Le esperienze estive post-COVID: educare i giovani in una Chiesa sinodale

Da Note di Pastorale Giovanile.

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Di Claudia Simonetto e Cristiano Vanin

Progettare esperienze estive in tempo di pandemia

Per due anni consecutivi (2019-2020) le linee guida nazionali e regionali di attuazione dei Centri estivi hanno chiesto a tutti coloro che si occupano di attività estive di ripensare le loro strutture e iniziative per contenere e ridurre le occasioni di contagio.

Quello che per molti anni ha alimentato le settimane di Grest e Centri estivi, ovvero la dinamica competitiva a grandi squadre fatta di gare, tornei e attività volte a guadagnare punti per decretare alla fine dell’esperienza un vincitore, non è stato più praticabile per il ridimensionamento drastico dell’interazione tra gruppi. Anche i molteplici sussidi già esistenti, che aiutavano sacerdoti, religiosi, religiose e laici nella progettazione e realizzazione di queste esperienze estive, durante le estati COVID sono risultati anacronistici e inutilizzabili a causa di modalità assembleari nei momenti di formazione o di preghiera e per la commistione di più gruppi nelle attività e laboratori. Impraticabili anche le sfilate, i tornei, le serate con i giovani animatori o con i genitori.

Tuttavia quello che inizialmente in queste estati COVID sembrava un vincolante limite al divertimento e alla condivisione si è trasformato in occasione di rinnovamento educativo. Protagoniste di questo sviluppo sono state le diverse parrocchie, case religiose e associazioni cristiane che, possedendo un minimo di risorse necessarie (educatori, volontari e spazi), hanno messo in discussione programmazioni ormai consolidate per dare la precedenza ad attività flessibili e modulari realizzate tra gruppi di coetanei.

Nonostante ciò si sia rivelato una promettente fucina di sperimentazione che ha aperto nuove strade e dato frutti inaspettati, dalle comunità pastorali traspariva un più o meno esplicito desiderio di “tornare presto alla normalità”, intesa come il ripristino delle modalità di animazione e organizzative precedenti la pandemia.

Semi e cammini di spiritualità

Per questa ultima newsletter prima della pausa estiva, proponiamo un “raccoglitore” di alcuni temi di approfondimento sulla spiritualità per i cammini rivolti ai giovani.

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Essendo questo un campo grande quanto la vita e la fede… indichiamo solo alcuni temi di approfondimento, tralasciando altri più specifici e trattati altrove.

SPIRITUALITÀ COME IDENTITÀ CRISTIANA – di Riccardo Tonelli

Il tema scelto per questo studio potrebbe risultare superato in partenza: una ricerca sulla «spiritualità»? E, per di più, per i giovani d’oggi?
Siamo consapevoli che il termine può risultare equivoco, evocativo di modelli cristiani che molti ormai hanno messo a disuso.
Parliamo di spiritualità per riaffermare invece una esigenza imprescindibile dell’esperienza cristiana. Diamo però a questa voce una dimensione ampia e totalizzante.
Pensiamo alla spiritualità come ricerca sulla identità cristiana, come significato globale di vita, capace di unificare, nella prospettiva del senso, i singoli gesti che qualificano l’uomo cristiano.
Spiritualità giovanile è quindi per noi il tentativo di «inventare» una immagine di giovane cristiano, proponibile oggi a quei giovani che se la sentono di giocare la propria vita per Gesù Cristo, nella sua Chiesa e che, a partire da questa decisione radicale, si interrogano sul proprio quotidiano esistere come uomini nuovi.
Con questa pretesa, vogliamo superare due stimoli, che riteniamo negativi: da una parte, la riproduzione, con qualche aggiustamento di ammodernizzazione, di molte spiritualità tradizionali, consapevoli che la riflessione antropologica e teologica attuale ha modificato i presupposti su cui si reggevano quei progetti; dall’altra, la tentazione, facile quando non si riesce a trovare modelli praticabili, di svuotare l’esperienza cristiana della sua irrinunciabile dimensione «spirituale».
Si tratta invece, come dicevamo, di affermare a piena voce l’esigenza di spiritualità; ma di farlo in modo che essa risulti una proposta teologicamente e antropologicamente corretta, significativa. È cioè un evento di salvezza, per i giovani d’oggi.

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Sbagliare e crescere

Da Note di Pastorale Giovanile – Estate 2022

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di Stefano Cisi Clerici

La scuola è un ambiente unico. Nascono relazioni, amicizie, si cresce, ma è anche il primo luogo dove i ragazzi iniziano a conoscere il fallimento, l’insuccesso e la frustrazione. Soprattutto alle medie, quando il cambiamento sia fisico che psicologico inizia a caratterizzare le giornate dei nostri ragazzi. Ed è qui che la figura dell’educatore è fondamentale, dove il carisma salesiano riesce ad incunearsi e a far sbocciare qualcosa di bello! È faticoso e impegnativo mettersi in gioco con i preadolescenti, ma è una vocazione che ripaga di tante cose; soprattutto nelle situazioni difficili. Mi è successo più volte di essere dentro a situazioni spiacevoli come quella volta con Marco, ragazzo semplice, ma al quale la vita aveva già messo davanti molti ostacoli; dalla separazione dei genitori, alle loro nuove famiglie, condite da un disturbo dell’apprendimento che lo faceva sentire diverso agli occhi dei suoi compagni. Mi ricordo bene quella mattina, Marco si era preparato per l’interrogazione di Storia, aveva studiato, ma al momento di rispondere si era bloccato, non riusciva ad interloquire con la professoressa, sembrava proprio che la sua mente fosse priva di ogni nozione e così il voto non potè essere che negativo.
Io non avevo assistito all’interrogazione e stavo lavorando nel mio ufficio organizzando i tornei del pomeriggio, ma sentii le urla provenire dal corridoio e le porte del bagno sbattere prepotentemente. Subito mi alzai per andare a vedere cose fosse successo e quando entrai in bagno vidi Marco sbattere forte i punti contro le porte dei bagni; non è mai facile entrare subito in empatia con un ragazzo pieno di rabbia, la prima cosa che ho fatto è stata esserci e premurarmi che non si stesse facendo male. Per un ragazzo così, già il fatto che qualcuno si interessi a lui è fondamentale, quante urla e manifestazioni di rabbia vengono lanciate nel nulla senza che nessuno risponda, sono richieste d’aiuto che noi adulti dobbiamo recepire e immagazzinare.
“Cos’è successo?” gli dissi.
“Niente!” tipica risposta dei ragazzi.
“Allora perché te la prendi con la porta?”
“Perché sono arrabbiato!”
“Allora sto qui a difendere la porta dal tuo niente! Ma appena finisci vieni con me in ufficio e facciamo 4 chiacchiere.”
Vedendo che non me ne andavo, ma anzi cercavo di interagire con lui, Marco ha cominciato a tranquillizzarsi e a lasciare in pace la povera porta verde del bagno ed è scoppiato a piangere. Ci sono pianti e pianti, quello di Marco era di frustrazione, come di rassegnazione dell’ennesimo insuccesso della sua vita. A quel punto l’ho accompagnato da me, l’ho fatto sedere, gli ho dato qualcosa di dolce da mangiare, che non fa mai male, e mi sono fatto raccontare tutto quello che era successo.
Anche solo raccontando il fatto, Marco stava già meglio, sentire che qualcuno era lì per lui solo per ascoltarlo era già un gran risultato, al giorno d’oggi i ragazzi cercano come oro qualcuno che li ascolti senza essere giudicati, qualcuno che dimostri loro che possono essere amati e compresi con i loro pregi e i loro difetti.
A scuola è più facile, ma non sempre scontato, di ragazzi come Marco ce ne sono tanti e tutti hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a sbagliare e a crescere dai propri errori.

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Il filo di Arianna della politica: il potere

Da Note di Pastorale Giovanile.

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Raffaele Mantegazza

Come parlare

Il potere ce l’hanno sempre gli altri. Il dittatore, il presidente, il capufficio, il preside: sembra quasi che il potere sia un oggetto che qualcuno detiene e che qualcun altro può sottrargli. Non stiamo dicendo che questa rappresentazione del potere sia sbagliata, ma è molto semplicistica. Il potere probabilmente è un sistema di relazioni, un modo di rapportarsi con le altre persone; c’è ovviamente chi usufruisce di maggior potere e chi lo subisce, ma pensare il potere in dimensione relazionale vuol dire provare a capire come ridistribuirlo e come affrontare le iniquità e gli squilibri.

In fin dei conti il principio di divisione dei poteri, già per il fatto di parlare al plurale, ci mostra una possibile strada. Il potere è una questione di equilibrio e di squilibrio, di relazioni che vanno controllate, monitorate e se necessario modificate.

Chi ha il potere dunque in una classe scolastica? Da un certo punto di vista sicuramente l’insegnante, ma anche il leader positivo o negativo, il ragazzo o la ragazza più grandi, il gruppetto che determina l’umore e la possibile collaborazione dei ragazzi alla lezione. Impostare il potere come strategia di relazioni aiuta i ragazzi e le ragazze a capire che stiamo parlando di un oggetto molto complesso, che non si riduce all’utilizzo della violenza fisica.
C’è inoltre un potere evidente, che si manifesta in modo esplicito, che si presenta in tutta la sua fisicità e la sua forza, anche con la violenza; e c’è accanto ad esso un potere più suadente, più sottile, evidente nella pubblicità o in una certa propaganda elettorale. C’è un potere che ti fa star male, che ti ferisce, che ti punisce, ma c’è anche un potere che ti fa stare bene, un poter-fare le cose, un poter alleviare le sofferenze. Ogni visione solamente negativa del potere ci sottrae la possibilità di comprenderlo in tutte le sue articolazioni, e ci nega l’opzione di stare all’interno del potere con l’intenzione di promozione e di miglioramento della dignità umana su questo pianeta.

Dunque proporre il problema del potere ai ragazzi e alle ragazze significa aiutarli a capire come il potere circola tra di loro; non solo il potere dei genitori e degli insegnanti, ma tutte le relazioni nelle quali qualcuno tra loro, nei loro gruppi, nelle loro aggregazioni, sente di esercitare o di subire un potere. E tutti gli spostamenti, i cambiamenti, le ridefinizioni che questo sistema subisce e agisce con il passare del tempo. Abituare a vivere il potere nella quotidianità è fondamentale per poi capire quanto la ritualizzazione del potere tipica dei meccanismi democratici ammorbidisca da un certo punto di vista la sua pervasività e lo renda padroneggiabile o perlomeno controllabile.

Esiste poi un potere che cancella, che punisce, che ferisce, il tipico potere della censura, ma anche un potere che costruisce, che fa essere le cose; e c’è poi anche un potere che lascia essere, che si fa da parte, che lascia il campo agli altri. Quando si parla di educazione alla politica, il tema del potere deve essere trattato in ogni suo aspetto, altrimenti si conduce a una a semplificazione che porta a pensare semplicemente che si possa prendere il potere e cambiare le cose; il che ovviamente è anche vero; ma se non si modificano le dinamiche di relazione tra le persone, la semplice presa del potere di per sé non può assolutamente bastare.

Come pensare

→ Opera analizzata: Nella mia ora di libertà di Fabrizio de Andrè

In questa canzone l’autore immagina che un prigioniero voglia eliminare tutto ciò che potrebbe fargli dimenticare di trovarsi in carcere, e in particolare per questo motivo rinuncia all’ora di libertà. È come se volesse incarcerare psicologicamente i suoi stessi secondini mantenendo le distanze da essi e relegandoli al ruolo di guardie.
Si possono porre a questo proposito alcune domande:
– È giusto questo atteggiamento che cerca un allontanamento totale dalla guardia senza nessuna possibilità di incontrarsi umanamente?
– quale potrebbe essere invece un gesto fatto dal prigioniero o dalla guardia per trovare un incontro al di là dei ruoli?
– quali sono le altre situazioni nelle quali rischiamo di essere imprigionati nei ruoli di potere e non riuscire ad uscirne vedendo l’umanità nell’altro?

→ Opera analizzata: La ronda dei prigionieri di Vincent van Gogh

In questo quadro i prigionieri girano a vuoto continuamente.
Anche qui si possono porre alcune domande:
– dove si trova il potere in questo quadro?
– qual è il sentimento che possano provare i prigionieri sapendo che stanno camminando senza fare nulla e senza produrre nulla?
– se dovessimo aggiungere al quadro la figura del secondino, lo faremmo visibile oppure nascosto mentre osserva i prigionieri?
– quale gesto di ribellione possono fare i prigionieri per riuscire a contrapporsi al potere che stanno subendo?

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Chiara e gli altri

Dal dossier estivo di NPG.

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di Chiara Succol

“Non con le percosse, ma con la mansuetudine e la carità dovrai guadagnare questi tuoi amici”. Queste parole del sogno dei 9 anni mi hanno lasciato da pensare dal primo momento che le ho sentite (o lette, chissà) nel mio percorso nei gruppi salesiani all’interno del mio oratorio di provenienza. Direte che è perché ho sempre pensato a come metterle in atto. Invece no, mi sono sempre rimaste impresse perché fin da piccola mi ha fatto molto effetto immaginarmi don Bosco che menava le mani! Anche l’episodio con Luigi Comollo, infatti, ha sempre avuto un certo impatto su di me. Ho sempre sentito molto vicino don Bosco in questo, non perché mi ritenga violenta con le mani, bensì perché nel profondo sono un’istintiva che non appena le si muove qualcosa dentro, vorrebbe mettere a ferro e fuoco la stanza e chi ci sta dentro. È un lato del mio carattere su cui ho sempre fatto grandi sforzi.

Ho bazzicato, anzi vissuto-respirato-assorbito-osservato tutto, all’interno degli ambienti salesiani fin dagli 8 anni. Mi sono spesa come animatrice, come educatrice al doposcuola, come segretaria degli uffici di Pastorale Giovanile Salesiana della mia ispettoria (INE) e alla fine sono approdata a vivere la mia vocazione professionale più vera: formatrice al Centro di Formazione Professionale salesiano di Mestre. Questo aspetto della violenza, del fuoco, dell’ira mi ha sempre accompagnata anche se chi mi vede oggi non lo direbbe. Me lo porto ogni giorno anche al lavoro, non mi molla.
Come formatrice incontro ogni giorno tanti ragazzi non solo in aula ma anche nei corridoi, in cortile, ai distributori automatici. L’esperienza che ho a scuola è molto diversa dall’oratorio e, mi preme dirlo, è complessa: non c’è solo la vita in aula. Questo è il primo punto su cui mi sento di dover mettere l’accento. Se pensiamo che un formatore o un docente siano educatori solo tra i banchi, insegnando una materia, ci sbagliamo. Lo dico perché io per prima, a volte, ho pensato di trincerarmi dietro la cattedra e le nozioni per difendermi o per mettermi al sicuro, ma anche per non scoppiare in un accesso d’ira; mi è successo soprattutto all’inizio, quando mi sono trovata di fronte ragazzi molto sfidanti e provocatori, di quelli che ti accendono la spia rossa “ACHTUNG!”. Un giorno però ho capito, grazie ad un alunno particolarmente arrabbiato, che dovevo fare cambiare qualcosa e uscire dalla mia zona di comfort perché rispondere per le rime a un adolescente (problematico, tra l’altro) non era sensato.

Mi sono chiesta cosa lo avesse fatto scattare a quel modo. In cortile gli ho chiesto solo: “Come stai?” e si sono, per così dire, aperti i rubinetti. Certo l’aggressività non è sparita dopo quel momento, ma è comparso lo spazio dell’accompagnamento. Per me ha significato sgonfiare anche la mia di arrabbiatura, aprirmi all’ascolto ha richiesto uno sforzo ma le corde così hanno iniziato a suonare più in armonia anche dentro me. Le cose in me come prof. sono cambiate dunque quando ho iniziato a mettere in atto, senza finzioni, la prossimità di cui parla Papa Francesco o la mansuetudine di cui si racconta nel sogno dei 9 anni. Ho messo da parte il ruolo, le paranoie, l’ideale di prof. in excelsis e… sono scesa nella vita reale, semplicemente.
Sono i ragazzi per primi a svegliarci dai nostri sonni educativi e questo è ancor più vero quando ci troviamo con loro nei momenti informali. Sono dei risvegli traumatici, eh, in cui capisci che educare è farsi carico, anche quando fa male.

La mansuetudine, in tutto ciò, è una sfida nella sfida: presa dalle mie cose mi capita di non pensare sempre bene alle parole che dico o ai miei silenzi, che pesano più di un macigno. Le chiavi del cuore dei ragazzi le ha solo Dio, diceva don Bosco, e penso che l’aspetto della fede debba accompagnare maggiormente le mie intenzioni e le mie azioni. Che la Maestra promessa a Giovannino nel sogno dei 9 anni guidi ogni educatore ad acquisire la sapienza per accogliere e accompagnare tutti i ragazzi, specialmente i più poveri. E davvero oggi che scrivo queste battute faccio più che mai mie le parole del Vangelo, me le voglio imprimere nel cuore: “Beati i miti, perché erediteranno la terra”.

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Note di Pastorale Giovanile, il gruppo di redazione si ritrova e prepara il prossimo anno

Con la riflessione guidata da Padre Mauro Lepori, Abate generale dei Monaci Cistercensi, si è svolta la riunione conclusiva dell’anno per la redazione di Note di Pastorale Giovanile. Il gruppo, quasi al completo, si è ritrovato nella nuova sede del Centro Nazionale delle Opere Salesiane.

L’intervento di Padre Lepori, intervistato da don Rossano Sala, direttore della rivista, è stato incentrato su quattro tematiche: il mondo e la chiesa, i giovani e gli adulti, educazione pastorale e vocazioni e poi uno sguardo su tematiche interessanti e lo stile sinodale. Nuclei di riflessione utili per il pensiero della redazione sulla programmazione del prossimo anno della rivista.

Per la prima area tematiche, il superiore dei Cistercensi ha sottolineato come in questo momento, anche su invito di Papa Francesco, siamo chiamati come Chiesa alla missione, che non si riduce a una attività ma a una dimensione del rapporto con Dio.

Sul tema dei giovani e degli adulti, Padre Lepori pone l’attenzione sulla necessità di riscoprire la vocazione dell’adulto che genera. “I giovani – ha detto – chiedono di essere accompagnati. Non hanno avuto genitori che li hanno generati nella fede, il rischio è che concepiscano la fede come una trasmissione di regole”.

“La cultura vocazionale – ha risposto Padre Lepori a don Rossano Sala sulla terza provocazione – è Dio che mi sceglie, la vocazione riduce la cultura dello scarto perché riafferma il primato della grazia”.

Con l’ultimo tema, Padre Lepori ha toccato la questione della sinodalità, della “gioia del cammino: è meglio iniziare processi di vita che spartirsi posti di potere”, ha detto. “Il tema della libertà e della responsabilità relazionale: cosa vuol dire vivere in comunità? Questo tema è importante per vivere anche l’affettività, perché manca l’esperienza di vera famiglia”.

Dopo la riflessione, è stato il momento dei lavori di gruppo per mettere sul tavolo proposte concrete da realizzare nel prossimo anno di vita di Note di Pastorale Giovanile.

Il gruppo di redazione ha concluso i suoi lavori consegnando alla direzione molte proposte che ora verranno rielaborate per la programmazione editoriale dell’anno 2022/2023.

La Pira, uomo di fraternità universale e di amicizia sociale

Dal dossier di Note di Pastorale Giovanile sulla proposta pastorale 2022/2023.

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di Mario Agostino

Padre di una delle Carte costituzionali più complete e belle al mondo, docente universitario di Diritto Romano amato dagli studenti, sindaco della rinascita di una Firenze che si rimise in piedi dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, siciliano cittadino di quel mondo che cercò di pacificare a tutti i costi, riuscendo a recarsi ove nessun altro diplomatico o politico poteva, come in una Mosca blindata per gli occidentali o un Vietnam in stato di guerra. Sempre per la pace, sempre credendo in quella fraternità universale che egli tendeva a chiamare famiglia umana. E in nome di questa, “apostolo” prestato alla “politica come più alta forma di carità”, come ebbe a ricordare un Giovanbattista Montini, più noto come Papa Paolo VI. Ma davvero tutte queste sfaccettature hanno convissuto in un solo uomo? Davvero è esistito un politico simile? La risposta, tanto incredibile quanto semplice, è sì: è esistito un profeta politico votato alla tutela della famiglia umana. Si chiamava Giorgio La Pira ed oggi più di ieri, a quasi mezzo secolo dalla sua morte, ne abbiamo molteplici prove, scritte e online: vediamo di saperne qualcosa in più, almeno a grandi linee.

Nato il 9 gennaio 1904 a Pozzallo, in Sicilia, porta del Mediterraneo dell’Europa anche oggi meta di sbarchi. In linea d’aria, siamo più a sud di Tunisi, a 10 anni venne mandato a Messina, dallo zio materno, Enrico Occhipinti. Un vero e proprio “mangiapreti” che portò lo stesso Giorgino a pretendere addirittura di togliere il crocifisso dalle aule al suo ingresso… Diplomatosi in ragioneria nel 1921, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, dopo avere preso anche il diploma di Liceo Classico da esterno. Affascinato negli anni giovanili da Gabriele D’Annunzio e Tommaso Marinetti e dal loro ideale di cambiamento, è un vorace lettore: condivide le sue passioni con il suo gruppo di giovani amici di cui fanno parte anche il poeta Salvatore Quasimodo e Salvatore Pugliatti, giurista e futuro rettore dell’Università degli Studi di Messina. Nel corso della sua esperienza universitaria, conosce monsignor Mariano Rampolla Del Tindaro, fratello del docente Federico, che diviene poi sua guida in un’intensa vita spirituale.

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Tutti in campo per educare

TUTTI IN CAMPO PER EDUCARE

Approfondimenti e testimonianze sulla proposta pastorale MGS

Pubblichiamo l’indice del Dossier “Noi ci stiamo”

I. NOI CI STIAMO
L’orizzonte e la storia

1. L’orizzonte della chiamata. Ripartiamo con coraggio dalla “grande domanda”
Rossano Sala

2. “Share the dream”. Da Mornese ai nostri giorni
Eliane Petri

 

II. NON CON LE PERCOSSE MA CON LA MANSUETUDINE
Le declinazioni pedagogiche dello “starci”

1. “Non con le percosse. Le “ombre” dell’educazione e le violenze educative
Franco Santamaria e Katia Bolelli

2. L’istigazione alla violenza nella società dei media e nei social
Cecilia Costa – Claudia Caneva

3. “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore”
Guido Benzi

4. Il “quarto voto” salesiano, la bontà
Franc Maršič

5. Con un foulard. Educare alla/con mitezza
Raffaele Mantegazza

 

III. PAROLE E OPERE
Profeti e testimoni

1. Nel mondo e nella Chiesa

^ La Pira uomo di fraternità universale e di amicizia sociale
Mario Agostino

^ L’amore vince tutto. La storia di Chiara Lubich e compagne
Intervista a Saverio D’Ercole
a cura di Giancarlo De Nicolò

2. Educatori e giovani nel quotidiano

^ Con la mansuetudine “è” la carità
Giorgio D’Aniello

^ Rabbia, sofferenza e abbracci
Giuseppe Natile

^ Sbagliare e crescere
Stefano Siso Clerici

^ Violenza-“percosse” e “mansuetudine-mitezza”
Due mondi contrapposti, subdoli e nascosti
Andrea Calabrese

^ Amerai il prossimo tuo come te stesso (Mt 22, 39)
Elisa Aliverti

^ Leo, da lupo ad agnello
Miriam Spadaro

^ Creare le condizioni
Piergiorgio Musci

^ Chiara e gli altri
Chiara Succol

^ E se don Bosco non avesse saputo fischiare?
I “Bartolomeo Garelli” di oggi: violenza e mansuetudine negli oratori
Biagio Irene – Alessandro Cutrupi

^ La storia di D., al Centro Diurno
Francesca Banaudi

 

 

“Noi ci stiamo” #sharethedream: la nuova proposta pastorale MGS

Dal dossier di Note di Pastorale Giovanile sulla proposta pastorale 2022/2023, “Noi ci stiamo” «Non con le percosse, ma con la mansuetudine» #sharethedream

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L’orizzonte della chiamata. Ripartiamo con coraggio dalla “grande domanda”

di don Rossano Sala, autore del Quaderno di Lavoro.

“Noi ci stiamo!”. È questo il motto sintetico della proposta pastorale per l’Italia salesiana per l’anno 2022-23. È una chiamata a mettersi in gioco con coraggio, offrendo la propria disponibilità. Ma se questa parola è la punta di un iceberg, bisogna che noi andiamo in profondità, che scaviamo per trovarne le radici, che cogliamo i grandi orizzonti di questa chiamata alla corresponsabilità con Dio e alla collaborazione tra noi.

In questo contributo, che ha appunto lo scopo di indagare i dinamismi della chiamata, ci proponiamo di percorrere insieme alcuni piccoli e preziosi passaggi che ci possano assicurare una base sicura per riaffermare che davvero “noi ci stiamo” con cognizione di causa, e non semplicemente nella logica di un’emozione mutevole e passeggera. Partiamo da lontano, riconoscendo il dono di esistere, e arriviamo, passo dopo passo, alla necessità di prendere oggi delle decisioni coraggiose.

Il dono dell’esistenza

Prendiamo il via dalla nostra esistenza concreta. Dalla consapevolezza che quello che siamo non è primariamente opera nostra. Ovvero dal fatto incontestabile che siamo preceduti, che siamo figli. Sembrerebbe una banalità, ma spesso ce lo dimentichiamo proprio. Un modo di pensare molto aggressivo a volte ci convince che ci facciamo da soli, che siamo figli di noi stessi e che non abbiamo nessuna responsabilità verso gli altri.
Un pensiero onesto, che fa perno intorno al reale, ci restituisce una socialità originaria che caratterizza la nostra esistenza. Non c’è mai stato un momento nella storia in cui io esistevo e gli altri invece no. È vero esattamente il contrario: c’è stato un tempo in cui il mondo e gli altri esistevano e io invece non c’ero ancora. I nostri genitori esistevano prima di noi, così come i nostri nonni, e anche i nostri fratelli o sorelle maggiori.
Nelle diverse epoche che studiamo sui libri di storia il nostro nome non compare. Per molto tempo io non ci sono stato e ad un certo punto sono nato, sono venuto al mondo. E non per mia iniziativa. E questo vale per tutti. Ci sarà anche un momento in cui sarò chiamato a lasciare questo mondo, che continuerà senza di me.
In base a questa realtà sperimentiamo continuamente di essere stati amati e voluti prima ancora di averne la percezione. Non è stata opera nostra, ma un dono che abbiamo ricevuto da altri. Primariamente da parte di coloro che si sono presi cura di noi. La vita è un dono che abbiamo ricevuto, senza alcun nostro merito. Altri hanno impiegato senza troppi calcoli e con tanta generosità tempo, risorse e affetti per farci crescere.
Ecco allora la sintesi del primo passaggio: bisogna rifiutare la menzogna dell’autofondazione, riconoscendo che siamo stati donati a noi stessi e che la vita è prima di tutto un dono gratuito che abbiamo ricevuto. Ecco che il primo e più importante atteggiamento dell’esistenza rimane sempre la gratitudine.

L’esistenza come dono

Il secondo passaggio è logico rispetto al primo: se esistiamo nella forma del dono, la realizzazione della nostra esistenza avrà la medesima forma del dono. Di solito, di fronte ad un favore ricevuto, rispondiamo: “A buon rendere”. Come a dire, ho ricevuto un dono da qualcuno, magari inaspettato, e adesso questo diventa un impegno di restituzione, un piccolo debito da onorare. Non è un obbligo stringente, ma una risposta naturale, eticamente importante, una spinta che ci porta al contraccambio. Ne va della nostra dignità.
Se riconosciamo che siamo frutto di un dono inatteso, ecco che la nostra vita diventa se stessa se impostata come un’esistenza capace di dono e di servizio. San Francesco di Sales, di cui quest’anno celebriamo i 400 anni dalla morte, parla a questo proposito di “estasi della vita”. È una bella espressione, che non ha nulla di intimistico, ma tutto di apostolico. Egli, guardando all’esempio di Gesù, l’uomo per eccellenza che sa riconoscere la sua esistenza come un dono ricevuto, indica al cristiano la via del dono concreto. Al di là dell’estasi della contemplazione – che ci eleva a Dio in una preghiera particolarmente intensa – e di quella dell’intelletto – che ci fa conoscere in maniera limpida le cose di Dio e degli uomini –, l’estasi dell’azione è caratterizzata da una continua carità, dolcezza, benevolenza e dedizione. È la via della generosità sistemica verso tutti. Tale estasi diventa il criterio di discernimento radicale sulla qualità della vita umana e cristiana:

Quando dunque si incontra una persona che nell’orazione ha dei rapimenti per mezzo dei quali esce e sale al di sopra di se stessa fino a Dio, e tuttavia non ha estasi della vita, ossia non conduce una vita elevata e congiunta a Dio, con la mortificazione dei desideri mondani, della volontà e delle inclinazioni naturali, per mezzo di una dolcezza interiore, di semplicità e umiltà, e soprattutto per mezzo di una continua carità, credimi, Teotimo, tutti i suoi rapimenti sono dubbi e pericolosi; sono rapimenti adatti a creare ammirazione negli uomini, ma non a santificare chi li prova[1].

L’estasi della vita è quindi il criterio reale, autentico e decisivo per la santità, per il semplice motivo che è nella vita di tutti i giorni che essa si riceve, si costruisce e si esprime:

Ci sono molti santi in cielo che non sono mai andati in estasi né sono stati rapiti nella contemplazione; infatti, quanti martiri e grandi santi e sante troviamo nella storia che nell’orazione non hanno mai avuto altro privilegio se non quello della devozione e del fervore? Ma non c’è mai stato santo che non abbia avuto l’estasi o il rapimento della vita e dell’azione, superando se stesso e le proprie inclinazioni naturali. […] Chiunque è risuscitato a questa vita nuova del Salvatore, non vive più né a sé, né in sé, né per sé, ma con il suo Salvatore, nel suo Salvatore e per il suo Salvatore[2].

La vita come “estasi”

Papa Francesco è in pieno accordo con san Francesco di Sales quando invita i giovani a vivere nella logica dell’estasi. Ha il coraggio di provocare ogni giovane con queste parole: «Che tu possa vivere sempre più quella “estasi” che consiste nell’uscire da te stesso per cercare il bene degli altri, fino a dare la vita»[3]. Questo significa che l’incontro con Dio produce estasi non perché strappa il credente dalla realtà e dalla trama di relazioni in cui è inserito, ma perché lo spinge a uscire da se stesso, superando i suoi stessi limiti per lasciarsi conquistare dalla bellezza dell’amore per gli altri e consacrarsi alla ricerca del loro bene:

Quando un incontro con Dio si chiama “estasi”, è perché ci tira fuori da noi stessi e ci eleva, catturati dall’amore e dalla bellezza di Dio. Ma possiamo anche essere fatti uscire da noi stessi per riconoscere la bellezza nascosta in ogni essere umano, la sua dignità, la sua grandezza come immagine di Dio e figlio del Padre. Lo Spirito Santo vuole spingerci ad uscire da noi stessi, ad abbracciare gli altri con l’amore e cercare il loro bene. Per questo è sempre meglio vivere la fede insieme ed esprimere il nostro amore in una vita comunitaria, condividendo con altri giovani il nostro affetto, il nostro tempo, la nostra fede e le nostre inquietudini. La Chiesa offre molti e diversi spazi per vivere la fede in comunità, perché insieme tutto è più facile[4].

Il senso preciso dell’estasi, come spiegato dal santo savoiardo e dal pontefice argentino, ci aiutano a mettere in luce la struttura responsoriale dell’esistenza, ovvero il nostro originario “essere per gli altri”. Siamo noi stessi quando usciamo verso gli altri, quando abbandoniamo le angustie del nostro individualismo e ci apriamo alla bellezza dell’incontro. Quando ci chiniamo con umiltà sulle ferite degli altri e siamo disponibili a dare di più a chi ha ricevuto di meno dalla vita. Contro l’antropologia della prestazione, che in fondo genera una società della stanchezza e dello sfinimento, siamo chiamati a riscoprire con determinazione che la nostra esistenza è una risposta d’amore ad un amore che a nostra volta abbiamo ricevuto. Ciò va vissuto nella concretezza della nostra vita. Che è unica e singolare. Situata nel tempo e nello spazio, vissuta nella storia in cui siamo inseriti. Questo ci porta ad entrare nello spazio del discernimento vocazionale.

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Sbagliare e crescere

di Stefano Siso Clerici
Da Note di Pastorale Giovanile

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La scuola è un ambiente unico. Nascono relazioni, amicizie, si cresce, ma è anche il primo luogo dove i ragazzi iniziano a conoscere il fallimento, l’insuccesso e la frustrazione. Soprattutto alle medie, quando il cambiamento sia fisico che psicologico inizia a caratterizzare le giornate dei nostri ragazzi. Ed è qui che la figura dell’educatore è fondamentale, dove il carisma salesiano riesce ad incunearsi e a far sbocciare qualcosa di bello! È faticoso e impegnativo mettersi in gioco con i preadolescenti, ma è una vocazione che ripaga di tante cose; soprattutto nelle situazioni difficili. Mi è successo più volte di essere dentro a situazioni spiacevoli come quella volta con Marco, ragazzo semplice, ma al quale la vita aveva già messo davanti molti ostacoli; dalla separazione dei genitori, alle loro nuove famiglie, condite da un disturbo dell’apprendimento che lo faceva sentire diverso agli occhi dei suoi compagni. Mi ricordo bene quella mattina, Marco si era preparato per l’interrogazione di Storia, aveva studiato, ma al momento di rispondere si era bloccato, non riusciva ad interloquire con la professoressa, sembrava proprio che la sua mente fosse priva di ogni nozione e così il voto non potè essere che negativo.
Io non avevo assistito all’interrogazione e stavo lavorando nel mio ufficio organizzando i tornei del pomeriggio, ma sentii le urla provenire dal corridoio e le porte del bagno sbattere prepotentemente. Subito mi alzai per andare a vedere cose fosse successo e quando entrai in bagno vidi Marco sbattere forte i punti contro le porte dei bagni; non è mai facile entrare subito in empatia con un ragazzo pieno di rabbia, la prima cosa che ho fatto è stata esserci e premurarmi che non si stesse facendo male. Per un ragazzo così, già il fatto che qualcuno si interessi a lui è fondamentale, quante urla e manifestazioni di rabbia vengono lanciate nel nulla senza che nessuno risponda, sono richieste d’aiuto che noi adulti dobbiamo recepire e immagazzinare.
“Cos’è successo?” gli dissi.
“Niente!” tipica risposta dei ragazzi.
“Allora perché te la prendi con la porta?”
“Perché sono arrabbiato!”
“Allora sto qui a difendere la porta dal tuo niente! Ma appena finisci vieni con me in ufficio e facciamo 4 chiacchiere.”
Vedendo che non me ne andavo, ma anzi cercavo di interagire con lui, Marco ha cominciato a tranquillizzarsi e a lasciare in pace la povera porta verde del bagno ed è scoppiato a piangere. Ci sono pianti e pianti, quello di Marco era di frustrazione, come di rassegnazione dell’ennesimo insuccesso della sua vita. A quel punto l’ho accompagnato da me, l’ho fatto sedere, gli ho dato qualcosa di dolce da mangiare, che non fa mai male, e mi sono fatto raccontare tutto quello che era successo.
Anche solo raccontando il fatto, Marco stava già meglio, sentire che qualcuno era lì per lui solo per ascoltarlo era già un gran risultato, al giorno d’oggi i ragazzi cercano come oro qualcuno che li ascolti senza essere giudicati, qualcuno che dimostri loro che possono essere amati e compresi con i loro pregi e i loro difetti.
A scuola è più facile, ma non sempre scontato, di ragazzi come Marco ce ne sono tanti e tutti hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a sbagliare e a crescere dai propri errori.

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