Di Carmine di Sante
Premesse
Il titolo collega due termini (preghiera e quotidiano) che la tradizione generalmente ha tenuto distinti e separati: per pregare non bisogna allontanarsi dal quotidiano, ritirarsi “nel deserto”, fuggire dal mondo? Come è possibile pregare in mezzo alle “preoccupazioni ordinarie” (lavoro, casa, famiglia)?
Il collegamento che si intende stabilire tra preghiera e quotidiano è duplice: da una parte mostrare che la preghiera è legata agli eventi quotidiani (alzarsi, lavorare, mangiare e dormire), dall’altra rilevare che essa, mentre li assume, li trasfigura. La preghiera infatti ha il potere, per così dire, di trasfigurare l’ordinario in straordinario, non certo per virtù magica ma per la forza della fede che essa esprime.
I momenti principali e irriducibili dell’arco quotidiano sono quattro: il risveglio (al mattino), il lavoro (durante la giornata), il pasto (al mezzogiorno), il riposo (alla sera). Di ognuno di questi momenti si cercherà di vedere come si rapporta con la preghiera e come viene da questa risignificato.
Il risveglio
Svegliarsi è passare dal tempo del sonno al tempo della veglia, dalla morte dei sensi al risveglio della coscienza, non solo psicologica ma soprattutto etica. Ma questo passaggio – dal sonno alla veglia – non avviene per forza interna quanto piuttosto esterna. In realtà svegliarsi è essere svegliati, è essere visitati e incontrati dalle luce delle cose che, riaccedendo alla loro identità di figure compiute, “bussano” alla porta dei nostri sensi svegliandoci e richiamandoci al rapporto con la realtà.
Ma tornare al rapporto con la realtà è tornare alla percezione della sua complessità e ambiguità. Il mondo che si offre ai nostri sensi e che torna ad apparire entro l’orizzonte della coscienza non è solo un mondo bello e positivo che si offre come oggetto, ma un mondo problematico che chiama in causa e ci interpella. Per cui essere svegliati dalla luce delle cose è in realtà un essere interrogati dalla loro riapparizione e dalla loro presenza, e di fronte ad esse più che dominatori ci si scopre in situazione di recettività e di risposta. Esse, con il loro esserci e con la loro stesso silenzio, pongono domande alle quali non si può non rispondere.
Pregare al mattino (con un “segno di croce”, con un “Padre nostro”, con un salmo, con un canto o con formulari più ampi come la preghiera di lodi nelle comunità monastiche) è assumere e risignificare alla luce dell’amore di Dio l’evento coscienziale del passaggio dal sonno alla veglia. Pregare al mattino – sostando, sia pure per pochi istanti, dinanzi al miracolo del proprio risvegliarsi – è prendere coscienza che il mondo delle cose che la luce rigenera e ripropone ai sensi non è il mondo della pura e semplice fattualità, ma il mondo di Dio, cioè la creazione. Questa non consiste nel fatto che Dio ha prodotto le cose dal nulla, ma nel fatto che egli le dona e ridona ogni giorno all’uomo per amore. Un’immagine adeguata per capire il senso della creazione divina può essere quella della madre che ricama il lenzuolo per il suo bimbo o quella dell’artigiano che gli prepara la culla. In casi come questi, l’accento non cade né sulla fattualità dei due oggetti – l’esserci del lenzuolo e l’esserci della culla – né sulla loro produzione – il costruirle con o senza materiali precedenti – ma sull’atto di amore che in essi prende corpo e si rivela. Svegliarsi al mattino pregando è sentire – o predisporsi a sentire – che la luce che rigenera le cose è l’amore di Dio, la sua benevolenza per l’uomo, e che il mondo che ci attende non è né casualità né fatalità, ma l’incarnazione della sua tenerezza e della sua cura per tutti e ciascuno singolarmente.
Nella liturgia ebraica l’orante, quando si sveglia al mattino, prega con queste semplici parole: “Benedetto sei tu Signore che restituisci l’anima ai nostri corpi”. “Restituire l’anima ai corpi” è un’espressione che, in ebraico, vuol dire: risuscitare, ridonare la vita, far rivivere. Pregare è vedere ogni mattino come una nuova creazione, in cui Dio, come nel racconto della Genesi, ricostituisce, con il suo “alito”, ognuno come “essere di vita” (cfr Gn 1,7) e come “sua immagine e sua somiglianza” (cfr Gn 1,26), cioè custodi del mondo e suoi responsabili. Certo, la preghiera non ignora che il giorno che inizia è – come tutti i giorni – segnato dalla durezza del vivere e dalla minaccia della monotonia; ma essa, sintonizzandoci con il senso profondo della realtà che è l’amore di Dio e il suo perdono, offre la prospettiva ideale nella quale collocarsi e dalla quale derivare la forza e il coraggio per trasformarlo e viverlo secondo il disegno di Dio: “Il primo mattino è allora il tempo in cui il cuore credente si accorda sul cuore nascosto del mondo: ‘voglio cantare, a te voglio inneggiare: svegliati mio cuore, svegliatevi arpa e cetra, voglio svegliare l’aurora’ (Sal 57,9)” (A. Rizzi, Parola di Dio e vita quotidiana, Elledici 1998, p. 67).
Il lavoro
Il risveglio e il rapporto con le cose non è di tipo contemplativo ma trasformativo: il mondo, appressandosi all’uomo e richiamandolo in vita, gli si offre come compito per essere “eseguito”, come una pagina musicale o un’opera teatrale che esigono di essere attualizzati. Ciò vuol dire che è il lavoro e non la contemplazione il tipo di rapporto dominante con il mondo. E ciò spiega perché sia proprio il lavoro l’elemento qualificante il giorno al quale la preghiera del mattino introduce.
Ma quale lavoro? Il lavoro inteso e vissuto come dominio sulle cose ridotte a puro oggetto o il lavoro come collaborazione che le porta a compimento? Il lavoro come mezzo per la propria autorealizzazione o il lavoro come servizio per i fratelli? Il lavoro come espressione della propria volontà di progettazione e di affermazione o il lavoro come assecondamento e trasparenza dell’intenzionalità creatrice?
Collegare il lavoro alla preghiera (anche qui con modalità diverse che possono andare dal semplice segno della croce a una breve formula a testi ampiamente articolati) è operarne una rilettura liberante e originale alla luce dell’amore creatore colto nella prima alba del mattino.
Visto alla luce della fede – di cui la preghiera costituisce un’oggettivazione – il lavoro umano non è né puro dominio sul mondo né pura arbitrarietà su di esso, ma compito affidato che esige rispetto e collaborazione. Le cose che, nel corso della giornata, si offrono all’uomo per essere “lavorate”, non sono “oggetti” che egli può trasformare a piacimento, ma “segni” e “parole” che attendono di essere interpretati e portati a compimento. L’interpretazione è quell’attività peculiare nella quale si è contemporaneamente – come nella lettura di un testo – attivi e vincolati; attivi, perché solo attraverso e a misura della partecipazione del soggetto il testo parla e rivela la sua verità; vincolati perché tale “intervento”, lungi dall’imporsi al testo e violentarlo, si pone di fronte ad esso in un rapporto di obbedienza e di rispetto, il solo che permette di farlo essere.
Se le cose portano iscritto, nel loro cuore, l’amore di Dio per l’uomo e se esse sono creazione perché sorrette dalla logica del dono, rapportarsi ad esse nell’attività lavorativa – qualsiasi attività, sia manovale che “spirituale”, sia materiale che simbolica – è rispettare questo senso, vincolati alla sua oggettività e ponendosi a servizio della sua verità. Il lavoro diviene così incarico che Dio ci affida e con cui ciascuno diventa – in alleanza con lui – “con-creatore” del mondo. Concreatore: prima che a livello strumentale e operativo a livello intenzionale, che è quello della sua finalità e della sua destinazione. Con il suo “lavoro” l’uomo diventa con-creatore del mondo sposandone la logica di dono che lo sottende e ponendosene a servizio con il suo logos trasformativo. Pregare al mattino e durante la giornata è svegliarsi e risvegliarsi a questa responsabilità radicale che di ogni lavoro fa l’espressione di un duplice amore: a Dio – che, nell’obbedienza chiede di volere quello che lui vuole – e ai fratelli – amarli con lo stesso amore di gratuità con cui Dio li ama -. Qui la preghiera non opera né come strumento magico (il sogno utopistico di liberarsi dal lavoro) né come mezzo ideologico (legittimare il lavoro alienante come volontà di Dio), ma come momento di critica e di responsabilizzazione (assumere il lavoro immettendoci il giusto fine che dà la forza dì assumerlo e di redimerlo): “Non si tratta di cullarsi in infantili illusioni che pensano di poter trasformare interamente il lavoro in gioco o di poterlo sublimare integralmente in una specie di celebrazione cosmica. Il lavoro, come tutto l’umano, è sotto il duplice segno della grazia e del peccato, della creazione e della caduta, della gioiosa produttività e della pesante alienazione. La spiritualità del mattino è di disporsi al lavoro come dono attivo, dopo aver lodato Dio per il dono ricevuto; è di chiedere forza per portarne l’alienazione e luce per disalienarlo, energia per la fatica e passione per la creatività: che l’una non accasci e l’altra non esalti, ma ambedue siano comandate dall’obbedienza al progetto creatore e dall’amore ai fratelli” (A. Rizzi, cit., p. 69).