Europa e post-umano

di Renato Cursi

da NPG di novembre 2021

“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. Con queste parole si apriva, cinquantasei anni fa, la Costituzione pastorale del Concilio Ecumenico Vaticano II Gaudium et Spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Si trattava della dichiarazione autorevole di una comunità che “si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia”. Neanche un secolo più tardi, poco dopo aver varcato il secondo millennio dalla nascita di Cristo, la Chiesa, “esperta di umanità” (Populorum Progressio 13), si trova tuttavia a dover fronteggiare con urgenza quella che definirei la sfida del “post-umano”.
L’umanità, così come l’abbiamo conosciuta in secoli di storia, si sta forse congedando dal mondo? Siamo ad un passo dal momento storico in cui le possibilità della tecnica, unite ad un pensiero transumanista, consentiranno il superamento dell’uomo, profetizzato più di cento anni or sono da Nietzsche e rilanciato problematicamente da Harari con il suo Homo Deus pochi anni fa? In cosa consisterà questo superamento? E, in caso ci fosse, si tratterà di un superamento alla portata di tutti o solo di alcuni? Dietro il velo delle questioni intorno all’inizio e alla fine della vita, intorno al significato della malattia e del dolore, come anche dietro all’altro velo delle questioni sull’enhancement (accrescimento, potenziamento delle capacità umane), sull’interazione uomo-macchina e l’intelligenza artificiale, si intravedono ormai sempre più con chiarezza e preoccupazione queste domande. Diventano, cioè, sempre più vicine e inaggirabili, ineludibili, anche se il transumanesimo di oggi (domani chissà) non ha purtroppo ancora quasi nulla a che vedere con il “trasumanar” del Paradiso di Dante, poeta italiano ed europeo, di cui quest’anno si sono celebrati i 700 anni dalla morte e dalla prima pubblicazione della Divina Commedia.
Insieme alla questione dell’essere umano, tutte le fattispecie menzionate sopra sottendono anche quella della (volontà di) “potenza”. Cosa può dire riguardo a questa sfida un’Europa priva di un’idea condivisa di persona umana e “nana” in un mondo di “giganti digitali”? In quale rapporto sta, alla lunga, il crescere del potere con l’umanità dell’uomo? Come stanno insieme, da una parte, l’impegno per la prevenzione dei cambiamenti climatici, i nuovi stili di vita più rispettosi del pianeta e delle altre specie e, d’altra parte, una ricerca tecnica orientata allo scopo di generare e far crescere l’uomo nei suoi primi mesi di vita in una condizione artificiale, al di fuori dei corpi dei propri genitori? Non è dato sapere oggi se una nuova sintesi tra i concetti di ecologia integrale, da una parte, e di nonviolenza (intesa anche come rinuncia alla violenza culturale e strutturale), dall’altra, riuscirà ad evidenziare queste contraddizioni e a superarle promuovendo un nuovo rinascimento, una vera fraternità, una nuova armonia tra uomo e natura, che con gli occhi della fede significa armonia tra creature, creazione e creatore.
Nel vuoto delle ideologie e delle teleologie, l’unica narrazione diffusa nell’opinione pubblica che oggi sembra volere andare oltre l’orizzonte umano schiacciato sul presente del consumismo e del benessere, è quella del ritorno del mito della conquista dello spazio extra-atmosferico da parte dell’uomo, la corsa verso la colonizzazione della Luna e del pianeta Marte. Con una novità, rispetto agli anni del secondo dopoguerra: cioè che a parlarne e a lavorarci non sono più solo Stati profondi in competizione tra loro, ma anche privati visionari dotati del capitale necessario all’impresa. Anche qui, tuttavia, sembra mancare una riflessione su che tipo di umanità e di società si vogliano sviluppare in queste nuove terre di frontiera. Che uomo arriverà su questi pianeti? Che tipo di società umana vi costruirà? Cosa lascerà dietro di sé sulla Terra? Occorre riconoscere che in Europa si parla molto poco di tutto questo. Eppure potrebbe essere oggetto di decisioni concrete tra pochi anni.
Ebbene, considerati tutti questi fronti aperti, cosa può proporre la pastorale giovanile europea in un eventuale dibattito sul tema del post-umano? Come accompagnare i giovani europei affinché le loro decisioni quotidiane, come quelle di consumo, di uso del tempo, delle tecnologie, dell’ambiente o del corpo, apparentemente semplici e innocue, tengano conto di questi scenari e siano illuminate da uno sguardo di fede? Il disagio che proviamo nel tentare una risposta ci spiega perché questa enorme sfida necessita uno studio, un orizzonte e spazi adeguati per essere affrontata.
Alcuni anni prima del Concilio Ecumenico Vaticano II, in uno dei periodi più bui della sua Germania e dell’intero continente europeo, il filosofo e teologo Romano Guardini identificava la missione dell’Europa nella “critica” della potenza. L’Europa, forte di quella che molti considerano la sua debolezza, ovvero la sua vecchiaia, avrebbe quindi il compito di non limitarsi ad accrescere la potenza, ma di domarla. Di “scommessa cattolica” parlano invece più di recente Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, puntando su una Chiesa che si rigenera anche in Europa “facendosi interpellare dalla realtà”, nel dialogo con le altre religioni, con la politica, con la tecnica. La Chiesa, inclusa la pastorale giovanile, potrebbe allora contribuire a fondare una società capace di “tenere aperta la potenza”, rinunciando a bloccarla ad ogni costo, ma allo stesso tempo liberandola dalle logiche post-umane della tecnica, attraverso una pluralità di “proiezioni eccentriche”, come l’arte, la politica, la religione. In chiave di proposta costruttiva ai giovani europei, quella di “tenere aperta la potenza” ha il merito di salvaguardare la dimensione creatrice e partecipativa rispetto alla formula del “disciplinamento etico” della potenza, profetizzato da Guardini, con il quale pure quest’ultima proposta condivide molti aspetti.
Lo stesso Guardini, qualche anno più tardi, affermava:

“Se l’Europa si staccasse totalmente da Cristo – allora, e nella misura in cui questo avvenisse, cesserebbe di essere […] Se l’Europa deve esistere ancora in avvenire, se il mondo deve ancora aver bisogno dell’Europa, essa dovrà rimanere quella entità storica determinata dalla figura di Cristo, anzi, deve diventare, con una nuova serietà, ciò che essa è secondo la propria essenza. Se abbandona questo nucleo – ciò che ancora di essa rimane, non ha molto più da significare”.

Senza l’incontro decisivo con Cristo, secondo Guardini, dopo il tramonto del mondo classico greco e poi romano, l’Europa sarebbe tramontata nel vortice di una “migrazione dei popoli”. Ebbene, che forma può assumere oggi, al tramonto di un’altra epoca e all’alba di nuove grandi migrazioni, un radicamento in Cristo come fonte essenziale per l’Europa? Saranno forse nuovi santi europei a dircelo con la loro vita e le loro opere, e magari nuovi giovani santi, insieme alle comunità che sapranno accompagnarli e farli germogliare. La Chiesa in Europa, per riscoprirsi sinodale, popolo di Dio in cammino, ha bisogno di una pastorale giovanile missionaria e popolare, che si fidi della chiamata che Dio continua a rivolgerle nei giovani che nascono e che arrivano qui.

Il sogno di Papa Francesco

Dal Dossier CRISTIANI E CITTADINI – Tra fraternità e cura della casa comune

A cura della redazione di “Aggiornamenti Sociali”:
Giacomo Costa, Giuseppe Riggio, Mauro Bossi, Paolo Foglizzo

Un desiderio, profondamente radicato nel Vangelo, sta al cuore del pontificato di papa Francesco ed emerge continuamente, con sfaccettature diverse, nel suo magistero. Possiamo esprimerlo con la formulazione più recente, quella che troviamo nell’enciclica Fratelli tutti: «costruire un popolo capace di raccogliere le differenze» (n. 217), «un “noi” che abita la casa comune» (n. 17), che viva nella fratellanza e nel rispetto di tutta la creazione. Ma in maniera analoga si esprimeva nel 2015 l’enciclica Laudato si’: «La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare» (n. 13). I termini chiave sono gli stessi: un soggetto plurale (popolo, “noi” e famiglia umana) fondato su solidi legami, una casa comune e un orizzonte di cambiamento.

È questo il progetto su cui il Papa insiste fin dall’inizio del pontificato: la radice dell’insistenza sulla necessità di costruire un popolo va rintracciata nella sezione “Il bene comune e la pace sociale” del cap. IV della sua prima esortazione apostolica, la Evangelii gaudium, che riveste un valore programmatico e rappresenta una sorta di chiave ermeneutica delle molte linee del suo ministero. Secondo il n. 220, è il popolo, come soggetto plurale autenticamente inclusivo − capace cioè di riconoscere e valorizzare ciascuno dei suoi membri −, a poter prendere in mano il proprio destino e decidere la direzione del proprio sviluppo, rappresentando quindi l’alternativa alla “massa” anonima che non può che essere trascinata dalle forze della globalizzazione e del consumismo.
Anche se aggancia un sogno che percorre tutta la storia dell’umanità, quello della fraternità a cui è dedicata l’enciclica Fratelli tutti, questo progetto suscita forti resistenze, in particolare da parte di coloro che dalla massificazione individualista traggono potere e ricchezza. I contrasti emersi in occasione del Sinodo sull’Amazzonia, che denunciava gli interessi dietro l’ecocidio della regione, ne sono una delle più evidenti dimostrazioni. Da sempre particolarmente attento alla dinamica del conflitto, anche in virtù delle sue origini latinoamericane, papa Francesco non pecca certo di irenismo ed è consapevole che dal conflitto si può uscire soltanto accettando di passare attraverso una dinamica pasquale: «Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Evangelii gaudium, n. 227). L’esortazione apostolica postsinodale Querida Amazonia formula questa esigenza con parole particolarmente suggestive, anche in chiave pastorale: «Le autentiche soluzioni non si raggiungono mai annacquando l’audacia, sottraendosi alle esigenze concrete o cercando colpe esterne. Al contrario, la via d’uscita si trova per “traboccamento”, trascendendo la dialettica che limita la visione per poter riconoscere così un dono più grande che Dio sta offrendo. Da questo nuovo dono, accolto con coraggio e generosità, da questo dono inatteso che risveglia una nuova e maggiore creatività, scaturiranno, come da una fonte generosa, le risposte che la dialettica non ci lasciava vedere» (n. 105). Ci sono conflitti che non possono essere risolti con la diplomazia, ma solo per via di sovrabbondanza e traboccamento, o desborde, secondo il suggestivo originale spagnolo: un modo di porsi che lascia da parte il calcolo e il compromesso e non teme di tentare soluzioni nuove e radicali.

Il desiderio che il Creatore ha posto nel cuore dell’essere umano punta così al dono che il Redentore gli offre, e quando l’incontro si realizza ne scaturisce l’inarrestabile gioia del Vangelo: è questo l’annuncio fondamentale che abita l’intero ministero di papa Francesco, declinandosi nella concretezza delle questioni che affronta con le sue azioni e i suoi insegnamenti; è in tale luce che nelle pagine di questo dossier sarà offerta una rilettura di alcuni testi del suo magistero, con particolare attenzione alle due encicliche sociali, Laudato si’ e Fratelli tutti (cfr il riquadro per le abbreviazioni con cui saranno indicati nel prosieguo). Dopo una riflessione sul metodo su cui i documenti si basano, verranno approfondite le diverse dimensioni dell’ecologia integrale, fulcro della Laudato si’, e l’invito ad «andare oltre» le frontiere costruendo cammini di fraternità e di amicizia sociale, a cui è dedicata la Fratelli tutti. Infine si focalizzano due filoni lungo i quali dare creativamente attuazione agli stimoli del Papa: da una parte i gesti concreti e gli stili di vita che disegnano la trama del nostro vivere quotidiano, dall’altra la formazione all’impegno sociale e politico a servizio della costruzione di quel “noi” in cui ognuno trovi posto, in particolare coloro che sono messi ai margini. A corredo, in parte anche sul sito web di NPG, verranno offerti inviti alla preghiera a partire dalle due encicliche, suggeriti libri e film per approfondire le tematiche toccate e si presenteranno alcune esperienze internazionali che traggono ispirazione dall’insegnamento del Pontefice.

L’obiettivo del dossier non è presentare il contenuto dei documenti: per questo scopo è sufficiente rimandare alle molte valide risorse già disponibili, anche in rete, tra cui ci permettiamo di segnalare le sezioni dedicate Laudato si’ e Fratelli tutti sul sito di Aggiornamenti Sociali. L’intenzione è piuttosto evidenziare il dinamismo fondamentale che anima i due documenti, con l’auspicio di contribuire a stimolare processi di lettura della realtà che sbocchino in iniziative creative per l’attuazione nelle varietà delle circostanze concrete dell’ispirazione che essi forniscono: come vedremo meglio nel prossimo passo del nostro itinerario, è questo lo scopo per cui sono stati scritti.

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Cattedrali gotiche d’Europa

Da Note di Pastorale Giovanile.

Al di fuori della Francia è l’Inghilterra a recepire per prima lo stile gotico, apportandovi però una serie di varianti: attenzione alla decorazione, specialmente sulla facciata; lo sviluppo orizzontale delle facciate stesse; presenza del transetto incrociato al centro della navata; mancanza del deambulatorio absidale e delle cappelle radiali.
Ai lettori di Follett, ricordiamo la cattedrale di Peterborough, che ha ispirato I pilastri della terra.

Queste le periodizzazioni del gotico inglese: Early English (1170/1300 ca.); Decorated English (1300-1375 ca.); Perpendicular English (1375-1500 ca.)

Ecco una pubblicazione di Maria Rattà sulle Cattedrali Gotiche d’Europa con un focus sul Gotico inglese

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Europa e laicità

Di Renato Cursi

La parola “laicità”, tra le più abusate del nostro tempo, è radicata nell’idea di popolo. Sul piano etimologico, è laico ciò che è del popolo, di tutto il popolo, in contrapposizione a ciò che appartiene ad una o più parti separate dal resto. Se è in pericolo la laicità, è in pericolo l’esistenza stessa del popolo che la esprime.
I popoli europei hanno imparato a conoscere interpretazioni diverse di questo concetto nel corso della storia, con particolare riferimento al rapporto tra religioso e civile nell’ordinamento giuridico e nella vita sociale e politica. In questo percorso storico, certamente la parola di Gesù nel Vangelo (Mt 22,21; Mc 12,17; Lc 20,25) segna una forte discontinuità con il passato (come testimoniato da alcune descrizioni della vita delle prime comunità cristiane, non ultima la cosiddetta Lettera a Diogneto), anche se lo stesso non si può sempre dire delle sue interpretazioni e applicazioni successive da parte degli stessi cristiani.

Oggi la laicità in Europa è in pericolo, sotto i colpi di opposti fondamentalismi che fingono di combattersi per alimentarsi a vicenda. Una laicità di Stato che nega il diritto dei cittadini a vivere e testimoniare una fede trascendente o che comunque relega queste persone ad una cittadinanza di livello inferiore rispetto agli altri, è infatti la migliore alleata dei fondamentalismi religiosi. Non a caso, papa Francesco nel suo messaggio per le celebrazioni del 40° anniversario della Commissione degli Episcopati dell’Unione Europea (COMECE), ha affermato di sognare “un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti. Una terra aperta alla trascendenza, in cui chi è credente sia libero di professare pubblicamente la fede e di proporre il proprio punto di vista nella società”. Papa Francesco afferma inoltre di sperare che sia finito, con il tempo dei confessionalismi, “anche quello di un certo laicismo che chiude le porte verso gli altri e soprattutto verso Dio, poiché è evidente che una cultura o un sistema politico che non rispetti l’apertura alla trascendenza, non rispetta adeguatamente la persona umana”. Una laicità atea non è laica: divide il popolo in se stesso e lo lacera.

Non si tratta quindi di abbracciare mode e ideologie dell’ultima ora, volte a negare acriticamente le radici per darsi slanci illusori con ali di cera. La sfida della cancel culture, ad esempio, forma moderna di ostracismo neopuritano, impone di educare al pensiero critico e ad una “coscienza storica”, come leggiamo nella Lettera Enciclica Fratelli Tutti (FT) dedicata da papa Francesco alla fraternità e all’amicizia sociale (FT 13-14). In quest’Enciclica papa Francesco rivolge due appelli fondamentali ai giovani, entrambi connessi esplicitamente con l’Esortazione Apostolica Christus Vivit. Il primo di questi due appelli è dedicato esattamente al tema che stiamo affrontando: «Se una persona vi fa una proposta e vi dice di ignorare la storia, di non fare tesoro dell’esperienza degli anziani, di disprezzare tutto ciò che è passato e guardare solo al futuro che lui vi offre, non è forse questo un modo facile di attirarvi con la sua proposta per farvi fare solo quello che lui vi dice? Quella persona ha bisogno che siate vuoti, sradicati, diffidenti di tutto, perché possiate fidarvi solo delle sue promesse e sottomettervi ai suoi piani. È così che funzionano le ideologie di diversi colori, che distruggono (o de-costruiscono) tutto ciò che è diverso e in questo modo possono dominare senza opposizioni. A tale scopo hanno bisogno di giovani che disprezzino la storia, che rifiutino la ricchezza spirituale e umana che è stata tramandata attraverso le generazioni, che ignorino tutto ciò che li ha preceduti» (FT 13, ChV 181).

 

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Filosofia e promozione dell’umano

Da Note di Pastorale Giovanile.

di Angelo Tumminelli (PhD in Filosofia Morale – Università La Sapienza di Roma – Docente di Filosofia e storia nei licei)

La filosofia come prassi esistenziale

Un chiarimento metodologico si impone a chi intende porsi la domanda sulla praticabilità della filosofia oggi, in un contesto culturale e mediatico pervaso dalla velocità e dall’incapacità di fermarsi a ponderare sulle questioni essenziali dell’esistenza: il chiarimento riguarda la filosofia come prassi la quale non può coincidere, come un comune pregiudizio la intende, con una diatriba accademica riservata a pochi iniziati o, ancora peggio, con un esercizio di speculazione logica volto a potenziare l’intelletto a scapito di coloro che non hanno ancora raggiunto il medesimo livello di comprensione della realtà. In tal caso, la filosofia si trasforma in gnosi, in una mera eristica fine a se stessa che snatura e soffoca quella originaria dimensione di meraviglia che, secondo Aristotele, sta alla base di ogni atteggiamento autenticamente filosofico. In realtà, la filosofia è ben altro: essa è anzitutto prassi esistenziale animata all’interno di una continua condivisione comunitaria fatta di scambi reciproci, di confronto e di dialogo. Basti guardare alle prime scuole filosofiche greche che si costituiscono come comunità di vita nelle quali ciò che conta veramente non è tanto il grado di conoscenza raggiunto quanto piuttosto la disposizione al dialogo, la vita comunitaria e l’ascolto del maestro. Dunque, non si può pensare alla filosofia come qualcosa di avulso dal reale e totalmente astratto: si deve guardare ad essa come ad una fondamentale possibilità dell’umano o, per dirla con Pierre Hadot, come a quell’esercizio spirituale che attesta per ogni singola persona la possibilità di aprirsi ad un senso esistenziale. Ciò richiede l’atteggiamento dello stupore insieme alla capacità della condivisione con la quale soltanto diviene possibile tradurre il pensiero in uno stile di vita, in una prassi personale. Si dice opportunamente che chi pratica la filosofia esercita il Logos: per la filosofia, tuttavia, il Logos non è fine ma strumento, non destinazione ma ponte. Il Logos è la via filosofica che media tra l’amore personale e la sapienza, tra la dimensione affettiva e quella conoscitiva nelle quali si costituisce la persona. Il Logos filosofico è il mezzo dell’incontro tra il Filein e la Sophia, tra la tensione desiderativa dell’essere umano e quella pienezza conoscitiva destinata a rimanere mai definitivamente conquistabile. Oggi più che mai si può e si deve praticare la filosofia come possibilità dell’incarnazione del Logos ovvero come via maestra per trasformare la conoscenza in sapienza, l’oggettività del sapere in vita che pullula di desideri e affetti. In questo senso, la pratica filosofica attesta la proiezione umana verso una ragione esistenziale nella cui ricerca si inverano le possibilità più proprie dell’umanità.
Tornare a praticare la filosofia, all’interno di un orizzonte comunitario di condivisione e attesa comune, può ricondurre l’uomo alla sua verità vitale distogliendolo così dalle più disparate forme di alienazione e di schiavitù che rischiano di mortificarne l’essenza.

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Aperti, attenti, solidali. Un rinnovato modo di procedere ecclesiale

Editoriale del nuovo numero di Note di Pastorale Giovanile

di don Rossano Sala

Incominciamo un nuovo anno pastorale, che sarà certamente ricco di nuove sfide e grandi opportunità. Novità all’orizzonte non ne mancano, perché stiamo vivendo un tempo di rapidi cambiamenti, che la pandemia in atto ha ancora di più rapidizzato.
Per questo la Chiesa, che vive nel mondo e per il mondo, non solo deve affrontare con fede ciò che avviene, ma essa stessa è messa in discussione sulla propria identità e missione, cioè sulla propria forma. La sua “pastoralità” consiste esattamente in questa immersione radicale nella storia degli uomini, perché la Chiesa non deve fare i conti solo con la forza del Vangelo, ma anche con la condizione di coloro ai quali il Vangelo è destinato, che non sono mai uomini e donne teorici, ma persone che esistono realmente in una determinata epoca storica. E la Chiesa stessa, costituita da uomini raggiunti dalla grazia e dalla santità di Dio, è intessuta essa stessa di storicità.
Ecco l’importanza almeno di nominare alcuni temi attuali che meritano la nostra attenzione. Nella nostra terra italiana ed europea stiamo vivendo un tempo post-metafisico e post-secolare, che pone non solo nuove “condizioni di credenza” per i cristiani, ma addirittura “nuove condizioni di esistenza” per il cristianesimo stesso. Mi pare, a questo proposito, di intravedere tre “costellazioni maggiori” legate alla contestualità della riflessione teologica e dell’azione pastorale. Che insieme fanno emergere un unico e dinamico poliedro.

La costellazione dell’ospitalità

Per quanto riguarda la riflessione teologica in senso stretto, mi sembra che siamo chiamati ad approfondire quella che mi piace definire la costellazione dell’ospitalità. Ripensare Dio nell’orizzonte dell’ospitalità significa pensarlo come aperto e disponibile, ovvero capace di fare spazio all’altro e desideroso di allargare la propria comunione d’amore. Non c’è nulla di narcisistico né di autoreferenziale nel Dio di Gesù Cristo. Pensiamo alla sua generosità sistemica capace di plasmare una casa ospitale attraverso la creazione, generando così un mondo altro da sé. Pensiamo alla delicatezza di Dio in Gesù, che viene a noi chiedendoci ospitalità nel mondo che egli stesso ci ha affidato. Pensiamo anche all’invito pressante di Papa Francesco al discernimento come pratica spirituale di ascolto di un Dio che va ospitato, seguito e amato.
In questa prima costellazione c’è un rimando chiaro alla sfida ecologica, all’urgente tema delle migrazioni e anche alla violenza che troppe volte ha ancora una matrice religiosa. È la grande sfida della fraternità universale e dell’amicizia sociale, che nell’enciclica Fratelli tutti ha trovato un rilancio autorevole.

La costellazione dell’ascolto

Dal punto di vista antropologico, a me pare che in questi ultimi decenni si stia facendo spazio una sempre crescente attenzione alla costellazione dell’ascolto. Durante gli ultimi cammini sinodali – quello della famiglia, quello dei giovani e quello della regione Panamazzonica – siamo diventati sempre più consapevoli, come Chiesa, di essere in debito di ascolto: il grido delle famiglie ferite, il grido dei giovani e della terra, il grido dei poveri rimane troppe volte inascoltato. E nel prossimo Sinodo della Chiesa universale, che in questo anno pastorale vedrà un impegno prioritario delle Chiese locali, la pratica dell’ascolto sarà in primo piano. Così sarà anche nel cammino sinodale della Chiesa italiana, che si distenderà anch’esso nei prossimi anni.
È quindi decisivo, da tutti i punti di vista, riprendere in mano e approfondire il tema dell’ascolto: pensare l’uomo come essere dell’ascolto, uditore della Parola, aperto alla voce di Dio; essere consapevoli che la Chiesa è in debito di “ascolto empatico” verso Dio e verso gli uomini; ritornare alla vita spirituale che nella sua essenza è un ascolto attivo della Parola di Dio; ripartire dal discernimento come pratica di ascolto nello Spirito dell’appello che ci viene dalla realtà, dalla coscienza, dal mondo.

La costellazione della sinodalità

Una terza raccolta di temi pastorali ruota intorno all’ecclesiologia e fa riferimento alla costellazione della sinodalità. È effettivamente una riscoperta degli ultimi decenni, che ha avuto in questi ultimi tempi un’accelerazione convinta. La spinta a rimettere al centro dell’identità della Chiesa il suo essere “popolo di Dio” ne sta alla radice; la riscoperta del battesimo come piattaforma di ogni possibile discepolato-missionario ne è la base sacramentale. Il Sinodo sui giovani ha reso nuovamente centrale la questione, perché gli stessi giovani non ci hanno chiesto prima di tutto di fare qualcosa per loro, ma ci hanno sfidato a camminare con loro in modo nuovo, risvegliando così il grande tema della sinodalità.
Si tratta di un compito aperto, avventuroso e coinvolgente, che impegnerà la Chiesa in maniera specifica nei prossimi tre anni, ma anche presumibilmente nei prossimi decenni. Il tema del Sinodo che sta cominciando nelle nostre Chiese locali è già un programma di verifica e rilancio dell’intera vita ecclesiale: Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione.

Un unico poliedro

Queste tre costellazioni – la prima più di natura teologica, la seconda di carattere antropologico e la terza di indole ecclesiologica – si intrecciano, si rimandano e si richiamano continuamente. In realtà non si possono separare, ma solo distinguere metodologicamente, perché fanno parte di un unico poliedro. Formano un tutt’uno, perché, come ben afferma la lettera enciclica Laudato si’, «tutto è connesso» (nn. 117 e 138): chiaramente l’ospitalità e il sapersi ospitati rimandano all’ascolto, al dialogo e alla sinodalità; così come l’ascolto rimanda alle condizioni essenziali per vivere la sinodalità; così come è evidente che la sinodalità è una prassi di ospitalità e di ascolto, che riconosce l’altro come dono da accogliere e a cui dare la parola con fiducia, oltre che il benvenuto.
L’insieme rimanda ad uno stile diverso di essere Chiesa e ad un modo di procedere per alcuni aspetti inedito: aperto, perché cordiale, ospitale e accogliente; attento, perché orientato all’ascolto pronto e interessato dell’altro; solidale, perché capace di essere al servizio di tutti.

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«Vive in fondo alle cose la freschezza più cara»

Dal sito di Note di Pastorale Giovanile, rilanciamo la pubblicazione di un testo sui percorsi umani, letterari e filosofici nella terra di mezzo di Tolkien, di Angelo Mereghetti e Ivano Sassanelli.

***

IL TESTO

«Questo libro, dunque, trova la sua collocazione e ragion d’essere non come una terza via. Non si vuole, infatti, instradare nessuno ma il nostro scopo è quello di creare un campo arato che sia un terreno fertile in cui far fiorire i germogli di un seme da diffondere a tutti i tolkieniani affinché possa essere sempre più percepita la grandezza di Tolkien. […] Dunque è necessario riconoscere che nella narrativa tolkieniana “vive in fondo alle cose la freschezza più cara”. La fede che da un lato ha accompagnato e formato il pensiero del Professore, dall’altro, lo ha spinto a ricercare quella verità che poi ha voluto riflettere nel suo mondo secondario: la Terra di Mezzo. Ciò è stato compiuto, però, senza che egli misconoscesse l’amore per le saghe nordiche, i racconti medievali e i miti e le leggende anche molto distanti rispetto alla sua fede cattolica». (Dall’“Introduzione”)

GLI AUTORI

Angelo Mereghetti
Nato a Chieti nel 1994, salesiano coadiutore dal 2016, ha conseguito il Baccellierato in Filosofia presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma nel giugno del 2020. Attualmente è iscritto al corso di laurea nella Facoltà di Scienze della comunicazione sociale presso la medesima università. È stato relatore in diversi convegni e questa è la sua pubblicazione d’esordio nell’ambito tolkieniano.

Ivano Sassanelli
Nato a Bari nel 1986, laico, ha conseguito il Baccellierato in Sacra teologia presso la Facoltà Teologica Pugliese di Bari (2010); la licenza in Diritto canonico presso la Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino – Angelicum di Roma (2013); il dottorato in Diritto canonico presso la Pontificia Università Lateranense della Città del Vaticano (2015); la laurea magistrale in Giurisprudenza presso l’Università LUM “Jean Monnet” di Casamassima (2017) ed è dottorando (Ph.D.) in Bioetica presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma. È Professore incaricato di Diritto canonico presso la Facoltà Teologica Pugliese di Bari, responsabile del Dipartimento di Studi religiosi, culturali e artistico-letterari della Scuola di Alta Formazione e Studi Specializzati per Professionisti di Taranto e vice-presidente del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale (MEIC) di Bari. Nel contesto tolkieniano è membro del comitato scientifico della Mostra Internazionale “The Tree of Tales” (Meeting di Rimini, 20-25 agosto 2021). Ha pubblicato diversi articoli e saggi scientifici apparsi su collane e riviste accademiche e quattro monografie tra cui: Tolkien e il vangelo di Gollum (Cacucci, 2020).

Contributi di Chiara BERTOGLIO, Simone BUDINI, Federica CALABRESE, Oronzo CILLI, Giovanni Carmine COSTABILE, Vito FASCINA, Angelo MEREGHETTI, Andrea MONDA, Giuseppe PEZZINI, Ivano SASSANELLI, Guglielmo SPIRITO, Claudio Antonio TESTI.

IL SOMMARIO

Introduzione. Un sogno a lungo atteso
ANGELO MEREGHETTI

Proemio. Coordinate di un viaggio nella Terra di Mezzo: un’impostazione metodologica
GIUSEPPE PEZZINI

Parte I
Percorsi umani

Le “intonazioni” della vita di J.R.R. Tolkien
IVANO SASSANELLI

John Francis Reuel Tolkien: novizio della Compagnia di Gesù
ORONZO CILLI

Parte II
Percorsi letterari

«Avanti e in alto. Insieme»: percorsi tolkieniani d’inizio secolo
VITO FASCINA

La tematica religiosa in Tolkien: analisi di alcune vie interpretative
IVANO SASSANELLI

Il “Mount Doom” e le tracce del “Deus absconditus” nella narrativa tolkieniana
IVANO SASSANELLI

Contemplazione e creatività: il canto degli Ainur
CHIARA BERTOGLIO

Meraviglia ed Eucatastrofe: un viaggio nella Terra di Mezzo di Tolkien
ANGELO MEREGHETTI

Gli Hobbit, ovvero noi
ANDREA MONDA

Figure di paternità ne Il Signore degli Anelli
GUGLIELMO SPIRITO

Salvati in extremis: la morte di Boromir e quella del buon ladrone
GUGLIELMO SPIRITO

Il contesto storico e letterario dell’Artù di Tolkien
FEDERICA CALABRESE

Parte III
Percorsi filosofici

Le Nozze dell’Agnello: la cupida caritas in Tolkien e negli altri antecedenti cristiani tra !loso!a e letteratura
GIOVANNI CARMINE COSTABILE

Morte e libertà umana tra fato e onniscienza divina nel Legendarium tolkieniano e in Tommaso d’Aquino
CLAUDIO ANTONIO TESTI

Thomas More in J.R.R. Tolkien. Analogie fra i popoli di Utòpia e della Terra di Mezzo
SIMONE BUDINI

Le autrici e gli autori

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“Renditi umile, forte e robusto”: alcuni passi del Magistero salesiano

Ha tutta l’aria di un paradosso: mentre la “trilogia” educativa proposta dal sogno dei 9 anni ha una notevole rilevanza nella memoria dei giovani (come si vede dalle testimonianze riprodotte nel dossier), non sembra che abbia avuto tanta cittadinanza né negli studi su don Bosco né nel magistero salesiano.
Certo, il sogno viene citato, approfondito, “ermeneutizzato” da tutti… ma in genere per quanto riguarda la modalità del “sogno”, i ragazzi che compaiono (lupi e agnelli), la presenza autorevole e consolante di Gesù e della Madonna.
Ma il trinomio viene citato e dato per scontato, senza approfondimenti storici (don Bosco si è formato “davvero” su queste linee?), spirituali e pedagogici (cosa vuol dire percorrere questi sentieri educativi nella vita e nella crescita dei giovani?), ecc.
Non ci chiediamo se questo è un problema, indichiamo e basta.
Per arrivare a questa conclusione abbiamo fatto una ampia ricerca sulle fonti, che ora sono facilmente disponibili on line, sia quelle del sito ufficiale della Congregazione (di non immediata e facile consultazione), sia quelle più abbordabili di “Salesian Online Resources”) a cura dell’Università Salesiana.
Con i vari sofisticatissimi motori di ricerca si arriva certamente a trovare molte occorrenze, ma perlopiù riproposizioni del sogno e la citazione della trilogia senza approfondimenti.
Quel qualcosa in più che cercavamo (approfondimento pedagogico-spirituale del trinomio) lo riproponiamo qui di seguito, se non altro per la curiosità del lettore.

Il senso dei contenuti dei sogni di don Bosco

Passiamo ad altri aspetti attinenti l’analisi critica delle fonti. Qualsiasi manuale di critica documentaria insegna quanto sia importante, in ordine a una storia del testo, reperire e segnalare correttamente le varianti di scrittura, dalle prime fasi redazionali fino al testo definitivo fissato dall’autore. Non si tratta di una pura esercitazione accademica. Tale operazione infatti si rivela di notevolissima importanza, quando dall’analisi del testo si passa, ad esempio, allo studio della mentalità dell’autore. A questo proposito è interessante notare i termini che DB sceglie e le varianti che introduce allorché narra nelle MO il sogno dei nove anni. Riferendo le parole udite dal personaggio celeste, egli aveva scritto in un primo tempo: «Renditi sano, forte e robusto». Poi, intervenendo sulla propria scrittura, corresse: «Renditi umile, forte e robusto».
La prima redazione poteva apparire l’invito alla sanità fisica e implicitamente a quella psichica. Era un monito che del resto esprimeva bene l’intuizione sviluppata nella Vita di Domenico Savio e altrove, che cioè la vita cristiana e la stessa perfezione non erano contro i valori ai quali aspirava la natura umana.
Correggendo il proprio autografo DB pose l’accento su un tema che qua e là riaffiora nella trama delle MO: non la vanagloria, ma l’umile sentire di sé comportava la benedizione di Dio.
Che cosa allora sognò veramente DB? quali parole ricordò di avere udito dal personaggio celeste? Le ipotesi che si possono avanzare sono più d’una. Ma se si bada al modo come DB in quei medesimi anni scrive i suoi sogni e poi li racconta, si è portati a credere che la concretizzazione di parole e di concetti sia un’operazione che DB fa tranquillamente a tavolino, alle prese con il testo che sta scrivendo e che poi si ripromette di narrare. Questo è constatabile nel sogno cosiddetto di Lanzo (1876). Nell’appunto autografo che DB aveva predisposto troviamo descritto un mazzetto di fiori e spighe di grano, simbolo di distinte virtù, in mano all’apparizione di Domenico Savio. Esponendo poi a voce il sogno, DB cambiò qualche fiore, ne omise qualcun altro, cambiò anche il significato simbolico di un fiore. Ancora più indicativo è quanto si nota nel sogno di S. Benigno (1881). Sul manto del personaggio celeste DB aveva visto risplendere una serie di dieci diamanti. Al centro dei cinque incastonati sulla parte posteriore in un primo tempo aveva scritto che c’era il diamante della «castità»; in un secondo tempo cancellò e scrisse: «obbedienza». Ma anche le didascalie di ciascun diamante subirono varianti. In un primo tempo DB aveva cominciato a scrivere in italiano, in un secondo tempo le riscrisse in latino: «carità» divenne «caritas»; «obbedienza, povertà, castità» divennero rispettivamente «votum obedientiae, votum paupertatis, votum castitatis».
Ammesso che dietro il «sogno» che conosciamo ci sia stata veramente un’esperienza onirica, si è posti in guardia dalle libertà che DB si prende nei confronti del suo proprio manoscritto. La sua parola rimane in ultima analisi l’unica testimonianza circa fatti di questo tipo. Lo stesso è da dire del sogno dei nove anni. Sulla sua realtà, sul significato che poté avere nel corso della sua vita, sul modo come ne è stato fissato il racconto nelle MO unito testimone è soltanto lui. E di DB si conosce bene la propensione a giocare sul significato delle parole e sulla portata evocativa dei numeri. Nel sogno dei nove anni scrive di aver visto folle di giovani scalmanarsi in un «cortile»: adopera cioè un termine evocativo del cortile dell’oratorio; in quello del 1844 scrive di avere sognato una chiesa «stupenda ed alta» con la scritta: «Hic domus mea, inde gloria mea» (MO 136); fa pensare cioè non tanto a un edificio sacro che comunque sostituisse le chiese e le cappelle entro cui radunavano precariamente i suoi giovani, quanto piuttosto al tempio dell’Ausiliatrice che costruì tra il 1863 e il 1868. Quest’uso elastico del linguaggio, allusivo a fatti che potrebbero essere l’avveramento delle predizioni, induce a saper entrare nel gioco mentale di colui che lo adopera, individuandone il nocciolo solido e accettando il resto in modo altrettanto elastico, allusivo e relativo.
(Pietro Strella, Apologia della storia. Piccola guida critica alle Memorie biografiche di don Bosco)

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Rubrica 16 anni, conclusione…ma non del tutto!

Di Marco Pappalardo

Poco meno di un anno fa abbiamo scommesso sulla rubrica “Sedici anni” e sul fatto che non fosse un adulto a scrivere le riflessioni, ma gli stessi adolescenti. Saranno volubili, indecisi, svogliati, in mezzo alla tempesta, immersi nei social, disorientati dai primi amori, eppure sei adolescenti dell’Istituto Superiore Majorana-Arcoleo di Caltagirone, in provincia di Catania, ci hanno fatto vincere la scommessa!

Giorgia, Chiara, Adele, Sofia, Gloria e Stela meritano di essere chiamate per nome e di essere ringraziate per aver aperto il loro cuore ai lettori, in un anno decisamente difficile, quando sarebbe stato più facile tenersi tutto dentro. Non c’è pastorale efficace che non parta dalla realtà, che non emerga dalla fragilità, che non si immerga nel mare della vita per portare alla luce le domande vere e le ipotesi di risposte su cui costruire uno o più progetti; al contrario, eccetto intuizione sante o geniali, il rischio è di dare risposte (anche giuste e interessanti) a domande mai poste. Se pensiamo proprio agli adolescenti, considerata la naturale indisponibilità all’ascolto degli adulti, svolgeremmo un enorme lavoro finendo però per raggiungere pochi, i soliti o nessuno. Da educatori non dobbiamo e non possiamo accontentarci, e anche per questo le nostre autrici non sono state scelte (è facile e scontato fare squadra con chi ci viene dietro sempre e comunque!), ma hanno ricevuto insieme a tanti altri una proposta, dicendo “sì” chi subito, chi tra mille incertezze. Inoltre, la loro voce non ci è giunta da contesti “protetti” e “religiosamente certificati” come parrocchie, oratori, movimenti, associazioni ecclesiali, bensì da una scuola statale di provincia, proprio per avere una prospettiva di “periferia” e “fuori le mura”.

Ogni tanto ci hanno fatto attendere un po’ di più prima di inviare la riflessione, altre volte le abbiamo sollecitate per non saltare l’appuntamento, altre ancora ci hanno chiesto giustamente il perché di qualche correzione al loro testo, ma in fondo è tutto normale quando quotidianamente si sta accanto a loro. Ci hanno lasciato una piccola grande eredità e tanti temi che non si chiudono con questa rubrica, anzi ci aprono la strada per riflettere, confrontarci e agire, quasi un “abbozzo pastorale” da trasformare in “disegno” insieme ai nostri adolescenti e poi in “progetto” nelle comunità.

Preghiera e quotidiano

Di Carmine di Sante

Premesse

Il titolo collega due termini (preghiera e quotidiano) che la tradizione generalmente ha tenuto distinti e separati: per pregare non bisogna allontanarsi dal quotidiano, ritirarsi “nel deserto”, fuggire dal mondo? Come è possibile pregare in mezzo alle “preoccupazioni ordinarie” (lavoro, casa, famiglia)?
Il collegamento che si intende stabilire tra preghiera e quotidiano è duplice: da una parte mostrare che la preghiera è legata agli eventi quotidiani (alzarsi, lavorare, mangiare e dormire), dall’altra rilevare che essa, mentre li assume, li trasfigura. La preghiera infatti ha il potere, per così dire, di trasfigurare l’ordinario in straordinario, non certo per virtù magica ma per la forza della fede che essa esprime.
I momenti principali e irriducibili dell’arco quotidiano sono quattro: il risveglio (al mattino), il lavoro (durante la giornata), il pasto (al mezzogiorno), il riposo (alla sera). Di ognuno di questi momenti si cercherà di vedere come si rapporta con la preghiera e come viene da questa risignificato.

Il risveglio

Svegliarsi è passare dal tempo del sonno al tempo della veglia, dalla morte dei sensi al risveglio della coscienza, non solo psicologica ma soprattutto etica. Ma questo passaggio – dal sonno alla veglia – non avviene per forza interna quanto piuttosto esterna. In realtà svegliarsi è essere svegliati, è essere visitati e incontrati dalle luce delle cose che, riaccedendo alla loro identità di figure compiute, “bussano” alla porta dei nostri sensi svegliandoci e richiamandoci al rapporto con la realtà.
Ma tornare al rapporto con la realtà è tornare alla percezione della sua complessità e ambiguità. Il mondo che si offre ai nostri sensi e che torna ad apparire entro l’orizzonte della coscienza non è solo un mondo bello e positivo che si offre come oggetto, ma un mondo problematico che chiama in causa e ci interpella. Per cui essere svegliati dalla luce delle cose è in realtà un essere interrogati dalla loro riapparizione e dalla loro presenza, e di fronte ad esse più che dominatori ci si scopre in situazione di recettività e di risposta. Esse, con il loro esserci e con la loro stesso silenzio, pongono domande alle quali non si può non rispondere.
Pregare al mattino (con un “segno di croce”, con un “Padre nostro”, con un salmo, con un canto o con formulari più ampi come la preghiera di lodi nelle comunità monastiche) è assumere e risignificare alla luce dell’amore di Dio l’evento coscienziale del passaggio dal sonno alla veglia. Pregare al mattino – sostando, sia pure per pochi istanti, dinanzi al miracolo del proprio risvegliarsi – è prendere coscienza che il mondo delle cose che la luce rigenera e ripropone ai sensi non è il mondo della pura e semplice fattualità, ma il mondo di Dio, cioè la creazione. Questa non consiste nel fatto che Dio ha prodotto le cose dal nulla, ma nel fatto che egli le dona e ridona ogni giorno all’uomo per amore. Un’immagine adeguata per capire il senso della creazione divina può essere quella della madre che ricama il lenzuolo per il suo bimbo o quella dell’artigiano che gli prepara la culla. In casi come questi, l’accento non cade né sulla fattualità dei due oggetti – l’esserci del lenzuolo e l’esserci della culla – né sulla loro produzione – il costruirle con o senza materiali precedenti – ma sull’atto di amore che in essi prende corpo e si rivela. Svegliarsi al mattino pregando è sentire – o predisporsi a sentire – che la luce che rigenera le cose è l’amore di Dio, la sua benevolenza per l’uomo, e che il mondo che ci attende non è né casualità né fatalità, ma l’incarnazione della sua tenerezza e della sua cura per tutti e ciascuno singolarmente.
Nella liturgia ebraica l’orante, quando si sveglia al mattino, prega con queste semplici parole: “Benedetto sei tu Signore che restituisci l’anima ai nostri corpi”. “Restituire l’anima ai corpi” è un’espressione che, in ebraico, vuol dire: risuscitare, ridonare la vita, far rivivere. Pregare è vedere ogni mattino come una nuova creazione, in cui Dio, come nel racconto della Genesi, ricostituisce, con il suo “alito”, ognuno come “essere di vita” (cfr Gn 1,7) e come “sua immagine e sua somiglianza” (cfr Gn 1,26), cioè custodi del mondo e suoi responsabili. Certo, la preghiera non ignora che il giorno che inizia è – come tutti i giorni – segnato dalla durezza del vivere e dalla minaccia della monotonia; ma essa, sintonizzandoci con il senso profondo della realtà che è l’amore di Dio e il suo perdono, offre la prospettiva ideale nella quale collocarsi e dalla quale derivare la forza e il coraggio per trasformarlo e viverlo secondo il disegno di Dio: “Il primo mattino è allora il tempo in cui il cuore credente si accorda sul cuore nascosto del mondo: ‘voglio cantare, a te voglio inneggiare: svegliati mio cuore, svegliatevi arpa e cetra, voglio svegliare l’aurora’ (Sal 57,9)” (A. Rizzi, Parola di Dio e vita quotidiana, Elledici 1998, p. 67).

Il lavoro

Il risveglio e il rapporto con le cose non è di tipo contemplativo ma trasformativo: il mondo, appressandosi all’uomo e richiamandolo in vita, gli si offre come compito per essere “eseguito”, come una pagina musicale o un’opera teatrale che esigono di essere attualizzati. Ciò vuol dire che è il lavoro e non la contemplazione il tipo di rapporto dominante con il mondo. E ciò spiega perché sia proprio il lavoro l’elemento qualificante il giorno al quale la preghiera del mattino introduce.
Ma quale lavoro? Il lavoro inteso e vissuto come dominio sulle cose ridotte a puro oggetto o il lavoro come collaborazione che le porta a compimento? Il lavoro come mezzo per la propria autorealizzazione o il lavoro come servizio per i fratelli? Il lavoro come espressione della propria volontà di progettazione e di affermazione o il lavoro come assecondamento e trasparenza dell’intenzionalità creatrice?
Collegare il lavoro alla preghiera (anche qui con modalità diverse che possono andare dal semplice segno della croce a una breve formula a testi ampiamente articolati) è operarne una rilettura liberante e originale alla luce dell’amore creatore colto nella prima alba del mattino.
Visto alla luce della fede – di cui la preghiera costituisce un’oggettivazione – il lavoro umano non è né puro dominio sul mondo né pura arbitrarietà su di esso, ma compito affidato che esige rispetto e collaborazione. Le cose che, nel corso della giornata, si offrono all’uomo per essere “lavorate”, non sono “oggetti” che egli può trasformare a piacimento, ma “segni” e “parole” che attendono di essere interpretati e portati a compimento. L’interpretazione è quell’attività peculiare nella quale si è contemporaneamente – come nella lettura di un testo – attivi e vincolati; attivi, perché solo attraverso e a misura della partecipazione del soggetto il testo parla e rivela la sua verità; vincolati perché tale “intervento”, lungi dall’imporsi al testo e violentarlo, si pone di fronte ad esso in un rapporto di obbedienza e di rispetto, il solo che permette di farlo essere.
Se le cose portano iscritto, nel loro cuore, l’amore di Dio per l’uomo e se esse sono creazione perché sorrette dalla logica del dono, rapportarsi ad esse nell’attività lavorativa – qualsiasi attività, sia manovale che “spirituale”, sia materiale che simbolica – è rispettare questo senso, vincolati alla sua oggettività e ponendosi a servizio della sua verità. Il lavoro diviene così incarico che Dio ci affida e con cui ciascuno diventa – in alleanza con lui – “con-creatore” del mondo. Concreatore: prima che a livello strumentale e operativo a livello intenzionale, che è quello della sua finalità e della sua destinazione. Con il suo “lavoro” l’uomo diventa con-creatore del mondo sposandone la logica di dono che lo sottende e ponendosene a servizio con il suo logos trasformativo. Pregare al mattino e durante la giornata è svegliarsi e risvegliarsi a questa responsabilità radicale che di ogni lavoro fa l’espressione di un duplice amore: a Dio – che, nell’obbedienza chiede di volere quello che lui vuole – e ai fratelli – amarli con lo stesso amore di gratuità con cui Dio li ama -. Qui la preghiera non opera né come strumento magico (il sogno utopistico di liberarsi dal lavoro) né come mezzo ideologico (legittimare il lavoro alienante come volontà di Dio), ma come momento di critica e di responsabilizzazione (assumere il lavoro immettendoci il giusto fine che dà la forza dì assumerlo e di redimerlo): “Non si tratta di cullarsi in infantili illusioni che pensano di poter trasformare interamente il lavoro in gioco o di poterlo sublimare integralmente in una specie di celebrazione cosmica. Il lavoro, come tutto l’umano, è sotto il duplice segno della grazia e del peccato, della creazione e della caduta, della gioiosa produttività e della pesante alienazione. La spiritualità del mattino è di disporsi al lavoro come dono attivo, dopo aver lodato Dio per il dono ricevuto; è di chiedere forza per portarne l’alienazione e luce per disalienarlo, energia per la fatica e passione per la creatività: che l’una non accasci e l’altra non esalti, ma ambedue siano comandate dall’obbedienza al progetto creatore e dall’amore ai fratelli” (A. Rizzi, cit., p. 69).

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