Marcel Callo: molto, troppo cattolico per non essere arrestato e condannato

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Francesco Motto

Alla lettura della biografia di Marcel Callo scritta da J. B Jégo (Un exemple, Marcel Callo. Rennes, Editions Riou-Reuzé 1946, 194 pp.) il famoso cardinale arcivescovo di Parigi, Emmanuel Shuard, scriveva all’autore nel febbraio 1947: “Inoltre voi avete fatto dell’agiografia. Senza dubbio non bisogna anticipare i giudizi della Chiesa, che soli sono decisivi, ma cosa manca a questo eroe perché sia proclamato santo”? Esattamente il 4 ottobre di quarant’anni dopo papa San Giovanni Paolo II lo elevava alla gloria degli altari fra la schiera dei nuovi beati.
Non è forse il primo scout francese ad essere beatificato, neppure il primo membro della JOC (Jeunesse Ouvriére Chrétienne = Giovani lavoratori cristiani) a raggiungere tali altezze spirituali, ma di certo quella di Marcel Callo è una figura di giovane degna di uscire dai ristretti confini nazionali per essere conosciuta universalmente.

Marcel Callo: chi era costui?

Marcel nacque a Rennes in Bretagna il 6 dicembre 1921, secondo di nove figli di una famiglia molto religiosa. Il fratello maggiore Jean sarebbe diventato sacerdote. Crescere in una numerosa famiglia lo ha abituato fin da piccolo alla condivisione delle cose, all’esercizio del rispetto delle opinioni altrui, alla disponibilità verso gli altri: ne avrebbe fatto tesoro negli anni avvenire. Leader in mezzo ai compagni di scuola, scanzonato come era, non dimostrò grande interesse negli studi, ma comunque, intelligente come era, riuscì a superare le prove scolastiche della fanciullezza. Nello stesso tempo però frequentava la vicina comunità dell’Adorazione e il monastero delle Clarisse, servendovi la messa da puntuale chierichetto ed eccellente cantore. Dell’Eucaristia sarebbe sempre stato un fervido promotore fra i compagni, soprattutto dopo aver fatto la prima comunione e la cresima. A 12 anni entrò fra gli scout (la troupe 5° Rennes), nel cui seno acquisì i valori educativi vivendone i momenti salienti delle uscite e delle attività, fermo restando che “il dovere dello scout comincia a casa”. In breve tempo era pronto per un grande salto.
Dovendo prepararsi al futuro e nello stesso tempo contribuire al benessere economico della famiglia, a 13 anni, appena finite le scuole, entrò come apprendista in un laboratorio tipografico. Di animo molto sensibile e cristianamente formato, non si trovò a suo agio. La dove passava tutta la giornata, in mezzo ad operai adulti, regnavano sovrane la volgarità e l’irreligione. Le passioni adolescenziali cominciarono presto poi a farsi sentire e dovette ricorrere alla preghiera e all’aiuto della mamma che non mancò di fargli balenare l’idea di entrare in seminario come il fratello maggiore. Rifiutò, voleva “fare del bene” fuori, nel mondo.

Operaio, membro della JOC

Accolse così, appena compiuto i 14 anni, l’invito dell’abbé Martinais ad entrare nella JOC, un’associazione ecclesiale di giovani lavoratori e delle classi popolari che svolgeva un’attività formativa, educativa e di evangelizzazione con e per i giovani lavoratori stessi. Fondata in Belgio nel 1925 dal canonico Joseph-Léon Cardijn, l’associazione si stava sviluppando pure all’estero.
Marcel accettò a condizione di poter continuare il suo cammino da scout. Prestò però si rese conto dell’impossibilità della duplice appartenenza per i tanti e impegnativi legami con il movimento jocista. In essa si impegnò decisamente tanto da diventare in tempi brevi presidente della sua sezione, la Saint-Aubin. Da leader carismatico quale si apprestava ad essere, divenne l’amico e il confidente di tutti i membri e l’anima delle loro attività. La sezione crebbe numericamente, operativamente e spiritualmente, nonostante un ambiente operaio che considerava i giovani lavoratori cristiani dei traditori.
Viveva a fondo il suo ideale:

“Voglio diventare sempre più una guida JOC, un combattente in prima linea puro e gioioso. Nel mio grande amore per i miei fratelli, voglio conquistare giovani lavoratori. Voglio vivere in te, Gesù. Voglio pregare con te. Per la tua gloria voglio donare tutta la mia forza e tutto il mio tempo, in ogni momento della mia vita”.

Arrivò al punto di essere soprannominato “Gesù Cristo”. Anziché offendersi, cercò di esserne degno.
Durante otto anni di attività jocista, dal 1935 al 1943, Marcel diede il massimo di se stesso, imparando sulla sua pelle la necessità della pazienza (aveva un carattere piuttosto irruento) con i soci religiosamente meno formati ma soprattutto coltivando il grande ideale cristiano, con il quale affrontare le difficoltà di ogni giorno. Con il suo forte ascendente sui compagni, in prima persona animava ritiri spirituali, circoli di studio, organizzava feste, promuoveva attività teatrali, lanciava catena di comunioni.
Si propose un programma di vita: “avere un cuore di fanciullo per Dio, un cuore di giudice per se stesso, un cuore di fratello per il prossimo”. I sacramenti dell’Eucarestia e della confessione” lo sostennero sempre anche nei momenti della malattia per la continua esposizione del piombo della tipografia. Lo accompagnava spiritualmente il cappellano della sezione abbé Martinais.
La dottrina del Corpo mistico di Cristo – rilanciata dall’apposita enciclica di papa Pio XII – sosteneva il movimento e ispirava i suoi migliori lavoratori. Nel 1937 Marcel partecipò a Parigi al Congresso per il X anniversario della JOC. Intanto ventunenne, si era fidanzato con Margherita, una compagna della JOC, e più tardi programmarono di annunciare il loro fidanzamento in occasione dell’ordinazione del fratello.

La guerra in città e la chiamata al servizio lavorativo obbligatorio

Nel frattempo, con l’anno 1943, la guerra mondiale era arrivata fino a Rennes. La prima disgrazia che colpì la famiglia Callo fu la morte di Maddalena, la terza figlia, durante un’incursione aerea dell’8 marzo. Contemporaneamente Marcel fu chiamato per andare a lavorare in Germania. Come altri, avrebbe potuto non presentarsi, ma ciò avrebbe esposto a rappresaglie il padre e il fratello, che stava per essere ordinato prete. Inoltre non voleva abbandonare i soci della JOC che avevano deciso di presentarsi.
Il 19 marzo 1943, il giorno del funerale della sorella, Marcel partì “come missionario” per il campo di Zella-Mehlis in Turingia, al centro della Germania, dove arrivò fisicamente e moralmente provato anche in seguito a un’intossicazione alimentare. Si era ferito un dito in una macchina, soffriva di mal di denti, emicranie e coliche. Gli avevano rubato il portafoglio e gli avevano detto che la sua famiglia era stata bombardata. Lo sorreggevano la bibbia che aveva postati con se, alcuni libri e note personali.
Alloggiati nelle baracche del campo con lui vi erano altri francesi. Vennero assegnati alla fabbrica di armi Walther, dove erano impiegati circa tremila lavoratori per dieci o undici ore al giorno. Trascorrevano il resto del tempo nelle baracche, affamati e infreddoliti. I deportati e i prigionieri, qualunque fosse la loro nazionalità, erano maltrattati dalle guardie. Nell’anno precedente all’arrivo di Marcel vi era stata una sola Messa e un’unica assoluzione collettiva. Oltre a questo dispiacere c’erano le prostitute francesi che avevano seguito i deportati. Scrisse in una delle sue numerose lettere conservate (oltre 180 in tredici mesi, spiritualmente profonde, inviate per lo più a famigliari e amici della JOC):

«I due mesi dopo il mio arrivo furono estremamente duri. Non avevo voglia di far niente. Non provavo sentimenti. Mi rendevo conto che mi stavo dissociando a poco a poco. Improvvisamente Cristo mi scosse e mi fece capire che ciò che stavo facendo non era buono. Mi disse di andare e di prendermi cura dei miei compagni. Allora la mia gioia di vivere ritornò».

Tra i deportati e in altri campi nella regione vi erano altri jocisti. Presto si misero in contatto per programmare il loro apostolato. Marcel iniziò organizzando messe con un prete tedesco che conosceva il francese e poteva confessare. Convinse altri ad adempiere al precetto pasquale e presto riuscì a organizzare una Messa mensile alla quale potevano partecipare deportati e prigionieri. Il suo gruppo jocista si incontrava nelle foreste. Vi erano altri gruppi e altre attività: musica, teatro, feste di cui era l’animatore; anche una squadra di calcio in cui giocava. Insegnò ai suoi compagni alcuni giochi, allo scopo di fornire distrazioni salutari e di costruire una rete di contatti per far circolare le informazioni sulla Messa.
Dalla famiglia gli arrivavano cattive notizie: la mamma ammalata, l’impossibilità di partecipare alle feste per l’ordinazione sacerdotale del fratello. Dalla Francia pure cattive notizie: arresti di joicisti e di seminaristi, uccisioni di preti. Il 3 agosto fu arrestato pure e imprigionato il fondatore dei jocisti francese, abbé George Guérin per aver mantenuto, malgrado la proibizione delle associazioni, l’attività della JOC. Alta e solenne, ma sostanzialmente inutile, la protesta del card. Suhard il 24 agosto, a nome di tutto l’episcopato francese. La repressione contro le associazioni e cattoliche non si fermò né in Francia né tantomeno in Germania.

Quattro grandi sogni per la pastorale giovanile

Dall’ultima newsletter di Note di Pastorale Giovanile.

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di don Rossano Sala

Un approfondimento della proposta pastorale che ci invita a camminare sulla strada dei sogni non può che concludersi con un rilancio della pastorale giovanile. Anch’essa infatti ha i suoi sogni e i suoi incubi, i suoi desideri e le sue incertezze. Nutre speranze e cerca di allontanare paure.
Ripartiamo ancora una volta dal Sinodo sui giovani, anche se sono passati cinque anni da quel momento e tante cose sono accadute nel frattempo: abbiamo avuto la pandemia, che ha bloccato una serena e seria ricezione del Sinodo stesso e da cui stiamo faticosamente uscendo; stiamo vivendo durante questa estate l’esperienza entusiasmante della Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona, che immaginiamo come momento di rilancio della pastorale dei giovani nella Chiesa tutta; siamo nel pieno di un percorso sinodale sulla “sinodalità” che ci accompagnerà per i prossimi anni; ci stiamo anche avvicinando velocemente al grande Giubileo del 2025.
Facciamo dunque insieme qualche passo indietro per prendere una buona rincorsa, così da compiere un bel salto nel futuro. Nello sport funziona così: si va indietro con l’intenzione di andare avanti meglio, prendendo lo slancio giusto e partendo dalla corretta distanza.
Mi pare, sinteticamente, che il cammino sinodale con i giovani ci ha proposto quattro grandi sogni. Potremmo definirli i quattro grandi orientamenti emersi dal Sinodo sui giovani, che ha immaginato la pastorale giovanile:
Sinodale: capace di fare rete e di fare squadra con tutti gli attori in campo sia civili che ecclesiali, giovani compresi, convinta che la comunione è la via privilegiata dell’evangelizzazione
Popolare: in grado di coinvolgere e arrivare a tutti i giovani, nessuno escluso, privilegiando in particolare coloro che sono più svantaggiati e problematici
Vocazionale: qualificata dal punto di vista della proposta spirituale e in grado di offrire identità cristiana ai giovani che desiderano vivere un’amicizia autentica con Gesù nella Chiesa
Missionaria: che sia espressione di una Chiesa adulta e matura che ha smesso di essere autoreferenziale e sa uscire da se stessa per andare incontro a tutti

Sinodale: capace di corresponsabilizzare i giovani

Il primo sogno riguarda la nostra “profezia di fraternità”, che assume oggi la sua declinazione sinodale. Durante il percorso sinodale la domanda iniziale da cui siamo partiti era: “Che cosa dobbiamo fare per i giovani?”. Ma questa domanda pian piano si è trasformata. Dalla concentrazione sul fare organizzativo il percorso sinodale ci ha chiesto di verificarci sui nostri stili relazionali e sulla qualità dei nostri cammini comunitari. Siamo stati sollecitati dai giovani stessi a un passaggio dal fare all’essere e dal “per” al “con”: la nuova domanda è divenuta “Chi siamo chiamati ad essere con i giovani?”.
Con frequenza sono chiamate in causa le comunità e le Chiese locali, invitate a dar vita a processi comunitari che includano i giovani. Più che manuali teorici, servono occasioni in cui mettere a frutto l’ingegno e le capacità dei giovani stessi, ossia un approccio dal basso anziché dall’alto, avendo cura di raccogliere e condividere quelle buone pratiche coronate da successo. Anche per le Chiese questo invito a fidarsi dei giovani contiene una sfida – quello di dare loro la parola – e richiede il coraggio di mettere in discussione ciò che si è sempre fatto. Si tratta, ancora una volta, di rischiare insieme, perché

la pastorale giovanile non può che essere sinodale, vale a dire capace di dar forma a un “camminare insieme” che implica una “valorizzazione dei carismi che lo Spirito dona secondo la vocazione e il ruolo di ciascuno dei membri della Chiesa, attraverso un dinamismo di corresponsabilità. […] Animati da questo spirito, potremo procedere verso una Chiesa partecipativa e corresponsabile, capace di valorizzare la ricchezza della varietà di cui si compone, accogliendo con gratitudine anche l’apporto dei fedeli laici, tr0a cui giovani e donne, quello della vita consacrata femminile e maschile, e quello di gruppi, associazioni e movimenti. Nessuno deve essere messo o potersi mettere in disparte”[1].

Vi sono dunque delle responsabilità a vari livelli: tutti i giovani, ogni credente, la comunità locale, i movimenti e le congregazioni religiose, ogni singola diocesi. E in tutto questo chi ha responsabilità, e quindi autorità, nella Chiesa e nella società è chiamato in causa. Come è stato ben espresso in vari momenti del cammino sinodale, l’autorità o è generativa o non è: «Nel suo significato etimologico la auctoritas indica la capacità di far crescere; non esprime l’idea di un potere direttivo, ma di una vera forza generativa»[2]. Per questo «esercitare l’autorità diventa assumere la responsabilità di un servizio allo sviluppo e alla liberazione della libertà, non un controllo che tarpa le ali e mantiene incatenate le persone»[3]. La delusione istituzionale è uno dei tratti emersi nel cammino di ascolto di preparazione al Sinodo. Sappiamo persino del fallimento della stessa autorità degli adulti e dei pastori nella triste vicenda degli abusi, più volte richiamata durante l’Assemblea sinodale.
Ora l’autorità della Chiesa, a tutti i suoi livelli, si trova davanti a una chance di tutto rispetto: quella di prendere iniziativa, di invitare tutti a mettersi in gioco, di aprire spazi di confronto e di protagonismo, di creare le condizioni per una Chiesa sinodale e solidale, caratterizzata da un modo di vivere e lavorare insieme che sia davvero profetico per se stessa e per la società in cui vive. Il Sinodo, in fondo, ci ha consegnato proprio questo quando ha parlato di sinodalità. Cioè il fatto che non si possa più fare pastorale senza i giovani!

Dall’idea di “sinodalità” viene per noi una prima importante domanda: i giovani per noi sono un “problema da risolvere” o una “risorsa da coinvolgere”? Dalla risposta onesta a questo interrogativo nascerà un orientamento preciso per rinnovare la pastorale giovanile

Popolare: desiderosa di non lasciare indietro nessuno

Il soggetto fondamentale della fede è il popolo, dentro cui ci siamo noi come singoli, giovani compresi. Questa è la Chiesa secondo il Concilio Vaticano II, che pone il primato del popolo di Dio rispetto ai diversi stati di vita e alle differenti ministerialità. Lo stiamo riscoprendo in questi anni con papa Francesco. Il tutto ci riporta verso la “teologia del popolo di Dio”, che in America Latina è stata sviluppata negli ultimi cinquant’anni. La tesi fondamentale è tanto semplice quanto rivoluzionaria: il popolo, prima che destinatario dell’opera dei pastori, è depositario della grazia che salva. Convinzione che, se presa sul serio, rovescia moltissime delle nostre certezze e posizioni! E che apre il campo ad una pastorale giovanile popolare:

Oltre al consueto lavoro pastorale che realizzano le parrocchie e i movimenti, secondo determinati schemi, è molto importante dare spazio a una “pastorale giovanile popolare”, che ha un altro stile, altri tempi, un altro ritmo, un’altra metodologia. Consiste in una pastorale più ampia e flessibile che stimoli, nei diversi luoghi in cui si muovono concretamente i giovani, quelle guide naturali e quei carismi che lo Spirito Santo ha già seminato tra loro. Si tratta prima di tutto di non porre tanti ostacoli, norme, controlli e inquadramenti obbligatori a quei giovani credenti che sono leader naturali nei quartieri e nei diversi ambienti. Dobbiamo limitarci ad accompagnarli e stimolarli, confidando un po’ di più nella fantasia dello Spirito Santo che agisce come vuole[4].

Una pastorale giovanile popolare è per sua natura “anti-elitaria” – cioè inclusiva di tutti i membri del popolo di Dio che invita ad avere ambienti di accoglienza “a bassa soglia” – ed anche in un certo senso “spontanea” – cioè capace di lasciare l’iniziativa ai giovani, certi che lo Spirito di Dio è presente e agisce in loro. È una pastorale giovanile che sa camminare lentamente e che intende non lasciare indietro nessuno: la profezia sta qui nell’attenzione a non abbandonare i giovani ai margini, a farsi accanto a ciascuno nello stile del buon samaritano.
La capacità di inclusione è la chiave della proposta pastorale avanzata in alcuni passaggi interessanti della Christus vivit e ridimensiona una spinta esagerata per la trasmissione teorica di verità dottrinali che non toccano la vita dei giovani. Le comunità cristiane sono così invitate a offrire spazi di accoglienza senza troppe barriere, e alle scuole cattoliche è chiesto di non trasformarsi in bunker a difesa dagli errori della cultura esterna, impermeabili al cambiamento. Particolarmente stimolanti sono i paragrafi dedicati alla «pastorale giovanile popolare»[5]: partono dal riconoscimento che i luoghi tradizionali della pastorale (oratori, centri giovanili, scuole, associazioni, movimenti) sono in grado di andare incontro alle esigenze di una certa parte del mondo giovanile, ma ne escludono inevitabilmente altre. Quanti professano fedi diverse o si dichiarano non religiosi, e coloro che per tante ragioni sono segnati da dubbi, traumi o errori, faticherebbero a integrarsi nella pastorale ordinaria, ma non per questo hanno meno bisogno di trovare porte aperte e di essere sostenuti a compiere il bene possibile.

Dall’idea di “popolarità” vengono delle domande che si riferiscono al riconoscimento delle diverse situazioni esistenziali dei giovani: quali sono le diverse soglie di accoglienza dei giovani nelle nostre strutture ecclesiali? Abbiamo differenti proposte di accesso alla fede per i giovani? Abbiamo spazi in cui i giovani possano davvero sentirsi protagonisti del loro futuro?

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Note di Pastorale Giovanile, riunione di redazione e saluto a don Michele Falabretti e don Roberto Dal Molin

Il 26 giugno, nella sede del Centro Nazionale delle Opere Salesiane, si è ritrovata la redazione di Note di Pastorale Giovanile per l’ultimo incontro dell’anno. L’occasione è stata anche quella per salutare don Roberto Dal Molin, prossimo superiore dell’Ispettoria Lombardo-Emiliana e don Michele Falabretti che dopo undici anni termina il suo incarico come direttore del Servizio nazionale di Pastorale Giovanile. Don Rossano Sala, direttore di NPG, ha salutato a nome di tutti don Roberto e don Michele, ringraziandoli per il loro prezioso lavoro.

Don Michele Falabretti ha poi ripercorso gli ultimi dieci anni di pastorale giovanile in Italia. La storia del servizio nazionale di pastorale giovanile, nato nel 1993, quando don Michele è stato ordinato prete, si intreccia con la sua: per un terzo, ne è stato responsabile. E in questi anni, alcune cose sono accadute dentro la Chiesa.

Con la nascita del servizio nazionale di PG, dentro gli orientamenti della Chiesa sulla carità si è segnato un piccolo cambiamento: vista come una cosa di per sé quasi inutile in quel momento, in realtà stava raccogliendo un’istanza del Concilio che in termini pastorali era una svolta molto forte. Il principio dell’educazione che è un principio di semina chiede di lavorare sulla relazione.
I trent’anni del servizio nazionale di PG vanno riletti così: una storia fecondissima, dove non si può non ricordare Don Bosco, la storia del ‘900 con l’azione cattolica che ha strutturato un grande movimento, c’è la nascita dei movimenti e la frammentazione che coltiva altre sensibilità.

Don Michele poi ricorda i suoi predecessori, legati a una stagione diversa della storia della Chiesa e della pastorale: monsignor Sigalini, colui che fa un’operazione di “aratura”; don Paolo Giulietti che ha dato il via alla grande stagione di eventi; don Nicolò Anselmi che arriva subito dopo Verona, tappa che segna un altro passaggio, quando si inizia a parlare di pastorale integrata.

Dopo dieci al servizio della Pastorale Giovanile, don Michele ne traccia le caratteristiche.

Il radicamento capillare sul territorio, dove sono presenti Diocesi e parrocchie anche molto piccole che porta ciascuna realtà a strutturarsi: nel nostro Paese, rispetto ad altri, c’è una sensibilità educativa più pronunciata.

La titolarità della pastorale è dove si vive la comunità, dove si celebra l’Eucaristia. Quando si demanda alla Diocesi si vive poco, si incontrano poco i ragazzi. Anche sul tema della Parola: deve essere “sbriciolata” ogni giorno, altrimenti vivere solo il grande evento è fare un fuoco d’artificio ma portare a casa niente.

Gli eventi lasciano sicuramente relazioni, incontri, momenti in cui si fa esperienza di “corpo”, il tema è poi riuscire a fare verifica, a raccontarsi, a scrivere per far crescere dentro i ragazzi la consapevolezza. Il bisogno del corpo: i giovani vivono relazioni smaterializzate, noi facciamo i manichei davanti ad alcuni eventi. Gli eventi lasciano relazioni, il tema del portare a casa le esperienze e fare verifica, raccontarsi qualcosa e scriverlo.

In questi dieci anni la Chiesa ha messo al centro l’educazione e c’è stato anche un Sinodo dei giovani nel mezzo.  L’educazione messa a tema per 10 anni dalla Chiesa con un sinodo dei giovani nel mezzo, ma con la fatica di dialogare.

Cosa ci chiede oggi la pastorale giovanile: dobbiamo essere credibili per essere testimoni, deve tornare fuori il tema della qualità testimoniale della Chiesa. Una strada è quella dei rapporti intergenerazionali che devono essere sani. Il rapporto intergenerazionale deve essere rivisto perché i giovani ti riportano il respiro per il futuro.

Ci chiede di riappropriarci di un impegno laicale sano: la sensibilità politica è in crisi, ma il tema oggi è quello che i laici possono e devono fare nella società.

Il territorio è cambiato radicalmente con le grandi riforme sociali: chi si è seduto a parlare con le istituzioni era chi aveva attività educative in piedi. Il mondo non funziona con lo schema del “cestino delle offerte”, bensì con le competenze e con l’educazione alla comprensione del mondo.

Infine, l’oratorio. È un luogo unico in Italia. Ha questa grande magia, è un laboratorio dove ci si mette alla prova, dove si fa qualcosa, con un gioco di passaggio dove a un certo punto ti lascio delle responsabilità per fare servizio. Questo meccanismo fa crescere, ma va coltivato.

Questo racconto arriva poi al focus sul futuro. Cosa serve? Servono persone e competenze, le attività devono servire alle persone e non viceversa. Dobbiamo saper fare e saper fare bene. Don Michele ha poi concluso ricordando come, in questi anni, Note di Pastorale Giovanile sia stato un luogo dove “pensare”: “Chi ha costretto a pensare, non solo a fare”.

La discussione assembleare ha poi allargato il ragionamento di partenza, e ciascuno ha potuto mettere l’accento su uno degli aspetti emersi dal discorso di don Michele.

Nel pomeriggio, divisi in gruppi di lavoro, si è proceduto a mettere insieme idee e proposte per gli articoli, i dossier e gli studi da pubblicare sulla rivista nel 2024.

 

Sulla strada dei sogni: dossier sulla proposta pastorale 2023/2024

Dalla newsletter di Note di Pastorale Giovanile.

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LA CHIUSURA DEL CERCHIO

Negli ultimi tre anni il dossier NPG di approfondimento della proposta pastorale MGS si è concentrato sul primo sogno di don Bosco, quello comunemente conosciuto come il “sogno dei nove anni”. Esso è stato l’avvio di un triennio di proposte pastorali per i ragazzi e i giovani delle opere salesiane, dagli oratori alle scuole alle parrocchie nei cammini di iniziazione ed educazione alla fede, e anche coagulo di riflessioni pastorali nelle comunità educative, in una sorta di trittico unitario e organico, secondo la seguente scansione:

“Nel cuore del mondo” (cf NPG 5/2020): è stata messa a fuoco la realtà in cui siamo chiamati a vivere, a crescere e ad agire. Come il piccolo Giovannino fu invitato a stare al centro del cortile, anche i giovani si sono sentiti interpellati a vivere la loro esistenza nel cuore del nostro tempo, e ad essere proprio lì lievito, sale, luce.

 Successivamente si sono approfondite alcune parole di Maria che nel sogno invitavano Giovannino Bosco a lavorare sul proprio carattere, ad assumere una personalità a tutto tondo: “Renditi umile, forte e robusto” (cf NPG 5/2021). L’idea di fondo era che per essere degli educatori e pastori all’altezza della propria vocazione fosse necessario prima di tutto lavorare su se stessi, migliorandosi continuamente.

Lo scorso anno ci si è concentrati nella pedagogia e nella pastorale salesiana, intessuta di familiarità e confidenza, mansuetudine e carità. “Noi ci stiamo” era il motto che attestava la disponibilità di giovani ed educatori a partecipare al carisma salesiano con tutto se stessi. Veniva richiamato e sviluppato un modo originale di stare in mezzo ai giovani, oltre che uno stile preciso per vivere la giovinezza (cf NPG 5/2022).

Ora, come preparazione immediata alla ricorrenza bicentenaria del sogno dei nove anni (2024), è sembrato importante concentrare l’attenzione sulla possibilità e sulla capacità di sognare oggi. Come giovani e adulti, come educatori e pastori coltiviamo dei sogni e desideriamo sognare. Talvolta però la capacità immaginativa è ridotta e umiliata, e non permette di avere grandi sogni. Occorre allora chiarire e spalancare l’orizzonte, e non solo come bella metafora: aprirsi a un’attitudine promettente verso il futuro che lascia spazio a Dio ed entra in dialogo con Lui, accogliendo il suo punto di vista. Esattamente qui si inserisce e prende corpo la proposta pastorale per l’anno 2023-24: “Tu vedi più lontano di me”.

Se il Quaderno offerto ai giovani e agli educatori regala una “segnaletica per tornare a sognare”, il dossier ne riprende e approfondisce alcuni temi, e così pure la Newsletter corrispondente. Il tempo della fatica e della fragilità che stiamo vivendo a livello sociale – pensiamo solo alla pandemia che ci ha accompagnato in questi anni, alle tante situazioni conflittuali tuttora in essere e alle tante forme di povertà che stanno emergendo – e anche a livello ecclesiale – pensiamo alla metamorfosi della Chiesa in questo nostro tempo, segnato da una diminuzione della pratica religiosa e da una rinnovata ricerca spirituale – ci invitano a riattivare la nostra capacità di immaginazione creativa, e insieme con essa la nostra disponibilità a sognare. Di questo ci si renderà maggior conto nelle testimonianze dei giovani, sia a livello di “sogno sulla chiesa” che come “sogno sulla propria vita”: testimonianze che formano la parte esperienziale ed esistenziale dei giovani, come sogni da realizzare, una volta “svegli” o risvegliati.

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Quattro grandi sogni per la pastorale giovanile

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di don Rossano Sala

Un approfondimento della proposta pastorale che ci invita a camminare sulla strada dei sogni non può che concludersi con un rilancio della pastorale giovanile. Anch’essa infatti ha i suoi sogni e i suoi incubi, i suoi desideri e le sue incertezze. Nutre speranze e cerca di allontanare paure.
Ripartiamo ancora una volta dal Sinodo sui giovani, anche se sono passati cinque anni da quel momento e tante cose sono accadute nel frattempo: abbiamo avuto la pandemia, che ha bloccato una serena e seria ricezione del Sinodo stesso e da cui stiamo faticosamente uscendo; stiamo vivendo durante questa estate l’esperienza entusiasmante della Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona, che immaginiamo come momento di rilancio della pastorale dei giovani nella Chiesa tutta; siamo nel pieno di un percorso sinodale sulla “sinodalità” che ci accompagnerà per i prossimi anni; ci stiamo anche avvicinando velocemente al grande Giubileo del 2025.
Facciamo dunque insieme qualche passo indietro per prendere una buona rincorsa, così da compiere un bel salto nel futuro. Nello sport funziona così: si va indietro con l’intenzione di andare avanti meglio, prendendo lo slancio giusto e partendo dalla corretta distanza.
Mi pare, sinteticamente, che il cammino sinodale con i giovani ci ha proposto quattro grandi sogni. Potremmo definirli i quattro grandi orientamenti emersi dal Sinodo sui giovani, che ha immaginato la pastorale giovanile:
Sinodale: capace di fare rete e di fare squadra con tutti gli attori in campo sia civili che ecclesiali, giovani compresi, convinta che la comunione è la via privilegiata dell’evangelizzazione
Popolare: in grado di coinvolgere e arrivare a tutti i giovani, nessuno escluso, privilegiando in particolare coloro che sono più svantaggiati e problematici
Vocazionale: qualificata dal punto di vista della proposta spirituale e in grado di offrire identità cristiana ai giovani che desiderano vivere un’amicizia autentica con Gesù nella Chiesa
Missionaria: che sia espressione di una Chiesa adulta e matura che ha smesso di essere autoreferenziale e sa uscire da se stessa per andare incontro a tutti

Sinodale: capace di corresponsabilizzare i giovani

Il primo sogno riguarda la nostra “profezia di fraternità”, che assume oggi la sua declinazione sinodale. Durante il percorso sinodale la domanda iniziale da cui siamo partiti era: “Che cosa dobbiamo fare per i giovani?”. Ma questa domanda pian piano si è trasformata. Dalla concentrazione sul fare organizzativo il percorso sinodale ci ha chiesto di verificarci sui nostri stili relazionali e sulla qualità dei nostri cammini comunitari. Siamo stati sollecitati dai giovani stessi a un passaggio dal fare all’essere e dal “per” al “con”: la nuova domanda è divenuta “Chi siamo chiamati ad essere con i giovani?”.
Con frequenza sono chiamate in causa le comunità e le Chiese locali, invitate a dar vita a processi comunitari che includano i giovani. Più che manuali teorici, servono occasioni in cui mettere a frutto l’ingegno e le capacità dei giovani stessi, ossia un approccio dal basso anziché dall’alto, avendo cura di raccogliere e condividere quelle buone pratiche coronate da successo. Anche per le Chiese questo invito a fidarsi dei giovani contiene una sfida – quello di dare loro la parola – e richiede il coraggio di mettere in discussione ciò che si è sempre fatto. Si tratta, ancora una volta, di rischiare insieme, perché

la pastorale giovanile non può che essere sinodale, vale a dire capace di dar forma a un “camminare insieme” che implica una “valorizzazione dei carismi che lo Spirito dona secondo la vocazione e il ruolo di ciascuno dei membri della Chiesa, attraverso un dinamismo di corresponsabilità. […] Animati da questo spirito, potremo procedere verso una Chiesa partecipativa e corresponsabile, capace di valorizzare la ricchezza della varietà di cui si compone, accogliendo con gratitudine anche l’apporto dei fedeli laici, tra cui giovani e donne, quello della vita consacrata femminile e maschile, e quello di gruppi, associazioni e movimenti. Nessuno deve essere messo o potersi mettere in disparte”[1].

Vi sono dunque delle responsabilità a vari livelli: tutti i giovani, ogni credente, la comunità locale, i movimenti e le congregazioni religiose, ogni singola diocesi. E in tutto questo chi ha responsabilità, e quindi autorità, nella Chiesa e nella società è chiamato in causa. Come è stato ben espresso in vari momenti del cammino sinodale, l’autorità o è generativa o non è: «Nel suo significato etimologico la auctoritas indica la capacità di far crescere; non esprime l’idea di un potere direttivo, ma di una vera forza generativa»[2]. Per questo «esercitare l’autorità diventa assumere la responsabilità di un servizio allo sviluppo e alla liberazione della libertà, non un controllo che tarpa le ali e mantiene incatenate le persone»[3]. La delusione istituzionale è uno dei tratti emersi nel cammino di ascolto di preparazione al Sinodo. Sappiamo persino del fallimento della stessa autorità degli adulti e dei pastori nella triste vicenda degli abusi, più volte richiamata durante l’Assemblea sinodale.
Ora l’autorità della Chiesa, a tutti i suoi livelli, si trova davanti a una chance di tutto rispetto: quella di prendere iniziativa, di invitare tutti a mettersi in gioco, di aprire spazi di confronto e di protagonismo, di creare le condizioni per una Chiesa sinodale e solidale, caratterizzata da un modo di vivere e lavorare insieme che sia davvero profetico per se stessa e per la società in cui vive. Il Sinodo, in fondo, ci ha consegnato proprio questo quando ha parlato di sinodalità. Cioè il fatto che non si possa più fare pastorale senza i giovani!

Dall’idea di “sinodalità” viene per noi una prima importante domanda: i giovani per noi sono un “problema da risolvere” o una “risorsa da coinvolgere”? Dalla risposta onesta a questo interrogativo nascerà un orientamento preciso per rinnovare la pastorale giovanile

Popolare: desiderosa di non lasciare indietro nessuno

Il soggetto fondamentale della fede è il popolo, dentro cui ci siamo noi come singoli, giovani compresi. Questa è la Chiesa secondo il Concilio Vaticano II, che pone il primato del popolo di Dio rispetto ai diversi stati di vita e alle differenti ministerialità. Lo stiamo riscoprendo in questi anni con papa Francesco. Il tutto ci riporta verso la “teologia del popolo di Dio”, che in America Latina è stata sviluppata negli ultimi cinquant’anni. La tesi fondamentale è tanto semplice quanto rivoluzionaria: il popolo, prima che destinatario dell’opera dei pastori, è depositario della grazia che salva. Convinzione che, se presa sul serio, rovescia moltissime delle nostre certezze e posizioni! E che apre il campo ad una pastorale giovanile popolare:

Oltre al consueto lavoro pastorale che realizzano le parrocchie e i movimenti, secondo determinati schemi, è molto importante dare spazio a una “pastorale giovanile popolare”, che ha un altro stile, altri tempi, un altro ritmo, un’altra metodologia. Consiste in una pastorale più ampia e flessibile che stimoli, nei diversi luoghi in cui si muovono concretamente i giovani, quelle guide naturali e quei carismi che lo Spirito Santo ha già seminato tra loro. Si tratta prima di tutto di non porre tanti ostacoli, norme, controlli e inquadramenti obbligatori a quei giovani credenti che sono leader naturali nei quartieri e nei diversi ambienti. Dobbiamo limitarci ad accompagnarli e stimolarli, confidando un po’ di più nella fantasia dello Spirito Santo che agisce come vuole[4].

Una pastorale giovanile popolare è per sua natura “anti-elitaria” – cioè inclusiva di tutti i membri del popolo di Dio che invita ad avere ambienti di accoglienza “a bassa soglia” – ed anche in un certo senso “spontanea” – cioè capace di lasciare l’iniziativa ai giovani, certi che lo Spirito di Dio è presente e agisce in loro. È una pastorale giovanile che sa camminare lentamente e che intende non lasciare indietro nessuno: la profezia sta qui nell’attenzione a non abbandonare i giovani ai margini, a farsi accanto a ciascuno nello stile del buon samaritano.
La capacità di inclusione è la chiave della proposta pastorale avanzata in alcuni passaggi interessanti della Christus vivit e ridimensiona una spinta esagerata per la trasmissione teorica di verità dottrinali che non toccano la vita dei giovani. Le comunità cristiane sono così invitate a offrire spazi di accoglienza senza troppe barriere, e alle scuole cattoliche è chiesto di non trasformarsi in bunker a difesa dagli errori della cultura esterna, impermeabili al cambiamento. Particolarmente stimolanti sono i paragrafi dedicati alla «pastorale giovanile popolare»[5]: partono dal riconoscimento che i luoghi tradizionali della pastorale (oratori, centri giovanili, scuole, associazioni, movimenti) sono in grado di andare incontro alle esigenze di una certa parte del mondo giovanile, ma ne escludono inevitabilmente altre. Quanti professano fedi diverse o si dichiarano non religiosi, e coloro che per tante ragioni sono segnati da dubbi, traumi o errori, faticherebbero a integrarsi nella pastorale ordinaria, ma non per questo hanno meno bisogno di trovare porte aperte e di essere sostenuti a compiere il bene possibile.

Dall’idea di “popolarità” vengono delle domande che si riferiscono al riconoscimento delle diverse situazioni esistenziali dei giovani: quali sono le diverse soglie di accoglienza dei giovani nelle nostre strutture ecclesiali? Abbiamo differenti proposte di accesso alla fede per i giovani? Abbiamo spazi in cui i giovani possano davvero sentirsi protagonisti del loro futuro?

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Non vogliamo essere davvero “l’ultima generazione”!

Da Note di Pastorale Giovanile.

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Cos’è la bellezza? Ciò che è capace di appagare l’animo attraverso i sensi, divenendo oggetto di meritata e degna contemplazione. L’arte ne è una delle massime espressioni! Perché allora i giovani ecoattivisti hanno iniziato ad attaccarla così violentemente?
Ogni rivoluzione è riflesso dei valori di una fase storica e, se nel Sessantotto la speranza del cambiamento era imperante, la disillusione e la paura del futuro è ciò che rimane a noi giovani d’oggi. L’universo vira verso l’autodistruzione e in troppo pochi si sono davvero accorti dell’esiguo tempo che ci rimane prima che la direzione presa sia irreversibile.
Si parla di attivisti di “Ultima generazione”, poiché è proprio il tempo ad essere il fulcro delle proteste. Smacchiare un vetro (non opere d’arte) o un muro dalla vernice è senz’altro più immediato che guarire il nostro pianeta. La vera differenza è che lascia un segno nella memoria di chi lo vede. Ma se c’è davvero così poco tempo, perché il mondo politico è così disinteressato?
Dove esporremo le opere d’arte se non ci sarà nessun mondo in cui mostrarle? Vorremmo davvero delle generazioni più silenziose? Non c’è più tempo per manifestazioni “tradizionali”, è necessario catalizzare l’attenzione mediatica, far parlare di sé, far realizzare a più persone possibili che il tempo non ci porta più verso il progresso, ma sempre più velocemente e inesorabilmente all’autodistruzione.
Come “Ultima generazione” abbiamo il diritto di protestare, di alzare ad un livello superiore lo scontro sul clima, di colpire nel segno ed educare le nuove (e vecchie) generazioni ad un ecologismo che non sia solo di facciata, ma che diventi parte dell’etica di ciascuno di noi.
Il fine giustifica i mezzi? Sì! La verità fa paura, ma è necessario aprire gli occhi e questo sembra essere l’unico modo per far parlare della crisi climatica e ottenere risposte concrete.
E per chi non fosse ancora convinto a rimboccarsi le maniche, “senza bellezza il mondo non si salva, il nostro vivere diventa pesante”, affermava Dostoevskij. È quindi nostro diritto, ma anzitutto nostro dovere difendere l’ambiente e alleggerire con la bellezza della natura la nostra vita.

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Educare alla preghiera liturgica nella catechesi per i fanciulli e gli adolescenti /2

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Elena Massimi

Proseguiamo dal numero precedente, i cui titoletti erano:
1. Avere chiaro il punto di partenza e di arrivo
2. Preparare la preghiera/celebrazione con cura
3. L’importanza del luogo… non si prega ovunque!
4. Le «cose» nella preghiera
5. Utilizzare un linguaggio non infantile

6. Cura del gesto
«I riti splendano per nobile semplicità; siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni» (Sacrosanctum Concilium 34). Qualsiasi gesto, azione, canto… tutto nella liturgia deve essere “fatto bene”, con serietà e impegno. Gli spostamenti, gli atteggiamenti, le posture, le parole, i gesti, i canti, il silenzio, tutto deve essere messo in un “buon ordine”, ciò che segue con ciò che precede. Anche tramite la cura del gesto i fanciulli e i ragazzi sperimenteranno come la preghiera sia una “cosa seria”.

7. Il silenzio (prima-durante-dopo la preghiera)
Anche sul tema del silenzio ci lasciamo aiutare dal Direttorio per le Messe dei fanciulli:
«Anche nelle Messe per i fanciulli, “si deve osservare, a suo tempo, il sacro silenzio come parte della celebrazione”, per evitare il pericolo di perdersi troppo nell’attività esterna; anche i fanciulli sono, a modo loro, veramente capaci di meditare. Hanno però bisogno di esser guidati, per imparare, secondo i diversi momenti (per esempio dopo la comunione o anche dopo l’omelia) a concentrarsi in sé stessi o a fare una breve riflessione o a innalzare in cuor loro lodi e preghiere al Signore. Si deve inoltre porre l’attenzione – e con diligenza maggiore che non nelle Messe per adulti – che i testi liturgici vengano pronunziati in maniera intelligibile, senza fretta e con debite pause» (Direttorio per le Messe dei fanciulli, 37).
Come per la Messa, anche nella preghiera bisogna prestare attenzione al silenzio, prima, durante e dopo la fine della preghiera. È utile infatti fare un po’ di silenzio prima di cominciare la preghiera proprio per creare un clima ad essa favorevole; durante la preghiera, ad esempio dopo l’ascolto della Parola di Dio, proprio per far imprimere nell’animo la Parola stessa, e anche dopo, per non passare immediatamente dalla preghiera ad altra attività. Inoltre, curare da subito i necessari seppur brevi spazi di silenzio, è realmente propedeutico alla partecipazione alla celebrazione eucaristica.

8. Una particolare attenzione al canto
«Il canto, se deve avere grande importanza in tutte le celebrazioni, soprattutto la deve avere in queste messe per i fanciulli, portati come essi sono per natura alla musica. Il canto perciò deve essere curato con il massimo impegno, tenuto presente il carattere particolare dei diversi popoli, e la capacità concreta dei fanciulli presenti» (Direttorio per le Messe dei fanciulli, 30).
Il numero del Direttorio citato mette in luce l’importanza del canto nella celebrazione eucaristica ove partecipano i fanciulli. Ma quali canti utilizzare nelle preghiere fatte durante il percorso di catechesi fuori della liturgia? Poiché la pedagogia, etimologicamente parlando, consiste nel “condurre i bambini” verso la condizione adulta, è evidente che i canti liturgici da privilegiare – non esclusivamente – sono i canti di assemblea. È necessario proporre sin dall’inizio anche quei canti che raggiungono le differenti generazioni. Infatti il canto stesso dovrà essere un fattore d’unione e non di divisione. I fanciulli sono aperti a qualsiasi genere di musica (questo per chi insegna musica è una evidenza), quindi, perché non approfittare del cammino di iniziazione cristiana per far gustare il canto propriamente liturgico ai bambini, non temendo di insegnare canti di valore, seppur adatti alle capacità tecniche dei bambini?

9. Curare l’«entrare nella preghiera»
«Il portale sta tra l’esterno e l’interno; tra ciò che appartiene al mondo e ciò che è consacrato a Dio. E quando uno lo varca, il portale gli dice:
“Lascia fuori quello che non appartiene all’interno, pensieri, desideri, preoccupazioni, curiosità, leggerezza. Tutto ciò che non è consacrato, lascialo fuori. Fatti puro, tu entri nel santuario”.
Non dovremmo varcare così frettolosamente, quasi di corsa, il portale! In raccolta lentezza dovremmo superarlo e aprire il nostro cuore perché avverta quello che il portale gli dice. Dovremmo, anzi, prima sostare un poco in raccoglimento perché il nostro avanzare sia un avanzare della purezza e del raccoglimento. […] Qui invece lo spazio è riservato per Dio. Lo sentiamo nei pilastri che si drizzano verso l’alto, nelle pareti ampie e robuste, nella volta elevata: sì, questa è la casa di Dio, l’abitazione di Dio in una maniera speciale, interiore» (R. Guardini).
Come ben ricorda R. Guardini, curare l’entrata nella preghiera è fondamentale. Come già accennato va valorizzato il silenzio, per una buona disposizione di coloro che pregano, un tempo per la concentrazione, proprio come condizione previa per poter pregare. A questo va aggiunto che, in quelle preghiere che hanno una certa durata di tempo (questo non significa che seppur in una forma ridotta non debbano essere presenti nei brevi momenti di preghiera iniziali) è opportuno prevedere dei riti di introduzione, un canto, una parola di saluto da parte di chi guida la preghiera, una orazione… un po’ come nella celebrazione dell’eucarestia.

10. Dulcis in fundo… la proclamazione della Parola e la preghiera dei Salmi
È bene ricordare come in ogni preghiera cristiana, e quindi anche in quelle per i fanciulli o ragazzi, non possa mai mancare la Sacra Scrittura. Sicuramente i brani scritturistici o i salmi da utilizzare non potranno essere scelti senza tener conto dell’età e della formazione dei destinatari, ma la Scrittura è talmente ricca che è impossibile non trovare testi accessibili anche ai più piccoli. Inoltre, non dimentichiamoci che una pericope biblica o un salmo, fuori del momento di preghiera, può essere approfondito e spiegato adeguatamente, proprio in vista di un suo utilizzo in una celebrazione.

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Educare alla preghiera liturgica nella catechesi per i fanciulli e gli adolescenti /1

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Elena Massimi

Solitamente si inizia un incontro di catechesi per i fanciulli, o per i ragazzi, con un momento di preghiera, e si termina l’incontro sempre con una breve preghiera. Ma realmente si riesce a pregare in questi brevi momenti? Si riesce ad entrare in una relazione profonda con il Signore? In realtà mi pare che nella maggior parte dei casi più che pregare i catechisti fanno i “sorveglianti” affinché nessuno disturbi, e i bambini o i ragazzi tentano di gestire la “noia” del momento nel miglior modo possibile.
Quando poi viene proposta una celebrazione di più ampio respiro, solitamente si inventano nuovi segni, che necessitano di lunghissime spiegazioni, i bambini sono coinvolti in coreografie inopportune, gli vengono messe in bocca parole ed espressioni inadeguate, spesso caratterizzate da un linguaggio eccessivamente infantile. Si dimentica come le esperienze celebrative che accompagnano la catechesi dei fanciulli o dei ragazzi debbano essere in armonia con la liturgia e mirare alla partecipazione piena e attiva alla preghiera liturgica, alla celebrazione eucaristica domenicale in primis ed eventualmente, quando saranno giovani, alla Liturgia delle ore. Altrimenti questi fanciulli o ragazzi, da adulti, non si “riconosceranno” nella preghiera cristiana.
Vogliamo di seguito offrire alcune brevi indicazioni su come educare i fanciulli o i ragazzi alla preghiera liturgica, anche attraverso quei brevi momenti di preghiera o quelle celebrazioni che caratterizzano il percorso della catechesi. Le riflessioni proposte di seguito si inspirano ad alcuni principi sottesi al Direttorio per le Messa dei fanciulli (1973).

Premessa

Prima di entrare nel vivo del nostro tema è bene evidenziare la necessità di due consapevolezze:
1. «La liturgia è un mondo di vicende misteriose e sante divenute figura sensibile» (R. Guardini). La liturgia è una azione simbolico rituale, e come tale va “trattata”: si compone, infatti, di molteplici linguaggi (dell’arte), verbali ma soprattutto non verbali: gesti, immagini, canto/musica, vesti, vasi sacri, statue, luci, aula chiesa… Bisogna tener presente che ai linguaggi dell’arte si viene iniziati… (anche imparare a cantare!)
2. «Coloro che hanno il compito di insegnare e di educare, debbono chiedersi se loro stessi siano disposti volontariamente all’atto liturgico. In termini più netti: se sappiano in assoluto che esiste questo atto, quale sia il suo profilo, e che non è un lusso, né una stranezza, ma qualcosa di essenzialmente costitutivo» (R. Guardini).

Gli elementi necessari per una proficua formazione liturgica nella catechesi

1. Avere chiaro il punto di partenza e di arrivo
Il Direttorio per le Messe dei fanciulli custodisce alcune indicazioni importantissime da un punto di vista pedagogico; si legge: «Perché non sia troppo accentuata la differenza tra le Messe per i fanciulli e quelle per gli adulti, non si faccia mai per i fanciulli un adattamento di certi riti e testi, quali “le acclamazioni e le risposte dei fedeli ai saluti del sacerdote”, il Padre nostro, la formula trinitaria della benedizione conclusiva della Messa» (Direttorio per le Messe dei fanciulli, 39). Questo significa che le celebrazioni che vengono proposte durante la catechesi, o anche le preghiere di inizio o conclusione, non devono essere “totalmente” altro rispetto alla liturgia. Dobbiamo sempre avere chiaro l’obiettivo, cioè che il fanciullo, l’adolescente, da adulto, possa partecipare pienamente alla preghiera liturgica.

2. Preparare la preghiera/celebrazione con cura
La preghiera è una «cosa seria»! Richiede quindi tempo e impegno, non si può improvvisare, e nemmeno preparare all’ultimo momento. È bene scegliere per tempo un breve testo della sacra Scrittura, una orazione, un canto… preparare eventualmente un piccolo sussidio cartaceo, ove tutto è ben ordinato, e provare i canti o eventuali spostamenti o gesti… Seppur riferite alla celebrazione eucaristica per i fanciulli, preziose sono le indicazioni del già citato Direttorio: «Accurata e tempestiva deve essere la preparazione di ogni celebrazione eucaristica per i fanciulli, specialmente per quanto riguarda le orazioni, i canti, le letture, le intenzioni della preghiera universale, non senza le dovute intese con gli adulti e con i fanciulli che svolgono in queste Messe dei compiti particolari. […]» (Direttorio per le Messe dei fanciulli, 29).

3. L’importanza del luogo… non si prega ovunque!
Non è la stessa cosa pregare in chiesa, in teatro o nell’aula di catechismo. Cambia il nostro modo di porci nella preghiera. In Chiesa sappiamo a priori che il Signore è presente e che è il luogo nel quale i cristiani si radunano per ascoltare la Parola, per celebrare l’eucarestia e gli altri sacramenti, per pregare e adorare. Nel teatro, invece, per riuscire a sintonizzarci con la preghiera, facciamo più fatica, dato che nel nostro corpo “rimangono impresse” le altre attività che lì abbiamo svolto, e lo stesso può dirsi dell’aula di catechismo. Questo non significa che anche nella breve preghiera all’inizio dell’incontro dobbiamo andare in chiesa, è necessario però preparare un angolo per la preghiera nella stanza ove si svolge l’incontro. Tutto ciò aiuta a collocarci in un clima di preghiera. Naturalmente relativamente al luogo è necessario fare un discernimento; ad esempio se si prega all’inizio dell’incontro di catechesi, si pregherà nell’aula; se si dovesse fare una celebrazione più lunga, ad esempio sul perdono, o sull’attesa del Natale… allora forse è meglio pregare in chiesa, poiché il luogo stesso dispone meglio alla preghiera.

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Ignoranti in materia di vita?

Da Note di Pastorale Giovanile – Rubrica: Dicono di sé… dicono di noi. I giovani narrano e si narrano.

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di Gloria Sortino

Almeno una volta ci è stato detto “nella vita non si smette mai di imparare” senza capire di quale “materia” si stesse parlando! Fin dalle scuole elementari abbiamo assunto come latte materno un modello di apprendimento “a sezioni” fatto di italiano, matematica, storia e geografia, altre discipline ed è inevitabilmente diventato parte della nostra persona. Possiamo così contare su una conoscenza buona ma limitata, che si riduce all’ora di verifica in classe e destinata a svanire nei secondi successivi. Gli occhi stanchi e disillusi degli alunni, che vede un insegnante quotidianamente, sono l’effetto di un sistema che allontana la disciplina scolastica dalla vita odierna e la consegna direttamente all’iperuranio dei concetti astratti. Spesso dai professori proviene l’invito ad avere uno sguardo d’insieme sulle materie, che sappia andare oltre il semplice insegnamento; peccato che siano gli stessi a stufarsi nel sentire un’esposizione che oltre alla materia, contenga anche sogni e passioni. Questo non vuol dire che viene negata la possibilità di esprimere i propri interessi, semplicemente non rientrano in un programma didattico da seguire obbligatoriamente. Per questo motivo noi giovani non riusciamo facilmente a rispondere al monito della vita “non smettere mai di imparare”, perché ci sembra di aver raggiunto il nostro obiettivo solo con la valutazione in pagella. Eppure, circa duemila anni fa a Roma, Quintiliano aveva già intuito che la socialità data dall’educazione fosse un’occasione per imparare a vivere insieme agli altri e a trovare la motivazione per il raggiungimento di ottimi risultati. Sottolineava anche la figura del docente come promotore dei rapporti interpersonali con gli allievi e punto di riferimento non solo per la conoscenza, ma anche per i problemi della propria esistenza. Infatti, tra i banchi di scuola, non si condividono solo penne e appunti, ma anche lacrime, sorrisi e consigli di vita. Sono i luoghi in cui le storie si intrecciano e crescono giorno per giorno; nella secondaria di II grado tra un verso della Divina Commedia e una formula matematica, cominciano a forgiarsi il carattere e il pensiero critico, tuttavia questo processo dovrebbe essere già iniziato molto prima. Si matura la consapevolezza che, oltre le pagine, si impara anche dal dialogo e dal continuo confronto che accompagnano le nostre giornate, per diventare i protagonisti di una vita che ci aspetta, finite le famose cinque lunghe ore, studiando all’università, inserendosi nel mondo del lavoro.

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La paura di deludere e il coraggio di vivere

Da Note di Pastorale Giovanile, rubrica “Dicono di sé…dicono di noi”

di Giulia Ruscica e Luca Savatteri

Negli ultimi anni si sente parlare troppo spesso di giovani come noi che vanno incontro al suicidio.
La maggior parte delle volte nessuno, o quasi, è a conoscenza della sofferenza che portano dentro di sé e questo è un problema da attribuire alla società in cui viviamo, quella sempre pronta a giudicare. Non si sentono liberi di poter parlare di come stanno neanche con la famiglia e con gli amici più stretti, ed è per questo che si tengono tutto dentro fino a non farcela più.
E noi? Se provassimo ad aprirci agli altri, scopriremmo di non essere gli unici ad avere delle difficoltà o a sentire certe emozioni, ma poiché si tende a non parlarne, pensiamo che le altre persone stiano vivendo una condizione migliore e fingiamo di viverla anche noi, considerando “inferiore” o “inadatto” chi invece mette alla luce le proprie problematiche.
Inoltre, vengono rese pubbliche con grande enfasi le notizie di coloro che riescono ad ottenere ottimi risultati e posizioni, elogiandoli e facendo sentire al resto di noi di aver fallito.
Si ha paura di deludere i genitori, gli insegnanti, gli amici e per ultimi se stessi; si è spaventati di essere emarginati o rimanere troppo indietro, e tutto questo scatena un insieme di emozioni negative che possono portare a preferire la morte piuttosto che la vita.
Ci è capitato di leggere di alcuni universitari che hanno organizzato tutto ciò che sta attorno alla laurea, coinvolgendo parenti e amici, ma una volta arrivati a quel momento si sono tolti la vita, perché in realtà non c’era nessuna laurea ad aspettarli: dovevano ancora finire di fare gli esami di alcune materie! Si tratta di ragazzi che hanno avuto paura di affrontare la vita, i loro studi e la loro famiglia; hanno finto che andasse tutto bene senza parlarne a qualcuno, arrivando a compiere l’atto che ha posto fine alla loro sofferenza. E questo succede sia in ambito scolastico che lavorativo, perché la società chiede e pretende troppo da noi, escludendoci subito quando non si arriva a mantenere il canone richiesto.
Ci sentiamo schiacciati dalla paura di fallire sin dalla scuola superiore, nel momento in cui si deve capire cosa fare nel resto della vita. È positivo se si ha già un’idea di che lavoro svolgere e quindi se e con quali studi proseguire, ma non per tutti è così. Gli adulti credono che il tempo sia sufficiente per attuare una scelta, ma gli ambiti lavorativi sono troppi, così come le facoltà universitarie; gli orientamenti a scuola vengono svolti troppo tardi, quando già i test di ammissione sono iniziati e informarsi da soli su tutto non è facile. Ciò provoca ancora più ansia; non solo dobbiamo preoccuparci di studiare per la maturità, ma anche per i vari test o concorsi, con la paura di non superarli e perdere un anno. Non dovrebbe neanche essere considerato un problema se il test può essere ripetuto l’anno successivo, ma ancora una volta è la società ad imporre una corsa a chi è più bravo e veloce.
Dovremmo cercare di dare meno ascolto ai giudizi altrui, concentrandoci più sui nostri obiettivi e con i nostri tempi, perché non si può buttare l’importante dono della vita solo per non essere stati i più veloci a prendere un titolo di studio o a raggiungere una buona posizione nel lavoro.
Come cantava Battisti su un testo di Mogol: «I giardini di marzo si vestono di nuovi colori (…) ma il coraggio di vivere, quello ancora non c’è». E allora ci si chiede come si può trovare quel coraggio, come si può “trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha”? Forse la risposta sta proprio nel cercarla, nel porsi costantemente queste domande e nell’osservare come le risposte a queste ultime cambino giorno dopo giorno. Circa trent’anni fa l’artista Maurizio Cattelan rappresentava con l’opera “Charlie don’t surf” la mancata libertà dei ragazzi attraverso uno studente con le mani inchiodate al banco da un paio di matite. Oggi, invece, quella libertà che prima si percepiva come mancante, viene quasi sentita come ingombrante, e superflua. Oggi Charlie probabilmente è riuscito a sbarazzarsi di quelle matite che lo tenevano fermo, tuttavia ora che non ha più quel vincolo, come avrà reagito? Io lo immagino finalmente alzarsi, osservare le sue mani, ma con un briciolo di amarezza domandarsi: “E adesso?”.

* Studenti dell’I.S. Majorana-Arcoleo di Caltagirone

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