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Risposte di resilienza alla pandemia e alla guerra

Saluto al Convegno di Pastorale Giovanile

Mons. Paolo Giulietti *

(NPG 2022-06-58)

Vi saluto tutti a nome della Commissione episcopale per la famiglia, i giovani e la vita e dei vescovi delegati per la pastorale giovanile delle vostre regioni. Vi ringrazio per il lavoro a servizio delle nuove generazioni e anche per il fatto di essere qui a riflettere su come farlo nel modo migliore, adeguato alle sfide di queste circostanze difficili ed esaltanti.
Stiamo vivendo in tempi segnati dalla pandemia e dalla guerra. Al netto delle circostanze che rendono ogni avvenimento singolare, cioè unico e irripetibile, dobbiamo onestamente riconoscere che non è la prima volta: molte altre volte nella storia la Chiesa e la società, nel nostro Paese e altrove, hanno attraversato conflitti e malattie devastanti.
La città in cui ci troviamo rappresenta un esempio di resilienza rispetto a queste due problematiche.
Il termine “lazzaretto” deriva probabilmente dal primo luogo di isolamento anti contagio, inventato qui a Venezia: era l’ospitale di Santa Maria di Nazareth a Venezia, allestito per isolare gli appestati. Fu edificato nel 1423. Il secondo lazzaretto, detto “novo”, edificato a partire dal 1468 su un’altra isola, aveva invece una funzione di quarantena.
Anche la parola “arsenale” è legata a Venezia. Proviene dall’arabo dār al-ṣināʿa (“casa del mestiere”) attraverso la mediazione del veneziano, che conia i termini “darsena” e poi “arsenale”. L’arsenale di Venezia è una grande area dedicata all’allestimento della flotta commerciale e militare, testimonianza della natura anche conflittuale del commercio marittimo e dell’incontro di civiltà.
Nel cuore di questa città così singolare, sorge la splendida basilica in cui ci troviamo, costruita e decorata da gente abituata a fare i conti con l’epidemia e con la guerra, capace di non farsi scoraggiare da tali eventualità nella loro ricerca di ricchezza e libertà. Del resto l’origine stessa di Venezia è legata alla guerra: l’invasione degli Unni nel 462 porta ai primi insediamenti sulle isole della laguna veneta: tre secoli dopo Venezia è già una importante città, con una sede episcopale. Nell’829 vi giunge il corpo di San Marco evangelista, trafugato da Alessandria d’Egitto. Nel 1063 inizia la costruzione della basilica in cui ci troviamo.
Proviamo quindi a “leggere” il messaggio di questa chiesa proprio come risposta all’imprevedibile della peste e della guerra: dal passato ci giunge una lezione per l’oggi. Tre parole lo potrebbero sintetizzare.
La prima è Vangelo: la sepoltura di San Marco e i gradi cicli narrativi dei mosaici dicono che negli sconvolgimenti del mondo c’è bisogno di qualche certezza sulla quale fondare fiducia e speranza. La testimonianza della vicenda di Gesù, della sua Pasqua di sofferenza di gloria, è un solido fondamento per fronteggiare la fatica del vivere; tenerla davanti agli occhi è pertanto di vitale importanza per gli uomini e le donne di ogni generazione.
La seconda parola è Bellezza: al di là dell’umana vanità, che fa sempre capolino in ogni manifestazione artistica, la profusione di arte di questa Basilica toglie il fiato e rimanda ad un “oltre”. In fin dei conti, la bellezza è un grande spreco: impiega risorse e talento in qualcosa che – di per sé – non è indispensabile. La semplice funzionalità richiederebbe infatti investimenti assai minori. Tuttavia è proprio la bellezza che richiama il mistero santo di Dio, il quale si manifesta nelle piccole e grandi meraviglie senza numero della creazione. Ed è ancora la bellezza il linguaggio della preghiera e della festa: sgorga dall’animo umano come esigenza di esprimersi attraverso il meglio di sé. Anche la bellezza, pertanto, è una risorsa per fronteggiare l’imprevisto.
La terza parola è Incontro: in questa Basilica si incontrano stili architettonici e iconografici d’oriente e d’occidente, a celebrare il ruolo di ponte commerciale e culturale di Venezia tra le due metà del mediterraneo, assai diverse tra loro. Dal conflitto e dalla fatica nasce alla fine qualcosa di originale, che prima non esisteva. Niente, alla fine, viene vissuto invano, poiché l’opera della Provvidenza e la resilienza delle comunità fa trionfare sempre la vita, traendo persino dal male lezioni per il futuro. I padri non hanno sprecato né le epidemie né le guerre, poiché dalle une e dalle altre hanno saputo imparare, dando origine a sintesi nuove.
Auguro buon lavoro a tutti, nella fiducia che anche noi non saremo da meno dei padri, nel saper fronteggiare l’imprevedibile senza sprecarlo.

* Arcivescovo di Lucca, Presidente della commissione episcopale Famiglia, giovani e vita della CEI
Venezia, 31 maggio 2022

Don Oleh, un salesiano sulla linea del fronte “per amore”

Don Oleh Ladnyuk, cappellano militare dal 2014, insegnante e salesiano si racconta dal fronte da dove da anni condivide proprio con i militari la dura esperienza della guerra. Di seguito la notizia apparsa su Vatican News.

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Cappellano militare dal 2014, insegnante e salesiano don Oleh Ladnyuk si racconta dal fronte da dove da anni condivide proprio con i militari la dura esperienza della guerra. Ci racconta cosa lo spinge e cosa lo aiuta della sua esperienza passata e dei “miracoli” di cui è testimone ogni qual volta è riuscito a scampare dalla morte sotto gli spari e i bombardamenti.

È l’amore che spinge un sacerdote a stare in questa situazione: avere esperienza anche militare certo non guasta perchè – dice – il pericolo è ovunque e serve comprendere la psicologia di chi ti sta accanto per aiutare i soldati e non essere anzi di intralcio. E poi serve uno stato mentale pronto a vedere morte e sofferenze, vincendo su se stessi senza sprofondare nel dolore, anzi cercando di stabilire un buon rapporto con tutti. I salesiani in questo sono facilitati ci spiega  don Oleh attingendo alla sua esperienza negli Oratori anche italiani. È qui infatti che ci si abitua a incontrare tutti senza distinzioni:

La sfida di affrontare le sofferenze

Buona abitudine dei salesiani è anche la fatica fisica, che in guerra non guasta e anche la formazione psicologica cui siamo abituati. Questa è la nostra preparazione – ci spiega – ma le sfide non mancano prima fra tutti quella di come superare la sofferenza. Me lo chiedono – ci confessa- “Come non prede la fede?” E mi dicono che vedono Dio in me. “Per me – aggiunge- questa è la sfida”.

Un grande sostegno per chi come don Oleh è in guerra, è il sapere che non è solo e c’è una comunità che prega, che spera, che lo aiuta. “Mi chiamano, mi scrivono anche dall’Italia” e i miracoli della preghiera si vedono, almeno nelle tante volte in cui si è salvato sotto il fuoco e il fragore delle bombe grazie proprio alla protezione di Maria.

Portare il Vangelo in terra di guerra

Quale oggi l’impegno più importante? Il servizio chiama don Oleh in questi giorni a dire Messa, confessare, distribuire la Comunione, più nelle retrovie che sulla linea del fronte. Poi c’è l’attività richiesta negli ospedali e nei villaggi laddove ancora molti civili sono rimasti e si prova a farli evacuare. In tutta la sua attività ci confessa di aver fatto evacuare almeno 500 persone, ma potrebbero essere molte di più, anche perchè – ricorda- nei primi mesi “caricavo il mio pulmino di tanta tanta gente e non li ho contati”. L’esperienza più toccante e difficili quella di aver portato via bambini senza i genitori: “Me li affidavano perchè si fidavano di me e volevano che li portassi in luoghi sicuri”. Per fortuna oggi si sono tutti ritrovato.

Poi l’esperienza con i giovani – ci racconta – è  quella più difficile ma anche la più vicina alla spiritualità salesiana. Quando vengono via non hanno voglia di parlare e io rispetto il loro silenzio, poi quando entrano nella nostra casa salesiana, le barriere cadono e piangono con me.

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Avvenire – In fuga sul pulmino di don Oleh: “Via dalla guerra donne e bambini”

Dal quotidiano Avvenire.

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Tymofij ha un bella cuffia azzurra, è al caldo avvolto in una tuta e poi in una coperta e soprattutto ha accanto la sua mamma Dascia: lui, quando leggerete questo racconto, avrà compiuto 18 giorni e già fatto molta strada. Tymofij è scappato da Lysycansk nella regione del Luhansk dove si combatte duramente. A portarlo via è stato Oleh Ladnyuk – ucraino, salesiano, cappellano militare -, che dice: «Adesso la prima cosa da fare è mangiare, poi dormire. Domani penseremo al resto». Don Oleh dopo oltre 12 ore di viaggio ha ancora voglia di raccontare anche se si sente che non ce la fa più; è appena tornato alla guida di un piccolo convoglio di due pulmini e un’auto carico di connazionali. Questa è la storia del suo primo viaggio intrapreso senza esitare alla ricerca di gente da portar via da una guerra assurda. Il viaggio è iniziato al mattino dalla casa salesiana di Dnipro, a 200 chilometri dal Donbass, dove la guerra guerreggiata (per ora) non si è ancora fatta sentire pesantemente. Don Oleh ha guidato per oltre duecento chilometri, è arrivato all’appuntamento, si è fermato il tempo strettamente necessario per caricare le persone e i loro pochi bagagli e poi è ripartito.

Nelle ore immediatamente successive all’invasione, Oleh ha già visto per strada le persone attonite, le file di auto in cerca di carburante, quelle ai bancomat per prelevare quanto più contante possibile, ha già saputo dei primi bombardamenti e dei primi morti. Poi è ripartito alla volta di Lysycansk; lo accompagna don Igor Opafsky. È già tutto organizzato e lui al telefono racconta. «Stiamo andando dal parroco don Sergio Palamarchuk. Lui sta raccogliendo dei civili che vogliono andare via e noi li portiamo via. Speriamo di arrivarci, dobbiamo fare molta strada e non sappiamo se i militari ci faranno passare. Andiamo con quello che abbiamo». La strada da Dnipro passa per Kostjantynivka e va verso est. E non è una strada facile in tempo di guerra. «In direzione contraria – dice padre Oleh -, abbiamo incontrato file di auto cariche di persone e di cose: si vedeva che scappavano». E più ci si avvicina al fronte e più la presenza dei militari si fa sentire. «Capisci che non posso dire tanto – precisa -, ma c’erano molte truppe. Quando ci passavamo vicino il pericolo si sentiva nell’aria, allora cercavamo di accelerare». Lysycansk appare come una città svuotata: per i grandi viali non c’è nessuno, le case sembrano già abbandonate. Ma non è così. E lo si comprende dal “carico” umano che don Oleh si porta via. Dodici persone: due ragazze, quattro ragazzi, poi degli adulti, una signora anziana e, appunto, un bambino di poco più di due settimane. Non si tratta di famiglie intere, ma di pezzi di famiglie che si dividono: i padri e le madri mettono in salvo i figli e decidono di rimanere lì, a casa sotto le bombe. Pochi minuti, si diceva. E il viaggio riprende ma al contrario. Ed è già notte fonda quando don Oleh arriva nuovamente a Dnipro. Con i due salesiani questa volta c’è anche don Sergio che probabilmente riprenderà poi la strada per Lysycansk. «Perché – spiega Oleh -, lì c’è ancora molta gente che ha bisogno. Organizzeremo altri viaggi certamente». Intanto si pensa alle prossime ore. «I giovani – viene spiegato – andranno nella nostra casa-famiglia di Leopoli». Questa sera però, c’è solo voglia di tirare un sospiro di sollievo. E ci sono gli occhi sorridenti di Tymofij che sta in braccio alla sua mamma Dascia: lei è pallida come un cencio, sorride appena e non lo lascia un istante.