Il viandante di Samaria. Appunti sulla fraternità

Da Note di Pastorale Giovanile.

***

Appunti sulla fraternità secondo la parabola del buon samaritano

A cura di Massimo Maffioletti 

Fraternità, l’unica via

Autunno 2022. Metrò di Parigi. L’occhio viene immediatamente catturato dall’immagine di una magnetica campagna pubblicitaria dove riecheggia il celeberrimo aforisma di Sartre mandato a memoria negli anni del liceo: L’enfer, c’est les autres [1]. L’inferno è gli altri.
Il filosofo esistenzialista padre militante della rive gauche parigina veniva, però, “corretto” da un prete dei poveri piuttosto autorevole in Francia, l’abbé Pierre: L’enfer, c’est soi-même coupé des autres (l’inferno è se stessi quando l’io viene reciso degli altri). Il claim chiudeva così, molto alla francese: Fraternité: quelques lettres de plus pour faire la différence. (Fraternità: qualche lettera in più per fare la differenza) [2]. L’ho trovato perfetto per iniziare il nostro racconto sul viandante di Samaria (la parabola cosiddetta del buon samaritano), ma anche per tratteggiare subito i contorni della stagione culturale che stiamo attraversando dove, forse, è proprio la fraternità a mancarci.
Ci manca l’essere fraterni tra noi. Ci manca quell’essere “Noi” [3] in grado di liberarci dalla tentazione di immaginarci soltanto come monadi autarchiche o delle isole [4]. Ci manca quella fraternità che ci fa sentire tutti sulla “stessa barca” [5] e che fa dell’umanità intera una “comunità di destino” [6]. Ci manca quel senso di ospitalità che fa dell’essere umano quello che deve essere per essere appunto umano.
Quell’ospitalità che viene da lontano, che percorre in lungo e in largo in maniera insistita, come un basso continuo, tutta la letteratura ebraica (ma anche quella greco-latina), fin dal primo omicidio della storia (Caino e Abele in Genesi 4), passando per l’accoglienza dei tre stranieri (o uno solo?) ai quali Abramo offre cibo e attenzione e cura (Genesi 18) per il solo fatto di essere uomini, prima ancora che forestieri o stranieri e comunque mai estranei (filoxenìa, amore gli stranieri). Proprio come recita l’antico adagio del commediografo latino Terenzio: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto» [7].
L’invenzione dell’individuo è stata sinteticamente la grande conquista della modernità, e non va demonizzata, ma l’esito è stato il trionfo dell’individualismo (la “seconda rivoluzione individualistica”) con la conseguente inaugurazione della “cultura dello scarto”: «L’avventura individualistica si rivela più rischiosa di quanto potevamo immaginare! L’individuo non è soltanto più fragile o disorientato; ad essere messa in discussione è la sua intima consistenza» [8]. L’uomo post-moderno è diventato un «uomo di sabbia» [9] o «di vetro» [10].
Sbarazzandosi del “Noi”, l’Io è rimasto solo, anzi l’Unico. Gioca a pensarsi in chiave onnipotentistica – nel classico format del self-made- man – ma in realtà senza l’altro, senza la comunità del “noi”, è solo più povero e triste, non sa più chi è. «Il “noi” (la communitas [11]) sembra ormai sottomesso al potere dell’“io”. Viene così inficiato anche il tessuto della democrazia, che rischia di finire sotto la “tirannia degli individui”» [12]. Viviamo nel tempo della cosiddetta “espulsione dell’Altro” [13]. Espellere l’altro da sé significa espellere sé dalla vita.
Chiuso in sé, l’individuo muore [14].
La fraternità non può essere vissuta come una maledizione, una iattura, una condanna o un inciampo alla realizzazione del nostro Ego; non possiamo nemmeno immaginare che sia una sommatoria di tanti “Io” che s’accordano soltanto per salvaguardare il proprio interesse.
L’altro c’è solo se funzionale al mio stato di benessere. Troppo poco. Eppure, la fraternità è l’unica chance che abbiamo per tenere in piedi il mondo, respingendo le pulsioni di morte di un’umanità che si trastulla pericolosamente sul baratro dell’autodistruzione [15].
Non abbiamo alternative alla fraternità. Oggi, però, della “trinità” laica sembra la più difficile da assicurare. Infatti, mentre la libertà e l’uguaglianza – i fondamentali della società moderna – sono garantiti dalla Legge o dal Diritto, la fraternità no. Bisogna continuamente ricercarla, volerla, perché non si dà in natura, come appunto ci insegna la vicenda di Caino e Abele. Scrive un grande pensatore francese, ormai centenario ma decisamente profetico, Edgar Morin: «Non è possibile imporre la fraternità tramite la legge. La fraternità non può derivare da un’ingiunzione statuale superiore, deve venire da noi. La trinità libertà-uguaglianza-fraternità, per altro, è del tutto differente dalla Trinità cristiana, in cui i tre termini si inter-generano.
Al contrario, dobbiamo associare e combinare libertà e uguaglianza, a costo di fare dei compromessi tra questi due termini, e suscitare, svegliare o risvegliare la fraternità» [16]. La fraternità, dunque, non può essere imposta dall’alto o dall’esterno – e nemmeno Dio la può imporre. «Sin dall’infanzia abbiamo bisogno del “noi” e del “tu” che riconosce “te” come soggetto analogo a “sé” e vicino affettivamente a sé, pur essendo altro. Gli esseri umani hanno bisogno dello sbocciare del proprio “io”, ma questo non può prodursi pienamente che all’interno di un “noi”. L’“io”? Senza “noi” si atrofizza nell’egoismo e sprofonda nella solitudine. L’“io” ha non meno bisogno del “tu”, vale a dire di una relazione da persona a persona affettiva e affettuosa. Pertanto, le fonti del sentimento che ci portano verso l’altro, collettivamente (noi) o personalmente (tu), sono le fonti della fraternità» [17]. Mi piace pensarla come virtù sociale (perfino politica) oltre che attitudine personale. Abito che insignorisce l’uomo che lo indossa. Ma è delicata e ha bisogno di molta manutenzione perché «tutto ciò che non si rigenera degenera, la fraternità che non si rigenera senza posa degenera» [18].
Proprio quel giorno di metà ottobre sul metrò della capitale illuminista e laica, Ville Lumière della liberté, égalité e fraternité, ho pensato che avrei dovuto rileggere la parabola cosiddetta del buon samaritano. Ero convinto che il testo di Luca non parlasse soltanto di un enorme gesto di carità – il che comunque non sarebbe stato poco – ma soprattutto del riconoscimento dell’alterità fraterna (a suo modo una forma di trascendenza in orizzontale) come condizione dello stare al mondo degli umani, che sono tali solo quando misurano la propria identità al passo del riconoscimento dell’altro.
L’altro è la condizione per diventare quello che siamo [19]. La parabola sembra suggerire di primo acchito che per il malcapitato sulla strada da Gerusalemme a Gerico l’altro (i briganti) è l’inferno. La strada è l’inferno. Ci vuole il gesto fraterno del samaritano per restituire alla vita offesa la statura della promessa.
Il racconto dei primi capitoli di Genesi parla chiaro: mai più da soli (Adamo ed Eva), mai senza l’altro (Caino e Abele).
Mai senza l’altro è il titolo di un impareggiabile saggio di Michel de Certeau, gesuita teologo e intellettuale francese, dove l’altro si presenta sempre con il volto dell’estraneo, lo straniero per via, misconosciuto e proprio per questo necessario. Più che necessario. L’altro come condizione per definire la mia stessa identità. L’altro è lo straniero sulla strada di Emmaus (Luca 24,13-53), l’altro è il fratello non riconosciuto nella parabola dei due fratelli (Luca 15,11-32), l’altro è l’uomo lasciato mezzo morto sulla strada da Gerusalemme a Gerico, estraneo per gli uomini della legge ma anche per il samaritano.
Nella prefazione del libro citato si leggono già i temi che anticipano il nostro itinerario: «De Certeau ha indagato con rara incisività su ciò che apre ciascuno all’incontro dell’altro. Comunione attraverso il conflitto, la vita dell’uomo non è mai concepibile senza l’altro: tragedia allora non è il conflitto, l’alterità, la differenza bensì i due estremi che negano questo rapporto: la confusione e la separazione.
In questa nuova stagione dobbiamo imparare ad accettare il mistero e l’enigma di chi non conosciamo, di chi appare come l’estraneo e non solo lo straniero. La sofferenza e la fatica della ricerca dell’unione nella differenza permangono, ma la tragedia incombe sull’uomo soltanto quando rinuncia all’altro e se ne separa. Gli altri non sono l’inferno: sono la nostra beatitudine su questa terra» [20].
«Il mondo inizia plurale» [21] – fraterno – a partire già dagli elementi naturali: dalla coppia cielo e terra alla coppia Adamo e Eva. La congiunzione e è esplicativa. Poi si faranno i conti con il Male che è sempre divisivo (e anti-fraterno, anti-noi) [22].
Più generalmente noi potremmo parlare di prossimità, visto che la domanda del dotto interlocutore di Gesù all’inizio della nostra parabola punta a sapere “chi è mio prossimo”. Nel decimo capitolo del suo vangelo, Luca, autore che ha molto a cuore il tema della misericordia, ci invita a rintracciare le coordinate di questa fraternità perduta e riguadagnata soltanto grazie alla compassione di un viandante di Samaria.
Compassione («passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione») e prossimità («gli si fece vicino»): ruota attorno a queste due categorie il racconto parabolico. Proprio perché fragili vanno custodite. Ancora così inedite vanno scolpite sul cuore, senza se e senza ma, ma anche senza buonismi né facili ingenuità. La cura dell’altro rivela sorprese.
L’altro non sai mai fino in fondo chi è, rimane un mistero [23]. E la cura che si deve a lui non la si deve soltanto perché conosciuto. Sono i volti ignoti quelli cui essere prossimi. L’ignoto è sempre un enigma, l’altro (incrociato per strada) potrebbe essere uno straniero e perfino un nemico. La cura è sempre un rischio. L’altro è un appello alla libertà, un’invocazione alla responsabilità: impossibile sottrarsi. Nessuno può permettersi il lusso di rispondere come Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Genesi 4,9). Perché, sì, parafrasando il testo, il responsabile di tuo fratello sei proprio tu e non un altro. Se ti capita davanti o ti cade (gli cadi) addosso, ricorda che il responsabile sei tu. D’accordo, la carta dell’indifferenza va messa in conto, anche le cronache quotidiane la documentano ampiamente, ma è disumanizzante.
Meglio non giocarla. Ti faresti del male.
Diciamolo subito: la grande storia biblica – nonostante l’originario stato di riconciliazione – si apre con una serie di appelli che hanno subito il compito di decidere la qualità intrinseca dell’umano. E l’umano per la parola divina si declina secondo il paradigma della fraternità compassionevole e della prossimità gratuita. Due domande presiedono i primi capitoli di Genesi dove a parlare è addirittura Dio in persona: «Adamo dove sei?» (Genesi 3,9) e – soprattutto – «Caino, dov’è Abele, tuo fratello? Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Genesi 4,9-10). Scrive Francesco: «Questa parabola raccoglie uno sfondo di secoli. Poco dopo la narrazione della creazione del mondo e dell’essere umano, la Bibbia presenta la sfida delle relazioni tra di noi. Caino elimina suo fratello Abele, e risuona la domanda di Dio: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. La risposta è la stessa che spesso diamo noi: “Sono forse io il custode di mio fratello?”. Con la sua domanda, Dio mette in discussione ogni tipo di determinismo o fatalismo che pretenda di giustificare l’indifferenza come unica risposta possibile. Ci abilita, al contrario, a creare una cultura diversa, che ci orienti a superare le inimicizie e a prenderci cura gli uni degli altri» [24].
La parabola del buon samaritano ricalca la storia dei due fratelli di sangue all’origine del mondo ma ne ribalta completamente l’esito. Sullo sfondo del racconto parabolico di Gesù echeggiano ripetutamente i grandi temi antropologici del libro della Genesi. Innanzitutto, si tratta di comprendere quali sono le coordinate di come deve essere l’umano per essere quello che deve. Secondo la parola di Dio. «Ciò che scopriamo dell’essere umano, questi testi (i vangeli, ndr) lo contengono già e lo lasciano intendere. Nelle loro parole qualcosa parla [ça parle]» [25].
Dio parla sempre la “lingua materna” [26] degli umani, nelle categorie fondative della vita: nascere, generare, soffrire e gioire, morire, amare, essere fratelli, essere giusti, coltivare e custodire il mondo… Le parabole sono sovente racconti che chiamano in causa la responsabilità (e non permettono l’indifferenza o l’ignavia, cioè l’inazione).
Non offrono ricette, aprono strade, coinvolgono la libertà esponendola subito in prima linea: sei tu – uditore della Parola, attento lettore costretto a metterti in gioco – a decidere l’esito finale della parabola e, quindi, il senso della tua vita: “Va’ e anche tu fa’ così”.
(Anche la cosiddetta parabola del padre e dei figli, sempre a firma di Luca, ha la stessa andatura: anche lì c’è un chiaro appello ai due fratelli stanati dalle loro comfort zone – l’una del maudit fascinoso, l’altra del perfettino intransigente – per rispondere dell’altro. Come se la questione – anche per Dio – non fosse tanto quella di riferirsi umanamente a Lui. No, la questione posta da Dio è una sola: occupati tu di tuo fratello, comincia a farlo tu perché non è detto che altri se ne occuperanno. Dio non chiede all’uomo di occuparsi di Lui. Chiede di occuparsi dell’uomo chiunque nel quale egli ha impresso la sua scintilla divina: amore per il prossimo e amore per Dio sono sullo stesso piano.) La parabola introduce «la sfida delle relazioni tra di noi» [27]: teniamo a mente questa sfida perché è il cuore della nostra vicenda umana, cioè del nostro venire al mondo e della destinazione della nostra vita (a chi decidiamo di destinarla, per quale causa decidiamo di spenderla). Le relazioni sono una prova, ma anche una promessa: dipende… Il testo di Luca è stato abbondantemente commentato, quindi noi non possiamo certo pretendere di aggiungere qualcosa di nuovo. Il fatto che noi l’affrontiamo è perché – come già segnalava padre David Maria Turoldo – questa parabola è il cuore dell’umanesimo evangelico, l’«unico umanesimo possibile»: «compendio non soltanto della storia umana, ma prima ancora compendio del vangelo», «un compendio spirituale ed etico della storia del mondo, di come si giocano le sorti dell’uomo», «l’essenza del cristianesimo» perché «qui è tutto l’uomo; ed è tutto il cristiano, che poi è la medesima e unica verità», qui si rivela «lo specifico del cristiano» [28]: «Essere cristiano non vuol dire essere più uomo di tutti gli altri uomini; è invece rivelazione e manifestazione di come dev’essere l’uomo, se vuol essere immagine e somiglianza di Dio. […] Essenza del cristiano è di essere un’epifania di Dio, e perciò realizzazione dell’uomo secondo il progetto di Dio; perciò il Cristo è l’archetipo dell’uomo, il suo modello: come è concepito l’uomo da Dio stesso, nella sua perfetta realizzazione. È scritto che non è altro che l’uomo perfetto, e che noi dobbiamo crescere per raggiungere la statura di Cristo; che vuol dire la pienezza della sua umanità; perché là dov’è questa pienezza d’umanità, c’è Dio, cioè la rivelazione di Dio. […] Dio è amore. Il sogno di Dio è che tutti gli uomini si amino come lui stesso ama» [29].
Nella parabola di Luca noi scopriamo il valore «biologico» del vangelo, da contrapporre alla concezione di vangelo come soltanto un «libro di consigli». Occorre partire dalla seguente convinzione: il vangelo «risponde alle esigenze fondamentali dell’essere» [30]. La crisi conclamata del cristianesimo occidentale (già ampiamente visibile all’interno dei contesti parrocchiali) consiste nell’aver dimenticato che il vangelo non è un ricettario etico né una teoria dottrinale ma lo svelamento dell’essere umano per come Dio desidera che l’uomo sia. L’attuale distanza dal vangelo – distanza dalla chiesa – è frutto anche di questa miopia.
«Questa parabola – scrive Francesco in Fratelli tutti – è un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena.
Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano» [31].
La parabola del buon samaritano ci riporta all’essenza del cristianesimo e di ciò che l’uomo è chiamato ad essere per essere all’altezza dell’umano di Gesù (e quindi di Dio).
Lo scrittore francese Emmanuel Carrère anni fa ha voluto cimentarsi con i testi cristiani della chiesa delle origini. La ricerca, confluita in un lavoro importante dal titolo Il Regno, approda a questa folgorante conclusione: «… anche voi dovete lavare i piedi gli uni gli altri. Se lo farete sarete beati […] mi sembra bello che della gente si riunisca per stare il più vicino possibile a ciò che c’è di più povero e vulnerabile nel mondo e in se stessi. Mi dico che è questo, il cristianesimo» [32]. Ecco, penso che qualcosa del genere si sia mosso nel cuore del nostro samaritano.
Il che dovrebbe interrogare anche il cristianesimo e la chiesa di questo inizio secolo che di tutto ha bisogno ma non di cadere nell’ossimoro già stigmatizzato da Arturo Paoli: «Abbiamo costruito e seguiamo un cristianesimo individualista» [33] con il quale ci si è allontanati dal messaggio originario di Gesù.

NOTE

1 La celeberrima frase di Jean Paul Sartre proviene dai dialoghi dell’opera teatrale Huit clos (in italiano A porte chiuse) che il filosofo compose nel 1943 per poi essere pubblicata nel 1947. Siamo in piena seconda guerra mondiale. Sartre la giustifica così: «Si è pensato che volessi con questo dire che le nostre relazioni con gli altri sono sempre avvelenate, che si tratta sempre di rapporti infernali. In realtà, quello che voglio dire è un’altra cosa. Voglio dire che, se i nostri rapporti con gli altri sono intricati, viziati, allora l’altro non può che essere l’inferno.
Perché? Perché quando noi ci pensiamo, quando cerchiamo di conoscerci noi utilizziamo quelle conoscenze che gli altri hanno già di noi. Noi ci giudichiamo con i mezzi che gli altri hanno, ci hanno dato per giudicarci. Qualsiasi cosa io dica su di me, c’è sempre dentro il giudizio degli altri. Ma questo non vuol dire assolutamente che non si possano avere rapporti differenti con gli altri. Sottolinea semplicemente l’importanza capitale di tutti gli altri per ognuno di noi».
2 La campagna pubblicitaria curata dalla Fondazione Abbé Pierre oltre al manifesto citato aveva prodotto altri tre slogan molto istruttivi anche per il tema della nostra parabola. Il primo: On ne meurt pas d’amour di Marcel Pagnol, scrittore drammaturgo e cineasta francese. In questo caso la correzione dell’abbé Pierre suona così: «Non si può morire d’amore ma si muore d’indifferenza» (mais on meurt d’indifference). Il secondo: Le 21e siècle sera religieux ou ne sera pas.
La correzione: «Il 21° secolo sarà religioso o non sarà proprio» diventa «Il 21° secolo o sarà fraterno o non sarà» (Le 21e siècle sera fraternel ou ne sera pas).
Il terzo di Nietzsche: Souviens-toi d’oublier ritradotto con Souviens-toi d’aimer (Ricordati di amare, non di dimenticare).
3 «La globalizzazione ci ha ravvicinati in un unico “noi”: una sola umanità. Eppure sembra che il “noi” si sia impoverito della sua forza. Anzi che sia crollato. C’è bisogno, e con urgenza, di inventare una nuova fraternità. È la sfida più alta che abbiamo di fronte. Ai “mercati senza frontiere” deve fare da contrappunto una “fraternità senza frontiere”» in V. Paglia, Il crollo del noi, ed. GLF tempi nuovi, 2017 (p. 22). Vedi anche M.M. Zuppi (con L. Fazzini), Odierai il prossimo tuoPerché abbiamo dimenticato la fraternità, ed. Piemme 2019 (pp. 9-33) 4 È rimasta nel Dna della nostra educazione sentimentale il versetto dello scrittore inglese del XVII John Donne, Nessun uomo è un’isola, che successivamente lo scrittore Ernest Hemingway farà propria così come ne farà tesoro anche il monaco americano Thomas Merton.
5 È nella memoria di tutti l’omelia che papa Francesco tenne davanti al mondo la sera del 27 marzo 2020. Da solo, in piena pandemia e in una piazza San Pietro completamente deserta, commentava il vangelo dei discepoli e di Gesù nella tempesta (Marco 4,35-40): «Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: “Siamo perduti”, così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme».
6 «Siamo invitati a una presa di coscienza permanente della comunità di destino del genere umano che è, al tempo stesso, una comunità di pericolo». La categoria è stata da tempo introdotta dal filosofo Edgar Morin e ripresa anche nel suo ultimo Svegliamoci!, ed. Mimesis, 2022 (p. 56).
7 «Sono un essere umano, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me»: Publio Terenzio Afro nella commedia Heautontimorùmenos (“Il punitore di se stesso”) del 165 a.C.
8 J.-C. Guillebeaud in V. Paglia, Il crollo del noi, ed. GLF tempi nuovi, 2017 (p. 9).
Seguo alcune suggestive considerazioni dell’autore.
9 Vedi il suggestivo saggio di C. Ternynck, L’uomo di sabbia. Individualismo e perdita di sé, ed. VeP 2012.
10 V. Andreoli, L’uomo di vetro. La forza della fragilità, ed. Rizzoli 2007.
11 La communitas è il vero antidoto all’immunitas: la condivisione del munus (dono- compito) ci libera dal sogno illusorio di un’immunità che invece di garantirci salvezza ci isola sempre di più. È stata la nostra esperienza della pandemia. Vedi Roberto Esposito, Immunitas, ed. Einaudi 2020.
12 L’osservazione è di C. Todorov in V. Paglia, Il crollo del noi, ed. GLF tempi nuovi, 2017 (p. 10).
13 B.-C. Han in V. Paglia, Il crollo del noi, ed. GLF tempi nuovi, 2017 (23).
14 Le attuali osservazioni non intendono assumere quella certa retorica buonista del noi come se non si dovesse riconoscere che proprio il cristianesimo è stata la religione che ha valorizzato la singolarità di ogni persona.
15 I segnali sono noti: incuria dell’ambiente, sfruttamento delle risorse, crisi climatica, divario sociale planetario, moltiplicazioni dei conflitti, corsa agli armamenti… Sono tutti temi che papa Francesco affronta nelle sue encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti nelle quali invoca una nuova alleanza umana, un “nuovo umanesimo” come da tempo suggeriscono alcuni intellettuali europei come Julia Kristeva, Jürgen Habermas, Edgar Morin. Già qualche anno prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale Simone Weil rilasciava un saggio dal titolo Non ricominciamo la guerra di Troia dove scriveva: «Tutte le assurdità che fanno assomigliare la storia ad un lungo delirio hanno la loro radice in una assurdità essenziale: la natura del potere. […] Per costringere gli uomini alle più assurde catastrofi non servono né dei né congiure segrete: basta la natura umana».
16 E. Morin, Fraternità, perché?, ed. Ave 2020 (p. 13).
17 Ibid., p. 14.
18 Ibid., p. 54.
19 «La nostra identità e la conoscenza di noi stessi sono il risultato di un processo che non finisce mai: si costruisce il nostro “io” avvicinandosi agli altri, incontrando gli altri senza però mai “con-fondersi” con gli altri. L’identità non è un ordito fisso, è invece il risultato di un processo durante il quale è possibile anche incontrare lo straniero che ci sconquassa ma ci fa pensare. Incontri difficili che non vanno affrontati col buonismo. Nel Vangelo non c’è buonismo di sorta» (M. Cacciari, Lectio Magistralis «Dal vangelo (che non è buonista) insegnamenti sul “nostro prossimo”» al Festival della filosofia di Modena, 2010).
20 Vedi la prefazione di E. Bianchi in M. de Certeau, Mai senza l’altro, ed. Qiqajon 2019 (pp. 5-9).
21 V. Paglia, Il crollo del noi, ed. GLF tempi nuovi, 2017 (pp. 33ss).
22 Come illustrano i capitoli 1-11 di Genesi: il peccato originale, Caino e Abele, il diluvio, la torre di Babele… 23 Come nel bellissimo aforisma di Giorgio Caproni: «Errata / Non sai mai dove sei / Corrige / Non sei mai dove sai.» (in Poesie 1932-1986, ed. Garzanti 19954, p. 446).
24 Francesco, Fratelli tutti, n. 57. «Anche Caino muore uccidendo il fratello. Muore una parte di lui, la sua parte migliore» (M.M. Zuppi, Odierai il prossimo tuo, ed. Piemme 2019 [p. 188]).
25 F. Dolto, I vangeli alla luce della psicanalisi. La liberazione del desiderio. Dialoghi con Gerard Sévérin, et al./edizioni 2012 (p. 4).
26 P. Sequeri, Iscrizione e rivelazione, ed. Queriniana 2022.
27 Francesco, Fratelli tutti, n. 57.
28 D.M. Turoldo, Anche Dio è infelice, ed. Piemme 1991 (pp. 44, 51, 59, 62, 65, 75, 100).
29 Ibid., p. 65.
30 Ibid., p. 41.
31 Francesco, Fratelli tutti, n. 67.
32 E. Carrère, Il Regno, ed. Adelphi 2015 (p. 426).
33 A. Paoli, Il cuore del Regno, ed. Dissensi 2011 (p. 21).