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Io, capitano. Il film… e il lavoro con gli studenti

Dalla rubrica “Sguardi in sala. Tra cinema e teatro” a cura del CGS.

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di (Fabio Sandroni (Docente, formatore e presidente CGS Regione Marche; co-direttore dell’Ufficio diocesano per la cultura della Arcidiocesi di Ancona – Osimo.)

Quando abbiamo pensato alla proposta di raccontare alcuni itinerari progettuali di animazione culturale a partire dal Cinema in un periodico di pastorale giovanile ed educazione, avevamo ben presente un presupposto irrinunciabile: non esistono film in sé “educativi”, ma qualunque buon film può divenire educativo solo attraverso un lavoro di “ermeneutica laboratoriale”, come possiamo definirla dopo molte esperienze, cioè di graduale scoperta della sua ricchezza di linguaggi, senza forzarne in alcun modo i significati, con strategie operative che arrivino alle competenze teoriche attraverso la prassi del lavoro condiviso. Un film, infatti, è sempre un’operazione di linguaggio ed è proprio questo tipo di approccio laboratoriale a farne un’occasione di crescita sia interpretativa che spirituale, affinando soprattutto nei più giovani la capacità di cogliere quell’ “oltre” sotteso ad ogni vera opera d’arte.
Molto finora si è scritto su IO, CAPITANO di Matteo Garrone, per cui non proporremo l’ennesima recensione di un prodotto italiano premiato a Venezia a settembre 2023 con il Leone d’Argento per la miglior regia, il premio Mastroianni per il migliore attore esordiente al giovane Seydou Sarr e anche con diversi premi collaterali tra cui la Lanterna Magica della giuria CGS, fino ad essere in corsa per l’Oscar al miglior film straniero. Cercheremo invece di ripercorrere il lavoro svolto con questo film dal CGS Dorico con 600 ragazzi delle scuole superiori di Ancona e di proporre un percorso formativo.
Prima della proiezione ai ragazzi in sala è stato dato un triplice mandato:
● confrontare l’incipit del film con la sua conclusione, anche in termini di messa in scena;
● provare a trovare elementi o situazioni narrative ricorrenti;
● tentare di definire il genere narrativo/i generi narrativi scelti dal regista.
Sulla scorta di queste indicazioni il dibattito al termine della proiezione è divenuto opportunità per andare al di là di una più immediata fruizione emotiva e valorizzare la profondità dello sguardo dei ragazzi in sala, grazie ad un lavoro di scoperta guidata, con la figura dell’animatore culturale che ha il compito di aiutare a collegare le diverse sollecitazioni, inizialmente frammentarie, in itinerari di senso.
Al momento di tirare le conclusioni, tuttavia, ogni percorso coerente non va mai considerato come unica interpretazione, ma come possibilità supportata da elementi oggettivi di linguaggio filmico.

GLI ITINERARI DI SENSO RICOSTRUITI DALLE RISONANZE DEI RAGAZZI E DALLA DISCUSSIONE GUIDATA

Il racconto (la cui prima inquadratura su una mappa geografica scolorita è analoga all’ultima, dopo l’assolvenza dal volto del protagonista) inizia con un risveglio, quello del sedicenne Seydou, mentre il sonoro lo circonda di voci di bambini. Lo spazio su cui si apre è quello del paese del Senegal ove Seydou vive con la madre, i fratelli e le sorelle: uno spazio gioioso in cui i piccoli personaggi si stanno mascherando per una festa tradizionale. Il mascheramento è un primo indizio della cifra stilistica scelta da Garrone: quella della fiaba, in cui la realtà traspare senza ingombrare lo spazio narrativo. In questa prima parte, di circa venti minuti, l’Africa è connotata con colori caldi e vivaci e non viene assolutamente rappresentata come luogo da cui fuggire. Infatti il protagonista Seydou e il cugino Moussa scelgono di partire non per necessità, ma per seguire un sogno, e in questo hanno in comune molto di più con qualsiasi giovane del mondo che con i figli di una marginalità con cui spesso i ragazzi africani vengono rappresentati.
Un altro elemento caratterizzante della presentazione dei personaggi è il loro ricorrere a piccole bugie per nascondere le proprie intenzioni agli adulti e anche per raccontare a se stessi una versione “tranquillizzante” del viaggio: esorcizzano le minacce dell’uomo che cerca di dissuaderli rivelandogli che il cammino per raggiungere l’Europa è un cammino di morte, ad esempio, dicendo che “è fuori di testa!”. Il loro infantile credere ad una illusione, il mentire alla madre, i soldi seppelliti per pagarsi il viaggio, che richiamano il precedente film di Garrone (“Pinocchio”, con la vicenda dell’albero degli zecchini), rinforzano il riferimento al genere fiabesco, anche se la narrazione, nella parte iniziale del film, resta ancorata ad una verosimiglianza abbastanza realistica.
Ma dal momento dell’incontro con lo stregone del villaggio, la storia compie una prima virata verso la dimensione magico/onirica, che si svilupperà attraverso molteplici avvenimenti: dalla scena poetica della donna volante nel deserto, al sogno del ritorno a casa dalla prigione con lo spirito Malika per vedere, non visto, la propria madre, fino ad intrecciarsi sul piano narrativo con il provvidenziale incontro del carpentiere Martin, unica vera figura paterna, e all’improbabile, suggestiva edificazione di una fontana nel deserto, con in premio la libertà, un dono degno del Mangiafuoco di Collodi… La cifra della favola rende accettabile anche una serie di altri avvenimenti: dal ritrovamento a Tripoli di Moussa, all’insperato aiuto di Samir il barbiere per curarlo, fino alla possibilità di imbarcarsi senza soldi.
La vicenda si dipana come un racconto di viaggio, che è anche racconto di formazione (e qui si moltiplicano i riferimenti a Dante, Omero, Virgilio…) durante il quale non possono mancare le esperienze di morte, sfruttamento e tortura; Garrone, infatti, coerente con la sua scelta di genere, non affonda il coltello nel crudo realismo, ma non nasconde drammi ed orrori, collocandoli solo apparentemente sullo sfondo della narrazione. È suggestivo l’intrecciarsi di tradizioni favolistiche e mitologiche più “europee” con altre di origine prettamente africana, come lo spirito jinn Malika appartenente alla cultura marocchina, figura in genere benevola, di aiuto in situazioni difficili; o lo stregone/sciamano del villaggio, che prima della partenza invia i due ragazzi a chiedere ai morti l’autorizzazione a partire, per ottenere quasi un pronunciamento oracolare, un viatico che rappresenta il consenso “cosmico” all’impresa dei protagonisti. L’impresa del viaggio, così, non è più solo individuale, ma riceve la protezione spirituale della Terra d’origine, indispensabile per affrontare un percorso difficilissimo secondo le predizioni.
Superando le molteplici e dolorose prove Seydou cresce, proprio come in un rito di iniziazione, e, se all’inizio erano le illusioni di Moussa a spingere alla partenza, ora è la sua determinazione a permettere ad entrambi di proseguire il viaggio e a fare di lui una guida, un “capitano”, prima per sé, poi per il cugino, quindi per i tanti profughi sulla barca verso la Sicilia.
Il film si conclude in prossimità delle coste italiane, proprio dove iniziano i tristi drammi dei soccorsi e dell’accoglienza, tanto che, mentre assistiamo al rimpallo di responsabilità tra guardia costiera italiana e autorità di Malta, sarà Seydou a prendersi sulle spalle il destino dei suoi compagni di viaggio. La macchina da presa si muove con affanno tra i profughi che sovraffollano l’incerto natante guidato dal ragazzo: un parto in grande emergenza, la salvezza di alcuni uomini stipati sotto coperta, il rischio sventato di rovesciare la barca per il panico, tutto può avvenire grazie alla grande forza d’animo del sedicenne. L’invocazione “Allah Akbar!” degli immigrati sulla barca, che per gli occidentali è divenuto sinonimo di fanatismo, con un significativo ribaltamento semantico qui è preghiera e richiamo alla speranza, indice anche questo di un altro ribaltamento rispetto alla narrazione ricorrente: dal “viaggio come fuga e necessità” al “viaggio come diritto a Sognare”, un diritto che appare sempre più frequentemente negato ad una larga parte del nostro mondo, che tende a normalizzare in modo inquietante anche le più ingiuste disuguaglianze.
La salvezza è nell’ultimo orgoglioso grido di Seydou, quasi sommerso dal rumore degli elicotteri: “Io, Capitano” ripete più volte. Un urlo che, rivendicando la propria assunzione di responsabilità, denota la compiuta transizione all’età adulta.
Dalle voci dei bambini del risveglio dell’incipit fino al lungo primo piano del finale, la narrazione ha al centro la crescita di un giovane, che avviene solo quando si accettano le proprie responsabilità, cosa che l’Occidente “adulto”, il Vecchio Mondo, sembra non saper più fare.

LA SFIDA NECESSARIA

Organizzare la visione di un film in sala cinematografica in orario curricolare, vincendo le resistenze di chi pensa che siano “ore perse” di didattica “vera” (ossia frontale), ragionare sulla designazione dei docenti accompagnatori, scrivere la circolare con tutte le istruzioni e gli orari, con il consenso dei genitori, accertarsi che non ci siano barriere architettoniche, guidare la mattinata… Tutto questo è molto faticoso e basta averlo fatto una volta per capire di che stiamo parlando.
Però alla fine della giornata, dopo aver visto in 600 e in silenzio il film sul telo e con il buio in sala per cui l’autore l’ha pensato, rimangono le prove indelebili della necessità educativa intrinseca in queste “avventure”: la partecipazione dei ragazzi e dei colleghi, le domande profonde, la ricostruzione fatta insieme rivelatrice di significati “altri” rispetto a quelli percepiti in superficie e in visione solitaria.

 

Il filo di Arianna della politica: le Istituzioni

Da Note di Pastorale Giovanile di dicembre.

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di Raffaele Mantegazza

Come parlare

Lo Stato, la Scuola, la Magistratura… si scrivono con la lettera maiuscola. Lo impariamo alla scuola primaria. Sì, ma perché? Spesso si risponde “per rispetto”. È vero. Ma anche il mio nome, Marco, Sara, Mohamed si scrive con la maiuscola. Perché anch’io merito rispetto, perché io sono un cittadino o una cittadina e solo se mi riconosco tale posso rispettare le istituzioni, così come le istituzioni garantiscono i miei diritti di cittadino.
Spesso si sorvola sul fatto che dopo aver enunciato i 12 principi fondamentali la nostra Costituzione inizia a presentare il progetto e il sogno di una democrazia compiuta non passando direttamente alle istituzioni, ma partendo dai diritti e doveri dei cittadini. Uscendo dal ventennio fascista nel quale esisteva solo lo Stato e non esistevano i cittadini, la Costituente fa la scelta opposta: lo Stato esiste soltanto laddove esistono i cittadini, e per formare le istituzioni, che sono ovviamente presentate in modo molto preciso nella parte successiva del testo, occorre prima di tutto formare i cittadini. Solo così le istituzioni potranno essere qualcosa nel quale le persone si possono riflettere e riconoscere, proprio nel senso del ri-conoscere, del conoscere di nuovo chiamandole per nome come sono abituati a sentirsi chiamare.
Ovviamente la prima istituzione con la quale un bambino o una bambina vengono a contatto è la scuola: occorre sempre ribadire che si tratta di un’istituzione e non di un servizio a domanda individuale La scuola è collettività, comunità, e da questo punto di vista occorre essere molto chiari anche con le famiglie. La scuola non è una macchinetta del caffè che distribuisce bevande a “mio figlio”, ma essa immette mio figlio in una collettività e in una comunità che gli permetterà di crescere come cittadino, superando anche i suoi egoismi, e esaltando la sua individualità non a scapito di quella degli altri ma in continuo colloquio con loro.
Ma le istituzioni, se devono essere riconosciute a livello emotivo dai cittadini e soprattutto dai giovani, non possono presentare solamente un volto arcigno e punitivo; occorre che esse si presentino anche con uno sguardo amichevole, tenero, protettivo, perché lo Stato non è un avversario da abbattere o un nemico da sconfiggere e men che meno qualcuno da ingannare con qualche mezzuccio, ma un abbraccio protettivo che difende i deboli dalle angherie dei prepotenti. Questo però significa anche educare a uno sguardo critico nei confronti delle istituzioni: se un atto di violenza o di prevaricazione è sempre negativo, lo è ancora di più se proviene da un funzionario dello Stato, perché oltre ad essere illegittimo rende le istituzioni ancora più distanti dai cittadini.

Come pensare

Opera analizzata: brano tratto dalla Panpaedia di Comenio e canzone “Era la terra mia” di Ron.

La scuola deve essere: un pubblico sanatorio, una pubblica palestra, un pubblico parlatorio, un pubblico centro di illuminazione, un pubblico laboratorio, una pubblica fabbrica di virtù, una immagine dello Stato, una piccola amministrazione piena di esercizi per la condotta della casa una piccola repubblica, una piccola chiesa, un piccolo paradiso pieno di delizie e di passeggiate amene, di spettacoli e di colloqui sia improvvisati per divertire sia intorno agli argomenti proposti per indurre alla riflessione. E poi dibattiti per chiarire questioni, e redazione di lettere, e infine rappresentazioni di drammi per procurarsi un’onesta libertà di parola.

Quanto di questo brano risalente al XVII secolo è ancora attuale? Quanto crediamo veramente che la scuola possa assomigliare al sogno di Comenio? E quanto invece oggi la scuola presenta un aspetto quasi opposto, rischiando di far fuggire i ragazzi dalle istituzioni e di farle loro considerare come nemiche?

Proviamo a confrontare la frase di Comenio con il testo di questa canzone, scritto da un bambino di otto anni e musicato da Ron.

Era la terra mia

7 in comportamento
Un 5 in aritmetica
4 in lettura, eccetera
Mi salvo in geografia

È la pagella mia

Ma perché non me la prendo?
Conosco già la musica:
Le botte e poi la predica
Stasera a casa mia
Una burrasca e via
Invece di discutere
Ritornerei a Napoli
Ritornerei a Napoli
A stare con i miei nonni
Salto sul treno e via
Lungo la ferrovia
Sembrava così facile
Quando studiavo a Napoli
Capire la lezione
C’era più confusione
Ma c’era più allegria
Nella famiglia mia
Era la terra mia

Cosa fare

L’art. 54 della Costituzione recita “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.” Ma cosa significano quelle parole, disciplina e onore? Proviamo a far riflettere i ragazzi sui seguenti casi.

– Un ufficiale di Guardia di Finanza che fa battute maschiliste in pubblico.
– Un insegnante che viene a scuola con le infradito.
– Un magistrato che parcheggia l’auto in divieto di sosta.
– Un parlamentare che si fa fotografare nudo su una spiaggia su una rivista di gossip.
– Un Dirigente scolastico che dà del tu indiscriminatamente a tutti i genitori durante la riunione di presentazione delle nuove classi prime.

Come provare

Purtroppo nella scuola italiana solo con la secondaria di II grado i ragazzi hanno la possibilità di eleggere i loro rappresentanti. Ma la dimensione istituzionale può passare anche attraverso iniziative per insegnare ai bambini a riappropriarsi della città e agli adulti a considerare i bambini come cittadini.
– La multa dei piccoli: vere multe prestampate che i bambini possono lasciare sotto il tergicristallo delle auto parcheggiate in modo da impedire la viabilità, il gioco, l’accesso ai disabili o ai passeggini, ecc.
– Il negozio amico dei bambini: iniziativa consistente nel chiedere ai negozianti una serie di impegni concreti (un bicchiere d’acqua gratis a un bambino che ha sete, la possibilità di telefonare gratis per un bambino che si è perso o che ha bisogno di contattare un adulto, il fatto di dare la precedenza nel servire i clienti alle donne con bambini piccoli, alle donne incinte ecc., il fatto di esporre articoli che possano interessare i bambini su scaffali all’altezza dei loro occhi). Chi sottoscrive il patto ha una vetrofania come “negozio amico dei bambini”.
– La patente del pedone: un corso di scuola guida per bambini sui comportamenti da pedone con esame finale e patente; la stessa cosa può essere fatta con i ciclisti.

Cosa domandarsi

Come vivono i ragazzi la scuola? Come una istituzione, come una possibilità di aggregazione, come un centro erogatori di servizi? O in altro modo? Proviamo a chiedercelo insieme a loro evidenziando soprattutto gli elementi dell’istituzione (orari, regole, gestione degli spazi, abbigliamento) che dovrebbero essere pensati per far star meglio tutti coloro che vivono quotidianamente la scuola ma che spesso invece vengono vissuti solo come imposizioni.

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Presentazione della rubrica “Ricchezza e problematicità dell’umano nella letteratura contemporanea”

Da Note di Pastorale Giovanile di dicembre.

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di Giuseppe Savagnone

Da sempre la letteratura è uno specchio significativo della ricchezza e della problematicità della vita umana.
Naturalmente non è solo questo. In essa si esprime una dimensione estetica che la collega all’esperienza sempre nuova della bellezza e della creatività artistica. Ciò che accomuna le diverse forme letterarie – dal teatro, alla poesia, al romanzo – è la forza creatrice della parola che evoca dal nulla stati d’animo, personaggi, eventi, facendo acquistare loro una esistenza diversa, ma non meno reale, di quella che hanno gli esseri della natura.
Se la bellezza è «lo splendore dell’essere», come pensavano i medievali, la parola ha fin dalle origini dell’universo uno stretto rapporto con la sua luminosità. Nel racconto della Genesi la prima parola di Dio risuona nelle tenebre: «Sia la luce!», dice il Creatore. «E la luce fu» (Gn 1,3). «Solo nella creazione della luce Dio comincia a parlare» (H. G. Gadamer). E la sua Parola illumina il mondo e lo riempie di bellezza
Ma, grazie alla luce, si manifesta ciò che è nascosto. La parola umana, riflesso creato del Verbo divino, ha una relazione, perciò, oltre che con la bellezza, anche con la verità, in modo particolare con quella del soggetto che, immagine di Dio, in essa “dice” sempre, col mondo, innanzitutto se stesso.
Nella letteratura, evidentemente, ciò avviene in modo molto diverso che nella filosofia o nelle scienze umane. In un romanzo, in un testo teatrale, in una poesia, non si dovrà mai cercare una mera elaborazione concettuale. L’opera d’arte dev’essere valutata innanzi tutto sotto il profilo della bellezza. Ma, proprio attraverso la sua bellezza, essa è in grado di mettere in luce le profondità dell’anima umana, le domande che la inquietano, le vette di grandezza e gli abissi di miseria che la caratterizzano.
Ed è sotto questo profilo, piuttosto che dal punto di vista meramente estetico, che noi ci accosteremo ad alcune delle opere letterarie che ci sembrano particolarmente significative per il nostro tempo. Il nostro tentativo sarà, in primo luogo, di comprendere meglio, attraverso di esse, noi stessi, la nostra vita.
Perciò nello sceglierle non ci ha guidato altro criterio che la loro capacità parlare della nostra esperienza di uomini e donne di questo tempo e di illuminarne il significato, nella fiducia che in questo specchio possiamo comprendere un po’ meglio ciò che siamo e viviamo.
Cominceremo con un romanzo che ha avuta un enorme successo alla fine del Novecento e che si presenta come un “manifesto” dell’epoca post-moderna di cui siamo protagonisti, L’insostenibile leggerezza dell’essere, di Milan Kundera.
Passeremo poi a un’opera del tutto diversa, Il mondo nuovo, di Aldous Huxley, che, scritto nel 1932, costituisce una straordinaria profezia del volto che la nostra società ha assunto.
Continueremo con un romanzo che risale alla fine dell’Ottocento, Delitto e castigo, il cui autore, Fëdor Dostoevskij, è unanimemente considerato, oltre che uno dei massimi geni della storia della letteratura mondiale, un anticipatore dei problemi e della sensibilità della nostra epoca attuale.
Saranno poi le vostre reazioni a guidarci nella scelta dei testi successivi. Per adesso, buona lettura.

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Sedici anni: mestiere di vita

Dalla presentazione della rubrica “Sedici anni – mestiere di vivere” di Note di Pastorale Giovanile a cura di Marco Pappalardo.

Sedici anni! Io non li ho più da quasi trent’anni, ma la professione di docente nella secondaria di II grado e il servizio in ambito salesiano mi mettono costantemente in contatto con chi ha questa età ricca di luci e ombre, di sogni e di delusioni, di progetti e di passi indietro, di amore e di odio, di relazioni vere e di solitudine, di desiderio di crescere e di voglia di non essere adulti.
Sedici anni! Benché un’età precisa, sono anche un tempo della vita, il cuore dell’adolescenza, per cui nel rifletterci ci stanno dentro tutti gli adolescenti, poiché poi è solo questione di delicate sfumature dai 14 ai 18.
Sedici anni! E per parlarne in poche righe ho già fatto il classico errore da adulto che pensa di sapere già tutto sull’argomento, quasi pronto a scriverci un trattato; in realtà posso essere forte solamente perché li ho avuti anch’io, dunque ci sono passato, seppur in un’altra epoca…e di epoca si tratta davvero visto che internet esisteva già, ma non per la gente comune, quindi come se non ci fosse per me e i miei coetanei. In effetti, però, c’è qualche altro punto di forza, una carta e più a mio favore: di aver creduto e di credere nella forza degli adolescenti, di aver scelto di camminare accanto a loro, di prestargli sempre tutto l’ascolto possibile e necessario, di avergli offerto delle opportunità, di essere stato presente con discrezione, di essermi impegnato ad amare ciò che loro amano, di riconoscere davanti a loro i miei sbagli, di affidargli delle responsabilità. Nonostante ciò in questa rubrica che si chiama proprio “Sedici anni” non sarò io a scrivere per raccontare il loro mondo e come vedono il mondo, anzi proprio a partire da quei punti di forza saranno loro stessi ad aprire il cuore e, facendolo, sono sicuro che apriranno anche il nostro.
Sedici anni! “Prof. – hanno esclamato quando gli ho rivolto la proposta di gestire loro due volte a mese uno spazio sul sito della rivista – lei sa quali rischi corre? Qualcuno di noi non ha ancora neppure le chiavi di casa e lei ci affida una rubrica?”. Non sono arrivati a dirmi “è folle!”, ma credo l’abbiano pensato, pur felici di mettersi in gioco. Beh!, se questa è follia ben venga, perché il loro tempo opportuno è già oggi, quel presente in cui non possono continuamente venire messi in stand-by fino chissà a quando. Le riflessioni che leggeremo periodicamente sono, allora, il frutto di un gruppetto di adolescenti della mia terra, alunni di un bel liceo a 70 chilometri dal capoluogo etneo (I.S. Majorana-Arcoleo di Caltagirone), chi con la passione per la scrittura, chi con la voglia di aggrapparsi a qualcosa di più grande in questo tempo difficile, chi alla ricerca di sé stesso. Dal profondo Sud, connessi come sono con il mondo, tracceranno con semplicità e spontaneità l’identikit di una generazione e avranno molto da insegnarci!

 

 

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