“Ascolto”
di Gianluca Zurra
“Ascolto” è la prima parola fondamentale per lo stile sinodale della Chiesa. Dal Concilio Vaticano II in poi è stata riscoperta la Parola di un Dio che parla agli uomini e alle donne come ad amici[1], agendo nella storia quotidiana tramite il soffio imprevedibile dello Spirito. Amicizia e sorpresa, affetto e novità si rivelano così come il cuore stesso del Dio biblico, che chiede una grande apertura delle orecchie per essere percepito nelle pieghe e nelle curvature del mondo[2].
Senza questa disposizione di ascolto, sinonimo di una fiducia che ha il coraggio di non voler sapere ogni cosa in anticipo rinunciando alla tentazione del controllo, la Chiesa non potrebbe cogliere ciò che oggi lo Spirito sta realizzando, dentro e oltre i suoi stessi confini. Lo ricorda il documento preparatorio del sinodo dei vescovi: il cammino sinodale “richiede di mettersi in ascolto dello Spirito Santo che, come il vento, ‘soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va (Gv 3,8), rimanendo aperti alle sorprese che certamente disporrà per noi lungo il cammino”[3]. Dunque, prendere sul serio fino in fondo l’incarnazione significa congedarsi dal dottrinalismo, che trasformerebbe la sinodalità in una pura applicazione, seppure più allargata, di decisioni o di concetti considerati a monte rispetto alle forme concrete del vissuto umano. Si tratta invece, per la Chiesa, di approdare al riconoscimento grato di come lo Spirito abiti l’imprevedibilità della storia, senza averne paura e senza difendersi: ascoltare la realtà diventa così non un esercizio successivo al cammino sinodale, né puramente preparatorio, ma è la sua stessa condizione, poiché non c’è Vangelo che possa risuonare prima o a lato delle esperienze elementari della vita comune, anche e soprattutto per le nuove generazioni.
È necessario, tuttavia, che la parola “ascolto” non sia generica. Per darle corpo affrontiamo tre passaggi: il senso umano dell’ascolto, lo stile di ascolto proprio di Gesù e infine una Chiesa in ascolto sinodale.
Il senso umano dell’ascolto
Fin dal primo istante della nascita, le orecchie sono protese verso i suoni che provengono dal mondo circostante. Ascoltare, dunque, è un atto contemporaneamente passivo e attivo: se non ci fosse qualcuno che ci parla e cose che risuonano per noi, non sarebbe possibile attivare l’ascolto, ma al tempo stesso se ci si chiudesse alle parole e ai suoni, nulla di nuovo potrebbe accadere in noi. Ascoltare è un intreccio tra l’umiltà che lascia parlare la realtà, senza volerla incasellare prima del tempo, e il coraggio di rielaborare ciò che si ascolta.
I suoni del mondo, in effetti, richiedono attenzione paziente, silenzio profondo, tempi lunghi di comprensione; non sopportano la fretta, il “per sentito dire”, o la sicurezza del “questo lo conosco già”. D’altronde, è esperienza comune ritrovare ossigeno ogni volta che qualcuno ci ascolta davvero, prendendo tempo per noi e condividendo la nostra storia. Viceversa, l’aridità della solitudine nasce quando non si trovano più canali di ascolto reciproco, di comprensione e accoglienza della propria vita da parte degli altri. Siamo come sospesi a quel piccolo, invisibile filo di suoni, teso tra le nostre orecchie e le tonalità del mondo che risuonano attorno a noi. Siamo il nostro ascolto e possiamo esistere in quanto siamo ascoltati, accolti, compresi!
Ascoltare è un verbo da declinare all’imperativo, non in senso moralistico, ma perché senza l’esperienza dell’ascolto saremmo sterili, non potremmo essere sostenuti e risvegliati alla vita.
Il Dio biblico, non a caso, si manifesta come colui che parla, che rivolge la parola, tramite innumerevoli e imprevisti canali: gesti, avvenimenti, sogni, leggi, persone, profeti. La fede biblica non nasce da miracoli potenti, come ci si aspetterebbe dal dio Faraone, ma dalla suggestione di un vento leggero sul monte, come succede per Elia[4], o dalla promessa di vita che si fa strada in un arbusto che arde senza consumarsi, come Mosè[5], o ancora più semplicemente dalla normale fioritura di un ramo di mandorlo che annuncia cose nuove davanti agli occhi e alle orecchie di Geremia[6].
È evidente, dunque, che ascolto e fede non sono soltanto collegati, ma diventano sinonimi, perché “ascoltare”, a differenza di “sentire”, implica il coraggio di spogliarsi delle proprie certezze, l’umiltà di fare spazio a ciò che ancora non si conosce, la profondità necessaria per cogliere la ricchezza di senso degli avvenimenti che accadono attorno e dentro di noi. Ascoltare è mettersi immediatamente nella disposizione di una relazione che tiene in vita, proprio nella misura in cui non rassicura, ma apre, espone, mette a rischio, in quanto suscita il desiderio di camminare in avanti e di ripensare da capo ciò che fino a quel momento sembrava scontato.
Mettersi in ascolto è un esodo, è continua rinascita, uscita dalle acque, riedizione creativa di ciò che succede fin dal grembo materno, quando la madre – e il padre con l’orecchio appoggiato sulla pancia di lei – percepisce la vita nascente prima ancora di poterne vedere il corpo, gli occhi e la pelle.
Nell’ascolto della realtà ne va così dell’esperienza di Dio, e nulla di meno, perché mai come in quel momento la nostra identità si riconosce sospesa ad altri e ricevuta da ciò che giunge di inedito alle nostre orecchie.
Pertanto, una Chiesa che non si mette in ascolto della vita reale perderebbe in un solo colpo la prossimità di Dio e la sua stessa umanità. Ascoltare, ripetiamolo, non è un’azione successiva all’esistenza ecclesiale, ma la condizione della sua ragion d’essere e della sua missione, poiché non c’è altro Dio all’infuori di Colui che si rivela e opera nella storia e non c’è umanità che non si formi fin dall’inizio nel miracolo silenzioso dell’ascolto reciproco.
L’ascolto di Gesù
“Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”[7]. È la voce che risuona al Giordano, quando Gesù viene battezzato. Ascoltare lui, dunque, significa imparare come il Figlio di Dio abbia fatto dell’ascolto lo stile della sua esistenza tra noi. Ci sono voluti trent’anni di vita nel nascondimento di Nazaret per poter udire, quel giorno, la voce di Dio, o per interpretare in sinagoga lo scritto di Isaia come inizio della predicazione pubblica[8]. Tutto ciò non è un periodo soltanto preparatorio, ma è già l’incarnazione in atto, attraverso un’iniziazione all’ascolto profondo della vita quotidiana senza la quale non sarebbe possibile percepire la presenza di Dio.
Se Gesù riesce a pronunciare le parabole, riconoscendo l’opera del Regno dentro il terreno della storia e delle cose più semplici, è perché non si è sottratto a questo lungo apprendistato, che non ha bisogno di fatti eclatanti, ma di orecchie e cuore ben tesi e profondi, pieni di passione per una vita che rimane e rimarrà per sempre la buona creazione di Dio, insieme alle fatiche e ai drammi che si porta con sé.
La rivelazione di Dio si realizza così attraverso l’ascolto con cui Gesù cammina nel mondo: si può dire che il riconoscimento credente del suo essere Figlio passa dalla consapevolezza che nessuno ha mai ascoltato come Lui, fino in fondo e fino alla fine. Ogni suo incontro vissuto lungo la strada non è mai superficiale, anzi! È dal confronto con la Samaritana, con la donna Cananea, piuttosto che con Zaccheo o con Nicodemo, che Gesù trae parole e gesti per dare corpo all’annuncio del Regno. Il tocco delle cose, dei colori e degli avvenimenti diventa così il terreno che può essere dissodato per trovarci con sorpresa il tesoro nascosto, anche là dove tutti gli altri vedrebbero soltanto sassi, spine, strade aride[9].
È un ascolto, quello di Gesù, che non si interrompe neppure durante il dramma del rifiuto e della morte: in questo caso si fa invocazione, ricerca, pianto, amore incondizionato, restituzione di tutto ciò che la vita ha saputo donare con sovrabbondanza. Il Risorto stesso non si manifesta dall’alto di un pulpito, o in maniera saccente: “Ora che ho vinto vi dico cosa fare e come vincere!”. Niente di tutto ciò: continua ad accostarsi con discrezione[10], cucinando pani e pesci[11], curando un giardino[12] e piegando lenzuoli[13]. La scena della risurrezione non ha mai il tono di un’invasione, né di un colpo di scena, ma ancora una volta è un evento di ascolto reciproco, da cui certo scaturisce una speranza nuova[14].
Non è un dettaglio di poco conto che la Chiesa nascente faccia memoria della Pasqua proprio così e non in altro modo. In obbedienza al suo Signore, che risorgendo non solo non supera la postura pre-pasquale dell’ascolto come fosse puramente preparatoria, ma la assume come stile stesso della sua definitiva presenza di Risorto, la comunità cristiana sa che il vero senso della missione riposa nella capacità di non invadere la scena, di non essere dispensatrice di certezze granitiche, ma di concepirsi come spazio aperto di prossimità e di accompagnamento per tutti. Così è la rivelazione di Dio in Gesù; così, e non in altro modo, deve ripensarsi lo stile ecclesiale.
Una Chiesa in ascolto sinodale
Perché l’ascolto innervi fin dall’inizio la missione ecclesiale, sono necessarie almeno tre importanti attenzioni, che possono diventare altrettanti cantieri su cui lavorare come comunità.
In primo luogo, la Chiesa nel suo insieme deve saper recuperare lo sguardo dei “segni dei tempi”, ponendo come prioritario l’impegno a ridire e riformulare l’esperienza della fede per i giovani. Sarebbe troppo superficiale credere che le nuove generazioni siano semplicemente lontane dal Cristianesimo. “Ascoltare”, in questo caso, significa riconoscere che buona parte dei giovani ha un altro linguaggio e un’altra modalità di fare propria la fede cristiana e di viverla. Scambiare il tramonto di una certa forma cristiana con la fine del Cristianesimo sarebbe uno sguardo miope; lasciarsi interpellare e cambiare da come la realtà giovanile si stia muovendo su nuovi orizzonti di senso e di ricerca religiosa è invece lo sguardo ispirato dallo Spirito, che non si difende, ma sa cogliere nuove esperienze di Vangelo fino ad oggi inedite[15].
In secondo luogo, questa esigenza implica che la comunità cristiana ridiventi uno spazio umano ospitale, presente là dove tutti si vive, perché si possa intravedere che non siamo soli nell’esperienza della fede, ma siamo sostenuti, guidati e incoraggiati da molti che condividono lo stesso cammino. Per fare questo è necessario che le strutture lascino la precedenza alle persone, a luoghi di incontro e di ricerca, che la rincorsa alle folle e ai grandi eventi sia sostituita dall’accompagnamento più personale e discreto. Solo uno stile sinodale sarà in grado di reggere a questa sfida, generando confronto, dibattito, dialogo, corresponsabilità laicale, esperienze che una struttura troppo verticistica e distante continuerebbe a rendere impossibili. Questo modo di essere diventerebbe una palestra di fede e di relazione realmente profetica, che farebbe della Chiesa non una madre protettiva incapace di far nascere, ma un grembo che genera alla vita adulta e consapevole nella fede.
In terzo luogo, la crisi attuale, dovuta alla pandemia e non solo, ci rende tutti molto più sensibili al tema della povertà e della sobrietà. Dovremmo con forza ritrovare gli occhi del Concilio per riconoscere che la comunità cristiana non ha nulla da perdere nel diventare concretamente più povera di mezzi e di strutture, più profetica e meno presenzialista, più coraggiosa nel superamento di forme manipolatorie di potere, a tutto favore di quello stile di ascolto che la rende più credibile e trasparente. Una sua più visibile e sana fragilità, anche strutturale, può finalmente esprimere la consapevolezza che, in fondo, c’è bisogno di poco, non appena è chiaro che la Chiesa non deve inventarsi la realtà o i luoghi dell’evangelizzazione, ma abitarli insieme a tutti, con profezia evangelica[16].
La sua testimonianza per le nuove generazioni passa in buona parte da qui, manifestando che anche per lei la crisi attuale non può essere motivo di arroccamento o di paura, ma passaggio, rinascita, movimento di purificazione e di riforma, luogo di ascolto in cui lo Spirito sta realizzando qualcosa di nuovo.