Un ponte tra scuola e Chiesa, a doppio senso di circolazione

Da Note di Pastorale Giovanile di luglio e agosto, l’introduzione al dossier sull’Insegnamento della religione cattolica: IRC, Comunità cristiana e pastorale giovanile. 

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di Ernesto Diaco (Direttore dell’Ufficio Nazionale per l’educazione, la scuola e l’università e del Servizio Nazionale per l’insegnamento della religione cattolica della CEI)

“La Chiesa non si serve della scuola per finalità estranee ad essa, ma si ritiene sua alleata e la considera un bene primario della comunità umana”. E ancora: “Nelle forme di proposta e di elaborazione educativa e culturale proprie della scuola stessa, e nel rispetto del pluralismo che caratterizza questo ambiente così come la società attuale, la Chiesa offre il suo primo e fondamentale servizio alla scuola presentando la bellezza dell’umanesimo cristiano”[1].
In queste due brevi citazioni del documento “Educare, infinito presente. La pastorale della Chiesa per la scuola”, pubblicato dalla Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università della CEI nell’estate del 2020, è racchiuso l’orientamento di fondo con cui la comunità cristiana guarda a quella scolastica, ossia con spirito di testimonianza, di responsabilità e di servizio.

Un’alleanza educativa a favore dei giovani

L’insegnamento della religione cattolica (IRC) nella scuola è forse il massimo esempio che si può citare a tale riguardo. Esso infatti si configura come una vera e propria alleanza educativa, pubblicamente riconosciuta e regolata, e concretizzata in “patti educativi” che prendono forma nella quotidianità delle aule grazie all’operato delle autorità scolastiche e dei vescovi diocesani, degli insegnanti di religione, delle famiglie e degli alunni che scelgono di frequentare tale insegnamento. Alla base dell’IRC così come è presente da circa quarant’anni nelle scuole italiane, infatti, ci sono la libertà e la responsabilità della scelta, la definizione di obiettivi e strumenti adeguati, l’incontro fra le domande educative dei ragazzi e dei giovani e proposte culturali pienamente integrate nel contesto scolastico. Tutti elementi indispensabili per un’esperienza formativa di qualità durante l’età della crescita.
Sull’identità scolastica di tale disciplina non ci sono dubbi. L’IRC è condotto nel quadro delle finalità della scuola, che il Ministero dell’istruzione definisce così: “Nella consapevolezza della relazione che unisce cultura, scuola e persona, la finalità generale della scuola è lo sviluppo armonico e integrale della persona, all’interno dei principi della Costituzione italiana e della tradizione culturale europea, nella promozione della conoscenza e nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità individuali, con il coinvolgimento attivo degli studenti e delle famiglie”[2]. Non che manchino questioni aperte o difformità nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme, ma – anche a fronte dell’altissima percentuale di studenti che se ne avvalgono – non è possibile oggi vedere l’IRC come un’anomalia o un corpo estraneo alla scuola.
Nei quarant’anni trascorsi dalla revisione del Concordato, a cui si deve l’attuale configurazione dello studio della religione nelle aule, l’IRC ha trovato casa nella scuola e nei suoi ordinamenti, nella riflessione pedagogica e nella sperimentazione didattica, nella definizione dei traguardi per le competenze e degli obiettivi di apprendimento, nei nuovi percorsi di formazione teologica e nella produzione editoriale. La scelta del presente dossier, dunque, riguarda l’altra faccia della medaglia, ovvero il legame dell’IRC con la comunità cristiana.

La responsabilità della comunità cristiana verso l’IRC

L’insegnamento scolastico della religione è una risorsa per la scuola. E per la Chiesa? Trattandosi di una disciplina con finalità proprie, complementari ma distinte da quelle della catechesi o della pastorale in senso stretto, quale ricaduta può avere nella vita della comunità ecclesiale? E quale attenzione merita da parte sua?
Il rischio dei percorsi paralleli, lo sappiamo, è sempre in agguato. D’altronde i vescovi italiani mettevano in guardia da questo già nel 1991, nella nota pastorale che accompagnava l’avvio del nuovo sistema dell’IRC: “Urge che la comunità ecclesiale cresca nella consapevolezza delle sue precise responsabilità circa l’insegnamento della religione cattolica. Non sempre infatti l’insegnamento della religione cattolica e il servizio del docente di religione sono collegati con l’azione pastorale che deve esistere fra la Chiesa e la scuola e fra la Chiesa e il mondo giovanile. Le nostre comunità devono considerare l’insegnamento della religione cattolica parte integrante del loro servizio alla piena promozione culturale dell’uomo e al bene del Paese”[3].
La comunità ecclesiale può ricevere molto dall’IRC in termini di ascolto e vicinanza al mondo giovanile, di sperimentazione di linguaggi e itinerari formativi adatti alla vita delle persone, di educatori preparati dal punto di vista teologico e pedagogico. Non solo. Con l’IRC è sollecitata la responsabilità della Chiesa “perché offra se stessa come segno storico, concreto e trasparente di quanto viene insegnato nella scuola”[4]. Con l’insegnante, in aula, “entra” tutta la comunità.

IRC e pastorale “per” la scuola
L’attenzione della Chiesa per il mondo scolastico si compone di diverse forme e occasioni. Oltre al compito proprio della scuola cattolica, vi è un’articolata serie di iniziative che si pongono a servizio della formazione e della testimonianza degli insegnanti, degli studenti, delle famiglie. Momenti culturali e di spiritualità, progetti di solidarietà e animazione, percorsi offerti dalle associazioni professionali, doposcuola e iniziative di sostegno allo studio e contrasto alla povertà educativa. Tutto finalizzato a contribuire alla crescita delle persone e ad una scuola di qualità, fedele alle sue finalità e creatrice di cultura veramente umana. L’IRC si colloca in questo alveo, ne è protagonista e ne riceve a sua volta sostegno. La pastorale per la scuola prende forma per lo più negli istituti scolastici e nei luoghi educativi, ma non solo. Diverse iniziative sono promosse a livello diocesano e nelle stesse parrocchie. È soprattutto nella vita ordinaria delle comunità cristiane che l’IRC può essere promosso e valorizzato, e “restituire” il frutto dell’incontro quotidiano con studenti e insegnanti. È in parrocchia, inoltre, che nascono spesso nuove vocazioni all’educazione e all’insegnamento della religione in particolare. Anche questo è un segno di vitalità per una Chiesa.

L’insegnante di religione, uomo della sintesi
Il primo “luogo” di incontro fra Chiesa e scuola non è nelle attività, ma nelle persone che incarnano l’alleanza fra questi due mondi. “La Chiesa vive già dentro la scuola – ricordano i vescovi – perché in essa operano adulti e giovani credenti: insegnanti, studenti e famiglie”[5]. E i docenti di religione, “senza confondere missione evangelizzatrice e insegnamento scolastico, assolvono un servizio prezioso di testimonianza e di animazione cristiana nella scuola, innanzitutto attraverso il migliore svolgimento del loro insegnamento”[6]. Essi appartengono pienamente alla scuola e alla Chiesa. L’idoneità che ricevono dal vescovo, infatti, non è da vedere come un ulteriore titolo per l’insegnamento, ma come una relazione viva, che abilita, sostiene, dà formazione e fiducia. Come tutte le relazioni, essa non è a senso unico, ma si rafforza nella reciprocità: nel contributo che l’insegnante porta alla scuola e in quello, diverso certamente ma non meno importante, che offre alla Chiesa. Per questo egli è uomo della sintesi: tra fede e cultura, tra Vangelo e storia, tra i bisogni degli alunni e le loro aspirazioni profonde[7].
Non è possibile assolvere a questo compito senza coltivare un’adeguata spiritualità: “una spiritualità cristiana ed ecclesiale, ma anche, in rapporto alla struttura in cui si opera, una spiritualità laicale, forgiatrice e animatrice di una nuova umanità nella scuola”[8].

NOTE

[1] CEI – Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università, Educare, infinito presente. La pastorale della Chiesa per la scuola, 4 luglio 2020, pp. 23 e 21.
[2] Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, settembre 2012, p. 9.
[3] Conferenza Episcopale Italiana, nota pastorale Insegnare religione cattolica oggi, 19 maggio 1991, n. 27.
[4] Ivi.
[5] Educare, infinito presente, cit., p. 9.
[6] Ivi, p. 28.
[7] Cf. Insegnare religione cattolica oggi, cit. n. 23.
[8] Ivi, n. 24.

 

L’amore è assurdo perché esiste

Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” a cura del MGS su Note di Pastorale Giovanile.

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di Giuseppe Fusaro (26 anni, animatore salesiano e volontario del Servizio Civile Universale presso l’oratorio di Corigliano Rossano (ispettoria meridionale). Laureato in Storia e Filosofia, quasi laureato in Scienze Filosofiche. Consigliere Comunale della propria città, giocatore semiserio di padel e ama scrivere cose che assomigliano alle poesie. Zio di Sila e di Nives.

Due anni e mezzo fa ho perso mia madre, dopo un periodo terribile di malattia, proprio il giorno del suo compleanno, con una torta in frigo che non è mai stata tagliata. Potrei scrivere migliaia di parole su quei giorni, ma non servirebbe adesso. Mi basta dire che era per me la persona più cara al mondo: più di una madre, era una maestra, una guida, un faro. O forse era proprio veramente una madre.

“Sei bravo solo se scrivi una canzone che non parla solo di te” sentivo in una canzone qualche anno fa. Questo motivetto mi è sempre rimasto impresso ed è forse il motivo per cui non ho mai pubblicato nulla. Raccontare il dolore molto spesso serve solo a chi scrive, raccontare ciò che ha generato il dolore nel cuore serve a chi sta vivendo una situazione simile in un certo momento, ma raccontare ciò che il dolore ha generato nella testa può servire a tutti. Nella mia testa generò questa domanda quasi bizzarra che mi accompagnò in tutti quei mesi: “ma perché non sto perdendo la fede?” Mi sentivo quasi in colpa, pensavo che forse non stessi soffrendo abbastanza per mia madre, forse non stavo provando abbastanza rabbia per disconoscere Dio in quel momento e incolparlo in tutti i modi. Ma ora forse c’è bisogno che dica qualcosa del me adolescente, visto che per molti dovrebbe/potrebbe essere normale rinsaldare la propria fede in un momento di grande sofferenza.
A 15 anni ero marxista (per quel che potevo capire, ma a me sembrava di esserlo davvero), anticlericale, filosofetto da quattro soldi che cercava qualsiasi tipo di dio tranne quello di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (e di Gesù). I momenti di difficoltà non erano occasioni per riscoprire il rapporto con Dio, ma solo altre argomentazioni da aggiungere all’elenco dei motivi per non credere in lui. Frequentavo l’oratorio ma solo perché riconoscevo la sua funzione aggregativa, solo per giocare a calcio e stringere nuove amicizie.

Non c’era nulla di strano per me, finché un bel giorno un don mi disse: “Ti va di fare l’animatore del gruppo delle medie?”. “Ma io non credo in Dio” gli risposi. Quello che mi ribattè, probabilmente con un ghigno, è una delle cose più divertenti e assurde che io ricordi: “Non ti ho chiesto di credere in Dio, ti ho chiesto di fare l’animatore delle medie”.
Era ovviamente l’occhio lunghissimo di un salesiano esperto, e io quindi non so dire il momento esatto in cui ho “sentito” di credere in Gesù, però ad un certo punto la mia fede c’era. Quasi magicamente, nei giorni, nei mesi, negli anni. C’è uno spazio meraviglioso dentro di noi che definirei di germogliazione… è quello spazio che c’è fra il momento in cui sorge qualcosa dentro di noi e il momento in cui ti rendi conto che questa cosa è un FATTO evidente, scontato, incontestabile della tua vita. La mia fede è nata in questo spazio. Un po’ come la nascita delle parole secondo Saussure (lui filosofone, non filosofetto), non si riesce a capire come una nuova parola passi dall’avere significato solo per qualche individuo e all’avere significato per tutta una popolazione. Però accade. Ad un certo punto te la trovi nel dizionario, lì, incontestabile. Come un fatto. Allo stesso modo si era piantata quella domanda nella mia testa dieci anni dopo: “Ma perché non sto perdendo la fede?”, mi era già capitato di fare questa domanda a me stesso qualche anno addietro, quando per una serie di dinamiche ho scoperto che per un animatore salesiano il luogo dove più si può soffrire al mondo è il proprio oratorio. Il paradosso della vita è che più forte è un amore, più grande è il dolore che può nascondersi dietro. Mi sono ritrovato fuori dal mio oratorio, ho sofferto molto, perché senso di appartenenza e amarezza dell’esilio sono due linee che crescono parallelamente. Lì ho scoperto che don Bosco non è perfetto e forse per questo è ancora più bello. Don Bosco è un essere umano come tutti gli altri.

Sono momenti dove arrivi ad autoconvincerti che forse la tua fede è finta, questa fede è finta oppure è assurda, perché il presupposto banale e implicito che spesso guida i nostri cammini spirituali è che Dio dovrebbe farci stare bene o perlomeno ridurre il dolore che stiamo provando. Ma quando il dolore è immenso, come è possibile che non si perda la fede? Anche questo è un mistero assurdo. L’assurdo. Mi piace rubare qualche riga da una riflessione di Ignazio Silone:

“Se diciamo che l’assurdo è l’illogico, il contrario alla ragione, lo stiamo raffreddando parecchio. L’assurdo arriva a una dimensione intellettuale, ma ha una sostanza percettiva. Non serve un ragionamento per cogliere l’assurdo, l’assurdo si sente – e in origine lo si sente letteralmente. L’absurdus latino è il dissonante, lo stonato. La sua costruzione resta un po’ enigmatica, abbiamo un prefisso ab che di solito indica allontanamento mentre qui forse ha un valore rafforzativo, e una radice forse onomatopeica, forse indoeuropea, che trova connessione col sordo e col sussurro. Fatto sta che questa dissonanza tutta sonora già in latino prende la dimensione di qualcosa che per la ragione è immediatamente inaccettabile.”

Ho in mente una canzone di Anastasio, artista che io seguo con grande attenzione. Nel primo ritornello dice: “il dolore è assurdo perché esiste”, semplicemente perché esiste, è una presenza che la ragione non riesce a metabolizzare da millenni. Quando diciamo che nessuno merita di soffrire intendiamo dire forse proprio questo, che nessuno dovrebbe convivere con questa cosa inspiegabile. Però la cosa divertente è che esiste un’altra presenza assurda con la quale abbiamo a che fare quotidianamente e alla quale non ci ribelliamo con la stessa insistenza. Il secondo ritornello di Anastasio: “l’amore è assurdo perché esiste”. È questa la risposta che mi sono dato alla domanda di cui parlavo sopra: penso di non aver perso la fede perché ho contemplato bene entrambi i lati del mistero, e prima di chiedermi cosa ho fatto per meritarmi questo dolore, mi chiedo anche cosa ho fatto per meritarmi tutto questo amore. Perché è assurdo che io sia ritornato in oratorio, è assurdo che il nostro oratorio si sia nuovamente riempito, è assurdo che la mia ragazza oggi sia qui con me, dopo esserci lasciati più volte. È assurdo che il mio migliore amico oggi sia qui con me, e che ci riparliamo… dopo non esserci parlati per anni. È assurdo che io sia di nuovo animatore di uno splendido gruppo di ragazzi, è assurdo che io sia stato scelto per rappresentare l’MGS meridionale all’assemblea nazionale di Firenze qualche mese fa, è assurdo che io venga invitato a scrivere per questa rubrica. È assurdo che fra milioni di donne io sia stato proprio figlio di mia madre. Non è assurdo che Dio esista, ma Dio è assurdo perché esiste.

Pastorale giovanile del quotidiano. Comunità, giovani e scuola

Da Note di Pastorale Giovanile, numero di luglio e agosto.

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di Rossano Sala

Una lamentela spesso ricorrente

Una delle critiche regolari che vengono rivolte alla pastorale giovanile è la sua concentrazione sugli “eventi”. Il loro primato di visibilità e di organizzazione d’altra parte emerge: pensiamo alla Giornata Mondiale della Gioventù, che è il “grande evento” che ad intermittenza si ripropone. Ma pensiamo anche al prossimo anno giubilare, dove molti momenti riguardanti il mondo giovanile sono già calendarizzati, primo fra tutti il “Giubileo dei giovani” a cavallo tra luglio e agosto 2025.
Tale focus alimenta legittimamente l’idea che la pastorale giovanile sia lontana dalla vita quotidiana dei giovani. E che, in fondo, la Chiesa stessa lo sia. Vite parallele che talvolta si incrociano senza lasciare segni né dall’una né dall’altra parte, mantenendo la divaricazione un dato scontato e incontestabile: la Chiesa nel suo insieme non sembra essere toccata se non tangenzialmente dall’esperienza di fede dei giovani, e i giovani nel loro insieme non entrano nei circuiti ecclesiali se non occasionalmente, ma senza esserne intimamente toccati.
Effettivamente, sulla questione degli “eventi” la riflessione pastorale ha già fatto il punto: se non riescono a fecondare la vita quotidiana sono sostanzialmente avvicinabili all’esperienza di alcune sostanze stupefacenti, come ad esempio all’eroina: quest’ultima fa entrare in un mondo altro e ci fa andare altrove, e non ci aiuta ad affrontare le sfide dell’esistenza. Ci porta ad essere distopici rispetto alla vita quotidiana.

Immersi nel quotidiano dei giovani

Una pastorale giovanile seria e incisiva non ha paura del quotidiano. Non ha timore di vivere e operare dove la vita dei giovani si svolge concretamente. Non teme di giocare sul campo dell’esistenza concreta. Anzi, al contrario e con entusiasmo si posiziona strategicamente lì dove i giovani vivono e crescono, gioiscono e soffrono.
Questo è il caso specifico – e con un grande peso specifico – del mondo della scuola e della formazione professionale. La scuola, lo si deve riconoscere, è uno degli spazi privilegiati in cui la vita di un giovane avviene. Molto del loro tempo tutte le giovani generazioni lo vivono a scuola: luogo di socializzazione primaria, spazio privilegiato di istruzione, casa per la formazione, esperienza di affetti e legami condivisi. Questa è la scuola, anche quella italiana, che con tutti i suoi difetti continua ad essere una struttura accogliente e generativa per i giovani. E non dimentichiamo, per tutti i giovani, nessuno escluso.
Dove la scuola non arriva o non è incisiva lì c’è degrado, criminalità, inciviltà. Lì si cresce allo stato brado, lì tutto diventa possibile. Abbiamo esperienza continua di tutto ciò, perché dove la scuola non riesce a far scattare la scintilla della passione tutto si deprime, si appiattisce e diventa spazio aperto per ogni barbarie.
Questo la pastorale giovanile lo deve vedere, apprezzare e coltivare. E, senza nessuna indecisione, è chiamata a fare alleanza con chi in questo mondo spende la vita da sempre: dirigenti scolastici, insegnanti, educatori e formatori. È strategico più che mai, soprattutto oggi, perché siamo nel tempo della sinodalità!

In alleanza con il mondo della scuola

E così arriviamo al Dossier che viene presentato, curato magistralmente da E. Diaco e E. Cesari. Una pietra miliare che vuole confermare l’interesse della pastorale giovanile per il mondo della scuola. Qui, e non altrove, sta la vera sinodalità, quella capacità di camminare insieme che ci fa crescere tutti. La scuola è uno spazio privilegiato di alleanza, e la nostra Rivista da anni oramai batte questa strada.
Lo ha fatto qualche anno fa – cfr. il Dossier del dicembre 2018, intitolato La Chiesa e la scuola. Un rapporto che viene da lontano e che vuole rinnovarsi alla luce delle nuove sfide pastorali, culturali, educative, reperibile on line sul nostro sito – a cui è seguita una rubrica che ci ha accompagnato dal 2019 al 2022, significativamente intitolata La Chiesa per la scuola, anch’essa completamente on line sul nostro sito.
Tutto materiale di alta qualità facilmente fruibile da non lasciar cadere, ma da legare al Dossier di questo numero di NPG, perché si tratta di una vera continuità e un autentico approfondimento tematico.
Noi a tutto questo ci crediamo! Siamo convinti che il mondo della scuola e quello della pastorale (giovanile, ma non solo) si debbano incontrare, debbano collaborare, siamo chiamati per vocazione a vivere in unità d’intenti un’inclusione reciproca. Se ciò non avviene uno degli ambienti privilegiati della vita dei giovani viene escluso dal nostro raggio d’azione, generando pericolosi cortocircuiti civili ed ecclesiali.

Agenti “in incognito” di pastorale giovanile

Veniamo ora al tema specifico di questo Dossier, ovvero alla focalizzazione sul docente di IRC. Mi piace definirlo un “agente in incognito di pastorale giovanile”. Nell’ordinamento italiano è un professore riconosciuto come tutti gli altri, ma ha la particolarità di avere un legame diretto con la Chiesa, perché secondo il Concordato vigente egli deve avere un’approvazione ecclesiastica, oltre che i titoli adeguati derivanti da una formazione specifica.
È una doppia appartenenza la sua, civile ed ecclesiale. E se il suo compito è primariamente legato ad una presentazione “culturale” del fenomeno religioso in generale e del cristianesimo in particolare – chi potrebbe vivere non solo in Italia, ma anche nel mondo attuale, senza conoscere la storia (e il presente) delle istituzioni religiose e dei dinamismi di ricerca spirituale dell’umanità tutta? – non possiamo pensare che la sua presenza sia pastoralmente insignificante.
È esattamente vero il contrario. Egli è mandato dalla Chiesa per dire la verità della fede. Senza alcun intento proselitistico, ma con una missione di verità e di chiarezza. Per combattere l’ignoranza religiosa, per istruire sul fenomeno permanente e pervasivo della fede, per mostrare come essa ha plasmato il mondo in cui viviamo e come dobbiamo sempre fare i conti con i suoi dinamismi.
Un autentico docente di IRC vive di una missione ecclesiale e cerca di farla emergere entro i confini del suo ruolo istituzionale. Non confonde il suo ruolo con quello del catechista parrocchiale e nemmeno con il predicatore carismatico, ma fa valere lo spessore culturale del cristianesimo con professionalità impeccabile, passione profonda e sapienza pedagogica.

Parte di una comunità di fede

Il Dossier che segue ha anche – ultimo ma non ultimo! – un’intenzionalità decisiva: quella di riportare il mondo della scuola, l’insegnamento dell’IRC e la pastorale giovanile in dialogo e all’interno di una comunità cristiana che sa riconoscere e vivere la sua apertura verso il mondo.
La pastorale della scuola è una “pastorale in uscita”, ovvero capace di vivere in un contesto non direttamente legato alla comunità cristiana, ma con i tratti assunti dalla frequentazione della vita della Chiesa. È la Chiesa missionaria questa, che sa abbattere le barriere per essere presente altrove, ma senza abbandonare gli stili amorevoli e i passi educativi imparati dalla frequentazione della pedagogia della fede che affonda le sue radici nel vangelo.
Pedagogia che sa coltivare la certezza che non di solo pane vive l’uomo, e che questo fa parte dell’umano che è comune a tutti gli uomini. Proprio così: si sta nel mondo della scuola da cristiani quando si insegna che non solo di istruzione vivono i ragazzi, adolescenti e i giovani, che per loro natura sono creati per l’infinito e nessun sapere potrà mai saziare la loro inquietudine spirituale. Aprire spiragli di trascendenza nel mondo della scuola e della formazione professionale è l’impegno prioritario di un docente di IRC.
E questo lo si fa a nome e per conto di una Chiesa locale che ha a cuore i giovani: tutti i giovani, nessuno escluso. È importante, anzi decisivo, per un docente di IRC essere e sentirsi parte di una comunità. Purtroppo spesso ciò non capita, soprattutto quando un docente non partecipa alla vita di fede e al cammino di una comunità locale e di una Chiesa particolare.
Altrettanto importante per una comunità cristiana è riconoscere, sostenere e accompagnare queste persone che si impegnano con la Chiesa e per la Chiesa. Non solo con corsi di aggiornamento specifici, ma soprattutto con cammini ecclesiali di appartenenza e di condivisione. A loro modo, tutti i docenti di IRC sono missionari dei giovani. Possono fare molto se non vengono lasciati soli.

Il tempo attorno – La stagione delle stragi narrata dallo sguardo di un adolescente

Dalla rubrica “Sguardi in sala tra cinema e teatro” a cura del CGS.

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Myriam Leone e Gianpaolo Bellanca (docenti e responsabili della compagnia teatrale “Volti dal Kàos” del CGS Don Bosco – Villa Ranchibile di Palermo)

Il tempo attorno è un suggestivo spettacolo teatrale d’ispirazione autobiografica, scritto e diretto da Giuliano Scarpinato, che ha debuttato per la prima volta al Teatro ‘Biondo’ Stabile di Palermo lo scorso dicembre. È il racconto di cinque vite che sono state travolte dalla storia degli anni Ottanta e Novanta nel capoluogo siciliano, la storia di Cosa Nostra e delle stragi ma anche di coloro che hanno coraggiosamente combattuto contro tutto questo: in scena due agenti della scorta, due magistrati e il loro unico figlio, Benedetto, che da bambino diviene adolescente sperimentando tutte le contraddizioni della sua condizione. Ed è proprio il suo punto di vista quello attraverso il quale viene narrata l’intera vicenda: le insicurezze, le fragilità e l’instabilità della sua storia personale s’intersecano con la Storia che incombe dall’esterno e che sembra costantemente minacciare l’intimità domestica della sua famiglia. In una dialettica pubblico / privato che rappresenta la chiave interpretativa del dramma, Scarpinato ricostruisce la memoria di eventi oscuri quanto cruciali per la storia del nostro paese raccontandoci la sua storia e facendola diventare, nel contempo, una vicenda universale. E intanto… attorno scorre il tempo…

“Nella mia stanza quel pomeriggio pensai un sacco alla domanda di Paola,
se volevo che uno sconosciuto mi facesse fuori, se volevo sparire.
È una bella domanda quando sei quasi adolescente
e una parte di te sta andando via, la più intatta:
quella cosa di essere felice
perché sei al mondo, semplicemente,
perché appartieni alla vita e vai bene così come sei,
cade giù a tocchi
come la pelle a settembre,
dopo il sole che sembrava eterno”.

Queste le parole di Benedetto, un bambino che sta diventando adolescente e che narra la sua difficile quotidianità attraverso lo scorrere de Il tempo attorno, spettacolo teatrale andato in scena in prima assoluta al Teatro ‘Biondo’ Stabile di Palermo lo scorso dicembre, scritto e diretto da Giuliano Scarpinato, regista di origini palermitane diplomatosi alla scuola del Teatro Biondo Stabile di Torino e vincitore di numerosi premi nazionali e internazionali (fra cui, con lo spettacolo Fa’afafine – mi chiamo Alex e sono un dinosauro, il Premio Scenario Infanzia e il Premio Infogiovani al Festival Internazionale di Lugano).
Benedetto appare come un alter-ego del regista stesso o, piuttosto, come un suo riflesso autobiografico, così come autobiografica è tutta la vicenda rappresentata: si tratta infatti di una narrazione ispirata al reale vissuto di Scarpinato il quale, figlio unico di due noti magistrati antimafia dei tempi del maxi-processo, Roberto Scarpinato e Teresa Principato, sceglie coraggiosamente di tradurre teatralmente la sua esperienza tramite un racconto mai didascalico che mostra senza pretendere di insegnare, che descrive senza illustrare e che ricorda senza fare facili moralismi. Così Giuliano diviene Benedetto, Roberto Michele (Vetrano, interpretato da Giandomenico Cupaiuolo) e Teresa Paola (Randazzo, interpretata da Roberta Caronia): le loro sono ipostasi teatrali che incarnano e, nel contempo, portano in scena la reale identità dei personaggi rappresentati. Insieme a loro due agenti della scorta, sul palco chiamati Liborio Mansueto e Diego De Piccolo, i quali, individualizzandosi, racchiudono in sé l’immagine di centinaia di colleghi che hanno vissuto vicende ed esistenze fin troppo simili alle loro.
La scena è semplice ma terribilmente efficace. Al centro una montagna, un cono, forse un vulcano: cosa simboleggia? Credo che buona parte dell’interpretazione venga lasciata allo spettatore (come avrebbe suggerito Umberto Eco): tale promontorio viene scoperchiato al vertice, a un certo punto della rappresentazione, e da esso emerge il magistrato, Michele Vetrano, che pronuncia veementemente la sua arringa mentre i fogli che legge vanno “esplodendo” dall’interno come un caotico flusso magmatico che scorre da un vulcano. È dunque una verità che viene fuori dall’inconscio quella cui allude l’elemento scenografico? O quest’ultimo rappresenta forse una salda montagna che simboleggia l’ultimo baluardo di stabilità in un mondo privato che si sta sgretolando tutto intorno? O forse esso allude piuttosto a quel cono d’ombra che si dipana dagli anni ’80 fino al termine della trattativa Stato / mafia, tanto nota al pubblico di oggi? Di certo si tratta di un espediente di grande suggestione che viene opportunamente usato in più momenti della rappresentazione teatrale: sui suoi fianchi, spesso usati come superficie su cui vengono proiettati video e filmati, sono inglobati un frigorifero, un televisore e un divano, simboli di una dimensione domestica e familiare che sembra contrastare aspramente con quella prospettiva “pubblica” che incombe continuamente dall’esterno. Ed è proprio su questa dialettica fra pubblico e privato, fra intimità della vita quotidiana ed esposizione pubblica e mediatica della realtà professionale (dei due magistrati) che si innesta l’intero spettacolo. Afferma Scarpinato: «La commistione di pubblico e privato si è rivelata vincente perché l’aspetto sentimentale delle vicende aiuta a veicolare la storia grande senza un approccio retorico, didattico, scolastico. Io sono sempre convinto del fatto che una narrazione in cui le emozioni siano raccontate in modo autentico, sincero, sia una narrazione capace di veicolare qualsiasi cosa». Ed è proprio in questo continuo dialogo fra universale e particolare che, a nostro parere, consiste la straordinaria originalità della scelta del regista.
Per le suddette ragioni, Il tempo attorno acquisisce un’altissima valenza culturale ed educativa per dei giovani spettatori e per degli adolescenti in particolare. Infatti, come ci rivela Giuliano stesso, sarebbe opportuno che, appunto, i ragazzi venissero ad assistere allo spettacolo «per ricostruire la memoria di eventi oscuri quanto cruciali per la storia del nostro paese, il cui oblio – purtroppo una tendenza eminentemente italiana – genera un pericolo per la democrazia e la crescita antropologica culturale e politica delle società a venire, di cui i nostri ragazzi sono il seme vivo.»
Al centro della rappresentazione, come accennato prima, c’è Benedetto interpretato da Emanuele Del Castillo un talentuoso giovane attore palermitano: in scena egli è un bambino che gradualmente diviene ragazzo e poi adulto (come testimoniano i video che guarda alla televisione, dapprima cartoni animati poi trasmissioni sempre meno infantili), che sperimenta un coacervo di vissuti e stati d’animo differenti. Si tratta di un personaggio estremamente complesso che riflette e incarna tutte le contraddizioni della sua esistenza. Il fatto di vivere continuamente sotto scorta, lo porta ad avvertire un continuo senso di minaccia attorno a sé, una spada di Damocle costantemente sospesa sulle sue giornate: perfino quando entra in ascensore egli deve avvisare gli agenti dei suoi spostamenti. Stima e ammira i suoi genitori per il loro lavoro in prima linea contro gli atti di Cosa Nostra che culmineranno nella stagione delle stragi ma, nel contempo, sperimenta un senso di inadeguatezza e, forse, anche di inferiorità nei loro confronti. Si vergogna di ammettere con i suoi amici la peculiarità della condizione in cui vive e tenta di cancellarne le tracce prima che essi possano notarle. In tal modo, Benedetto svilupperà frustrazioni che sfogherà sul cibo e che lo porteranno a diventare sovrappeso: la sua autostima ne risentirà ancora di più, ricadendo in un circolo vizioso che lo porterà a sentirsi sempre più fragile e insicuro. Così egli continua il suo monologo:

“Ed è incredibile quanto ci si senta soli, all’improvviso,
anche se la casa, le persone attorno, sono sempre quelli;
soli coi peli, nei bagni, coi corpi che… boh, e i primi desideri.
Quello di morire anche, un po’, che prima non c’era,
e non sai perché adesso ci sia…
perché ci sia la vergogna, la malinconia…”

Quando abbiamo chiesto ad Emanuele quale fosse stato l’aspetto più difficile nell’interpretazione di un ruolo del genere, lui ci ha risposto così: «Dall’inizio del lavoro Giuliano mi aveva detto che Benedetto era una specie di ‘maghetto’, come quelli della televisione a cui lui è tanto affezionato. La sfida più grande è stata sicuramente ritrovare quella magia dentro di me e farla venire fuori. Più concretamente potrei dire che il doppio aspetto del mio personaggio – ovvero quello del narratore/creatore della messinscena e quello del personaggio vero e proprio (bambino di 8-9 anni, ragazzino e poi adolescente) – è stata la parte più impegnativa. Stare dentro e fuori allo stesso momento, ricordare da “adulto” ma allo stesso tempo rivivere tutto quanto con la sorpresa e lo smarrimento del bambino: questo è ciò su cui ho dovuto lavorare di più.»
Anche i due genitori “teatrali”, i magistrati Michele e Paola, sperimenteranno sulla loro pelle la graduale disgregazione dell’unità familiare, incessantemente concentrati sulla frenetica attività professionale che irromperà bruscamente nelle loro vite private fino a calpestarne del tutto l’intimità domestica e a provocarne la definitiva separazione. Infatti, quella “proiezione ideale in un futuro migliore per la polis”, per la comunità “politica” (nel senso di “collettiva”) a cui appartenevano ha richiesto loro un prezzo altissimo: il sacrificio della propria famiglia. È come se la dialettica pubblico / privato su cui si impernia tutto il dramma si fosse risolta con la dissoluzione delle loro relazioni, travolte dalla prepotente irruzione della storia che le trascina con sé , proprio come il violento flusso che fuoriesce idealmente dal cono vulcanico al centro della scena: le stragi Falcone e Borsellino, il sequestro e la successiva uccisione del piccolo Di Matteo, il processo a Giulio Andreotti, da molti considerato “il processo del secolo”… A proposito, vorremmo soffermarci su un altro interessante aspetto della rappresentazione: essa si apre con la proiezione di una nota intervista al politico, quella in cui lui cade in una sorta di catalessi dopo una domanda della conduttrice Paola Perego: davanti a milioni di telespettatori, un inebetito Giulio Andreotti rimane pietrificato per alcune decine di secondi – che sembrano secoli – con lo sguardo perso nel vuoto, finché l’intervistatrice, intuendo la gravità della situazione, invoca uno stacco pubblicitario. Quello che trovo più inquietante, in questa strana vicenda che , appunto, coincide con l’avvio della rappresentazione di Scarpinato, è che la domanda posta dalla Perego prima del malore fosse stata «Presidente, quale futuro si augura per i nostri bambini?»: è chiaro che si è trattato di una strana coincidenza, ma credo che il regista abbia abilmente sfruttato il fatto che il “Divo” piombi in uno stato catatonico proprio dopo che era stato interpellato dalla conduttrice sul futuro delle nuove generazioni, come se tale questione lo avesse lasciato ammutolito, privato della parola.
Ogni aspetto della messa in scena di Giuliano Scarpinato è studiato, pensato, mai lasciato al caso: vivendo a Palermo siamo abituati a sentir parlare, di stragi, mafia e Cosa Nostra. Anche noi eravamo adolescenti negli anni ‘Novanta e abitavamo a Palermo, proprio come il regista e come il giovane protagonista che incarna il suo “io” scenico: ma quello che abbiamo trovato particolarmente azzeccato ed efficace ne Il tempo attorno la prospettiva dalla quale le vicende “storiche” vengono narrate del dramma, una prospettiva personale, individuale, un osservatorio privilegiato che coincide con il punto di vista di Benedetto, l’adolescente protagonista del dramma. E questo espediente narrativo, che potremmo definire “affettivo”, conferisce alla rappresentazione un valore particolare, rendendola più verosimile e, di conseguenza, molto coinvolgente. È lo stesso Scarpinato ad affermare che in tutto questo c’è moltissimo della sua esperienza personale: «Ovviamente la ricerca storiografica non è il mio mestiere, però mi sembrava interessante raccontare questi fatti da un punto di vista nuovo, molto intimo. La mia vita si è svolta sul tracciato di questa relazione tra la storia piccola e la storia grande: i due momenti non sono mai stati separati».
Così, l’inserimento di due figure apparentemente secondarie, gli agenti della scorta, conferisce veridicità alla vicenda rappresentata e, contestualmente, focalizza un ulteriore aspetto della dialettica pubblico / privato esplorando le relazioni dei due poliziotti fra di loro e nell’ambiente domestico in cui sono chiamati ad operare. La storia delle stragi, infatti, ha tristemente dimostrato come le vite di tali agenti, distrutte insieme a quelle dei magistrati che proteggevano, siano state a malapena ricordate, così come i loro nomi, troppo spesso dimenticati… quasi che le loro esistenze avessero avuto un valore differente, meno prezioso… I loro dialoghi in scena riflettono sì l’orgoglio di un ruolo assunto con serietà e consapevolezza, ma, contestualmente, la paura e il desiderio di una quotidianità “normale”.
In conclusione, attraverso il racconto di quegli anni, Scarpinato si pone l’obiettivo di dare vita a un teatro “politico”, inteso come teatro “civico”, dalla forte valenza sociale: egli vuole creare un teatro “per la polis“, per una comunità, comunità che, come la nostra palermitana, è stata troppo spessa ferita e lacerata nel suo corpus civico, nella sua coscienza cittadina. Così commenta il regista: «Volevo un’inchiesta partecipata dal pubblico, che ponesse delle domande. Per esempio l’Edipo parte dalla cronaca cittadina, ma poi questa si riversa nel mondo interiore del protagonista, per ritornare infine nella cronaca. Mi interessa questo rifluire delle cose tra il dentro e il fuori. Siamo abituati a pensarci come delle monadi che consumano, quando in realtà facciamo parte di un quadro generale: e questa cosa non facciamo altro che scordarcela». Un “teatro della polis”, dunque, che narri l’universale rappresentando il particolare, che descriva vicende storiche note a tutti tramite il racconto di personaggi fittizi, e l’aspetto più delicato, e prezioso nel contempo, di tale processo drammaturgico è l’inserimento della dimensione autobiografica e personale che, tuttavia, non diviene mai autoreferenziale. E intanto, fuori, scorre… il tempo attorno…

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I giovani e la speranza: qualche testimonianza

Dallo speciale estivo di Note di Pastorale Giovanile con l’approfondimento della proposta pastorale MGS per il 2024-25 sul tema della SPERANZA.

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Le testimonianze non sono propriamente di “giovani”, ma di persone che sono state coordinatori del Movimento Giovanile Salesiano a livello nazionale. E l’ultima, una che lavora nella progettazione sociale di “Salesiani per il sociale”.

La speranza è nel presente: il centuplo quaggiù
Emanuele Bonazzoli *

Riflettere sulla speranza quando si è giovani e si sta guardando alla vita è un discorso: apre orizzonti, sentieri di vita, esperienze, ampi respiri e audaci scommesse. Ho vissuto tutte queste fasi nei miei vent’anni trascorsi attivamente all’interno del MGS: lo sguardo locale, ispettoriale, nazionale ed europeo hanno aperto panorami via via più ampi che hanno interrogato e plasmato la mia vita.
Riflettere sulla speranza a metà vita, da marito e papà, da adulto lavoratore con le incombenze del quotidiano, la routine che ritma le giornate, in un mondo con un suo contesto socio-economico-culturale che preoccupa, è un’altra cosa… Le difficoltà della gestione di ogni giorno, il mutuo da pagare, le scadenze e i ritmi dell’agenda, le incertezze del lavoro, tolgono smalto alla speranza.
Nel corso della vita, il valore che diamo alla speranza può assumere sfumature variabili, influenzate dalle nostre esperienze e convinzioni personali. Per lungo tempo ho interpretato la speranza come “l’attesa del futuro”, un desiderio di realizzazione che trova compimento in un domani migliore: certo, per il cristiano, ho costantemente pensato che la speranza assumesse il valore della certezza, ma l’ho sempre relegata nel tempo non ancora compiuto. La speranza nella vocazione, nel diventare insegnante, nel vivere pienamente il mio essere cristiano e salesiano cooperatore. La delusione della situazione attuale, mescolata al desiderio di qualcosa di nuovo, mi ha portato anche a pensare che inseguire la speranza fosse fuggire dal presente e dalla realtà. Tuttavia, il tempo, le esperienze e il confronto con mia moglie mi hanno condotto a una nuova consapevolezza: la speranza è innanzitutto la ricerca della presenza del Signore nel momento presente. La sua promessa è “la gioia piena” non domani, ma oggi. Ed è stato un cambio di prospettiva!
Spesso, infatti, ci concentriamo sul futuro, proiettando desideri e aspettative che, se realizzati, ci renderanno felici: investiamo tempo ed energie a dare forma a sogni che vogliamo inseguire. Se però non viviamo il nostro sogno già ora, lasciando aperte le strade alla Provvidenza e concentrandoci solo su quanto ancora ci manca per raggiungere il nostro scopo, questa prospettiva può condurci a trascurare il valore del presente, ricco di opportunità e benedizioni da apprezzare. La speranza, dunque, cessa di essere solo nell’attesa, ma diventa consapevolezza di una promessa già mantenuta, che si manifesta nei doni quotidiani e negli incontri che arricchiscono la nostra vita: non si tratta di vivere da ingenui, ma di dare la giusta dimensione alla realtà. Quante volte ci troviamo a ringraziare per ciò che abbiamo ricevuto e che viviamo? Quante volte diamo per scontati doni che viviamo quotidianamente? Quante volte ci lasciamo sopraffare dalle ansie che ci portano ad affannarci e preoccuparci come Marta, tralasciando ciò che è importante e presente? Quante volte mi è sembrato di avere sprecato una giornata in presenza di mia moglie, dei miei figli, dei miei allievi, dei miei cari, perché ho inseguito altro?
Ho scoperto che la gratitudine è il vero strumento prezioso per coltivare la speranza nel momento presente. Per fare questo devo fermarmi e rileggere il mio oggi, quotidianamente, dedicandomi dei momenti di meditazione durante i quali lascio parlare il quotidiano facendo emergere ciò che dà senso e gioia alla mia vita. Quando impariamo a riconoscere e apprezzare le piccole gioie e le benedizioni che ci circondano, ci rendiamo conto che il futuro non è il vero luogo in cui potremo trovare felicità e realizzazione; e soprattutto, il futuro non dipende (solo) da noi! Vivere il presente ci riporta alla nostra dimensione umana, di uomini amati e ci permette di ridonare a Dio il suo ruolo di Padre che si prende cura perfino degli uccelli del cielo e dei gigli dei campi. L’istante presente, quindi, diventa l’opportunità per incontrare il Signore, per percepire la sua presenza nella bellezza del creato, nelle relazioni con gli altri e nei momenti di serenità interiore.
Abbracciare il valore della speranza significa per me oggi imparare a vivere pienamente il momento presente, con gratitudine e consapevolezza. Significa riconoscere che la promessa di una vita piena e significativa è già qui, nel centuplo di gioia e benedizione che possiamo sperimentare nel nostro quotidiano. Quando impariamo a guardare oltre le nostre preoccupazioni e ansie, scopriamo che la presenza del Signore è sempre con noi, pronta a sostenerci e guidarci lungo il cammino della vita.

45 anni, marito e papà… e cerca di vivere al meglio questa sua vocazione. Docente di italiano per stranieri in università e insegna storia dell’arte alle scuole superiori: questo gli permette di incontrare giovani e di parlare con loro di vita e bellezza. È molto felice di fare parte di una comunità parrocchiale viva nella periferia di Milano.

Padre Henri Didon, l’educatore

Da Note di Pastorale Giovanile, dalla rubrica Sport e vita cristiana, legata al numero speciale sulla Proposta Pastorale 24/25.

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di Angela Teja

Henri Didon (1840-1900), predicatore domenicano di grande fama in Francia nella seconda metà dell’800, per le sue famose dispute sui temi dell’attualità di allora, alcune delle quali (quella sul divorzio per esempio) gli erano costate un periodo di “ritiro” forzato in Corsica, ha mantenuto la sua fama nel tempo soprattutto per essere stato amico di Pierre de Coubertin. La menzione più frequente che se ne fa riguarda il famoso motto olimpico Citius, altius, fortius del quale gli si attribuisce la paternità. A voler essere pignoli, in realtà sono stati i suoi studenti a “inventarlo”, come vedremo, e a riportarlo su stendardo e bandierine ai primi giochi scolastici sportivi che si siano svolti a Parigi, desiderati e ottenuti da Coubertin presso l’istituto s. Alberto Magno di cui p. Didon era rettore, ad Arcueil, una zona periferica di Parigi.
Era il 1891 e Coubertin non riusciva a trovare accoglienza per le sue idee sportive negli altri istituti privati dove si era recato, per esempio dai Gesuiti dove aveva studiato, ma che a sua detta praticavano solo “giochi infantili”. Nella scuola pubblica sarebbe stato inutile andare, nelle sue palestre si praticava l’educazione fisica tradizionale, con la preponderanza nei curricula scolastici delle materie “intellettuali”, con un grosso disequilibrio che lo stesso Coubertin aveva iniziato da tempo a stigmatizzare come “surmenage intellettuale” per i giovani, a discapito della loro salute e soprattutto di una loro formazione integrale pronta e vivace. Quest’ultima era evidente infatti che non potesse derivare da un’istruzione libresca, piuttosto essa richiedeva la partecipazione di tutte le componenti della persona a una piena e completa educazione. L’educazione fisica che all’epoca si praticava nelle scuole francesi occhieggiava infatti quanto succedeva in Europa, e cioè la necessità di rinforzare il corpo (prevalentemente quello maschile, essendo i ragazzi quelli che in maggior misura frequentavano le scuole) a fini addestrativi alla guerra, insomma una ginnastica prussiana adattata all’ambito francese, con qualche attenzione in più agli aspetti salutistici, ma in fondo non molto lontana dai principi del Turnvater Friedrich Ludwig Jahn (1778-1852)[1]. Una preparazione che però non era stata sufficiente vista la sconfitta a Sédan (1870), che anzi aveva fortemente fiaccato lo spirito identitario francese mettendo in evidenza l’assoluta impreparazione dei suoi giovani alla guerra. Pertanto si iniziò a capire che era lo sport di stampo inglese quello che serviva alla gioventù, come poi ben si sarebbe manifestato con l’espandersi degli insegnamenti anglosassoni in tutta Europa a seguito della Grande guerra. Le truppe inglesi e americane avrebbero ben evidenziato infatti in quella occasione come, più che l’ubbidiente muscoloso ginnasta, sul campo di battaglia servisse lo sportivo ardimentoso, in grado di organizzarsi anche in assenza di un comandante, capace di strategie e soprattutto generoso nell’impegno, capace di lavorare in squadra. Ma torniamo alla fine dell’800.
Conosciamo l’attrattiva che i metodi educativi dei colleges inglesi, ricchi di momenti di recupero, alternativi allo studio, che consistevano prevalentemente in competizioni tra squadre in giochi all’aperto, oltre che in gare di tipo atletico, colpirono l’immaginazione di Coubertin e ancor prima di p. Didon, entrambi viaggiatori, ed entrambi attirati dal Regno Unito alla scoperta delle sue nuove tendenze pedagogiche, molto attente ai giovani, il futuro delle nazioni.
Sappiamo anche come sia stato il college della cittadina inglese di Rugby quello che ha attirato entrambi questi personaggi per i metodi educativi qui messi in atto da Thomas Arnold (1795-1842), il suo rettore, un padre protestante. Per cui quando Coubertin bussò alla porta dell’istituto di Arcueil, dove era stato iscritto suo nipote, alla ricerca di humus fertile all’idea sportiva, trovò in p. Didon un amico entusiasta dell’idea di poter mettere in pratica, con una guida esperta, quanto aveva osservato al di là della Manica.
Era dunque il 1891, gennaio per l’esattezza come ci racconta Jean Durry, uno degli studiosi più accurati di Pierre de Coubertin, quando il Padre dell’Olimpismo si trovò a correre con p. Didon «nelle paludi» circostanti il San Alberto Magno, svolgendo entrambi il ruolo di «lepri» in un rally-papier, «secondo una formula allora spesso in vigore, in base alla quale verrà fondata l’Associazione Atletica del Collegio di Arcueil»[2]. Ecco in nuce il primo gruppo sportivo scolastico, con tanto di motto che inizialmente era Citius, fortius, altius, come ci racconta Norbert Mueller[3] tra i maggiori esperti di storia dell’Olimpismo. Parole che furono ricamate sullo stendardo con l’invenzione anche di un inno ginnastico, un’abitudine per la verità già diffusa nelle società ginnastiche che dopo i turnen prussiani si erano diffuse in tutta Europa: piuttosto la novità ad Arcueil fu che il suo gruppo di studenti si sarebbe allenato per disputare gare di atletica all’aperto, con un passaggio dunque dalla ginnastica di stampo tedesco allo sport di tipo inglese. Il fatto che fossero stati gli studenti stessi a inventare il motto evidenzia la volontà pedagogica sottesa all’idea, nel senso che p. Didon, proprio come aveva visto fare nel college di Rugby, volle affidare ai ragazzi stessi la responsabilità di quella invenzione, come pure dell’organizzazione del gruppo sportivo, dei suoi orari, delle regole, dell’attenzione alla temperanza, alla prudenza, al coraggio, alla disciplina del loro vivere. Attraverso la pratica sportiva, dunque, p. Didon avrebbe dato corpo e visibilità all’atto educativo del “tirar fuori” dai ragazzi la loro volontà di autonomia e maturazione, consapevole di una prima attività sociale introduttiva al senso di responsabilità che, in un prossimo futuro, avrebbero dovuto manifestare come cittadini liberi, eguali e fratelli. Una consapevolezza quest’ultima che la Rivoluzione aveva impresso in maniera indelebile nell’anima dei francesi.
L’idea olimpica prese dunque vita in ambito scolastico con sorte analoga a quella dello sport nei colleges inglesi. L’istituto s. Alberto Magno era collegato ad altri due istituti parigini, il S. Domenico e il Lacordaire, scuole per la formazione delle élites destinate alle grandi carriere pubbliche (con le stesse finalità dunque dei colleges inglesi dove si educavano i futuri quadri dell’Impero britannico) e Didon a fine anno radunava studenti e genitori, autorità e maggiorenti per tirare le fila del suo metodo pedagogico con mirabili discorsi che sono stati poi raccolti in un unicum pubblicato nel 1898 a Parigi con il titolo di L’éducation présente. Discours à la jeunesse, per i tipi dell’Editore Plon. In questo volume, la cui lettura si presenta come molto utile per chi vuole meglio comprendere il metodo pedagogico attuato da p. Didon nei suoi istituti, si nota la sua insistenza sul richiamo alla volontà nell’esercizio delle virtù richieste ai suoi studenti, la principale tra tutte ma non l’unica. Tutto il pensiero di p. Didon è difatti intriso di tomismo, tanto il Domenicano aveva affiancato per i suoi studenti il fedele insegnamento della teologia tomista ad una lettura degli sport atletici come estrinsecazione di Virtù[4]. Lo stesso motto voleva infatti contraddistinguere le attività sportive come incarnazione delle Virtù stesse, laddove la palestra diventava essa stessa «palestra di Virtù». I suoi discorsi di fine anno sono espliciti al riguardo e ricchi di insegnamenti spirituali sulla falsariga di quelli di s. Tommaso, con l’evidenza che p. Didon abbia voluto rendere comprensibile ai giovani alcuni aspetti del pensiero del Dottor Angelico attraverso una lettura a loro accessibile dell’esercizio delle Virtù, e cioè attraverso lo sport.

NOTE

[1] Friedrich Ludwig Jahn, prussiano di nascita, è stato l’iniziatore di un metodo ginnico di stampo militare che fu molto diffuso in tutta Europa agli inizi dell’800 per la formazione del cittadino-soldato, futuro combattente nelle numerose guerre del XIX secolo. Cfr. M. Di Donato, Storia dell’educazione fisica e sportiva. Indirizzi fondamentali, Studium, Roma 19983, pp. 64-73.
[2] J. Durry, Le vrai Pierre de Coubertin, Comité Pierre de Coubertin, Paris 1997, p. 26. La gara era una corsa a inseguimento di «lepri» che lasciavano come tracce sul terreno per chi le inseguiva dei pezzetti di carta.
[3] P. de Coubertin, Olympism. Selected Wrintings, N. Müller (ed.), Cio, Lausanne 2000, p. 585. Norbert Müller ricorda che l’ordine dei comparativi in origine sarebbe stato questo, con fortius prima di altius, poi cambiato dal CIO.
[4] Per questa lettura si veda la ricca bibliografia in A. Teja, P. H. Didon, un domenicano alle radici dell’olimpismo. Citius altius fortius tra corpo e spirito, Ave, Roma 2024.

Scegliere, con una Luce dentro

Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” a cura del MGS su Note di Pastorale Giovanile.

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di Benedetta Visca (23 anni, nata e cresciuta nell’oratorio di Latina e ora fuorisede abbastanza “fake” che vive a Roma. Frequenta la Luiss, ormai agli sgoccioli e vicinissima alla Laurea Magistrale in economia, e sta lavorando in una società di consulenza). 

Come tanti giovani della mia età, rincorro un obiettivo dopo l’altro, ho mille paure per il mio futuro, cerco sempre di soddisfare le aspettative di chi mi circonda, sto cercando il mio posto nel mondo e ho un calendario strapieno di impegni. E ovviamente, vorrei tutto e subito senza fare un minimo di fatica. (Immagino che su questo siamo tutti d’accordo.)
Puoi trovarmi in discoteca il sabato sera, in giro con gli amici, ad una cena di famiglia o ad un’adorazione eucaristica. Ho un bellissimo gruppo di amicizie coltivate con cura in oratorio, amici che hanno rinchiuso il segno della croce in qualche stanza impolverata del loro cuore e altri che lo stanno un po’ rispolverando.
“Strano” diresti, che vita incasinata! Quanta poca coerenza, quante strade diverse e contrastanti… prendi una decisione figlia mia!
Tutti pensieri legittimi, vi perdono 🙂
Ma sapete il bello qual è?
È la serenità con cui coltivo tutte queste cose nella mia vita, quel famoso “filo rosso” che mi permette in ogni ambiente in cui mi trovo e con qualunque persona con cui sono, di essere la Benedetta che ha conosciuto il Signore! E che prova (spesso con scarsissimi risultati) a testimoniarlo ogni giorno nella sua vita.
Il motivo per cui mi sento tanto fortunata è che in un mondo così frenetico e decisamente pieno di cose e persone in crisi, io ho una Luce che illumina i miei passi. E che nessuno può togliermi! Ovviamente non perché io sia chissà quanto brava, ma perché nella mia vita ho incontrato persone straordinarie che mi hanno insegnato ad esserlo… e non esagero nel dire che la maggior parte di loro sono Salesiani e Fma. Loro sono stati la testimonianza più chiara ed evidente di come i cristiani non siano gente noiosa, vecchia e con il dito pronto a giudicare… ma persone felici!
Ci sono almeno mille motivi per cui i vostri amici vi diranno che essere cristiani al giorno d’oggi non è conveniente (per dirla in tono elegante)… ma voglio darvene almeno uno buono per esserlo, che li batte tutti.
La mia vita spirituale mi aiuta nell’affrontare l’attività che tutti noi riteniamo essere la più difficile in assoluto: scegliere.
Scegliere le relazioni, scegliere l’università, scegliere il lavoro, scegliere il servizio, scegliere come investire il proprio tempo, scegliere dove andare, cosa fare, scegliere chi essere. Scegliere è il vero problema e la vera difficoltà di questa vita. È la scelta che manda in crisi noi giovani, che spesso ci sentiamo naufraghi in un mare sempre in tempesta, alla disperata ricerca di coordinate che il mondo non sa darci.
Avete presente la paura di scegliere?
Vi è mai capitato di cavalcare bene un’onda, ma di non fare in tempo a gioire che siete già travolti dalla successiva?
La mia vita a 23 anni è una scelta continua, già da un bel po’ di anni. Ogni volta che devo fare una scelta importante sono terrorizzata! Ho paura di sbagliare, di pentirmi, di non essere abbastanza. La benedizione più grande per me è sapere di non scegliere mai da sola.
È nella preghiera che ho scelto la mia università, che ho trovato il coraggio di far nascere delle amicizie e di abbandonarne di altre, che ho selezionato le persone da avere accanto e quelle da lasciar andare, che ho attraversato i momenti più bui e reso grazie in quelli più luminosi. È nella preghiera che affido ogni giorno le sofferenze grandi di chi mi circonda, che pongo tutte quelle domande troppo grandi per avere risposta, che chiedo di avere abbastanza forza per affrontare la giornata quando proprio non mi va. È soltanto grazie al mio rapporto con il Signore che riesco a guardare a tutti i “se” e i “ma” per il mio futuro non come pesi schiaccianti, ma come opportunità. Come evoluzione di un filo rosso che qualcuno che mi ama ha pensato per me.
Niente di tutto questo fa sconti ai momenti di ansia e di sconforto, ma è essenziale per lasciarmi risollevare e “camminare con i piedi per terra, consapevole che il mio cuore è in cielo.”
Una cosa che mi fa soffrire è vedere come tanti miei coetanei siano terrorizzati dall’idea di scegliere, al punto quasi da diventare più spettatori che protagonisti della loro vita.
Ecco, la mia fede mi permette di essere protagonista. Ho assolutamente ben chiari nel mio cuore i volti delle persone che hanno aiutato ad esserlo: avevano (casualmente!) tutti quanti Gesù nel loro sguardo. Non si tratta di una frase fatta, per il compiacimento di qualcuno, ma soltanto di una confortante e bellissima esperienza personale!
Quando la vita di un giovane è abitata da una Luce divina, ecco che la scelta non è più un dirupo. Ecco che sbagliare non è più una condanna. Ecco che le cose che fai acquistano senso!
Ecco che riconosci la bellezza nelle cose che fai e nella persona che sei, perché sai che sei stato tu il primo ad essere amato, in maniera totalmente gratuita.
Ecco che Qualcuno si affaccia nella tua vita a darti le istruzioni! E quanto ne abbiamo bisogno!
Ecco che il peso e l’orizzontalità del mondo che ci circonda viene ribaltato.
Ecco che assapori la bellezza di trasformare quello che credevi essere un punto di non ritorno in un nuovo trampolino di lancio.
Il Signore abita la mia vita, in tutti gli spazi e i tempi che la riguardano. Abita i miei alti e bassi, le mie ansie da studio e da lavoro, i miei incontri in oratorio, le mie birre con gli amici, i miei workout, i momenti di riposo, il mio desiderio di mettermi a servizio del prossimo tanto quanto quello fare carriera.
Lui per me c’è sempre. Sono io che devo scegliere di esserci per Lui.
E quando lo faccio, la mia vita diventa una roba pazzesca.

 

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“Virginia e il professore”: nuovo libro di Elledici

Da NPG.

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Nuovo libro in uscita: Virginia e il Professore – di Virginia Di Vincenzo e Marco Pappalardo, edito da Elledici.

IL LIBRO
Una corrispondenza di e-mail tra una studentessa e un insegnante che vivono a molti chilometri di distanza…
Lei alle prese con il liceo classico e la voglia di vivere “senza fretta” questa avventura che si chiama adolescenza…
Lui tra famiglia, scuola, giornalismo, social e volontariato e il desiderio di aiutare altri a credere nei propri sogni…
Frammenti di vita vera attraverso un’amicizia epistolare.

GLI AUTORI
Virginia Di Vincenzo, ha 18 anni, vive a Chieri, in provincia di Torino. Frequenta il quinto anno del liceo classico e si immagina già a studiare “Lettere o Filosofia” in qualche città d’arte italiana. Ha scritto per il sito web di Note di Pastorale Giovanile.
Marco Pappalardo, classe 1976, giornalista pubblicista di Catania, docente di Lettere presso il Liceo Classico “Cutelli – Salanitro”. Dirige l’Ufficio per la Pastorale Scolastica dell’Arcidiocesi di Catania. Scrive per il quotidiano Avvenire, per il settimanale Credere, per il quotidiano La Sicilia, per diversi siti (tra cui Note di Pastorale Giovanile). Ha scritto libri su temi educativi, scolastici, sociali, religiosi, formativi per varie case editrici.

Intervista a Pappalardo

Mantenere viva la fiamma

Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” del MGS su Note di Pastorale Giovanile.

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di Paola Migliore (19 anni, originaria di Gela (Sicilia), studia alla facoltà di Medicina e Chirurgia all’Università Kore di Enna. Fa parte del Movimento Giovanile Salesiano di Sicilia ed è animatrice nell’oratorio Salesiano San Domenico Savio di Gela, all’interno del quale trovano spazio tutte le sue passioni: la musica (si occupa di una band di ragazzi), il canto, i ragazzi (è animatrice di un gruppo formativo)

“Tu sei la mia Luce e splendi sempre dentro l’anima, anche in questa notte, questa lunga notte”. È questo il motivetto di una canzone che mi accompagna ormai da un paio di giorni e che penso potrebbe ben rendere l’idea di “rifugio, conforto” che il Signore è per me.
Una sensazione interiore che ha “invaso” una ragazza diciannovenne, che vive il suo periodo di maturazione – come tanti altri coetanei – attraversando varie esperienze e – diciamo – di “transizione”.
A contatto con i miei amici constato che ciascuno vive questa “transizione” in modo diverso: c’è chi la vive oramai in quella certa sicurezza che offre un ambiente lavorativo, chi con certe garanzie familiari, e chi, come me, catapultata al primo anno di università.
Fino a poco tempo fa, questa realtà mi sembrava così lontana da pensarla quasi come un’utopia, eppure è ormai diventata la mia quotidianità. Non è stato semplice abituarmici.
All’inizio riuscivo a vedere solo un’aula immensa, di quelle che sino ad allora avevo visto nei film, con altrettanti immensi posti a sedere, disposti a mo’ di platea di teatro greco; e infine in quest’aula c’erano docenti e colleghi.
Non nascondo che di tempo ne è passato un bel po’, prima di riuscire ad abbattere gli schemi banali e apprendere a relazionarmi con una realtà nuova, e vedere i VOLTI delle persone. È stato un difficile apprendimento, ma assolutamente necessario, di quelli che “ti aprono gli occhi e la mente”.
La mia crescita personale è stata, e continua ad essere, alimentata da una formazione che mette insieme la dimensione religiosa e quella umana, in un clima “salesiano”; per cui ho sempre provato ad assumere un atteggiamento empatico e cordiale, reciprocamente condiviso con quelli che frequentavano il mio stesso ambiente. La cosa era un pochino più complicata nei confronti degli “altri”, con cui pure ero in relazione. E così ho sperimentato che cerchi una reciprocità, e se non ce l’hai, tutte le tue buone intenzioni vanno a farsi benedire. Insomma, questa logica molte volte ha preso il sopravvento su di me: una logica “del mondo”, dove vige il “do ut des”, non la logica di Dio che si regge sulla gratuità!
Ecco, in quel momento mi è arrivata in soccorso una frase abituale nei nostri ambienti salesiani, e che qualche anno fa fece da slogan ad un anno formativo, “Puoi essere santo lì dove sei”.
Applicata alla mia vita, ho capito che, in qualunque posto ci si trovi e con chiunque abiti quel posto, sia possibile rimanere sé stessi e mantenere viva la propria fiamma, che non arderà costantemente allo stesso modo, ma comunque sarà lì, presente, a riscaldare chi ci sta accanto. D’altronde, diceva San Paolo che “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”. E questo, tanto più nel nuovo mondo universitario da me frequentato.
Ho sempre pensato che il mondo universitario richiedesse una costanza e una dedizione assidue, tali da dover accantonare ogni altro impegno, come quelli in oratorio. Ma un amico salesiano un giorno, durante una lectio, disse che “il Signore non sceglie persone capaci, ma rende capaci le persone che sceglie”. Ecco un altro bagliore di quella luce di cui parlo all’inizio.
Certo, vivere questo, e soprattutto fidarsi di questo, non è stata cosa semplice, non lo è tuttora e probabilmente non lo sarà in futuro. Ma sicuramente, posso testimoniare che a settembre dell’anno scorso non avrei mai pensato che sarei riuscita a conciliare la mia fede con il mondo universitario, non avrei neppure ipotizzato che sarei riuscita a vivere, per un fine settimana al mese, un percorso formativo di vita cristiana con giovani di altri oratori, che oggi sono ormai famiglia.
Il Signore ci sorprende: quando pensiamo di non essere all’altezza, di non valere nulla, di non essere abbastanza, Lui silenziosamente si avvicina, se necessario giunge fino alla mia “Gerico”, il punto più basso della propria geografia interiore, per recuperare anche solo una delle pecorelle che si sono smarrite, e anche Paola. Ho davvero sperimentato personalmente come non esista la possibilità di sottrarsi alla misericordia di Dio e di non essere redenti: nulla gli è impossibile, lo posso garantire!
E poi ti prende la gioia. Ricordo un’esperienza “totale”, di fede, di fraternità e di divertimento, che ho vissuto nell’agosto 2023: la GMG.
Lì a Lisbona ho veramente toccato con mano la felicità, quella ti irrompe dentro e sembra ti faccia scoppiare, quella che dura giorni interi, ti fa ballare per ore e camminare per chilometri. Ho sperimentato la gioia di essere cristiana e l’ho condivisa con altri due milioni di persone: non ero più un ago in un pagliaio, non ero più l’eccezione, ma mi sentivo accumunata da uno stesso sentimento.
E a quel fiume di gente il Papa parlò, toccando le corde più profonde e misteriose dell’anima: “A voi che volete cambiare il mondo e che volete lottare per la giustizia e per la pace; a voi, giovani, che mettete impegno e fantasia alla vita ma vi sembra che non bastino; a voi, giovani, di cui la Chiesa e il mondo hanno bisogno come la terra della pioggia; a voi, giovani, che siete il presente e il futuro; sì, proprio a voi, giovani, Gesù oggi vi dice: non temete, non temete!”.
Queste parole mi sono penetrate dentro, mi hanno commossa e incoraggiata, spronata e fatto sognare. Lì, in quei giorni, quelle parole mi hanno scombussolata facendomi capire che sognare è possibile e che non fa parte di una realtà parallela; per noi salesiani, dovrebbe essere anche più semplice dato che siamo figli di un sognatore.
In questi giorni il MGS di Sicilia ha vissuto un evento improntato sui sogni, la festa Giovani, che coronava il cinquantesimo anniversario del MGS nella mia regione.
Come una degli “Animatori at work” che organizzavano l’evento, ho fatto parte della “commissione dei sogni”. E così mi ritrovai a studiare i sogni meno conosciuti di don Bosco, i cui nomi erano anche insoliti. A prescindere dal loro contenuto, la cosa che mi ha affascinato di più è la frequenza con cui don Bosco “sognava”. E io invece non ricordo nemmeno l’ultima volta che ho sognato!
In questo contesto le parole del Papa sono sembrate profetiche e restano un raggio di luce nei momenti di ombra, e mi ricordano quale terra devo abitare.
Certamente, oltre ai momenti di “Tabor”, che vanno vissuti e custoditi gelosamente, nei momenti di ombra sono essenziali soprattutto delle figure concrete, capaci di essere fraterne e spirituali insieme.
Quando la mia fede ha vacillato, quando solo pensieri negativi invadevano la mia mente, quando mi sembrava di aver perso la bussola, di non riuscire a far parlare il cuore e mi sembrava di aver perduto quelle poche importanti certezze… in quel momento, solo il confronto con la mia guida spirituale mi ha fatto ritornare in carreggiata, facendosi da tramite tra me e Dio, non lasciandomi da sola, e anche se il dialogo non era sempre assiduo, la sua vicinanza con la preghiera riuscivo a sentirla.
Sembrerò ora retorica o romantica se mi rivolgo ai miei coetanei?
Caro giovane amico, non è sicuramente un cammino semplice quello cristiano. Come un sentiero di montagna: ci sono sassolini e pietre, salitine facili e rocce scoscese: ma è un cammino che porta a vette e orizzonti, felicità pura, un cammino il cui Pastore guida i passi del tuo esistere, senza mai lasciarti in balia della tempesta. E poi non siamo soli: abbiamo la “Maestra” che ci illumina la strada e ci incoraggia.
Impareremo così l’umiltà, la forza, la robustezza (come l’invito fatto a Giovanni Bosco nel suo sogno a 9 anni), e apprenderemo a cogliere la presenza di Dio nelle persone della nostra vita quotidiana. E soprattutto ti sentirai amato, tanto da voler rispondere con lo stesso amore.
Non ti sembra un bel cammino?

Sei qui per prendere o per perdere?

Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” a cura del MGS su Note di Pastorale Giovanile.

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di Giulia Meucci (23 anni, studentessa di Letteratura, Filologia e Linguistica Italiana e maestra di scuola primaria; fa parte dell’équipe di Animazione Missionaria dell’Ispettoria salesiana ICP (Piemonte), ed è animatrice dei gruppi giovani nell’oratorio della Crocetta a Torino). 

Me lo disse un salesiano, ma prima di tutto un grande amico, una mattina di agosto in Kenya. Ero lì in quell’esperienza di estate missionaria con altri giovani, e in quel momento nel mio cuore calò il silenzio. Da quel giorno la mia vita interiore è in perdita, ma in senso buono. In tutti gli anni di oratorio e servizio non avevo mai capito davvero il senso del “dare la vita”, o per lo meno non avevo mai capito come si mettesse in pratica, dovevo fare quasi diecimila km, una follia, una cosa decisamente antieconomica, decisamente “in perdita”… per il mondo forse, per Dio no (e decisamente alla fine neanche per me).
Il sogno di consumarmi, di perdermi per gli altri mi accompagna da tanto tempo, e ha assunto forme diverse nelle varie fasi della mia vita: l’animazione, la missione, l’insegnamento. Sono tutte dimensioni che hanno bisogno di più persone per esistere, questo è perché sono fermamente convinta che da soli non si va da nessuna parte (talmente tanto convinta che questa frase campeggiava nella prima pagina della mia tesi di triennale). Gli altri per la mia vita sono fondamentali, prima di tutto perché è attraverso gli altri che mi sono arrivati i messaggi più importanti, mica cadono dal cielo (o forse sì, ma non nel mondo che penso io o si vede nei film); e poi perché è nel contatto con gli altri che posso mettere davvero a frutto, cioè a servizio, i miei talenti, compreso quello di riuscire a parlare anche con i sassi, che fanno di me quella che sono. Inoltre, senza alcuni altri, le amicizie più profonde, il mio ragazzo, la mia guida spirituale e il mio confessore, non sarei riuscita a dare forma a quello che davvero mi serviva per diventare capace di amare sul serio. Niente corsi o nozioni strane, ma due piccoli-grandi “passi possibili” (Chiara Corbella Petrillo è un’amica che mi accompagna da qualche anno): scoprirmi amata e amabile. Solo così ho smesso di aver paura di perdermi e ho scoperto la direzione chiara e luminosa a cui in realtà da sempre puntavo. Non sono arrivata e non è sempre facile rimanere fedele a questa identità che, per quanto senta forte, resta faticosa e imperfetta; quello che mi rincuora sempre è pensare che tra me è Dio almeno Uno dei due davvero fedele per sempre. Ed è solo alla luce di tutto questo che ora come ora ho un’idea anche abbastanza chiara di chi sono.

Sono un’animatrice in oratorio, ci sono arrivata per caso, o per grazia, perché una mia compagna di pallavolo mi ci ha portata visto che non sapevo cosa fare l’estate appena finita la prima superiore. Da quel giorno sono passati 10 anni e più di un oratorio, eppure la scelta ultima di radicarmi in un posto solo, anche quando le cose non funzionano come vorrei, mi ha fatto scoprire un primo pezzo di strada. Il mio desiderio di servizio, che spesso faceva a pugni con il desiderio altrettanto forte di essere apprezzata, a un certo punto ha vinto. Scoprire che qualcuno mi vuole bene non per quello che faccio o per quanto faccio, ma solo perché sono. oltre ad avermi ribaltata come un calzino mi ha spalancato gli occhi. Mi ha insegnato a chiamare per nome le mie fragilità e a farne squarci che fanno entrare la luce, non perché sono speciale, ma perché anche quegli angoli bui possono essere spazi di servizio verso gli altri. D’altronde, la mia professoressa di italiano del liceo (a cui devo la scelta dell’università e della carriera) diceva sempre che la parte interessante della frase sta sempre dopo il “ma”.

Sono un’insegnante, ho sempre voluto esserlo; da bambina mettevo in fila i miei peluche e spiegavo loro quello che imparavo a scuola (e davo anche i voti!). Sogno di fare l’insegnante di italiano perché ho sempre creduto che la bellezza vada raccontata e che la bellezza sia capace di educare. La cosa più bella (e faticosa allo stesso tempo) però è stata imparare – nel mio piano perfetto e ben calibrato – a lasciar spazio all’imprevisto, a perdere il controllo. È vero che sono un’insegnante, ma non una prof (non ancora), sono una maestra. Lavoro da quasi un anno in una scuola primaria, io che a estate ragazzi ho sempre animato dalle medie in su. Nonostante stia ancora finendo l’università, ho accettato questa proposta e ho scoperto quanto i nostri sogni, quando vengono lasciati nelle mani di Qualcun altro, possono allargarsi a dismisura. Non fraintendetemi, non voglio fare la maestra per tutta la vita, ma questa esperienza ha messo alla prova la mia vita interiore, chi sono e chi voglio essere.
Ho imparato ad avere pazienza, tanta pazienza, con i bambini sì, ma ancora prima con me stessa; a darmi il tempo di imparare e ad avere il coraggio di chiedere aiuto.
Ho imparato che quando i Pinguini Tattici Nucleari cantano “meglio bruciare che spegnersi lentamente, lo ha detto chi non deve illuminare gli altri” hanno proprio ragione.
Ho imparato a imparare dai più piccoli, anche a costo di perdere ogni tanto l’essere più alta di loro.

Sono una missionaria, nel senso più lato del termine. È vero anche però che sono partita per tre esperienze in terra di missione; quindi, forse lo sono anche in senso proprio. A parte questo, la missione dice chi sono e chi voglio essere: mi ha fatto scoprire che la giustizia è qualcosa di molto più concreto e di molto più importante per me di quanto pensavo. E dove la giustizia terrena non c’è, ho scoperto la speranza verso il Paradiso. Ho perso (sempre in senso buono) il desiderio di essere una supereroina e di “salvare” le situazioni; il palcoscenico è bello, ma è ancora più bello quando è condiviso. Andare lontano da casa mi ha aiutata a mettermi in gioco, a uscire dalla comfort-zone e dalla routine, non per scappare, ma per tornare e viverle meglio. Sì ma nel concreto? Forse suonerà come banale, ma se non fossi andata in missione non sarei stata capace di vivere l’università come uno spazio di relazione invece che solo come un insieme di esami da dare per avere in mano il tanto declamato pezzo di carta. Oppure non avrei mai visto con i miei occhi delle persone, dei missionari veri, mica come me, proprio grandi; quelli che dopo anni e anni sono ancora lì, sono ancora entusiasti e amano e si consumano ancora come se fosse il primo giorno. Sogno di essere anche solo un po’ come loro.

Sono Giulia, non un groviglio di pezzi sconclusionato. Non sono perfetta, non ho tutto in chiaro e spesso sbaglio, ma mi sento unificata, pacificata. E per deformazione professionale devo far notare che le due forme verbali precedenti sono passive. Non lo sono per caso.

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