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Ci dite cosa sta succedendo veramente?

Pubblichiamo l’articolo di Davide e Francesca, responsabili dell’oratorio di Vallecrosia impegnati in prima linea contro l’emergenza sanitaria.

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Per il mondo salesiano, Francesca ed io, siamo Incaricati dell’Oratorio di Vallecrosia. La nostra vita professionale però è ben diversa: siamo entrambi ingegneri dipendenti dell’ASL 1 di Imperia; Francesca si occupa di edilizia ed impianti, io di elettromedicali.

Ci viene chiesto di dare una testimonianza dall’interno del mondo sanitario sull’emergenza sanitaria che stiamo vivendo.

L’inizio della pandemia ha per noi una collocazione precisa. Da giorni si parlava di questa “influenza”, le scuole erano state chiuse e, immaginavamo come tutti, che questo avrebbe comportato la necessità di chiudere anche i nostri Oratori. Sabato 29 alle ore 17.00 è stato l’ultimo giorno di apertura del cortile fino “a data da destinarsi. Onestamente ancora non avevamo idea di cosa stesse per accadere e, in fondo, il pensiero che fosse un po’ tutto esagerato per “un’influenza un po’ più forte” c’era… Poi abbiamo ricevuto la telefonata del capo per una riunione urgente in ospedale alle 18:00. Da qui il sentore che poteva essere qualcosa di più…
Nell’arco di 15 giorni abbiamo stracciato l’organizzazione di tutta la sanità della provincia: chiuso tutto ciò che non fosse salvavita, fermato le sale operatorie, creato terapie intensive, isolato le cure fondamentali (oncologia, dialisi). Una vera rivoluzione che attraverso le fonti di informazione (e disinformazione) è arrivata a tutti e, per questo motivo, volutamente non ci soffermiamo sulle conseguenze sanitarie che questo virus ha causato.

Il primo mese è stato tosto: orari di lavoro dilatati e imprevedibili, evoluzione rapidissima dell’emergenza, tanti colleghi contagiati e quindi risorse e forze ridotte. Una corsa contro il tempo in attesa del picco!
Ricorderò per sempre quando, a fine giornata, ho ricevuto una chiamata dalla Rianimazione di Sanremo. Mi chiedevano l’ennesimo respiratore ma erano finiti e non sapevo quando quelli nuovi (comprati in fretta e furia) sarebbero arrivati. Non avendo altre soluzioni, ho preso un respiratore dal Pronto Soccorso di un’altra città, sperando che almeno per qualche giorno lì non sarebbe servito. L’ho caricato nella mia macchina e l’ho trasportato di corsa. Il giorno successivo ho saputo che quel respiratore è servito per intubare un mio collega.

Ora la situazione è migliorata e da qualche settimana riusciamo a parlare con i nostri giovani. A loro possiamo rispondere alla domanda regina: “Ci dite cosa sta succedendo veramente?”

Ci accorgiamo che la nostra realtà è divisa in 3 mondi ben distinti (e già sulla terminologia si potrebbe fare più di un trattato):
Esiste il mondo sporco, quello dei pazienti gravi in terapia intensiva o ricoverati perché critici e bisognosi di terapie. Un inciso è doveroso: i pazienti gravi sono una piccola percentuale ed effettivamente spesso anziani, ma resta un numero tale che le nostre strutture non avrebbero potuto accogliere, perché molto oltre la capienza ordinaria.
La frontiera del mondo sporco è netta e importante. Si passa attraverso il rito del “vestirsi”: camice, sovrascarpe, cuffia, maschera e occhiali. Di queste, la prima fa annebbiare gli altri, provocando un impedimento banale ma che rende tutto ancor più complicato… Pur svolgendo un lavoro tecnico, mi trovo a disagio nello stare di fronte ai pazienti bardato in questo modo, perché inevitabilmente marchio a fuoco il loro “essere pericolosi”. Chi si prende cura di loro (medici e infermieri che meritano le tante lodi per quanto fanno) mi racconta di quanto sia difficile non mostrare loro un sorriso; un gesto che normalmente trascuriamo ma che in questa situazione è di vitale importanza. Il doverci imbardare ci rende “impersonali” ai loro occhi e noi siamo le uniche persone che loro possono vedere a causa dell’isolamento. I pazienti covid non possono ricevere visite, al massimo videochiamano con un tablet. E chi muore, lo fa solo.
C’è poi il mondo pulito, al quale ritorni da quello sporco con il secondo rito (molto più attento e rigoroso nei passaggi) dello spogliarsi. Siamo ancora dentro l’ospedale e tutto ruota intorno alla parola “Covid”, di cui peraltro molti ignorano il significato. Positivo o negativo. Tampone. Mascherina. Disinfettante. Qui si vivono le uniche relazioni personali di chi opera in ospedale (almeno le abbiamo!), tutte comunque sottomesse ad un filo continuo e spossante di preoccupazione: oggi me la sarò presa? E non è tanto la preoccupazione di “prenderla” nelle forme più forti e pericolose, ma quella di portarlo con sé e contagiare altri, a partire dai propri cari. Nel nostro caso ad esempio, lavorando entrambi, non abbiamo altra soluzione se non quella di lasciare i figli ai nonni, che per età sono sicuramente più a rischio.

Infine, c’è il mondo fuori, i cui abitanti spesso sono talmente riempiti di informazioni dalle fonti più disparate, da non avere la minima idea di quello che sta succedendo negli altri due mondi. Il mondo fuori subisce le conseguenze sociali ed economiche, non riuscendo a capire il problema sanitario a monte. Capita quindi di dover tranquillizzare chi vive nel panico, o di spiegare i motivi per cui siamo chiamati alle tante dure misure per ridurre il contagio.

Chiudiamo con una storia che raccontiamo ai nostri giovani, perché ci ha colpito.
E’ l’esempio di un elettricista, papà di una ragazza che pratica rugby nel nostro ambiente. Francesca lo conosce da tempo perché spesso ha lavorato nei nostri ospedali, arrivando anche a lanciargli una proposta di impegno in Oratorio, declinata per “mancanza di Fede”.
In questo periodo, diverse ditte si sono tirate indietro per la paura del contagio, ma non la ditta di questo elettricista, il quale per primo ha lavorato senza sosta per adeguare gli impianti allo stravolgimento dei reparti, “sporchi o puliti” che fossero.
Francesca, questa volta, ha fatto una proposta diversa: “Prenditi un paio di giorni e riposati, puoi far venire qualche tuo collega per questo lavoro (in un reparto pulito). La risposta è stata nuovamente un rifiuto: “Ne avrei anche bisogno, ma io conosco meglio degli altri i vostri impianti e, in questo momento, è giusto fare la mia parte con il mio servizio”

Davide e Francesca