetti, richiedono attenzione paziente, silenzio profondo, tempi lunghi di comprensione; non sopportano la fretta, il “per sentito dire”, o la sicurezza del “questo lo conosco già”. D’altronde, è esperienza comune ritrovare ossigeno ogni volta che qualcuno ci ascolta davvero, prendendo tempo per noi e condividendo la nostra storia. Viceversa, l’aridità della solitudine nasce quando non si trovano più canali di ascolto reciproco, di comprensione e accoglienza della propria vita da parte degli altri. Siamo come sospesi a quel piccolo, invisibile filo di suoni, teso tra le nostre orecchie e le tonalità del mondo che risuonano attorno a noi. Siamo il nostro ascolto e possiamo esistere in quanto siamo ascoltati, accolti, compresi! Ascoltare è un verbo da declinare all’imperativo, non in senso moralistico, ma perché senza l’esperienza dell’ascolto saremmo sterili, non potremmo essere sostenuti e risvegliati alla vita.

Il Dio biblico, non a caso, si manifesta come colui che parla, che rivolge la parola, tramite innumerevoli e imprevisti canali: gesti, avvenimenti, sogni, leggi, persone, profeti. La fede biblica non nasce da miracoli potenti, come ci si aspetterebbe dal dio Faraone, ma dalla suggestione di un vento leggero sul monte, come succede per Elia[4], o dalla promessa di vita che si fa strada in un arbusto che arde senza consumarsi, come Mosè[5], o ancora più semplicemente dalla normale fioritura di un ramo di mandorlo che annuncia cose nuove davanti agli occhi e alle orecchie di Geremia.

È evidente, dunque, che ascolto e fede non sono soltanto collegati, ma diventano sinonimi, perché “ascoltare”, a differenza di “sentire”, implica il coraggio di spogliarsi delle proprie certezze, l’umiltà di fare spazio a ciò che ancora non si conosce, la profondità necessaria per cogliere la ricchezza di senso degli avvenimenti che accadono attorno e dentro di noi. Ascoltare è mettersi immediatamente nella disposizione di una relazione che tiene in vita, proprio nella misura in cui non rassicura, ma apre, espone, mette a rischio, in quanto suscita il desiderio di camminare in avanti e di ripensare da capo ciò che fino a quel momento sembrava scontato. Mettersi in ascolto è un esodo, è continua rinascita, uscita dalle acque, riedizione creativa di ciò che succede fin dal grembo materno, quando la madre – e il padre con l’orecchio appoggiato sulla pancia di lei – percepisce la vita nascente prima ancora di poterne vedere il corpo, gli occhi e la pelle.

Nell’ascolto della realtà ne va così dell’esperienza di Dio, e nulla di meno, perché mai come in quel momento la nostra identità si riconosce sospesa ad altri e ricevuta da ciò che giunge di inedito alle nostre orecchie.
Pertanto, una Chiesa che non si mette in ascolto della vita reale perderebbe in un solo colpo la prossimità di Dio e la sua stessa umanità. Ascoltare, ripetiamolo, non è un’azione successiva all’esistenza ecclesiale, ma la condizione della sua ragion d’essere e della sua missione, poiché non c’è altro Dio all’infuori di Colui che si rivela e opera nella storia e non c’è umanità che non si formi fin dall’inizio nel miracolo silenzioso dell’ascolto reciproco.

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XVII Convegno Nazionale PG: “La fede nell’imprevedibile”

Pubblichiamo il lancio del prossimo Convegno nazionale di Pastorale Giovanile, annunciato anche su NPG.

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Dopo due anni, torna l’appuntamento nazionale di PG. Il Convegno si terrà dal 30 maggio al 2 giugno a Lignano Sabbiadoro e avrà come tema La fede nell’imprevedibile.

Non è facile arrivare al prossimo convegno nazionale di pastorale giovanile. I due anni di pandemia hanno più volte rimandato l’appuntamento tenendolo in sospeso. Ora si apre la possibilità di ritrovarci in presenza, non senza la difficoltà di giorni inediti e sicuramente “scomodi”. Ma è la sola possibilità per provare a ritrovarci e vederci di persona.

Si aggiungano le difficoltà di mettere a fuoco le tematiche: sul tavolo ci sarebbero mille domande, ma proprio per questo si fa fatica a individuare quale deve essere il filo conduttore prevalente. Ci è sembrato poco sensato ignorare le istanze e le provocazioni di un tempo così particolare; nello stesso tempo vorremmo evitare di suonare le trombe dinanzi a una ripartenza che da una parte si offre come un desiderio coltivato per mesi, dall’altra non concede sconti al dubbio su quali direzioni prendere.

Torniamo a fare quello che facevamo: questa la prima tentazione. Lo slancio del Sinodo dei giovani del 2018 aveva offerto la possibilità di riprendere con intelligenza ciò che si stava facendo. Ma ciò che si faceva paga il dazio a ciò che è successo e forse ci chiede di fare i conti, una volta per tutte, con il cambiamento d’epoca tanto negli occhi di ciascuno, quanto nel cuore di pochi.

Affidarsi alla prima trovata del momento: questa la seconda tentazione. In questi due anni abbiamo davvero toccato con mano che l’anima educativa della Chiesa italiana non può affidarsi alla logica consumistica che il pensiero della rete offre in ogni istante. Un buon video sui social ha la consistenza del fiore di campo che “fiorisce al mattino e appassisce la sera”. Dunque, c’è bisogno di ricorrere a una sapienza coltivata, alla capacità di scrutare nel buio per individuare la direzione e nello stesso tempo di avere coraggio nel riprendere legami e relazioni.

Il convegno, dunque, avrà una sorta di “basso continuo” che parte dall’idea di rileggere questo tempo nuovo sostenendo il confronto e la riflessione, ma si articolerà su temi diversi.

Apriremo con un dialogo a tre voci su cosa significhi oggi uscire dal buio nel quale, peraltro, siamo ancora immersi: come se non fosse bastata la pandemia, si sono aperti scenari di guerra tutt’altro che rassicuranti. Continueremo approfondendo il discorso sugli adolescenti, cantiere aperto dalla Chiesa italiana la scorsa estate. Faremo un ulteriore passo intorno al discorso della sinodalità, parola sulla bocca di tutti ma che ha bisogno di essere chiarita. Non tanto a livello teorico e infatti ci affideremo per questo passaggio a dei laboratori pratici. Nella chiusura, come sempre, proveremo a rileggere i nostri passi e a indicare (a partire dalle riflessioni fatte) le strade possibili per un impegno comune.

Vi aspettiamo, pur sapendo che sarà faticoso trovare lo spazio in agenda. A breve, fra pochi giorni, faremo avere ulteriori informazioni.

Don Michele Falabretti

Sito della CEI
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La corporeità nell’autocoscienza del nostro tempo

Da Note di Pastorale Giovanile, l’introduzione al dossier “Siamo corpo” a cura di Gustavo Cavagnari e Alberto Martelli.

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La riappropriazione del corpo è uno dei fenomeni che maggiormente contraddistinguono in Occidente il XXI secolo. Non è esagerato ritenere che siamo di fronte a una vera e propria esplosione di attenzione e di cura del corpo, come mai si era verificato nei secoli precedenti. Solo per citare alcune avvisaglie, si pensi alla diffusione delle pratiche del footing e del running; gli allenamenti di body training, body building e body sculpting; le arti del body piercing e del body painting.
Da una parte, gli elementi su cui possiamo oggi contare per ricostruirci ciascun’identità sono le unghie dipinte e scolpite; la pelle depilata, tatuata, decorata o scarificata; i capelli infoltiti, ricostruiti e impiantati; le barbe acconciate; i denti rappezzati e le guance perforate; le labbra rimodellate; le cartilagini appositamente deformate, le membra anabolizzate, i muscoli proteinizzati e palestrati, i crani modellati. In questo caso, e grazie all’aiuto della ginnastica, la chirurgia e la farmaceutica, il corpo plastico diventa materia prima della nostra creatività e capacità di distinzione, a condizione però della disponibilità finanziaria.
Da un’altra parte, dilagano delle pratiche di tutt’altro altro segno: lo yoga, il tai chi, lo zen, la meditazione tantrica e altro sono tecniche tutte al servizio della “propriocezione” e della consapevolezza di sé già a partire dal livello muscolare. Non ci dimentichiamo di menzionare che, di recente, si è presa coscienza che un rapporto sbagliato con l’habitat conduce a conseguenze dirompenti sul corpo umano, da cui prende avvio un ritorno eco-friendly, ecosostenibile ed ecosintonico al verde, ai ritmi naturali e ai cibi biologici, vegetariani o vegani.
Ecco dunque una massiccia riscoperta del corpo sotto la spinta di molteplici istanze; ma se questo è il fenomeno immediato, la sua interpretazione è tutt’altro che univoca. La nostra cultura si è realmente riappropriata del corpo? L’attuale desiderio collettivo di ritorno al corpo rappresenta un effettivo recupero della corporeità e del suo valore a servizio di uno sviluppo integrale della persona e della società? Difficile dirlo. La risposta con un “sì” o con un “no” sarebbe probabilmente affrettata e rischierebbe di falsare l’interpretazione del fenomeno.
Da una parte, non ci si può che rallegrare che il corpo sia tornato a occupare un posto di primo piano nella vita delle persone, dal momento che esso costituisce una componente essenziale dell’essere umano e del suo relazionarsi con gli altri e con Dio.
Dall’altra parte, non si possono non rilevare molte ambiguità. Una cultura «che tende a promuovere il culto del corpo, a sacrificargli tutto, a idolatrare la perfezione fisica» convive con un’altra cultura che rischia il corpo, esponendolo a pratiche e giochi sempre più pericolosi quali balconing, choking game, planking, eyeballing, e altri ancora. Anche quando non si arriva a livelli di questo genere, il corpo stressato, affetto da disturbi somatici, ictus, cardiopatie, tachicardie, ulcere, stati ansiogeni e situazioni patogene di vario genere, contende con il corpo rilassato, finendo questo per essere oggetto di cure psicoterapeutiche o alternative. Che dire di fronte a tutto questo?
Come si avverte, sismografi di questi cambiamenti sono i giovani, che vivono il rapporto col corpo – come pure la loro identità, gli affetti, le relazioni – in modo libero e destrutturato, ma non per questo privo di tensioni e conflitti. Se il corpo è stato da sempre luogo di scoperte, di paure e di fluttuazioni, oggi però è particolarmente «difficile mantenere una buona relazione col proprio corpo» . Nell’attuale contesto, gli educatori e gli evangelizzatori molte volte non sanno bene cosa fare o come farlo. Inoltre, faticano «a trasmettere la bellezza della visione cristiana della corporeità» . Le questioni relative al corpo appaiono così come uno di quei “segni dei tempi” da discernere alla luce delle coordinate che offre la Rivelazione e che tracciano il profilo dell’essere umano in quanto tale. Questo suppone «una più approfondita elaborazione antropologica, teologica e pastorale» (DF 150), dicevano i Padri Sinodali. In questa linea si colloca il nostro Dossier.
Il primo contributo si situa sul piano del riconoscere. Nel riflettere sul corpo percepito, esso si confronta con le coordinate socioculturali del nostro tempo. I seguenti due contributi sul corpo donato e il corpo trasfigurato intendono concorrere, invece, all’interpretare, offrendo delle coordinate antropologico-cristiane da cui leggere i mutamenti in atto. Infine, il contributo sul corpo educato ed evangelizzato vuole offrire delle indicazioni per accompagnare e orientare il processo di maturazione dei giovani secondo le loro nuove sensibilità.

 

 

 

 

 

 

Presentazione della rubrica “Il filo d’Arianna della politica”

di Raffaele Mantegazza

Durante uno dei miei viaggi ho conosciuto una guida turistica, un uomo estremamente simpatico e gentile, con una grande capacità comunicativa. Entrato in confidenza gli chiesi qualcosa a proposito del suo lavoro; lui mi disse che la prima regola che veniva insegnata a coloro che guidavano i gruppi italiani nei viaggi organizzati era: “non parlate mai di calcio e di politica”. Una regola ferrea pensata per evitare qualunque tipo di conflitti con i turisti.

Evidentemente la politica è un oggetto complesso, si porta dietro tutta una scia di conflitti e di nodi non risolti, e soprattutto in ambito educativo molti condividono questa regola imposta alle guide turistiche; non si parla di politica, farlo significa condizionare, fare propaganda, plagiare. Questa confusione tra scienza della politica e propaganda, tra educazione alla politica e indottrinamento ha alle spalle una lunga storia nel nostro Paese, a partire ovviamente dal regime fascista che educava certo alla politica ma a una politica totalitaria e distruttrice, ma anche dalla storia più recente, dalla quale ci si tiene ben alla larga, come se nominare Silvio Berlusconi o Massimo d’Alema avesse immediatamente il sapore della propaganda e trasformasse un ambito educativo in una Tribuna elettorale.
In questa rubrica cercheremo di capire come muoversi nel labirinto della politica attraverso il filo di Arianna dell’educazione. Capiremo anzitutto che la politica non è soltanto quella che viene rappresentata dalle istituzioni, anche se quest’ultima è fondamentale e ogni cittadino o cittadina civile dovrebbe conoscerla anche molto a fondo. Capiremo però che la politica è anche altro, è il proprio modo di collocarsi all’interno di una comunità e di una collettività, e dare senso e valore ai gesti quotidiani in una prospettiva che li trascende e che va oltre. Questo andare oltre è tipico anche dell’educazione, e infatti a questo proposito educazione e politica possono stringersi la mano.

Fare politica significa credere nel futuro, alimentare la speranza, pensare ad una collettività futura per uomini e donne felici e solidali; in fin dei conti significa realizzare la speranza di Martin Luther King: “non potrò essere felice finché uno solo dei miei fratelli sarà schiavo”; fare educazione significa dare futuro a un ragazzo o una ragazza, immaginarseli adulti, e quindi compiere un gesto politico nel senso di tenere insieme il progetto individuale (rivolto a questo specifico giovane che ho davanti a me) e il progetto collettivo per la polis nella quale cresce e che lo vedrà sempre più protagonista. Quando si dice che i giovani non amano la politica si fa un’affermazione frettolosa e superficiale: nei miei corsi di scuola di politica svolti sul territorio ho visto ragazzi che hanno un’idea altissima, quasi platonica dell’uomo politico, che deve essere di esempio, ancora più onesto delle persone oneste ancora più irreprensibile del cittadino modello. Un’idea nobile di politica che a volte i ragazzi vedono smentita nei fatti. Ma anche questa rischia di essere un’affermazione superficiale: nel nostro Paese ci sono tanti ottimi amministratori ed eccellenti uomini e donne di politica che hanno messo l’interesse collettivo davanti a quello individuale o di partito, e dei quali e della quale purtroppo si parla troppo poco. Semmai i ragazzi accusano gli adulti di fuggire di fronte ai temi politici e soprattutto di ignorare il contributo che i giovani possono fornire alla politica nel senso più ampio: la storia degli organi di rappresentanza studentesca spesso ignorati dagli adulti all’interno della scuola e soprattutto dell’Università ha un enorme peso sulla percezione che i giovani hanno del rapporto tra adulti e democrazia.

La moda del parlar male della politica a prescindere dalle analisi più specifiche è parallela e speculare a quella del non parlarne. Noi scegliamo invece di parlare di politica e scegliamo di farlo proprio partendo da quelli che sono i fondamenti, riferendoci continuamente alla Costituzione che è il vero testo fondante della nostra democrazia, e proponendo esempi concreti e praticabili con gruppi di ragazzi e di ragazze di qualunque provenienza.

A questo punto può sorgere una domanda: l’educazione alla politica si colloca sul terreno delle emozioni o su quello della razionalità? È del tutto evidente che questi due terreni, per quanto separabili, si incontrano poi nell’esperienza quotidiana di ciascuno. Una politica che parli soltanto alla parte razionale dell’essere umano rischia di essere vanificata dallo scatenarsi di quel mondo emotivo che caratterizza ciascuno di noi: l’esperienza tragica della Repubblica di Weimar e della sua Costituzione avanzatissima travolta dalle emozioni nere scatenate dal nazismo dovrebbe servire da monito; del resto una politica che si rivolge soltanto alle emozioni è estremamente pericolosa, perché va a vellicare quel mondo senza farlo crescere, senza portare le emozioni al concetto e alla ragione.
Il nostro discorso dunque si articolerà in quello spazio di cerniera che collega mondo emotivo e mondo cognitivo e che potremmo definire spazio “prepolitico”; non più emozione e non ancora progetto. È in questo spazio grigio (non nel senso della “zona grigia” di Primo Levi, ma di un territorio che vive anche di sfumature e di ombre) che si colloca la possibilità di educare alla politica.
Il nostro viaggio attraverserà alcune parole chiave, alcuni termini che non possono mancare nel vocabolario di chi si occupa o si interessa di politica e che cercheremo di indagare in tutto il loro spessore semantico e soprattutto storico; semantico perché le parole hanno un significato preciso e soprattutto in ambito politico esse non sono mai neutre; storico perché la politica ha una storia, non è stata inventata ieri e deve essere conosciuta con un atteggiamento di curiosità e interesse per il passato, anche quello più lontano da noi. Molto spesso si afferma retoricamente che è assurdo che i nostri ragazzi studino Cesare e non Aldo Moro; dato per scontato che il fatto che i nostri giovani arrivino alla maggiore età senza che la scuola spieghi loro la storia degli ultimi 50 anni è una totale follia, non è certo Cesare a dover essere sacrificato. Anzi Cesare e Aldo Moro si integrano a vicenda nella loro infinita lontananza perché l’interesse per Cesare nasce sempre da un’esigenza contemporanea, come diceva Benedetto Croce: “il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di ‘storia contemporanea’, perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni”.

Anzitutto analizzeremo la parola Politica, come termine introduttivo a tutto il discorso; e poi parole quali Potere, Conflitto, Democrazia, Dittatura/totalitarismo, Partecipazione, Istituzione, Movimento/partito, Maggioranza/minoranza, Leader, Violenza/nonviolenza, Propaganda.
Ogni articolo sarà strutturato in più parti:
– come parlare (una indagine sul vero significato delle parole, nella consapevolezza che saper attribuire il giusto significato a un termine è già un gesto politico);
– come pensare (un approfondimento culturale che porti la politica a confrontarsi con i grandi pensatori, artisti, intellettuali, scienziati, ecc.);
– cosa fare (proposte di lavoro educativo concreto con i ragazzi e le ragazze);
– come provare (cosa significa “fare politica” anche al di fuori delle istituzioni);
– cosa domandarsi (qualche dubbio e qualche domanda aperta).

Speriamo che alla fine di questo viaggio ci sia la passione per la politica; che ce la faccia amare un po’ di più e temere o disprezzare di meno, e soprattutto che ci convinca che alla politica, come a tutte le cose belle e importanti della vita, si può e si deve educare.

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Caro cardo salutis. Le radici vocazionali della corporeità

Da Note di Pastorale Giovanile, l’introduzione di don Rossano Sala al dossier del numero di marzo “Siamo corpo – dall’emergenza al discernimento”, a cura di Gustavo Cavagnari e Alberto Martelli.

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Un argomento difficile

Parliamo di corpo. È questo l’argomento del Dossier NPG di marzo 2022. Tema ostico, quello del corpo. Significa focalizzarci sull’unicità della nostra persona, non solo dal punto di vista esteriore. Il corpo manifesta lo spessore della nostra singolarità. Noi siamo corpo, appunto. Prima di essere un limite, il corpo è una possibilità. Con il corpo noi siamo nel mondo come oggetti e soprattutto come soggetti.
Come leggeremo nelle pagine seguenti – di cui ringrazio i diversi autori che ci hanno con fatica e soddisfazione messo mano – quella del corpo è una vera emergenza epocale. Propriamente, la condizione attuale dei nostri corpi di carne è la cartina al tornasole di una “questione antropologica” che ha nel corpo una particolare visibilità, tanto da farne un sintomo palese di una “crisi antropologica” in atto da molto tempo.
Ogni sintomo, come sappiamo, rimanda a qualcosa di più importante e radicale: potrebbe essere il segno esteriore di una grave patologia, ma anche un qualcosa che la precede e la manifesta. Se nel primo caso le cose potrebbero mettersi davvero male, nel secondo vediamo nel sintomo una spia provvidenziale, che chiede giusta attenzione e rapida azione.
Attraverso questo Dossier desideriamo pensare alla questione del corpo in questa seconda direzione: lo vediamo come un segnale chiaro per tutti di una rotta che dobbiamo almeno rimettere in discussione.

Non c’è nulla di più interiore dell’esteriorità

Che cosa può dirci un corpo disseminato di piercing e di tatuaggi? O il modo di curare i nostri capelli? O, ancora, il nostro modo di vestire? Oppure che cosa ci dicono le difficoltà alimentari degli adolescenti, che siano l’anoressia per le ragazze e la bulimia per i ragazzi? O alcuni comportamenti estremi che palesemente maltrattano e puniscono il nostro corpo?
Di certo dicono molto rispetto all’anima umana e alla postura spirituale di un ragazzo, di un giovane o di un adulto [1]. Sappiamo che ci sono tanti modi di comunicare, e sicuramente il corpo ha il suo linguaggio che dobbiamo almeno cercare di intuire. Il corpo parla in molti modi. Ultimamente è diventato quasi una tela bianca a completa disposizione del soggetto, su cui ognuno dipinge se stesso per manifestarsi agli altri.
Azzardiamo quindi la tesi per cui la nostra interiorità si fa visibile attraverso il nostro corpo. Il disagio e la fatica, il dolore e l’ansia, la gioia e la felicità si esprimono attraverso di esso, che in genere diventa sempre meno qualcosa da accogliere, accettare e rispettare e sempre più uno spazio espositivo costantemente visibile. Quasi una “mostra permanente”, aperta tutti i giorni dell’anno e a tutte le ore del giorno.
Attraverso il nostro corpo diciamo noi stessi, perché il corpo ha a che fare “interiormente” con la nostra persona. Sappiamo, per esempio, che violare il corpo di un altro attraverso un abuso sessuale significa segnare in profondità la sua interiorità, sfigurare per sempre la sua anima, ferire indelebilmente il suo spirito. Penetrare nel corpo dell’altro significa invadere il suo spazio vitale, entrare in un mondo altro rispetto al proprio, superare quella “distanza di sicurezza” che ha nei confini corporei un limite da valicare solo con sapienza, prudenza e rispetto… e mai con violenza.

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Grammatica civica / Marcello, Xi Ling, Fatima: dal pronome al nome

Da Note di Pastorale Giovanile.

di Raffaele Mantegazza

 

Dante, perché Virgilio se ne vada
non pianger anco, non piangere ancora,
che pianger ti convien per altra spada
Purgatorio, XXX, 55-57

L’incontro di Dante con Beatrice è altamente drammatico. Il poeta sta piangendo amaramente per la scomparsa improvvisa di Virgilio che ha concluso il suo ruolo di mentore e lo ha lasciato solo, quando la donna della sua vita inizia un lunghissimo rimprovero, così aspro e violento che addirittura le beate che accompagnano Beatrice intercederanno per Dante cercando di placare l’ira della donna. È un incontro che fa vergognare il poeta e lo fa pentire dei suoi errori. Sembrerebbe un incontro negativo, il più drammatico di tutti quelli finora svoltisi all’Inferno o nel Purgatorio. Ma l’aspetto che maggiormente colpisce in questi versi è che Beatrice è la prima e l’unica persona in tutta la Divina Commedia a chiamare Dante per nome. L’ha notato Jorge Luis Borges: nessuno, nemmeno Virgilio, si è mai rivolto e si rivolgerà mai al poeta fiorentino pronunciando quel vocativo “Dante” che in bocca a Beatrice quasi intenerisce tutte le rampogne che seguiranno.

Che cosa c’è in un nome? Ovviamente c’è la storia, le esperienze di vita, quel qualcosa di magico che ci fa voltare per strada quando sentiamo il nostro nome anche se il richiamo non è rivolto a noi. Con il nostro nome ci identifichiamo, sia che lo amiamo, sia che non ci piaccia; è la base dei nomignoli, dei soprannomi, delle storpiature a volte affettuose a volte crudeli. È la nostra seconda pelle, un intrico di vocali e consonanti che ci definisce, che ci fa essere “qualcuno” di fronte agli altri e di fronte al mondo. Il nome ci fa diventare dei “tu”, e di fronte a chi ci dà del “tu” diventiamo anche degli “io”.
È mia abitudine [1] dare del “lei” agli studenti universitari perché ritengo che l’Università sia un luogo di adulti e vi si debbano intrattenere relazioni adulte, ma sia a me che ai miei studenti piace molto che li chiami per nome a lezione o durante l’esame. “Buongiorno, Simone, iniziamo l’esame”: un modo per dire che l’esame lo devi sostenere proprio tu, ragazzo di vent’anni, che questo nome rende irripetibile e insostituibile, e che io ho ben presente la tua identità di adolescente giustamente filtrata dal ruolo di studente. Gli studenti hanno un numero di matricola: usarlo per qualcosa di altro che per questioni di archiviazione burocratica dei dati significa mettere in campo una relazione spersonalizzata, un rapporto che ha ben poco di umano. Per inciso non ho mai sentito niente di più sciocco dell’affermazione secondo la quale gli studenti universitari sono ormai grandi e non hanno bisogni di tipo pedagogico, emotivo e educativo. Come se questi bisogni finissero con la maggiore età, come se avessero una data di scadenza come i pomodori che si acquistano al supermercato. Semmai occorre considerarli come bisogni adulti, e farli entrare nella relazione educativa in modo differente da come si farebbe con un bambino appunto.

Ho usato sopra l’espressione “i miei studenti”. Questa è la chiave probabilmente per accedere al mondo dell’educazione civica dal versante pedagogico. Questo è il segno di quella straordinaria magia che viene messa in atto dalla relazione educativa, che fa sì che un nome sia qualche cosa di diverso da una semplice parola, e che un nome ripetuto, un’omonimia, non sia mai una vera ripetizione. Tutto questo ci fa veramente accedere al mondo della cittadinanza. I “miei” studenti sono “miei” perché non li possiedo, né individualmente né in serie; ma il loro essere “miei” è segno di una relazione di cura che ha ben chiaro in mente il momento nel quale io non sarò più il loro professore e loro non saranno più i miei studenti, ma torneremo ad essere solamente cittadini. Ho scritto “i miei studenti”, ma probabilmente avrei dovuto scrivere il “mio” Stefano, il “mio” Ionu, la “mia” Chiara. La relazione educativa non si lascia facilmente descrivere a parole, perché cambia ogni giorno al variare dei personaggi e al variare di ciascun personaggio in sé medesimo.

“Tu!” “Io?” “Sì, tu!”. Così Giulio Carlo Argan dà voce al capolavoro La chiamata di Levi di Caravaggio. C’è tutto lo stupore dell’essere chiamato, una chiamata del tutto inattesa, una vocazione che viene a svegliare dal torpore l’ultima persona che si riterrebbe degna di una relazione con il Maestro: cosa che peraltro Gesù è solito fare per tutta la sua avventura terrena. Un tesissimo scambio dialettico che mi sembra emblematico del rapporto io-tu proprio dell’educazione. Io mi rivolgo a te, proprio a te, come l’Imperatore nella novella di Kafka: “L’imperatore – così si dice – ha inviato a te, al singolo, all’umilissimo suddito, alla minuscola ombra sperduta nel più remoto cantuccio di fronte al sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha mandato un messaggio dal suo letto di morte”. Moltissimi anni fa un ragazzo di 14 anni mi raccontava il suo orgoglio perché, nel suo paese sul lago di Como, un anziano al bar lo aveva scelto come compagno in una sfida a scopa. Il fatto di essere stato scelto, indicato, chiamato a sé da una persona che poteva avere l’età di suo nonno aveva dato a questo ragazzo una sferzata di energia positiva. Questo accade sempre nella relazione educativa quando l’allievo si rende conto che le parole del maestro sono rivolte a lui in modo specifico, che c’è qualcuno cioè che si prende cura di lui chiamandolo per nome ed entrando, delicatamente, nella sua vita. E che lo chiama a una nuova vita, perché il nome che entra nella relazione educativa è qualcosa di differente da quello registrato all’anagrafe; è un nome affettivizzato, investito di un progetto, un nome giocato al futuro: il nome di un mio allievo che voglio guidare alla conquista di una nuova identità.
L’educazione è dunque una chiamata; potremmo definirla una vocazione se questa parola non fosse stata sprecata retoricamente per definire l’educatore (“non è un mestiere, è una vocazione!”, il che semmai dovrebbe valere per ogni mestiere realmente scelto dal profondo dell’anima), mentre invece ad essere “vocato” è l’allievo, è lui ad essere chiamato fuori dall’ex-ducere che viene messo in moto dal gesto dell’educatore.

Ma la grande sfida dell’educazione, quella che la rende indispensabile per la formazione del cittadino, è che questo rapporto non resta mai soltanto una relazione duale. Nel rapporto tra maestro e allievo è racchiusa tutta la società. Anche se l’allievo è portato a pensare “fra i tanti ha scelto me”, lo scopo del maestro è quello di fargli concludere: “fra i tanti ha scelto tutti, uno per uno”. Così un registro di classe non è mai semplicemente un elenco, ma un accostare storie, esperienze del mondo; non è soltanto una lista di dati biografici, ma un tentativo di predisporre un reagente all’interno del quale i nomi e le persone provano a conoscersi. Anche i ragazzi si chiamano per nome tra loro, e segretamente chiamano i loro maestri con un nomignolo o con un soprannome, non importa se sarcastico o ironico, l’importante è che sia aperta una comunicazione che non è mai solo tra due persone ma virtualmente tra tutti coloro che sono maestri e tutti coloro che sono allievi, ovvero tra tutti gli esseri umani.
Questo è il senso dello slogan “non uno di meno” che deve costituire il criterio regolatore di ogni azione educativa in una democrazia. La questione non è soltanto mettere a disposizione di tutti risorse e contenuti, ma arrivare al cuore e alla mente di ciascuno senza peraltro ridurre l’educazione a un rapporto privatistico; è tenere insieme il singolo e la collettività: da questo punto di vista allora l’educazione civica non è distribuzione di informazioni, ma è un approccio educativo che nella sua stessa forma è civico al di là di ciò che si insegna. Si può infatti insegnare la Costituzione in modo non solidale, tradendone lo spirito, come si può insegnare la matematica creando veri cittadini e cittadine.

Quello che è davvero civico è il rapporto tra maestro e allievo all’interno di un gruppo, che poi riverbera ovviamente anche nel rapporto tra gli insegnanti tra loro, tra questi e genitori, tra tutti i cittadini. In questo senso la collegialità è uno straordinario strumento di crescita civile e democratica di un gruppo di insegnanti; le riunioni collegiali sono dei microcosmi di democrazia, creano quella collettività adulta che poi andrà a confrontarsi con la collettività di bambini e dei ragazzi, mostrando con l’esempio quotidiano come è possibile crescere solo confrontandosi con gli altri, imparando dai propri errori, cercando di mettere in comune le buone pratiche e gli elementi di scoperta e di innovazione.
Con il nome, il primo elemento linguistico della nostra venuta al mondo, la parola che ci garantisce l’accesso alla cittadinanza e al mondo dei diritti dei doveri, si chiude questa grammatica civica. Una grammatica individualizzata, personalizzata; la “mia” e la “nostra grammatica” per una cittadinanza che non solo non ignora i nomi dei cittadini e delle cittadine, ma ne fa il perno per la costruzione di un mondo giusto per tutti.

NOTA

1 Parte di questo articolo è scritto in prima persona per motivi che dovrebbero risultare chiari dalla lettura.

 

Annunciare il Vangelo con i giovani

Da Note di Pastorale Giovanile.

***

di don Rossano Sala


L’istituzione del ministero di catechista

Ho avuto il dono di partecipare al Sinodo speciale sulla Regione Panamazzonica nell’ottobre del 2019. Tutti sappiamo che uno dei grandi temi sollevati in quell’assise è stato quello dei “ministeri”. Superare il clericalismo in fondo non è solo una questione teorica, ma potrà avvenire solo attraverso un autentico coinvolgimento del popolo di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. Tutto ciò passa attraverso decisioni istituzionali vincolanti, che creano una nuova mentalità e rendono possibili nuovi percorsi ecclesiali. È necessario infatti trovare modi concreti perché la sinodalità sia vissuta realmente, altrimenti rimarrebbe solo una teoria astratta.
Penso che Antiquum ministerium, la lettera apostolica in forma di “Motu proprio” con cui papa Francesco istituisce il ministero di catechista, sia un segnale inequivocabile che va in questa precisa direzione. Dare un volto istituito ad un servizio che prima aveva dei confini piuttosto labili e dei riconoscimenti lasciati ai singoli è una forma preziosa di riconoscenza e di riconoscimento.
Riconoscenza perché si tratta prima di tutto di essere grati per la schiera di persone – e sono davvero molte – che con generosità e gratuità da sempre si spendono nell’immenso mondo dell’iniziazione alla vita cristiana non solo verso i più piccoli, ma anche nei confronti di tutto il popolo di Dio.
Riconoscimento perché è importante dare visibilità e forza a questo servizio ecclesiale che è sempre più imprescindibile in una società exculturata e postcristiana (soprattutto in Europa, ma non solo). Al di là delle possibili lamentele rispetto a ciò, va visto il lato positivo della faccenda: per la Chiesa si tratta di un’opportunità per riscoprire i dinamismi propri della fede e dell’evangelizzazione, che in un tempo di cristianità rischiavano di rimanere attenuati e inoperosi.

Una forma nobile di diakonia

Di solito la “diakonia” è immaginata unilateralmente come il servizio della carità verso i più poveri. Incarnata nell’immaginario ecclesiale dalla Caritas e nel servizio silenzioso e generoso svolto da molti singoli credenti, movimenti e associazioni verso le tante forme di povertà che attanagliano un numero crescente di persone nel nostro mondo in cui la forbice tra ricchi e poveri è sempre più ampia.
Senza nulla togliere a questa forma fondamentale di diakonia, oggi siamo chiamati a prendere sempre più coscienza che c’è povertà di Vangelo tra la nostra gente, nel popolo di Dio stesso, nella Chiesa stessa. Ignorare il Vangelo è la più grave mancanza per l’uomo, che ha diritto a sentirsi annunciare la buona novella da coloro che l’hanno ricevuta in dono e che non possono tenerla per sé.
Mi chiedo a volte se siamo convinti, come Chiesa, che la povertà di parola di Dio e di annuncio della bellezza della fede è davvero una mancanza grave. Se siamo consapevoli che facciamo un torto grave se non annunciamo il Signore Gesù come fonte di vita buona, di salvezza integrale, di giustizia piena, di speranza certa. Che è solo nel suo nome che si trova ciò che il cuore dell’uomo desidera davvero.
Di certo il Vangelo non è un tesoro da custodire, ma un dono da condividere. Non è un qualcosa che ci è consegnato per l’autoconsumo personale, ma perché sia fecondo e fruttuoso per tutti. La fede è luce che illumina, e quindi non si può tenere sotto il moggio.
Diventa quindi chiaro che la catechesi è una forma di diakonia ecclesiale di cui oggi non possiamo fare a meno. Insieme alla carità concreta, al servizio gratuito, alla generosità sociale, è uno spazio di espressione e di risposta alla povertà più grande, che è quella di Dio: del suo vero volto, della sua parola salvifica, della sua bellezza strabiliante, della sua bontà infinita e della sua volontà di amicizia con ogni sua creatura.

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“Ascolto”

di Gianluca Zurra

“Ascolto” è la prima parola fondamentale per lo stile sinodale della Chiesa. Dal Concilio Vaticano II in poi è stata riscoperta la Parola di un Dio che parla agli uomini e alle donne come ad amici[1], agendo nella storia quotidiana tramite il soffio imprevedibile dello Spirito. Amicizia e sorpresa, affetto e novità si rivelano così come il cuore stesso del Dio biblico, che chiede una grande apertura delle orecchie per essere percepito nelle pieghe e nelle curvature del mondo[2].
Senza questa disposizione di ascolto, sinonimo di una fiducia che ha il coraggio di non voler sapere ogni cosa in anticipo rinunciando alla tentazione del controllo, la Chiesa non potrebbe cogliere ciò che oggi lo Spirito sta realizzando, dentro e oltre i suoi stessi confini. Lo ricorda il documento preparatorio del sinodo dei vescovi: il cammino sinodale “richiede di mettersi in ascolto dello Spirito Santo che, come il vento, ‘soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va (Gv 3,8), rimanendo aperti alle sorprese che certamente disporrà per noi lungo il cammino”[3]. Dunque, prendere sul serio fino in fondo l’incarnazione significa congedarsi dal dottrinalismo, che trasformerebbe la sinodalità in una pura applicazione, seppure più allargata, di decisioni o di concetti considerati a monte rispetto alle forme concrete del vissuto umano. Si tratta invece, per la Chiesa, di approdare al riconoscimento grato di come lo Spirito abiti l’imprevedibilità della storia, senza averne paura e senza difendersi: ascoltare la realtà diventa così non un esercizio successivo al cammino sinodale, né puramente preparatorio, ma è la sua stessa condizione, poiché non c’è Vangelo che possa risuonare prima o a lato delle esperienze elementari della vita comune, anche e soprattutto per le nuove generazioni.
È necessario, tuttavia, che la parola “ascolto” non sia generica. Per darle corpo affrontiamo tre passaggi: il senso umano dell’ascolto, lo stile di ascolto proprio di Gesù e infine una Chiesa in ascolto sinodale.

Il senso umano dell’ascolto

Fin dal primo istante della nascita, le orecchie sono protese verso i suoni che provengono dal mondo circostante. Ascoltare, dunque, è un atto contemporaneamente passivo e attivo: se non ci fosse qualcuno che ci parla e cose che risuonano per noi, non sarebbe possibile attivare l’ascolto, ma al tempo stesso se ci si chiudesse alle parole e ai suoni, nulla di nuovo potrebbe accadere in noi. Ascoltare è un intreccio tra l’umiltà che lascia parlare la realtà, senza volerla incasellare prima del tempo, e il coraggio di rielaborare ciò che si ascolta.
I suoni del mondo, in effetti, richiedono attenzione paziente, silenzio profondo, tempi lunghi di comprensione; non sopportano la fretta, il “per sentito dire”, o la sicurezza del “questo lo conosco già”. D’altronde, è esperienza comune ritrovare ossigeno ogni volta che qualcuno ci ascolta davvero, prendendo tempo per noi e condividendo la nostra storia. Viceversa, l’aridità della solitudine nasce quando non si trovano più canali di ascolto reciproco, di comprensione e accoglienza della propria vita da parte degli altri. Siamo come sospesi a quel piccolo, invisibile filo di suoni, teso tra le nostre orecchie e le tonalità del mondo che risuonano attorno a noi. Siamo il nostro ascolto e possiamo esistere in quanto siamo ascoltati, accolti, compresi!
Ascoltare è un verbo da declinare all’imperativo, non in senso moralistico, ma perché senza l’esperienza dell’ascolto saremmo sterili, non potremmo essere sostenuti e risvegliati alla vita.
Il Dio biblico, non a caso, si manifesta come colui che parla, che rivolge la parola, tramite innumerevoli e imprevisti canali: gesti, avvenimenti, sogni, leggi, persone, profeti. La fede biblica non nasce da miracoli potenti, come ci si aspetterebbe dal dio Faraone, ma dalla suggestione di un vento leggero sul monte, come succede per Elia[4], o dalla promessa di vita che si fa strada in un arbusto che arde senza consumarsi, come Mosè[5], o ancora più semplicemente dalla normale fioritura di un ramo di mandorlo che annuncia cose nuove davanti agli occhi e alle orecchie di Geremia[6].
È evidente, dunque, che ascolto e fede non sono soltanto collegati, ma diventano sinonimi, perché “ascoltare”, a differenza di “sentire”, implica il coraggio di spogliarsi delle proprie certezze, l’umiltà di fare spazio a ciò che ancora non si conosce, la profondità necessaria per cogliere la ricchezza di senso degli avvenimenti che accadono attorno e dentro di noi. Ascoltare è mettersi immediatamente nella disposizione di una relazione che tiene in vita, proprio nella misura in cui non rassicura, ma apre, espone, mette a rischio, in quanto suscita il desiderio di camminare in avanti e di ripensare da capo ciò che fino a quel momento sembrava scontato.
Mettersi in ascolto è un esodo, è continua rinascita, uscita dalle acque, riedizione creativa di ciò che succede fin dal grembo materno, quando la madre – e il padre con l’orecchio appoggiato sulla pancia di lei – percepisce la vita nascente prima ancora di poterne vedere il corpo, gli occhi e la pelle.
Nell’ascolto della realtà ne va così dell’esperienza di Dio, e nulla di meno, perché mai come in quel momento la nostra identità si riconosce sospesa ad altri e ricevuta da ciò che giunge di inedito alle nostre orecchie.
Pertanto, una Chiesa che non si mette in ascolto della vita reale perderebbe in un solo colpo la prossimità di Dio e la sua stessa umanità. Ascoltare, ripetiamolo, non è un’azione successiva all’esistenza ecclesiale, ma la condizione della sua ragion d’essere e della sua missione, poiché non c’è altro Dio all’infuori di Colui che si rivela e opera nella storia e non c’è umanità che non si formi fin dall’inizio nel miracolo silenzioso dell’ascolto reciproco.

L’ascolto di Gesù

“Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”[7]. È la voce che risuona al Giordano, quando Gesù viene battezzato. Ascoltare lui, dunque, significa imparare come il Figlio di Dio abbia fatto dell’ascolto lo stile della sua esistenza tra noi. Ci sono voluti trent’anni di vita nel nascondimento di Nazaret per poter udire, quel giorno, la voce di Dio, o per interpretare in sinagoga lo scritto di Isaia come inizio della predicazione pubblica[8]. Tutto ciò non è un periodo soltanto preparatorio, ma è già l’incarnazione in atto, attraverso un’iniziazione all’ascolto profondo della vita quotidiana senza la quale non sarebbe possibile percepire la presenza di Dio.
Se Gesù riesce a pronunciare le parabole, riconoscendo l’opera del Regno dentro il terreno della storia e delle cose più semplici, è perché non si è sottratto a questo lungo apprendistato, che non ha bisogno di fatti eclatanti, ma di orecchie e cuore ben tesi e profondi, pieni di passione per una vita che rimane e rimarrà per sempre la buona creazione di Dio, insieme alle fatiche e ai drammi che si porta con sé.
La rivelazione di Dio si realizza così attraverso l’ascolto con cui Gesù cammina nel mondo: si può dire che il riconoscimento credente del suo essere Figlio passa dalla consapevolezza che nessuno ha mai ascoltato come Lui, fino in fondo e fino alla fine. Ogni suo incontro vissuto lungo la strada non è mai superficiale, anzi! È dal confronto con la Samaritana, con la donna Cananea, piuttosto che con Zaccheo o con Nicodemo, che Gesù trae parole e gesti per dare corpo all’annuncio del Regno. Il tocco delle cose, dei colori e degli avvenimenti diventa così il terreno che può essere dissodato per trovarci con sorpresa il tesoro nascosto, anche là dove tutti gli altri vedrebbero soltanto sassi, spine, strade aride[9].
È un ascolto, quello di Gesù, che non si interrompe neppure durante il dramma del rifiuto e della morte: in questo caso si fa invocazione, ricerca, pianto, amore incondizionato, restituzione di tutto ciò che la vita ha saputo donare con sovrabbondanza. Il Risorto stesso non si manifesta dall’alto di un pulpito, o in maniera saccente: “Ora che ho vinto vi dico cosa fare e come vincere!”. Niente di tutto ciò: continua ad accostarsi con discrezione[10], cucinando pani e pesci[11], curando un giardino[12] e piegando lenzuoli[13]. La scena della risurrezione non ha mai il tono di un’invasione, né di un colpo di scena, ma ancora una volta è un evento di ascolto reciproco, da cui certo scaturisce una speranza nuova[14].
Non è un dettaglio di poco conto che la Chiesa nascente faccia memoria della Pasqua proprio così e non in altro modo. In obbedienza al suo Signore, che risorgendo non solo non supera la postura pre-pasquale dell’ascolto come fosse puramente preparatoria, ma la assume come stile stesso della sua definitiva presenza di Risorto, la comunità cristiana sa che il vero senso della missione riposa nella capacità di non invadere la scena, di non essere dispensatrice di certezze granitiche, ma di concepirsi come spazio aperto di prossimità e di accompagnamento per tutti. Così è la rivelazione di Dio in Gesù; così, e non in altro modo, deve ripensarsi lo stile ecclesiale.

Una Chiesa in ascolto sinodale

Perché l’ascolto innervi fin dall’inizio la missione ecclesiale, sono necessarie almeno tre importanti attenzioni, che possono diventare altrettanti cantieri su cui lavorare come comunità.
In primo luogo, la Chiesa nel suo insieme deve saper recuperare lo sguardo dei “segni dei tempi”, ponendo come prioritario l’impegno a ridire e riformulare l’esperienza della fede per i giovani. Sarebbe troppo superficiale credere che le nuove generazioni siano semplicemente lontane dal Cristianesimo. “Ascoltare”, in questo caso, significa riconoscere che buona parte dei giovani ha un altro linguaggio e un’altra modalità di fare propria la fede cristiana e di viverla. Scambiare il tramonto di una certa forma cristiana con la fine del Cristianesimo sarebbe uno sguardo miope; lasciarsi interpellare e cambiare da come la realtà giovanile si stia muovendo su nuovi orizzonti di senso e di ricerca religiosa è invece lo sguardo ispirato dallo Spirito, che non si difende, ma sa cogliere nuove esperienze di Vangelo fino ad oggi inedite[15].
In secondo luogo, questa esigenza implica che la comunità cristiana ridiventi uno spazio umano ospitale, presente là dove tutti si vive, perché si possa intravedere che non siamo soli nell’esperienza della fede, ma siamo sostenuti, guidati e incoraggiati da molti che condividono lo stesso cammino. Per fare questo è necessario che le strutture lascino la precedenza alle persone, a luoghi di incontro e di ricerca, che la rincorsa alle folle e ai grandi eventi sia sostituita dall’accompagnamento più personale e discreto. Solo uno stile sinodale sarà in grado di reggere a questa sfida, generando confronto, dibattito, dialogo, corresponsabilità laicale, esperienze che una struttura troppo verticistica e distante continuerebbe a rendere impossibili. Questo modo di essere diventerebbe una palestra di fede e di relazione realmente profetica, che farebbe della Chiesa non una madre protettiva incapace di far nascere, ma un grembo che genera alla vita adulta e consapevole nella fede.
In terzo luogo, la crisi attuale, dovuta alla pandemia e non solo, ci rende tutti molto più sensibili al tema della povertà e della sobrietà. Dovremmo con forza ritrovare gli occhi del Concilio per riconoscere che la comunità cristiana non ha nulla da perdere nel diventare concretamente più povera di mezzi e di strutture, più profetica e meno presenzialista, più coraggiosa nel superamento di forme manipolatorie di potere, a tutto favore di quello stile di ascolto che la rende più credibile e trasparente. Una sua più visibile e sana fragilità, anche strutturale, può finalmente esprimere la consapevolezza che, in fondo, c’è bisogno di poco, non appena è chiaro che la Chiesa non deve inventarsi la realtà o i luoghi dell’evangelizzazione, ma abitarli insieme a tutti, con profezia evangelica[16].
La sua testimonianza per le nuove generazioni passa in buona parte da qui, manifestando che anche per lei la crisi attuale non può essere motivo di arroccamento o di paura, ma passaggio, rinascita, movimento di purificazione e di riforma, luogo di ascolto in cui lo Spirito sta realizzando qualcosa di nuovo.

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