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Grammatica civica / Marcello, Xi Ling, Fatima: dal pronome al nome

Da Note di Pastorale Giovanile.

di Raffaele Mantegazza

 

Dante, perché Virgilio se ne vada
non pianger anco, non piangere ancora,
che pianger ti convien per altra spada
Purgatorio, XXX, 55-57

L’incontro di Dante con Beatrice è altamente drammatico. Il poeta sta piangendo amaramente per la scomparsa improvvisa di Virgilio che ha concluso il suo ruolo di mentore e lo ha lasciato solo, quando la donna della sua vita inizia un lunghissimo rimprovero, così aspro e violento che addirittura le beate che accompagnano Beatrice intercederanno per Dante cercando di placare l’ira della donna. È un incontro che fa vergognare il poeta e lo fa pentire dei suoi errori. Sembrerebbe un incontro negativo, il più drammatico di tutti quelli finora svoltisi all’Inferno o nel Purgatorio. Ma l’aspetto che maggiormente colpisce in questi versi è che Beatrice è la prima e l’unica persona in tutta la Divina Commedia a chiamare Dante per nome. L’ha notato Jorge Luis Borges: nessuno, nemmeno Virgilio, si è mai rivolto e si rivolgerà mai al poeta fiorentino pronunciando quel vocativo “Dante” che in bocca a Beatrice quasi intenerisce tutte le rampogne che seguiranno.

Che cosa c’è in un nome? Ovviamente c’è la storia, le esperienze di vita, quel qualcosa di magico che ci fa voltare per strada quando sentiamo il nostro nome anche se il richiamo non è rivolto a noi. Con il nostro nome ci identifichiamo, sia che lo amiamo, sia che non ci piaccia; è la base dei nomignoli, dei soprannomi, delle storpiature a volte affettuose a volte crudeli. È la nostra seconda pelle, un intrico di vocali e consonanti che ci definisce, che ci fa essere “qualcuno” di fronte agli altri e di fronte al mondo. Il nome ci fa diventare dei “tu”, e di fronte a chi ci dà del “tu” diventiamo anche degli “io”.
È mia abitudine [1] dare del “lei” agli studenti universitari perché ritengo che l’Università sia un luogo di adulti e vi si debbano intrattenere relazioni adulte, ma sia a me che ai miei studenti piace molto che li chiami per nome a lezione o durante l’esame. “Buongiorno, Simone, iniziamo l’esame”: un modo per dire che l’esame lo devi sostenere proprio tu, ragazzo di vent’anni, che questo nome rende irripetibile e insostituibile, e che io ho ben presente la tua identità di adolescente giustamente filtrata dal ruolo di studente. Gli studenti hanno un numero di matricola: usarlo per qualcosa di altro che per questioni di archiviazione burocratica dei dati significa mettere in campo una relazione spersonalizzata, un rapporto che ha ben poco di umano. Per inciso non ho mai sentito niente di più sciocco dell’affermazione secondo la quale gli studenti universitari sono ormai grandi e non hanno bisogni di tipo pedagogico, emotivo e educativo. Come se questi bisogni finissero con la maggiore età, come se avessero una data di scadenza come i pomodori che si acquistano al supermercato. Semmai occorre considerarli come bisogni adulti, e farli entrare nella relazione educativa in modo differente da come si farebbe con un bambino appunto.

Ho usato sopra l’espressione “i miei studenti”. Questa è la chiave probabilmente per accedere al mondo dell’educazione civica dal versante pedagogico. Questo è il segno di quella straordinaria magia che viene messa in atto dalla relazione educativa, che fa sì che un nome sia qualche cosa di diverso da una semplice parola, e che un nome ripetuto, un’omonimia, non sia mai una vera ripetizione. Tutto questo ci fa veramente accedere al mondo della cittadinanza. I “miei” studenti sono “miei” perché non li possiedo, né individualmente né in serie; ma il loro essere “miei” è segno di una relazione di cura che ha ben chiaro in mente il momento nel quale io non sarò più il loro professore e loro non saranno più i miei studenti, ma torneremo ad essere solamente cittadini. Ho scritto “i miei studenti”, ma probabilmente avrei dovuto scrivere il “mio” Stefano, il “mio” Ionu, la “mia” Chiara. La relazione educativa non si lascia facilmente descrivere a parole, perché cambia ogni giorno al variare dei personaggi e al variare di ciascun personaggio in sé medesimo.

“Tu!” “Io?” “Sì, tu!”. Così Giulio Carlo Argan dà voce al capolavoro La chiamata di Levi di Caravaggio. C’è tutto lo stupore dell’essere chiamato, una chiamata del tutto inattesa, una vocazione che viene a svegliare dal torpore l’ultima persona che si riterrebbe degna di una relazione con il Maestro: cosa che peraltro Gesù è solito fare per tutta la sua avventura terrena. Un tesissimo scambio dialettico che mi sembra emblematico del rapporto io-tu proprio dell’educazione. Io mi rivolgo a te, proprio a te, come l’Imperatore nella novella di Kafka: “L’imperatore – così si dice – ha inviato a te, al singolo, all’umilissimo suddito, alla minuscola ombra sperduta nel più remoto cantuccio di fronte al sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha mandato un messaggio dal suo letto di morte”. Moltissimi anni fa un ragazzo di 14 anni mi raccontava il suo orgoglio perché, nel suo paese sul lago di Como, un anziano al bar lo aveva scelto come compagno in una sfida a scopa. Il fatto di essere stato scelto, indicato, chiamato a sé da una persona che poteva avere l’età di suo nonno aveva dato a questo ragazzo una sferzata di energia positiva. Questo accade sempre nella relazione educativa quando l’allievo si rende conto che le parole del maestro sono rivolte a lui in modo specifico, che c’è qualcuno cioè che si prende cura di lui chiamandolo per nome ed entrando, delicatamente, nella sua vita. E che lo chiama a una nuova vita, perché il nome che entra nella relazione educativa è qualcosa di differente da quello registrato all’anagrafe; è un nome affettivizzato, investito di un progetto, un nome giocato al futuro: il nome di un mio allievo che voglio guidare alla conquista di una nuova identità.
L’educazione è dunque una chiamata; potremmo definirla una vocazione se questa parola non fosse stata sprecata retoricamente per definire l’educatore (“non è un mestiere, è una vocazione!”, il che semmai dovrebbe valere per ogni mestiere realmente scelto dal profondo dell’anima), mentre invece ad essere “vocato” è l’allievo, è lui ad essere chiamato fuori dall’ex-ducere che viene messo in moto dal gesto dell’educatore.

Ma la grande sfida dell’educazione, quella che la rende indispensabile per la formazione del cittadino, è che questo rapporto non resta mai soltanto una relazione duale. Nel rapporto tra maestro e allievo è racchiusa tutta la società. Anche se l’allievo è portato a pensare “fra i tanti ha scelto me”, lo scopo del maestro è quello di fargli concludere: “fra i tanti ha scelto tutti, uno per uno”. Così un registro di classe non è mai semplicemente un elenco, ma un accostare storie, esperienze del mondo; non è soltanto una lista di dati biografici, ma un tentativo di predisporre un reagente all’interno del quale i nomi e le persone provano a conoscersi. Anche i ragazzi si chiamano per nome tra loro, e segretamente chiamano i loro maestri con un nomignolo o con un soprannome, non importa se sarcastico o ironico, l’importante è che sia aperta una comunicazione che non è mai solo tra due persone ma virtualmente tra tutti coloro che sono maestri e tutti coloro che sono allievi, ovvero tra tutti gli esseri umani.
Questo è il senso dello slogan “non uno di meno” che deve costituire il criterio regolatore di ogni azione educativa in una democrazia. La questione non è soltanto mettere a disposizione di tutti risorse e contenuti, ma arrivare al cuore e alla mente di ciascuno senza peraltro ridurre l’educazione a un rapporto privatistico; è tenere insieme il singolo e la collettività: da questo punto di vista allora l’educazione civica non è distribuzione di informazioni, ma è un approccio educativo che nella sua stessa forma è civico al di là di ciò che si insegna. Si può infatti insegnare la Costituzione in modo non solidale, tradendone lo spirito, come si può insegnare la matematica creando veri cittadini e cittadine.

Quello che è davvero civico è il rapporto tra maestro e allievo all’interno di un gruppo, che poi riverbera ovviamente anche nel rapporto tra gli insegnanti tra loro, tra questi e genitori, tra tutti i cittadini. In questo senso la collegialità è uno straordinario strumento di crescita civile e democratica di un gruppo di insegnanti; le riunioni collegiali sono dei microcosmi di democrazia, creano quella collettività adulta che poi andrà a confrontarsi con la collettività di bambini e dei ragazzi, mostrando con l’esempio quotidiano come è possibile crescere solo confrontandosi con gli altri, imparando dai propri errori, cercando di mettere in comune le buone pratiche e gli elementi di scoperta e di innovazione.
Con il nome, il primo elemento linguistico della nostra venuta al mondo, la parola che ci garantisce l’accesso alla cittadinanza e al mondo dei diritti dei doveri, si chiude questa grammatica civica. Una grammatica individualizzata, personalizzata; la “mia” e la “nostra grammatica” per una cittadinanza che non solo non ignora i nomi dei cittadini e delle cittadine, ma ne fa il perno per la costruzione di un mondo giusto per tutti.

NOTA

1 Parte di questo articolo è scritto in prima persona per motivi che dovrebbero risultare chiari dalla lettura.

 

Annunciare il Vangelo con i giovani

Da Note di Pastorale Giovanile.

***

di don Rossano Sala


L’istituzione del ministero di catechista

Ho avuto il dono di partecipare al Sinodo speciale sulla Regione Panamazzonica nell’ottobre del 2019. Tutti sappiamo che uno dei grandi temi sollevati in quell’assise è stato quello dei “ministeri”. Superare il clericalismo in fondo non è solo una questione teorica, ma potrà avvenire solo attraverso un autentico coinvolgimento del popolo di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. Tutto ciò passa attraverso decisioni istituzionali vincolanti, che creano una nuova mentalità e rendono possibili nuovi percorsi ecclesiali. È necessario infatti trovare modi concreti perché la sinodalità sia vissuta realmente, altrimenti rimarrebbe solo una teoria astratta.
Penso che Antiquum ministerium, la lettera apostolica in forma di “Motu proprio” con cui papa Francesco istituisce il ministero di catechista, sia un segnale inequivocabile che va in questa precisa direzione. Dare un volto istituito ad un servizio che prima aveva dei confini piuttosto labili e dei riconoscimenti lasciati ai singoli è una forma preziosa di riconoscenza e di riconoscimento.
Riconoscenza perché si tratta prima di tutto di essere grati per la schiera di persone – e sono davvero molte – che con generosità e gratuità da sempre si spendono nell’immenso mondo dell’iniziazione alla vita cristiana non solo verso i più piccoli, ma anche nei confronti di tutto il popolo di Dio.
Riconoscimento perché è importante dare visibilità e forza a questo servizio ecclesiale che è sempre più imprescindibile in una società exculturata e postcristiana (soprattutto in Europa, ma non solo). Al di là delle possibili lamentele rispetto a ciò, va visto il lato positivo della faccenda: per la Chiesa si tratta di un’opportunità per riscoprire i dinamismi propri della fede e dell’evangelizzazione, che in un tempo di cristianità rischiavano di rimanere attenuati e inoperosi.

Una forma nobile di diakonia

Di solito la “diakonia” è immaginata unilateralmente come il servizio della carità verso i più poveri. Incarnata nell’immaginario ecclesiale dalla Caritas e nel servizio silenzioso e generoso svolto da molti singoli credenti, movimenti e associazioni verso le tante forme di povertà che attanagliano un numero crescente di persone nel nostro mondo in cui la forbice tra ricchi e poveri è sempre più ampia.
Senza nulla togliere a questa forma fondamentale di diakonia, oggi siamo chiamati a prendere sempre più coscienza che c’è povertà di Vangelo tra la nostra gente, nel popolo di Dio stesso, nella Chiesa stessa. Ignorare il Vangelo è la più grave mancanza per l’uomo, che ha diritto a sentirsi annunciare la buona novella da coloro che l’hanno ricevuta in dono e che non possono tenerla per sé.
Mi chiedo a volte se siamo convinti, come Chiesa, che la povertà di parola di Dio e di annuncio della bellezza della fede è davvero una mancanza grave. Se siamo consapevoli che facciamo un torto grave se non annunciamo il Signore Gesù come fonte di vita buona, di salvezza integrale, di giustizia piena, di speranza certa. Che è solo nel suo nome che si trova ciò che il cuore dell’uomo desidera davvero.
Di certo il Vangelo non è un tesoro da custodire, ma un dono da condividere. Non è un qualcosa che ci è consegnato per l’autoconsumo personale, ma perché sia fecondo e fruttuoso per tutti. La fede è luce che illumina, e quindi non si può tenere sotto il moggio.
Diventa quindi chiaro che la catechesi è una forma di diakonia ecclesiale di cui oggi non possiamo fare a meno. Insieme alla carità concreta, al servizio gratuito, alla generosità sociale, è uno spazio di espressione e di risposta alla povertà più grande, che è quella di Dio: del suo vero volto, della sua parola salvifica, della sua bellezza strabiliante, della sua bontà infinita e della sua volontà di amicizia con ogni sua creatura.

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“Ascolto”

di Gianluca Zurra

“Ascolto” è la prima parola fondamentale per lo stile sinodale della Chiesa. Dal Concilio Vaticano II in poi è stata riscoperta la Parola di un Dio che parla agli uomini e alle donne come ad amici[1], agendo nella storia quotidiana tramite il soffio imprevedibile dello Spirito. Amicizia e sorpresa, affetto e novità si rivelano così come il cuore stesso del Dio biblico, che chiede una grande apertura delle orecchie per essere percepito nelle pieghe e nelle curvature del mondo[2].
Senza questa disposizione di ascolto, sinonimo di una fiducia che ha il coraggio di non voler sapere ogni cosa in anticipo rinunciando alla tentazione del controllo, la Chiesa non potrebbe cogliere ciò che oggi lo Spirito sta realizzando, dentro e oltre i suoi stessi confini. Lo ricorda il documento preparatorio del sinodo dei vescovi: il cammino sinodale “richiede di mettersi in ascolto dello Spirito Santo che, come il vento, ‘soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va (Gv 3,8), rimanendo aperti alle sorprese che certamente disporrà per noi lungo il cammino”[3]. Dunque, prendere sul serio fino in fondo l’incarnazione significa congedarsi dal dottrinalismo, che trasformerebbe la sinodalità in una pura applicazione, seppure più allargata, di decisioni o di concetti considerati a monte rispetto alle forme concrete del vissuto umano. Si tratta invece, per la Chiesa, di approdare al riconoscimento grato di come lo Spirito abiti l’imprevedibilità della storia, senza averne paura e senza difendersi: ascoltare la realtà diventa così non un esercizio successivo al cammino sinodale, né puramente preparatorio, ma è la sua stessa condizione, poiché non c’è Vangelo che possa risuonare prima o a lato delle esperienze elementari della vita comune, anche e soprattutto per le nuove generazioni.
È necessario, tuttavia, che la parola “ascolto” non sia generica. Per darle corpo affrontiamo tre passaggi: il senso umano dell’ascolto, lo stile di ascolto proprio di Gesù e infine una Chiesa in ascolto sinodale.

Il senso umano dell’ascolto

Fin dal primo istante della nascita, le orecchie sono protese verso i suoni che provengono dal mondo circostante. Ascoltare, dunque, è un atto contemporaneamente passivo e attivo: se non ci fosse qualcuno che ci parla e cose che risuonano per noi, non sarebbe possibile attivare l’ascolto, ma al tempo stesso se ci si chiudesse alle parole e ai suoni, nulla di nuovo potrebbe accadere in noi. Ascoltare è un intreccio tra l’umiltà che lascia parlare la realtà, senza volerla incasellare prima del tempo, e il coraggio di rielaborare ciò che si ascolta.
I suoni del mondo, in effetti, richiedono attenzione paziente, silenzio profondo, tempi lunghi di comprensione; non sopportano la fretta, il “per sentito dire”, o la sicurezza del “questo lo conosco già”. D’altronde, è esperienza comune ritrovare ossigeno ogni volta che qualcuno ci ascolta davvero, prendendo tempo per noi e condividendo la nostra storia. Viceversa, l’aridità della solitudine nasce quando non si trovano più canali di ascolto reciproco, di comprensione e accoglienza della propria vita da parte degli altri. Siamo come sospesi a quel piccolo, invisibile filo di suoni, teso tra le nostre orecchie e le tonalità del mondo che risuonano attorno a noi. Siamo il nostro ascolto e possiamo esistere in quanto siamo ascoltati, accolti, compresi!
Ascoltare è un verbo da declinare all’imperativo, non in senso moralistico, ma perché senza l’esperienza dell’ascolto saremmo sterili, non potremmo essere sostenuti e risvegliati alla vita.
Il Dio biblico, non a caso, si manifesta come colui che parla, che rivolge la parola, tramite innumerevoli e imprevisti canali: gesti, avvenimenti, sogni, leggi, persone, profeti. La fede biblica non nasce da miracoli potenti, come ci si aspetterebbe dal dio Faraone, ma dalla suggestione di un vento leggero sul monte, come succede per Elia[4], o dalla promessa di vita che si fa strada in un arbusto che arde senza consumarsi, come Mosè[5], o ancora più semplicemente dalla normale fioritura di un ramo di mandorlo che annuncia cose nuove davanti agli occhi e alle orecchie di Geremia[6].
È evidente, dunque, che ascolto e fede non sono soltanto collegati, ma diventano sinonimi, perché “ascoltare”, a differenza di “sentire”, implica il coraggio di spogliarsi delle proprie certezze, l’umiltà di fare spazio a ciò che ancora non si conosce, la profondità necessaria per cogliere la ricchezza di senso degli avvenimenti che accadono attorno e dentro di noi. Ascoltare è mettersi immediatamente nella disposizione di una relazione che tiene in vita, proprio nella misura in cui non rassicura, ma apre, espone, mette a rischio, in quanto suscita il desiderio di camminare in avanti e di ripensare da capo ciò che fino a quel momento sembrava scontato.
Mettersi in ascolto è un esodo, è continua rinascita, uscita dalle acque, riedizione creativa di ciò che succede fin dal grembo materno, quando la madre – e il padre con l’orecchio appoggiato sulla pancia di lei – percepisce la vita nascente prima ancora di poterne vedere il corpo, gli occhi e la pelle.
Nell’ascolto della realtà ne va così dell’esperienza di Dio, e nulla di meno, perché mai come in quel momento la nostra identità si riconosce sospesa ad altri e ricevuta da ciò che giunge di inedito alle nostre orecchie.
Pertanto, una Chiesa che non si mette in ascolto della vita reale perderebbe in un solo colpo la prossimità di Dio e la sua stessa umanità. Ascoltare, ripetiamolo, non è un’azione successiva all’esistenza ecclesiale, ma la condizione della sua ragion d’essere e della sua missione, poiché non c’è altro Dio all’infuori di Colui che si rivela e opera nella storia e non c’è umanità che non si formi fin dall’inizio nel miracolo silenzioso dell’ascolto reciproco.

L’ascolto di Gesù

“Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”[7]. È la voce che risuona al Giordano, quando Gesù viene battezzato. Ascoltare lui, dunque, significa imparare come il Figlio di Dio abbia fatto dell’ascolto lo stile della sua esistenza tra noi. Ci sono voluti trent’anni di vita nel nascondimento di Nazaret per poter udire, quel giorno, la voce di Dio, o per interpretare in sinagoga lo scritto di Isaia come inizio della predicazione pubblica[8]. Tutto ciò non è un periodo soltanto preparatorio, ma è già l’incarnazione in atto, attraverso un’iniziazione all’ascolto profondo della vita quotidiana senza la quale non sarebbe possibile percepire la presenza di Dio.
Se Gesù riesce a pronunciare le parabole, riconoscendo l’opera del Regno dentro il terreno della storia e delle cose più semplici, è perché non si è sottratto a questo lungo apprendistato, che non ha bisogno di fatti eclatanti, ma di orecchie e cuore ben tesi e profondi, pieni di passione per una vita che rimane e rimarrà per sempre la buona creazione di Dio, insieme alle fatiche e ai drammi che si porta con sé.
La rivelazione di Dio si realizza così attraverso l’ascolto con cui Gesù cammina nel mondo: si può dire che il riconoscimento credente del suo essere Figlio passa dalla consapevolezza che nessuno ha mai ascoltato come Lui, fino in fondo e fino alla fine. Ogni suo incontro vissuto lungo la strada non è mai superficiale, anzi! È dal confronto con la Samaritana, con la donna Cananea, piuttosto che con Zaccheo o con Nicodemo, che Gesù trae parole e gesti per dare corpo all’annuncio del Regno. Il tocco delle cose, dei colori e degli avvenimenti diventa così il terreno che può essere dissodato per trovarci con sorpresa il tesoro nascosto, anche là dove tutti gli altri vedrebbero soltanto sassi, spine, strade aride[9].
È un ascolto, quello di Gesù, che non si interrompe neppure durante il dramma del rifiuto e della morte: in questo caso si fa invocazione, ricerca, pianto, amore incondizionato, restituzione di tutto ciò che la vita ha saputo donare con sovrabbondanza. Il Risorto stesso non si manifesta dall’alto di un pulpito, o in maniera saccente: “Ora che ho vinto vi dico cosa fare e come vincere!”. Niente di tutto ciò: continua ad accostarsi con discrezione[10], cucinando pani e pesci[11], curando un giardino[12] e piegando lenzuoli[13]. La scena della risurrezione non ha mai il tono di un’invasione, né di un colpo di scena, ma ancora una volta è un evento di ascolto reciproco, da cui certo scaturisce una speranza nuova[14].
Non è un dettaglio di poco conto che la Chiesa nascente faccia memoria della Pasqua proprio così e non in altro modo. In obbedienza al suo Signore, che risorgendo non solo non supera la postura pre-pasquale dell’ascolto come fosse puramente preparatoria, ma la assume come stile stesso della sua definitiva presenza di Risorto, la comunità cristiana sa che il vero senso della missione riposa nella capacità di non invadere la scena, di non essere dispensatrice di certezze granitiche, ma di concepirsi come spazio aperto di prossimità e di accompagnamento per tutti. Così è la rivelazione di Dio in Gesù; così, e non in altro modo, deve ripensarsi lo stile ecclesiale.

Una Chiesa in ascolto sinodale

Perché l’ascolto innervi fin dall’inizio la missione ecclesiale, sono necessarie almeno tre importanti attenzioni, che possono diventare altrettanti cantieri su cui lavorare come comunità.
In primo luogo, la Chiesa nel suo insieme deve saper recuperare lo sguardo dei “segni dei tempi”, ponendo come prioritario l’impegno a ridire e riformulare l’esperienza della fede per i giovani. Sarebbe troppo superficiale credere che le nuove generazioni siano semplicemente lontane dal Cristianesimo. “Ascoltare”, in questo caso, significa riconoscere che buona parte dei giovani ha un altro linguaggio e un’altra modalità di fare propria la fede cristiana e di viverla. Scambiare il tramonto di una certa forma cristiana con la fine del Cristianesimo sarebbe uno sguardo miope; lasciarsi interpellare e cambiare da come la realtà giovanile si stia muovendo su nuovi orizzonti di senso e di ricerca religiosa è invece lo sguardo ispirato dallo Spirito, che non si difende, ma sa cogliere nuove esperienze di Vangelo fino ad oggi inedite[15].
In secondo luogo, questa esigenza implica che la comunità cristiana ridiventi uno spazio umano ospitale, presente là dove tutti si vive, perché si possa intravedere che non siamo soli nell’esperienza della fede, ma siamo sostenuti, guidati e incoraggiati da molti che condividono lo stesso cammino. Per fare questo è necessario che le strutture lascino la precedenza alle persone, a luoghi di incontro e di ricerca, che la rincorsa alle folle e ai grandi eventi sia sostituita dall’accompagnamento più personale e discreto. Solo uno stile sinodale sarà in grado di reggere a questa sfida, generando confronto, dibattito, dialogo, corresponsabilità laicale, esperienze che una struttura troppo verticistica e distante continuerebbe a rendere impossibili. Questo modo di essere diventerebbe una palestra di fede e di relazione realmente profetica, che farebbe della Chiesa non una madre protettiva incapace di far nascere, ma un grembo che genera alla vita adulta e consapevole nella fede.
In terzo luogo, la crisi attuale, dovuta alla pandemia e non solo, ci rende tutti molto più sensibili al tema della povertà e della sobrietà. Dovremmo con forza ritrovare gli occhi del Concilio per riconoscere che la comunità cristiana non ha nulla da perdere nel diventare concretamente più povera di mezzi e di strutture, più profetica e meno presenzialista, più coraggiosa nel superamento di forme manipolatorie di potere, a tutto favore di quello stile di ascolto che la rende più credibile e trasparente. Una sua più visibile e sana fragilità, anche strutturale, può finalmente esprimere la consapevolezza che, in fondo, c’è bisogno di poco, non appena è chiaro che la Chiesa non deve inventarsi la realtà o i luoghi dell’evangelizzazione, ma abitarli insieme a tutti, con profezia evangelica[16].
La sua testimonianza per le nuove generazioni passa in buona parte da qui, manifestando che anche per lei la crisi attuale non può essere motivo di arroccamento o di paura, ma passaggio, rinascita, movimento di purificazione e di riforma, luogo di ascolto in cui lo Spirito sta realizzando qualcosa di nuovo.

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Due parole di premessa (al dossier: Nuove forme di regia dell’oratorio)

Da NPG di gennaio 2022.

***

di Federica Crotti *

Perché questa ricerca?

Da quando l’Oratorio esiste, ha sempre accolto la sfida di lasciarsi provocare e mettere in discussione dai bisogni e dalle urgenze del proprio tempo. E se tutto questo in passato era sostenuto da una tradizione consolidata, conosciuta e ben guidata soprattutto dal numeroso clero giovane a disposizione, oggi dobbiamo ammettere che non è più così. In particolare, il tema della guida e della “forma di regia” dell’Oratorio risulta essere sempre più sotto pressione: non solo per il calo del clero (dato certamente non secondario), ma anche per quel “cambiamento d’epoca” nel quale siamo immersi. A tale proposito, tante sono le domande e le questioni che si sollevano per chi ha a che fare con l’Oratorio. Quali modalità per incontrare realmente i destinatari e i contesti sociali per e dentro i quali l’Oratorio opera? A quale “modello di pastorale” ispirarsi, se occorre coinvolgere le dinamiche familiari dentro un progetto educativo fatto di alleanze? E quale “governo”, quale “forma di Chiesa” per ancora ben supportare questo “servizio” che viene fatto e desidera continuare ad essere offerto a tutta la comunità, cristiana e non?

Le pagine che compongono questo dossier sono l’estratto di un’ampia ricerca che ha avuto la finalità di mostrare come, in diverse realtà della Regione Ecclesiastica Lombarda, si è tentato di dare risposta alle domande che ci siamo appena posti . Nel 2019, ODL (Oratori Diocesi Lombarde), attraverso il tavolo di coordinamento degli uffici diocesani per la pastorale giovanile, ha ritenuto opportuno avviare questa ricerca ponendo al centro innanzitutto la questione fondamentale della “forma di regia” degli Oratori del futuro. È chiaro, come dicevamo, che la questione della regia non esaurisce le domande sull’Oratorio: una ulteriore ricerca, più radicale sull’Oratorio stesso, sarà sempre più necessaria. Ad oggi però, si è scelto di partire proprio dalla “forma di regia”, affinché nell’immediato essa possa essere non l’unico ma certamente un ulteriore e soprattutto autorevole luogo di discernimento sulla forma dell’Oratorio stesso, contribuendo così, per quel che potrà, alla costruzione di una Chiesa dal volto sempre più conciliare, dove preti e laici potranno realmente camminare insieme.

Come si è svolta la ricerca?

Quattro sono le prospettive particolari che si è deciso di assumere per questa ricerca: quella pastorale, quella pedagogica, quella canonica e quella civilistica-giuslavorativa. ODL ha convocato persone esperte e competenti in questi quattro differenti ambiti e ha dato loro mandato di avviare la riflessione su questi temi. Per avere del materiale concreto su cui riflettere, si è ritenuto opportuno incontrare da 1 a 5 realtà per ogni Diocesi lombarda disponibile, chiedendo al corrispettivo Ufficio di Pastorale Giovanile di indicare quali fossero le esperienze e le sperimentazioni più virtuose, in termini di “forma di regia”, alla luce del loro sguardo diocesano. Dopo attento discernimento, sul territorio lombardo sono state individuate 29 realtà e ognuna di esse è stata intervistata con un incontro in presenza. Le interviste sono state svolte da due intervistatori incaricati direttamente da ODL per la loro competenza in campo pedagogico e pastorale. Per le interviste si sono incontrati tutti i soggetti coinvolti nella nuova “forma di regia”: sacerdoti (parroci, direttori di oratorio o collaboratori pastorali) e laici (volontari e/o retribuiti con differenti compiti), in forma singola oppure di gruppo.

Le aree tematiche sulle quali condurre l’intervista e poi la ricerca, sono state individuate dal gruppo di lavoro di ODL. Esse sono quattro: l’area organizzativa, l’area formativa, l’area operativa e l’area prospettica. Le descriviamo brevemente. Definiamo l’area organizzativa in termini di composizione di persone, qualità e “innovazioni” poste in campo dal prezioso capitale umano coinvolto nella regia. L’area formativa si concentra sull’accompagnamento pedagogico e pastorale fornito dalle singole Diocesi a sostegno della formazione dei soggetti coinvolti. L’area operativa guarda con attenzione all’ordinarietà della vita dell’oratorio che non si ferma e impegna la riflessione e la cura del gruppo di regia. L’area prospettica chiede di proiettarsi nel futuro per provare ad immaginare come questi nuovi dispositivi di gestione e di responsabilità potranno trasformare e accompagnare l’Oratorio in questo cambiamento d’epoca.

Tutto il materiale raccolto dagli intervistatori è stato registrato, debitamente trascritto e consegnato agli esperti nelle quattro aree di indagine, per essere rielaborato ai fini di consegnare fondamenti di senso, prospettive promettenti e indicazioni preziose di metodo.
In questo dossier ci focalizzeremo in modo particolare sullo sguardo pastorale, fornito da don Paolo Carrara (teologo pastorale della Diocesi di Bergamo) e su quello canonico, elaborato da don Marco Nogara (cancelliere della Diocesi di Como). Anche tre esperienze concrete prenderanno parola per affondare le riflessioni nella realtà concreta: Livigno, Monza e Crema. Le conclusioni pastorali per il futuro prenderanno forza dal quadro gradualmente delineato.

Quale desidera essere la posta in gioco?

Al netto delle rilevazioni fatte e delle esperienze quotidiane che ci coinvolgono direttamente, questa situazione inedita e ancora sospesa ci provoca proprio a non chiudere la riflessione ma a tenere aperte le domande che la ricerca ha raccolto e sollevato come centrali per un’onesta riflessione sull’oratorio del futuro. Proprio per il tempo di “passaggio” nel quale ci troviamo, occorre che i temi trattati riattivino un pensiero e diventino sempre più oggetto di un lavoro condiviso nei singoli territori: non per omologare, ma per fare nostra la sfida che “le urgenze e i bisogni di questo tempo” ci pongono. E garantire una ripartenza audace, e allo stesso tempo creativa, dei nostri territori attraverso quello strumento prezioso che è l’Oratorio.

“Audaci e creativi” è un’indicazione di atteggiamento personale e pastorale che Papa Francesco consegna al n. 33 dell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium. Il suo invito è alla Chiesa tutta, ad un approccio pastorale di comunità, nel quale fraternità e sinodalità diventino basi solide su cui fondare azioni umane e processi ecclesiali.
Come accennato in precedenza, la loro sperimentazione pastorale della forma di regia condivisa potrà forse rappresentare un importante laboratorio di Chiesa del Terzo Millennio che, come ci ha consegnato Papa Francesco in occasione del 50° Anniversario del Sinodo dei Vescovi nel 2015, è chiamata a incamminarsi sulla strada della sinodalità, potenziando le sinergie in tutti gli ambiti della sua missione.

* Collaboratrice Ufficio Pastorale Età Evolutiva – Diocesi di Bergamo

Il “libero arbitrio”: le azioni nella liturgia

Di Elena Massimi

(NPG 2021-08-77)

Nel presente contributo, in continuità con il precedente, si offrono alcune brevi spiegazioni di alcuni gesti liturgici.

• CAMMINARE
L’antifona della processione delle Palme (domenica delle Palme e della passione del Signore) offre il senso del camminare nella liturgia:

Ant. Le folle degli Ebrei, portando rami d’ulivo,
andavano incontro al Signore e acclamavano a gran voce:
Osanna nell’alto dei cieli.

Nel celebrare cristiano il camminare non è mai a caso, è sempre verso qualche cosa. Nella celebrazione eucaristica abbiamo tre processioni (ingresso, presentazione dei doni, comunione) che mettono ben in luce come il camminare dei fedeli, dell’assemblea che celebra, di tutta la Chiesa sia orientato a Cristo, nell’attesa della sua venuta alla fine dei tempi. «Si tratta di un cammino orientato, che segue una direzione precisa, tenendo fisso lo sguardo verso la sua meta, verso l’altare, segno di Cristo e dell’unità della Chiesa, verso l’abside, rimando a un’ulteriorità che si dischiude davanti ai nostri passi, verso la luce, il Sol oriens» (E. Borsotti).

• PREGARE IN PIEDI
L’atteggiamento fondamentale della preghiera liturgica è stare in piedi; i cristiani per il battesimo sono diventati figli nel Figlio, partecipano della sua dignità, della sua resurrezione, per questo possono stare in piedi davanti al Signore.
L’ Ordinamento generale del Messale Romano (=OGMR) ci offre le seguenti indicazioni:
«I fedeli stiano in piedi dall’inizio del canto di ingresso, o mentre il sacerdote si reca all’altare, fino alla conclusione dell’orazione di inizio (o colletta), durante il canto dell’Alleluia prima del Vangelo; durante la proclamazione del Vangelo; durante la professione di fede e la preghiera universale (o preghiera dei fedeli); e ancora dall’invito Pregate fratelli prima dell’orazione sulle offerte fino al termine della Messa […]» (n.43).

• PREGARE IN GINOCCHIO
La preghiera stando in ginocchio esprime supplica o adorazione. La posizione dello stare in ginocchio indica anche il riconoscimento del nostro peccato; nel sacramento della penitenza stiamo in ginocchio.
Per questo motivo durante la pasqua i fedeli non potevano inginocchiarsi: dovevano celebrare la gioia della resurrezione.
Nella celebrazione eucaristica, in Italia, si sta «in ginocchio, se possibile, dall’inizio dell’epiclesi che precede il racconto dell’istituzione (gesto dell’imposizione delle mani) fino all’acclamazione Mistero della fede» (CEI, Precisazioni n. 1).

• STARE SEDUTI
Stando seduti il corpo è in una posizione comoda per poter ascoltare “con la mente e con il cuore” la Parola proclamata. Il fedele, stando seduto, si apre con fiducia alla Parola di Dio (Lettura, Epistola e omelia) e gli risponde con un canto di lode e di supplica (salmo responsoriale).
Lo stare seduti è sia l’atteggiamento del discepolo nei confronti del maestro, sia quello di colui che insegna con autorità. Si legge nel Vangelo di Matteo:

«Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro […]» (Mt 5, 1-2).

L’OGMR al n. 43. Afferma: «[…] Stiano invece seduti durante la proclamazione delle letture prima del Vangelo e durante il salmo responsoriale; all’omelia e durante la preparazione dei doni all’offertorio; se lo si ritiene opportuno, durante il sacro silenzio dopo la Comunione».

• UNGERE
Nella liturgia, in molteplici circostanze, ritroviamo l’unzione. Si riportano i passi del Catechismo della Chiesa Cattolica (=CCC) a riguardo:
«Nel simbolismo biblico e antico, l’unzione presenta una grande ricchezza di significati: l’olio è segno di abbondanza e di gioia, purifica (unzione prima e dopo il bagno), rende agile (l’unzione degli atleti e dei lottatori); è segno di guarigione, poiché cura le contusioni e le piaghe e rende luminosi di bellezza, di salute e di forza» (CCC 1293).
«Questi significati dell’unzione con l’olio si ritrovano tutti nella vita sacramentale. L’unzione prima del Battesimo con l’olio dei catecumeni ha il significato di purificare e fortificare; l’unzione degli infermi esprime la guarigione e il conforto. L’unzione con il sacro crisma dopo il Battesimo, nella Confermazione e nell’Ordinazione, è il segno di una consacrazione. Mediante la Confermazione, i cristiani, ossia coloro che sono unti, partecipano maggiormente alla missione di Gesù Cristo e alla pienezza dello Spirito Santo di cui egli è ricolmo, in modo che tutta la loro vita effonda il profumo di Cristo» (CCC 1294).

• INCENSARE
«La mia preghiera stia davanti a te come incenso, le mie mani alzate come sacrificio della sera» (Sal 141,2). L’incenso è simbolo della preghiera, di quella preghiera che non mira ad alcuno scopo; che sale e adora e vuol ringraziare Dio Padre.
Per quel che riguarda la celebrazione eucaristica leggiamo nell’OGMR che l’incensazione esprime riverenza e preghiera, e che può essere utilizzata (in modo facoltativo) a) durante la processione d’ingresso; b) all’inizio della Messa, per incensare la croce e l’altare; c) alla processione e alla proclamazione del Vangelo; d) quando sono stati posti sull’altare il pane e il calice, per incensare le offerte, la croce e l’altare, il sacerdote e il popolo; e) alla presentazione dell’ostia e del calice dopo la consacrazione.
Nel rito delle esequie viene incensato il corpo del defunto per onorarlo e perché è tempio dello Spirito Santo.

• BENEDIRE
La benedizione è una parola che comunica salvezza, prosperità, gioia di vivere.
«Quando Dio o direttamente o per mezzo di altri benedice, sempre viene assicurato il suo aiuto, annunziata la sua grazia, proclamata la sua fedeltà all’alleanza sancita. E quando sono gli uomini a benedire, essi lodano Dio e inneggiano alla sua bontà e misericordia. Dio infatti benedice comunicando o preannunziando la sua bontà. Gli uomini benedicono Dio proclamando le sue lodi, rendendo a lui grazie, tributandogli il culto e l’ossequio della loro devozione; quando poi benedicono gli altri, invocano l’aiuto di Dio sui singoli e su coloro che sono riuniti in assemblea» (Benedizionale, Premesse n. 6).

• ACCENDERE IL CERO
Nel rito della luce della notte di Pasqua, durante il quale viene acceso il cero pasquale dal fuoco nuovo, celebriamo il passaggio dalle tenebre alla luce. Con queste parole, infatti, il sacerdote accompagna il rito dell’accensione: «La luce del Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito».
Accendere il cero è proclamare questa fede, che le tenebre del peccato sono state sconfitte. In tale orizzonte vanno collocati i ceri che durante le celebrazioni liturgiche sono posti sull’altare.

• SCAMBIARSI IL SEGNO DELLA PACE
Con il rito della pace, che nel Rito romano si trova tra il Padre nostro e la frazione del pane, «la Chiesa implora la pace e l’unità per se stessa e per l’intera famiglia umana, e i fedeli esprimono la comunione ecclesiale e l’amore vicendevole, prima di comunicare al Sacramento» (OGMR 82).
Il dono della pace procede dal Cristo pasquale morto e risorto, che appare nel cenacolo e mostrando le sue piaghe dice: Pace a voi!

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Mani invisibili dell’economia e mani “con anima” degli operatori sociali

Di Marco Menni (Vice Presidente Confcooperative)

La Chiesa produce da sempre responsabilità sociali: anche tra le nostre cooperatrici e i nostri cooperatori, le biografie sono piene di manifestazioni di questa chiamata. Veniamo da una storia di impegno, sostanza, opere comuni che sono state rese possibili da una forte volontà di “fare”. È una storia che si alimenta tutti i giorni e che parte dalle esperienze e dalla formazione.
Anche la mia storia è disseminata da percorsi formativi e umani, spesso nati e animati “nella sagrestia” di una parrocchia e capaci di generare volontà di impegno sociale e civile. Volontà che si sono espresse in vari modi nel Paese generando pratiche, oggi strutturate fino ad essere considerate “storiche”, incarnando una responsabilità sociale nata dal protagonismo attivo di sacerdoti e laici delle comunità locali.
La cooperazione ha applicato la diversità di approccio che sentiamo essenziale come cattolici: il fenomeno sociale che precede la teoria, dove la testimonianza è più urgente della regolamentazione; e l’economia che è pratica comune, collettiva, profondamente “reale”. Le esperienze delle banche di credito cooperativo nascevano nelle parrocchie per gestire il risparmio e i bisogni finanziari in maniera equa; le cooperative agricole erano essenziali per dare ai piccoli agricoltori un giusto riconoscimento di valore per i loro prodotti; la cooperazione sociale nasceva da un desiderio di “fare di più” per rispondere al bisogno degli ultimi che traeva la sua forza ideale da tante esperienze di volontariato ecclesiale locale.
La nostra e la mia storia è questa storia.
Chiesa e cooperazione sono fortemente assonanti e producono ancora oggi, coi fatti, legittimazione reciproca. Confcooperative richiama nello Statuto (art.1) i principi della Dottrina Sociale della Chiesa; la Chiesa riconosce l’opera e l’apporto della cooperazione.
Nel ‘900 si è alimentata una dicotomia Stato / Mercato: ma oggi riconosciamo con chiarezza che non sono sufficienti questi due fattori se non fanno spazio ai concetti di bene comune, relazioni, fiducia. Ne parlava già Antonio Genovesi nel 1765 nelle sue “Lezioni di commercio o sia d’economia civile”.
Abbiamo visto come la mano invisibile dell’economia non basti e tenda a provocare fallimenti di mercato: l’interesse individuale non produce sempre il bene collettivo.
Abbiamo visto altresì come la “potenza” dello Stato non basti e le istituzioni siano alle volte inefficaci e inefficienti.
Ma la crescente percezione che Stato e Mercato debbano rispondere a tutti i bisogni sta portando a una progressiva riduzione della capacità “propositiva” della Chiesa con i suoi laici e sacerdoti.
Anche per questo nascono meno cooperative: i bisogni ci sono sempre stati, e ancora oggi ci sono; ma c’è meno “intraprendenza”, meno “profeti” in grado di aggregare e portare speranza. Da qui dobbiamo ripartire, con una vera politica formativa e propositiva.
Oggi tra le principali priorità c’è certamente il lavoro, unito alla tutela dei territori in condizione di spopolamento e alla cura delle persone.

Il tema del lavoro

Sul tema lavoro, l’esperienza del Progetto Policoro è una manifestazione di questa intenzionalità a portare un contributo in questo senso. Rappresenta un Patto tra chiese locali e associazioni laicali. Nello specifico riconosce il fattore “lavoro” come centrale, da rafforzare, da orientare sui giovani. Dalle collaborazioni tra Chiesa e privato sociale sono nate moltissime esperienze esemplari.
Anche Papa Francesco, nel suo discorso davanti ai Giovani del Progetto Policoro, il 5 giugno 2021, ha sottolineato come occorra dare un’anima all’economia. Siamo chiamati a dare anima e senso a un’economia che sembra, soprattutto dopo la pandemia, dividere tra vincitori e vinti, tra aree forti e deboli, tra generazioni, tra generi.
L’economia a cui guardiamo è quella reale che si nutre di relazioni, di fiducia, di capitale umano. Il punto di atterraggio è sempre lo stesso: il “lavoro”, non a caso una delle 3 parole che caratterizza il Progetto Policoro assieme a “giovani” e “vangelo”.
Come dice Papa Francesco, bisogna pensare al lavoro come “atto creativo”, come “imitazione del Dio Creatore”. E allora, su questa strada dobbiamo continuare ad operare per farlo di più, e meglio. Mettiamo assieme tutte le componenti che possono giocare un ruolo in questa creazione: il mondo della cooperazione rappresentato da Confcooperative, insieme ad altre associazioni che si fondano sulla Dottrina Sociale della Chiesa, ha questo obiettivo e questa responsabilità.
Sono diverse le realtà di ispirazione cattolica che si parlano, e parlano questo linguaggio. Nostro dovere è favorire questo processo di attivazione: crediamo che da questo confronto, che è prima di tutto incontro, possano emergere percorsi concreti sul tema del lavoro: prima formativi, poi di accompagnamento e supporto.
In questo senso dobbiamo sviluppare relazioni e collaborazione tra tutti i componenti la nostra Chiesa, triangolandole con gli attori associativi ed economici che hanno a cuore il tema giovani e “lavoro”.
Il “lavoro” che abbiamo in mente ha alcune caratteristiche:
– come diceva il Santo Padre, è frutto di un atto creativo e va quindi creato, soprattutto dove scarseggia: abbiamo la responsabilità di creare le condizioni per cui i nostri giovani sappiano creare lavoro per sé e per (ma vorrei dire “con”) gli altri;
– è elemento di realizzazione personale e collettiva: il lavoro permette la realizzazione di percorsi di vita, la costruzione di famiglia e la generatività; permette anche lo sviluppo in senso ampio dei territori e delle comunità;
– è frutto di un pensiero lungo: il lavoro che abbiamo in mente non è predatorio, non è inutile, non è dannoso, ma è costruttivo, solido, capace di durare nel tempo, frutto di un impegno comune.
Per questo crediamo che in linea con le parole di Papa Francesco abbiamo voluto mettere la componente “lavoro” al centro delle associazioni di ispirazione cattolica, rendendolo ancora più strategico nelle formazioni di ogni livello, negli obiettivi, nella misurazione dei risultati prodotti.
Nel documento di audizione alle Settimane Sociali di Taranto abbiamo sottolineato la necessità di un patto di corresponsabilità tra le diverse generazioni, tra le diverse categorie lavorative, tra chi ha responsabilità educative e formative.
Papa Francesco nella Fratelli Tutti (162) diche che “Il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze.”
Il lavoro è una dimensione fondamentale per lo sviluppo integrale delle persone perché ci permette di garantire il sostentamento e il futuro della nostra famiglia, di esprimere i nostri talenti. Con esso ci poniamo al servizio della comunità di appartenenza secondo “un patto di reciprocità”, contribuendo alla sua crescita e al suo sviluppo, dato che il lavoro implica sempre relazione e condivisione e non è mai fine a se stesso.
Confcooperative ha tra gli ambiti di maggiore cura, nella promozione, alcuni temi che sono a cavallo tra lavoro e tutela dei territori “fragili” che vanno spopolandosi. Pensiamo ai workers buy-out (imprese in crisi rilevate dai lavoratori e trasformate in cooperativa) e alle cooperative di comunità (presenti nelle aree interne e periferiche e capaci di rappresentare un argine allo spopolamento e impoverimento dei territori).
Il workers buy-out ci consente di “ricreare” il lavoro, che rischia di scomparire, tramite la forma cooperativa. Si tratta di un insieme di processi, competenze, strumenti finanziati che anche Confcooperative fornisce per costruire opportunità cooperative. Dalle crisi a volte si può ripartire con speranza. Sono decine le esperienze di questo tipo e il protagonista è sempre il territorio, con gli attori che lo animano. In questo senso, serve la collaborazione di tutti: per questo sarebbe utile richiamare con forza come Papa Francesco abbia più volte sottolineato che il “lavoro recuperato” ha un valore particolare che ci vede tutti impegnati. Su questo fronte possiamo e dobbiamo crescere nella collaborazione.

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Come gestire la rabbia?

Da Nota di Pastorale Giovanile.

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San Francesco di Sales, maestro di vita spirituale per i giovani /3

Wim Collin

(NPG 2021-08-71)

Una delle emozioni che tutti affrontiamo e proviamo, tanto verso noi stessi quanto verso gli altri, è la rabbia. Non bisogna pensare subito ad una forma eccessiva di ira, paragonabile ad una eruzione vulcanica, bensì al sentimento in tutte le sue sfaccettature. Talvolta può accadere che qualcuno sia infastidito o arrabbiato per ciò in cui ha fallito, per una ricaduta, per un incidente, per qualcosa che non va come si desidera. A volte si tratta di piccoli sfoghi di rabbia che proviamo quando veniamo ripresi, oppure quando dobbiamo accettare qualche correzione, o ancora quando sperimentiamo qualche contraddizione o  non siamo accettati a casa o tra gli amici.[1]
Anche Francesco di Sales nella sua vita, come del resto accade a tutti gli esseri umani, qualche volta si è arrabbiato ed ha sperimentato il sentimento della collera. Nella lettera introduttiva del Trattato dell’amor di Dio indirizzata ad un amico, scrive: “Mi dà fastidio che in quest’ultima edizione, la sesta ormai, tanti errori si sono infiltrati nel libro. Nessuno sbaglio dovrebbe esserci perché un errore di stampa può facilmente dare un significato sbagliato riguardo questioni importanti.”[2]  Spesso nelle sue lettere si legge che egli è infastidito da qualcosa, che si arrabbia per diversi motivi. Noto per la sua tranquillità, per la pace, la dolcezza, la natura benevola e, non ultima, la calma, il santo della mansuetudine, così definito da alcuni dei suoi biografi, avrebbe dovuto faticare molto per diventare in tal modo, lavorando seriamente per controllare la propria ira. Non è facile, come dice in una delle sue prediche: “Quanta cura è necessaria per esercitare la pazienza e per sfuggire all’ira!”[3] Controllare la rabbia e l’ira non è cosa facile, lo stesso Francesco di Sales ha impiegato molto tempo per imparare a trattenersi. Quando qualcuno insultava sua madre tutti si aspettavano che reagisse molto duramente e rabbiosamente, invece, secondo il suo biografo, era solito dire: “Non ho avuto il coraggio per attaccarlo. A dire il vero, avevo paura di perdere in un quarto d’ora quel po’ del liquido di dolcezza che per ventidue anni ho cercato di raccogliere goccia a goccia, come rugiada nel vaso del mio misero cuore.”[4] Come accaduto per la tristezza e la malinconia, sembra che Francesco sia esperto anche dell’ira. Forse proprio per questo motivo troviamo nei suoi scritti molti consigli su come affrontare la rabbia, la collera o il fastidio.

Arrabbiarsi o irritarsi non è un problema

La buona notizia è che in alcuni dei suoi scritti il Vescovo di Ginevra afferma che non dobbiamo preoccuparci troppo: la rabbia, l’irritazione, l’ira, la collera fanno parte dell’essere umano e come tali sono radicati nella natura umana. “Finché l’uomo vivrà, camminerà e passerà su questa terra, avrà passioni, proverà fremiti d’ira, sussulti di cuore, affetti, inclinazioni, ripugnanze, avversioni e quant’altro a cui tutti siamo soggetti.”[5] Ma Francesco scrive nelle sue opere: l’ira è un’emozione che dovrebbe essere usata solo raramente perché è piuttosto pericolosa.[6] In una lettera all’amata Jeanne de Chantal spiega il perché sia così dannosa: “Ti arrabbi con l’arrabbiatura, e poi ti arrabbi con l’arrabbiatura provocata dalla rabbia. Ho veduto molti che sono divenuti collerici, in quanto il sentimento dell’ira già risiedeva in loro. Tutto ciò somiglia ai cerchi che si fanno nell’acqua quando vi si getta dentro una pietra, dapprima si crea un piccolo cerchio, e questo a sua volta ne produce uno più grande, e poi un altro e un altro ancora…”[7] Alla fine si rischia di finire in una strada senza uscita. “[La collera] diventa subito padrona della piazza e fa come il serpente che, dove riesce a far passare la testa, fa passare tutto il corpo.”[8]  O come dice nel Trattato dell’amor di Dio: “[La collera è] come un cavallo restio alle briglie e ribelle, si sottrae al controllo, porta il suo cavaliere fuori campo e ubbidisce soltanto quando le viene meno il respiro.”[9]
Secondo Francesco arrabbiarsi o irritarsi non è un problema, poiché fa parte della natura dell’uomo. Ma invece di invitare l’uomo a crogiolarsi in un atteggiamento passivo, o nel ruolo di vittima, Francesco esorta il suo pubblico ad agire. “È vero che tutti abbiamo delle inclinazioni verso il  male: alcuni sono inclini all’ira, altri alla tristezza, altri all’invidia, altri alla vanità e alla vana gloria, altri all’avarizia; e se viviamo secondo tali inclinazioni siamo perduti. […] Tuttavia, devi lavorare per sbarazzartene.”[10] Infatti, ciò che ciascuno di noi ha il compito di fare è agire. La rabbia, l’ira, la collera in genere non dovrebbero diventare linee guida della vita, non dovrebbero determinare ciò che si pensa, si sente o si vive. Piccole arrabbiature o grandi attacchi di ira sono cose che appartengono al vecchio e da cui bisogna liberarsi, o per lo meno è necessario cercare di controllarle.[11] Questo perché le emozioni incontrollate possono avere molteplici e spiacevoli conseguenze. È dunque consigliabile non fare mai eccezioni a tal proposito, in nessuna circostanza e per nessun motivo. Nell’Introduzione alla vita devota, Francesco afferma: “Questa vita terrena è soltanto un cammino verso la vita celeste, non adiriamoci dunque per la strada gli uni contro gli altri; camminiamo tranquillamente e in pace con i fratelli e i compagni di viaggio. […] Con chiarezza, e senza eccezioni, ti dico: Se ti è possibile, non inquietarti affatto, non deve esistere alcun pretesto perché tu apra la porta del cuore all’ira.”[12]

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Chiesa per la scuola: la collaborazione educativa sul territorio

Piero Cattaneo

(NPG 2021-07-77)

1. Scuola e territorio: un rapporto da “ricostruire” con un altro sguardo

Nel corso del suo Pontificato Papa Francesco ha più volte ricordato la necessità di un’ampia collaborazione a livello territoriale sul piano educativo per la “custodia della casa comune”.
Ricordiamo, tra i suoi interventi quanto ha affermato al Corpo Diplomatico presso la Santa Sede il 9 gennaio 2020, poco tempo prima dell’inizio della pandemia nel nostro Paese: “ogni cambiamento, come quello epocale che stiamo attraversando, richiede un cammino educativo, la costituzione di un villaggio dell’educazione che generi una rete di relazioni umane e aperte. Tale villaggio deve mettere al centro la persona, favorire la creatività e la responsabilità per una progettualità di lunga durata e formare persone disponibili a mettersi al servizio della comunità. Occorre dunque un concetto di educazione che abbracci l’ampia gamma di esperienze di vita e di processi di apprendimento e che consenta ai giovani, individualmente e collettivamente, di sviluppare le loro personalità”.
Apprendere, conoscersi, dialogare, condividere orientamenti e decisioni, sono passi lenti che richiedono tempo e gradualità, passione e disponibilità a mettersi in ascolto, sapere in ogni caso dialogare e anche mettersi in discussione. Si tratta di un investimento sul futuro. È il futuro che ci viene incontro nella forma dell’esigenza di un cambiamento.
Il focus di questa riflessione è posto sull’esigenza di “non sprecare una crisi di queste dimensioni” ma di fare tesoro del frutto di varie iniziative ed esperienze di collaborazione tra la scuola e le altre istituzioni e realtà educative presenti sul territorio. In prima linea sicuramente le famiglie, ma anche altre realtà, dagli Enti locali ai Servizi socio-sanitari, al mondo del volontariato: tutti impegnati a collaborare con le scuole per offrire risposte alle varie richieste. La collaborazione è un principio fondamentale in relazione al compito che la scuola, nelle sue varie articolazioni e livelli, è chiamata a dare soprattutto in questo momento di grandi e continui cambiamenti.
Le parole di Papa Francesco riferite alla costituzione del “villaggio dell’educazione” richiamano in modo forte l’idea di comunità educante che pone al centro la persona sulla base di un progetto comune e condiviso a livello di territorio.
Quanto è emerso nella scuola e fuori di essa e quanto sta ancora accadendo sono motivo di riflessione importante e spunti altrettanto validi per immaginare, inventare, sognare la scuola del futuro, trasformando le esperienze fatte e ancora in atto per effetto della pandemia, in un’opportunità per “ricominciare” insieme a fare scuola nei vari territori in una prospettiva nuova, creativa, interattiva con l’ambiente esterno.
In ogni caso le esperienze di questi mesi ci stanno cambiando come singoli e come cittadini, come società. Per questo vale la pena di guardare al futuro, ai cambiamenti in atto e a quelli che verranno con un “altro sguardo”: definire come comunità educante nei vari territori le nuove priorità e scegliere la direzione verso cui dirigersi nel momento in cui sarà possibile ripartire.

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Avete bisogno di un momento per meditare e pregare insieme?

Da Note di Pastorale Giovanile – novembre 2021

di don Michele Falabretti

Essere chiamati a pensare ad un progetto per i giovani non sempre è semplice e immediato. Si fa l’esperienza anche della fatica e difficoltà. Allora non dobbiamo dimenticare come gruppo di lavoro che abbiamo bisogno di pregare e affidare al Signore tutto il nostro cammino per chiedere la luce necessaria per il delicato compito che abbiamo. Accompagnare i giovani è un meraviglioso dono che ci viene fatto, perché chiede di metterci in cammino accanto a loro e percorrere la strada dell’incontro con Gesù, aiutandoli a scoprire che Lui solo è la via, la verità e la vita. Si propone l’esperienza di un pellegrinaggio.

UNA TECNICA ATTIVA: METTERSI PER VIA
In questi ultimi anni la formula del pellegrinaggio è risultata apprezzata e feconda per i giovani. Si propone un pellegrinaggio, meglio se partendo a piedi dalla solita sede in cui ci si ritrova, verso un luogo ritenuto significativo (non necessariamente un santuario). Un luogo che sia possibile raggiungere a breve, con un’ora o due di cammino. Lungo il cammino, per lo più silenzioso o con brevi scambi personali, si può leggere a tappe il racconto dei due discepoli di Emmaus (pp. 168-169 delle LP) accompagnato dalle immagini di Arcabas (pp. 175-181). Il pellegrinaggio può essere dedicato al solo gruppo, oppure coinvolgendo anche altri giovani.
L’obiettivo è quello di rinforzare l’identità ecclesiale del gruppo, esplicitando la disponibilità a mettersi in gioco, a compiere una conversione per meglio corrispondere al servizio che si sta offrendo.

UN CONFRONTO DI GRUPPO: MEDITANDO EMMAUS
Il confronto di gruppo diventa in questa scheda una meditazione condivisa. La figura dei pellegrini di Emmaus (Lc 24) risuona nuovamente attraverso la lettura del commento di don Angelo Casati “Non fuggire dalla città”, riportato alle pp. 170-173 delle LP.
Si può introdurre la lettura di gruppo con un canto. Al termine ognuno può rileggere le parole che maggiormente l’hanno colpito rispetto al compito di progettazione pastorale del gruppo.
L’obiettivo è quello di suggerire al gruppo che un compito tecnico come la progettazione pastorale va svolto dando spazio al vangelo, letto e meditato in un contesto adatto. È necessario farsi illuminare, ma ancor di più lasciarsi convertire dalla parola del Signore.

TESTI DI APPROFONDIMENTO
Indichiamo una lettura e un video per introdurre la comprensione e la meditazione del racconto dei pellegrini di Emmaus. La prima è un estratto da un libro che rilegge l’intero vangelo di Luca. Il testo è disponibile in pdf come allegato.
• Franco Giulio Brambilla, Chi è Gesù? Alla scoperta del volto, Qiqajon, pp. 173-184.
• Enzo Bianchi, I Discepoli di Emmaus, Youtube (qui il link).

UN INCONTRO DI PREGHIERA
L’incontro per il gruppo, in questo caso, è un incontro di preghiera col Signore. Mettersi in ascolto della Parola di Dio e invocare la luce dello Spirito dedicando un tempo ragionevole per il silenzio e la contemplazione.
L’obiettivo è quello di aiutare il gruppo a non dimenticare che il mandato originale “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34) viene dal Signore ed è custodito nel suo vangelo.

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Europa e post-umano

di Renato Cursi

da NPG di novembre 2021

“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. Con queste parole si apriva, cinquantasei anni fa, la Costituzione pastorale del Concilio Ecumenico Vaticano II Gaudium et Spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Si trattava della dichiarazione autorevole di una comunità che “si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia”. Neanche un secolo più tardi, poco dopo aver varcato il secondo millennio dalla nascita di Cristo, la Chiesa, “esperta di umanità” (Populorum Progressio 13), si trova tuttavia a dover fronteggiare con urgenza quella che definirei la sfida del “post-umano”.
L’umanità, così come l’abbiamo conosciuta in secoli di storia, si sta forse congedando dal mondo? Siamo ad un passo dal momento storico in cui le possibilità della tecnica, unite ad un pensiero transumanista, consentiranno il superamento dell’uomo, profetizzato più di cento anni or sono da Nietzsche e rilanciato problematicamente da Harari con il suo Homo Deus pochi anni fa? In cosa consisterà questo superamento? E, in caso ci fosse, si tratterà di un superamento alla portata di tutti o solo di alcuni? Dietro il velo delle questioni intorno all’inizio e alla fine della vita, intorno al significato della malattia e del dolore, come anche dietro all’altro velo delle questioni sull’enhancement (accrescimento, potenziamento delle capacità umane), sull’interazione uomo-macchina e l’intelligenza artificiale, si intravedono ormai sempre più con chiarezza e preoccupazione queste domande. Diventano, cioè, sempre più vicine e inaggirabili, ineludibili, anche se il transumanesimo di oggi (domani chissà) non ha purtroppo ancora quasi nulla a che vedere con il “trasumanar” del Paradiso di Dante, poeta italiano ed europeo, di cui quest’anno si sono celebrati i 700 anni dalla morte e dalla prima pubblicazione della Divina Commedia.
Insieme alla questione dell’essere umano, tutte le fattispecie menzionate sopra sottendono anche quella della (volontà di) “potenza”. Cosa può dire riguardo a questa sfida un’Europa priva di un’idea condivisa di persona umana e “nana” in un mondo di “giganti digitali”? In quale rapporto sta, alla lunga, il crescere del potere con l’umanità dell’uomo? Come stanno insieme, da una parte, l’impegno per la prevenzione dei cambiamenti climatici, i nuovi stili di vita più rispettosi del pianeta e delle altre specie e, d’altra parte, una ricerca tecnica orientata allo scopo di generare e far crescere l’uomo nei suoi primi mesi di vita in una condizione artificiale, al di fuori dei corpi dei propri genitori? Non è dato sapere oggi se una nuova sintesi tra i concetti di ecologia integrale, da una parte, e di nonviolenza (intesa anche come rinuncia alla violenza culturale e strutturale), dall’altra, riuscirà ad evidenziare queste contraddizioni e a superarle promuovendo un nuovo rinascimento, una vera fraternità, una nuova armonia tra uomo e natura, che con gli occhi della fede significa armonia tra creature, creazione e creatore.
Nel vuoto delle ideologie e delle teleologie, l’unica narrazione diffusa nell’opinione pubblica che oggi sembra volere andare oltre l’orizzonte umano schiacciato sul presente del consumismo e del benessere, è quella del ritorno del mito della conquista dello spazio extra-atmosferico da parte dell’uomo, la corsa verso la colonizzazione della Luna e del pianeta Marte. Con una novità, rispetto agli anni del secondo dopoguerra: cioè che a parlarne e a lavorarci non sono più solo Stati profondi in competizione tra loro, ma anche privati visionari dotati del capitale necessario all’impresa. Anche qui, tuttavia, sembra mancare una riflessione su che tipo di umanità e di società si vogliano sviluppare in queste nuove terre di frontiera. Che uomo arriverà su questi pianeti? Che tipo di società umana vi costruirà? Cosa lascerà dietro di sé sulla Terra? Occorre riconoscere che in Europa si parla molto poco di tutto questo. Eppure potrebbe essere oggetto di decisioni concrete tra pochi anni.
Ebbene, considerati tutti questi fronti aperti, cosa può proporre la pastorale giovanile europea in un eventuale dibattito sul tema del post-umano? Come accompagnare i giovani europei affinché le loro decisioni quotidiane, come quelle di consumo, di uso del tempo, delle tecnologie, dell’ambiente o del corpo, apparentemente semplici e innocue, tengano conto di questi scenari e siano illuminate da uno sguardo di fede? Il disagio che proviamo nel tentare una risposta ci spiega perché questa enorme sfida necessita uno studio, un orizzonte e spazi adeguati per essere affrontata.
Alcuni anni prima del Concilio Ecumenico Vaticano II, in uno dei periodi più bui della sua Germania e dell’intero continente europeo, il filosofo e teologo Romano Guardini identificava la missione dell’Europa nella “critica” della potenza. L’Europa, forte di quella che molti considerano la sua debolezza, ovvero la sua vecchiaia, avrebbe quindi il compito di non limitarsi ad accrescere la potenza, ma di domarla. Di “scommessa cattolica” parlano invece più di recente Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, puntando su una Chiesa che si rigenera anche in Europa “facendosi interpellare dalla realtà”, nel dialogo con le altre religioni, con la politica, con la tecnica. La Chiesa, inclusa la pastorale giovanile, potrebbe allora contribuire a fondare una società capace di “tenere aperta la potenza”, rinunciando a bloccarla ad ogni costo, ma allo stesso tempo liberandola dalle logiche post-umane della tecnica, attraverso una pluralità di “proiezioni eccentriche”, come l’arte, la politica, la religione. In chiave di proposta costruttiva ai giovani europei, quella di “tenere aperta la potenza” ha il merito di salvaguardare la dimensione creatrice e partecipativa rispetto alla formula del “disciplinamento etico” della potenza, profetizzato da Guardini, con il quale pure quest’ultima proposta condivide molti aspetti.
Lo stesso Guardini, qualche anno più tardi, affermava:

“Se l’Europa si staccasse totalmente da Cristo – allora, e nella misura in cui questo avvenisse, cesserebbe di essere […] Se l’Europa deve esistere ancora in avvenire, se il mondo deve ancora aver bisogno dell’Europa, essa dovrà rimanere quella entità storica determinata dalla figura di Cristo, anzi, deve diventare, con una nuova serietà, ciò che essa è secondo la propria essenza. Se abbandona questo nucleo – ciò che ancora di essa rimane, non ha molto più da significare”.

Senza l’incontro decisivo con Cristo, secondo Guardini, dopo il tramonto del mondo classico greco e poi romano, l’Europa sarebbe tramontata nel vortice di una “migrazione dei popoli”. Ebbene, che forma può assumere oggi, al tramonto di un’altra epoca e all’alba di nuove grandi migrazioni, un radicamento in Cristo come fonte essenziale per l’Europa? Saranno forse nuovi santi europei a dircelo con la loro vita e le loro opere, e magari nuovi giovani santi, insieme alle comunità che sapranno accompagnarli e farli germogliare. La Chiesa in Europa, per riscoprirsi sinodale, popolo di Dio in cammino, ha bisogno di una pastorale giovanile missionaria e popolare, che si fidi della chiamata che Dio continua a rivolgerle nei giovani che nascono e che arrivano qui.

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