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“Parla con Dio”: la lettera di Mons. Delpini agli adolescenti

Una lettera appassionata, quella che l’Arcivescovo Mario Delpini ha dedicato ai ragazzi nel pieno dell’adolescenza: un’età fatta di grandi slanci, sogni e desideri, ma caratterizzata anche dall’incertezza, dal sentirsi incompiuti, sopraffatti da una moltitudine di domande.
Un’età in cui pregare sembra una pratica desueta, ormai lontana, di cui si può fare a meno e vivere bene lo stesso, al più da “usare al bisogno”, come una sorta di terapia per stare meglio.
Un’età in cui ci si chiede perché credere in un Dio che “non è presente e vicino” come si vorrebbe e chi è veramente questo Signore, che dicono “Padre di tutti”…
L’Arcivescovo va dritto al cuore dei ragazzi: «Anch’io mi sono fatto − e mi faccio − le stesse domande. Ma ricordo anche momenti della mia adolescenza, quando lo sguardo rivolto al crocifisso della mia chiesa mi ha come trafitto il cuore; quando una sera di vento mi ha fatto giungere una parola commovente, come una confidenza sorprendente; quando le parole “solite” sono diventate come fuoco; quando in un momento di adorazione mi sono sentito dire: “Io vi ho chiamato amici…”. Era forse preghiera?».
Ecco, allora, il messaggio che Mario Delpini vuole arrivi agli adolescenti: «La preghiera non è una cosa da fare ma un incontro che cambia la nostra vita in profondità. Per questo preghiamo: perché il nostro cuore si trasformi e si apra. Pregare permette al cuore di vivere e di sentire la vita».
Non manca nulla a chi accoglie l’invito a credere e pregare. Ed è lo stesso Gesù a suggerirci le parole per allacciare una relazione con Dio, nel Vangelo secondo Matteo (6,9-13). Parole che riempiono di stupore, che stringono cielo e terra in un unico abbraccio che sa di speranza. Una speranza, ci dice ancora l’Arcivescovo, che è come l’adolescenza: un desiderio in attesa di germogliare.
Ma che cosa vale la pena desiderare, in un mondo che offre di tutto? Vogliamo la felicità che non finisce mai, ma spesso ci accontentiamo di molto meno. Ecco, la preghiera viene a salvarci: dal sottovalutare la nostra esistenza, la nostra libertà, infine noi stessi. Perché la libertà è frutto di una relazione buona, di un potersi chiamare per nome, affidandosi all’altro senza paura.
Dio non pretende nulla: se consegni a lui il tuo desiderio di felicità ti camminerà accanto ogni giorno, come un amico vero, disposto a donarti la vita.

La Lettera è disponibile nelle librerie dal 3 novembre e sul sito www.itl-libri.com

Nostalgia del cielo

Da NPG

La nostalgia di Dio nell’arte moderna e contemporanea

di Maria Rattà

Perché bramo Dio? si chiude con questa domanda inquietante una lirica del poeta italiano Ungaretti. Una domanda universale, che dà voce ai mille quesiti di ogni uomo che si ritrova, prima o poi, a incontrarsi/scontrarsi con il desiderio di assoluto e di infinito che lo inabita.

In questo punto interrogativo si riversano tutte le paure dell’essere umano dinanzi alla possibilità di un mondo sovraumano, del desiderio dell’Altro che sta Oltre, in una dimensione sconosciuta ai sensi materiali. Un contrasto così forte che Ungaretti lo esprime senza mezzi termini fin dal titolo: Dannazione.

Dannazione. Parola forte che riassume la lotta, il tormento della nostalgia: arriverò mai a quello di cui sento, in fondo, la mancanza? Ed è reale ciò che mi manca? È dunque una benedizione o una condanna sperimentare la nostalgia del divino? È una sentenza di morte in vita, aspettando ciò che non esiste, oppure una benedizione che fa aprire gli occhi in questa vita sulla vera vita? La risposta (che per il poeta arriverà poi con la conversione) presuppone, secondo la declinazione ungarettiana, una domanda di Dio che è domanda di cielo: Chiuso fra cose mortali / (Anche il cielo stellato finirà). Sono i versi iniziali che precedono l’interrogativo in chiusura e tracciano un vero e proprio itinerario nella mappa della nostalgia del divino. Come si può credere che esista un Cielo che non avrà fine, un Cielo-Paradiso le cui luci brilleranno per sempre, squarciando il buio più pesto, quando ci vediamo come in un inferno, “chiusi”, “condannati” fra cose che ci parlano tutte di sofferenza, termine ultimo e, in sintesi, di morte?
In queste poche righe Ungaretti condensa molti concetti, ma uno su tutti, ossia l’ancestrale collegamento fra il cielo, quale metafora del Cielo divino, e la terra quale mondo degli uomini assetati, bisognosi di appoggiarsi a una creatura differente, che sia altro da sé: un dio più grande, più buono, più potente di tutta l’umanità. Questa connessione è evidente fin dalla preistoria anche nel modo umano di pregare, con le braccia rivolte al cielo, una modalità di cui si trovano tracce artistiche in alcune incisioni rupestri della Val Camonica.

A dimostrare che fin dall’antichità il cielo è considerato la dimora degli dei, e nella sua immensità, nella sua luce, nella sua capacità molteplice di influenzare la terra (basti pensare agli agenti atmosferici) esso si identifica con l’Essere supremo (cfr. Christian Cannuyer, Dio è nei cieli?, Sito internet della Documentazione Interdisciplinare di Scienza&Fede, https://disf.org/dio-nei-cieli). Nemmeno la Bibbia, espressione della fede del popolo ebreo prima e dei cristiani poi, si sottrae a questa identificazione: quel cielo che Dio ha creato e che testimonia la sua gloria, Dio lo abita anche. Di più: Dio stesso con la sua luce squarcia le tenebre della creazione, irrompendo nel mondo materiale. Il pittore russo Aivazovsky, non a caso, presenta il Creatore come un personaggio di luce che tutto crea, tutto domina, tutto illumina. Sono tele in cui si evidenzia come la nostalgia del divino sia, in fondo, la nostalgia di ciò che porta calore e luce (amore) nelle vite umane, dissipando il buio delle paure, le nuvole delle incertezze, delle sofferenze e delle fragilità; calmando e illuminando le tempeste che ci agitano e ci fanno temere per la nostra stessa incolumità.

Di luce che squarcia le tenebre parla anche il tramonto, uno dei momenti privilegiati del cielo per il nostalgico e per l’arte che parla di nostalgia. Già la parola stessa dice tutto, nella sua etimologia: andare oltre i monti, oltre ciò che è puramente visibile, per cogliere l’invisibile. E proprio Tramonto si intitola un’altra poesia di Ungaretti, i cui versi recitano: Il carnato del cielo / sveglia oasi / al nomade d’amore. L’uomo nostalgico è in viaggio, preso da un nomadismo d’amore che lo spinge a guardare il cielo come fosse un volto, un incarnato colorato, contemplandolo dalla terra e trovandovi un’oasi. Perché in sostanza il tramonto – ogni tramonto – ci spinge a guardare alla fine come alla possibilità/speranza di qualcosa di nuovo. Nel tramonto, infatti, come nell’esperienza della vita, si uniscono la fine e l’inizio, in un passaggio di continuità fra un giorno che si conclude e la notte che sopraggiunge, passaggio necessario perché un altro giorno possa arrivare.

In questa ricerca siamo tutti coinvolti, che ce ne rendiamo conto o meno. Lo sottolinea il pittore Caspar D. Friedrich nel suo quadro intitolato Il tramonto, anche conosciuto come I fratelli. I due protagonisti, visti di spalle, nell’aspetto simili a viaggiatori, e probabilmente fratelli, sono fermi a contemplare il calar del sole. Anche noi, come osservatori, siamo lì con loro, collocati idealmente, grazie al punto di osservazione, qualche passo indietro, partecipando dal di dentro alla scena. Perché tutti siamo fratelli, figli di uno stesso Padre, in cammino verso di Lui, verso il cielo come Paradiso, Regno di Dio.

Davanti al cielo nel suo affascinante divenire, nella sua alternanza di luce e buio, l’uomo si interroga sulla Verità, e anche quando rimane chiuso in una sorta di scetticismo, la speranza non sembra del tutto abolita, come sottolinea il cantautore Grignani in conclusione della sua Solo cielo: «Perché credo che sia solo cielo / quello che vedo lassù / Nessun Dio, niente mistero / solo cielo e niente più / Eppure, oltre al tempo / qualcos’altro ci sarà / Non voglio immaginare / tutto qua». L’uomo, in effetti, porta dentro di sé un’ancestrale e insopprimibile «nostalgia delle stelle», secondo la definizione dello scrittore greco Nikos Kazantzakis. E il cielo stellato è paradigma per eccellenza della nostalgia di Dio anche nella Scrittura, come ben sottolinea il Salmo 8,4-5: «Quando vedo i tuoi cieli, / opera delle tue dita, / la luna e le stelle che tu hai fissato, / che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, / il figlio dell’uomo, perché te ne curi?». Così anche le tele dei grandi pittori si riempiono di cieli stellati, come in Van Gogh, che nel periodo (uno dei più difficili della sua vita) in cui dipinge varie versioni della Notte stellata, scrive al fratello: «Quando sono colto dal mio “terribile bisogno di religione”, vado fuori di notte a dipingere le stelle […] e sogno sempre un quadro così, come un gruppo di amici vivi». D’altronde nel Cielo brillano le costellazioni dei santi, con in testa Maria, la stella del mare che guida la Chiesa – e ogni credente – verso Dio. Proprio come la si vede in mosaico della basilica di Notre Dame de La Garde (Marsiglia): astro luminoso sul mare in tempesta, a orientare la Chiesa – quale barca di Pietro – in cammino verso suo Figlio Gesù.

In questo viaggio nostalgico verso Dio non siamo dunque soli: ci accompagnano Gesù, Colui che discese dal Cielo e al Cielo fece ritorno promettendo di rimanere sempre con noi, e sua Madre Maria, la Vergine alla quale, con le parole di un’antica preghiera, ci rivolgiamo con fiducia, dicendole: Ave, stella del mare, / madre gloriosa di Dio, / vergine sempre, Maria, / porta felice del cielo. / […] Veglia sul nostro cammino, / fa’ che vediamo il tuo Figlio, / pieni di gioia nel cielo».

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Educare alla politica – Il Filo di Arianna

Da NPG di novembre/dicembre 2022

di Raffaele Mantegazza

Come parlare

Cum-flangere significa sbattere due pietre l’una contro l’altra; provocare un rumore, ma anche un ritmo, un po’ come il ritmo della vita: sistole-diastole, inspirazione-espirazione. Gli esperti di lingua ci dicono che all’origine della parola “conflitto” c’è questa espressione, il che è estremamente interessante perché dimostra come il conflitto sia qualcosa di totalmente differente dalla guerra.
Nella guerra una pietra vuole sgretolare l’altra, nel conflitto vogliono mantenersi entrambe integre, magari un po’ scheggiate, perché altrimenti il ritmo della vita scomparirebbe sostituito solo dal silenzio. La sovrapposizione semantica e anche filosofica tra guerra e conflitto è stata deleteria nell’educazione dei ragazzi e dei bambini. E come se si dicesse che non esiste altro modo di risolvere il conflitto che la guerra, il che è falso in un duplice senso: anzitutto perché ci sono molti altri modi di affrontare i conflitti, e soprattutto perché la guerra non risolve proprio nulla, ma annienta una delle parti in causa, o almeno sceglie farlo, il che è vero soprattutto nelle nuove guerre, dal XX secolo in poi. Il pensiero nonviolento ha insistito per anni sull’importanza del riconoscimento e della gestione del conflitto, sia a livello individuale che a livello politico e internazionale.
Rimanere nel conflitto significa riconoscere le ragioni delle parti in causa, ma anche i torti di ciascuno; non vuol dire banalmente incontrarsi a metà strada, ma costruire insieme la soluzione per rendere creativo il conflitto. L’esempio dell’Assemblea Costituente è fin troppo noto: differenti mondi ideologici e diversi universi di pensiero che avevano combattuto contro il fascismo si sono ritrovati non a tentare di distruggersi a vicenda. ma a lavorare quotidianamente per fare dei conflitti, a volte culturalmente e filosoficamente irriducibili, il motore e il cuore della nuova identità della democrazia italiana.
Spesso quando due bambini entrano in conflitto per un oggetto si cerca di risolvere la situazione raddoppiando l’oggetto stesso: se entrambi vogliono giocare con l’orsacchiotto, si cerca un altro orsacchiotto… uno per uno! Il problema è che le risorse non sono infinite, sia a livello micro che a livello macro, e che questo modo di intervenire inibisce la fertilità del conflitto, spegnendolo e depotenziandolo. Semmai occorrerebbe chiedersi e chiedere ai bambini come possiamo fare a giocare insieme (o anche separatamente) con quell’unico giocattolo?
Il senso del limite delle risorse dovrebbe costituire la cornice dei conflitti; e per questo motivo la guerra, soprattutto nell’era atomica (nella quale ci siamo dimenticati di vivere finché una guerra non ce l’ha brutalmente ricordato) è un vero tabù perché spazza via, con tutto il pianeta, la condizione necessaria per ogni conflitto, come se un giocatore di scacchi incendiasse la scacchiera nell’illusione di poter vincere in questo modo folle.
Dunque il conflitto è un elemento per ora costitutivo dell’avventura umana sulla Terra: diciamo “per ora”, perché sarebbe molto interessante aprire un dibattito sulla possibilità di una convivenza del tutto pacificata, perché forse il conflitto è solo una delle modalità storiche di rapporto tra esseri umani, ed è legato a una società intrinsecamente conflittuale che forse è a sua volta superabile. Forse allora anche il conflitto non è un destino ma una scelta, e come tute le scelte è reversibile.

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Quattro semplici verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare

Dal numero di novembre di NPG

di don Rossano Sala

Il secondo “snodo cruciale”

Durante la discussione sinodale della XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi dal tema I giovani, la fede e il discernimento vocazionale (3-28 ottobre 2018) sono stati individuati “tre snodi cruciali” che indicano l’originalità del nostro tempo. Quasi tre cerchi concentrici che caratterizzano il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo.
Il primo snodo, quello più ampio e che tocca tutti e tutto è la digitalizzazione del mondo: tutti noi siamo stati inondati da questa rivoluzione che sta modificando ciò che siamo: il nostro cervello e le nostre posture relazionali, il nostro modo di apprendere e di lavorare, e così di seguito[1].
Il secondo snodo, che qui ci interessa più da vicino, è quello dei migranti. Tali persone vengono identificate come “paradigma del nostro tempo”, ovvero come figure particolarmente eloquenti per comprendere il mondo in cui viviamo con tutte le sue contraddizioni[2].
Il terzo snodo è rappresentato dalla triste realtà degli abusi. Un velo si è scoperto sulla vita della Chiesa e le tante ferite inferte a molti giovani sono venute alla luce. Siamo chiamati a fare verità e a chiedere umilmente perdono, ad andare alla radice del problema e ad affrontarlo con coraggio e responsabilità[3].

Di che cosa si tratta?

Quando parliamo di migranti e migrazioni, parliamo innanzitutto di un fenomeno mondiale e pluriforme. Mondiale perché è una realtà strutturale che riguarda tutti i continenti e non certo un fenomeno passeggero, ma di un qualcosa che riguarderà sempre di più il futuro dell’umanità. Pluriforme perché ci sono situazioni e motivazioni molto diverse che fa mettere in moto le persone: si può migrare all’interno di uno stesso paese, si può andare via per motivi climatici, oppure per mancanza di giustizia e pace, oppure ancora per persecuzione razziale o religiosa. Sempre, comunque, coloro che si mettono in viaggio sono desiderosi di una vita migliore. In Europa molti migranti arrivano ricchi di sogni e anche di illusioni.

Partono attirati dalla cultura occidentale, nutrendo talvolta aspettative irrealistiche che li espongono a pesanti delusioni. Trafficanti senza scrupolo, spesso legati ai cartelli della droga e delle armi, sfruttano la debolezza dei migranti, che lungo il loro percorso troppo spesso incontrano la violenza, la tratta, l’abuso psicologico e anche fisico, e sofferenze indicibili. Va segnalata la particolare vulnerabilità dei migranti minori non accompagnati, e la situazione di coloro che sono costretti a passare molti anni nei campi profughi o che rimangono bloccati a lungo nei Paesi di transito, senza poter proseguire il corso di studi né esprimere i propri talenti[4].

In questa situazione arrivano a casa nostra, bussano alle porte delle nostre comunità cristiane, cercano da noi sguardi di misericordia e gesti di accoglienza. Prima che un problema da affrontare sono prima di tutto persone in cerca di casa e di famiglia.

Minaccia o opportunità?

La presenza di migranti, nell’immaginario sociale, sembra essere in primo luogo uno spazio di allarme e di paura, «spesso fomentate e sfruttate a fini politici»[5]. Se però osserviamo con attenzione alla realtà dell’incontro, ci accorgiamo che quelle dei migranti sono anche storie di incontro tra persone e tra culture: per le comunità e le società in cui arrivano sono una opportunità di arricchimento e di sviluppo umano integrale di tutti. Le iniziative di accoglienza che fanno riferimento alla Chiesa hanno un ruolo importante da questo punto di vista, e possono rivitalizzare le comunità capaci di realizzarle[6].

In tale direzione la presenza di persone, soprattutto di minori, costretti a fuggire dalla loro terra di origine, diventa un’opportunità per far rifiorire le comunità di accoglienza. In primis le comunità cristiane, che dovrebbero avere nell’ospitalità uno dei loro tratti distintivi: attraverso un vero incontro con questi giovani sono costrette a svegliarsi, a mettersi in discussione, a recuperare la propria missione, a ripensare alla loro condizione originaria di «stranieri e pellegrini sulla terra»[7].
In questo senso i migranti sono un paradigma con cui è bene confrontarci: lo sono sia dell’umanità del nostro tempo, sia della vita di fede. Forse ci fanno paura perché ci mettono di fronte alla nostra vocazione di “uomini viatori”: come credenti sappiamo di essere un’umanità creata da Dio senza una residenza fissa in questo mondo. Siamo, o almeno dovremmo essere, persone che «aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste»[8].

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Sandra Sabattini, una fidanzata tra i Santi

Da NPG.

***

di Luca Luccitelli

(NPG 2022-06-85)

Quando si parla di santità si pensa spesso a grandi Santi, i vip della Chiesa, quelli che hanno fatto la storia della cristianità. Addirittura talvolta potrebbe sembrare che la canonizzazione di una persona sia una sorta di premio alla carriera. Invece la Chiesa, nella sua sapienza, ci sorprende ancora una volta. Non un personaggio famoso, ma un’altra ragazza, sconosciuta, viene innalzata agli onori degli altari. Dopo Rolando Rivi, Chiara Badano, Carlo Acutis, domenica 24 ottobre a Rimini è stata beatificata Sandra Sabattini, una giovane morta ad appena 22 anni. Figlia spirituale di don Oreste Benzi, il fondatore in Rimini della Comunità Papa Giovanni XXIII, Sandra detiene un primato tra i Santi. Se Rolando Rivi è il Beato più giovane, martire ad appena 14 anni, Chiara Luce Badano è la prima beata che proviene da uno dei movimenti ecclesiali fioriti dopo il Vaticano II, Carlo Acutis è il primo beato millennials, Sandra Sabattini è la prima santa fidanzata nella storia della Chiesa.

Una Beata giovane

Una bella ragazza, solare, gioiosa, simpatica. Una giovane di Rimini, famosa per le spiagge e il divertimento, con una grande sete di giustizia che la spingeva a dare una mano agli altri, agli ultimi, ai più fragili. Nata nel 1961, da adolescente iniziò a frequentare gli incontri della Comunità Papa Giovanni XXIII, l’associazione fondata da don Oreste Benzi. Al suo interno coronò la propria vocazione di servizio al prossimo. I dubbi tipici dell’adolescenza emergono chiaramente dalla pagine del suo diario. Dopo la maturità scientifica – passata con 59/60 – si chiede: “Partire subito per l’Africa o iscriversi a Medicina?” Dopo un discernimento con il suo direttore spirituale si iscrive nel 1980 alla Facoltà di Medicina all’Università di Bologna. Si divide tra studio, famiglia, lavoro e condivisione con i poveri. Nonostante la grande mole di lavoro non trascura mai gli studi: ad ogni esame riporta ottimi voti.

La sete di giustizia

Nell’estate del 1982 inizia il volontariato in una comunità terapeutica per tossicodipendenti. All’inizio degli anni ’80 il problema droga emergeva ovunque nella sua drammaticità. L’associazione di don Benzi aveva da poco aperto comunità che potessero rispondere ai bisogni di tanti giovani. Sandra diede subito la propria disponibilità a dedicarsi a questo servizio, mostrando generosità e, nel contempo, maturità non comuni a contatto con i tossicodipendenti, al punto che nel periodo delle vacanze estive si trasferiva in comunità per svolgere il servizio a tempo pieno. Il suo senso per la giustizia emerge anche dal suo diario. “Se veramente amo, come sopportare che un terzo dell’umanità muoia di fame? Mentre io conservo la mia sicurezza o la mia stabilità economica? Sarei una buona cristiana ma non una santa. Oggi c’è inflazione di buoni cristiani mentre il mondo ha bisogno di santi!”.

In contemplazione

Sviluppò una sorta di istinto divino che la guidava nella preghiera assidua e prolungata, per la quale sacrificava le ore di riposo, come attestano varie testimonianze. Era certa che Dio si potesse incontrare. Scrive ancora: “Non sono io che cerco Dio ma è Dio che cerca me. Non c’è bisogno che io cerchi chissà quali argomentazioni per avvicinarmi a Dio: le parole prima o poi finiscono e ti accorgi allora che non rimane che la contemplazione, l’adorazione, l’aspettare che Lui ti faccia capire ciò che vuole da te. Sento la contemplazione necessaria al mio incontro con Cristo povero”. Parole che potremmo trovare scritte da teologi della vita consacrata o da anziani religiosi di clausura, non da una ragazza di Rimini … del XXI secolo! In Sandra non c’era alcuna contrapposizione tra il desiderio di abbandonarsi a Dio nella contemplazione e l’impegno assiduo per gli altri. Lo spiega in una pagina: “La carità è la sintesi della contemplazione e dell’azione, il punto di sutura tra il cielo e la terra, tra l’uomo e Dio”.

Il fidanzamento

Un’armonia che riusciva a vivere anche nel fidanzamento. Guido, il suo fidanzato, ricorda che la prima volta che Sandra lo invitò a trascorrere un pomeriggio fu per portare al mare due bimbi autistici accolti in una casa famiglia. Non andare al cinema o a fare shopping. Il fidanzamento non è vissuto come una sistemazione, un fine, una chiusura, ma come un orizzonte più ampio per aprirsi allo spazio d’amore infinito di Dio. “Fidanzamento: qualcosa di integrante con la vocazione: ciò che vivo di disponibilità e d’amore nei confronti degli altri è ciò che vivo anche per Guido, sono due cose compenetrate, allo stesso livello, anche se con qualche diversità”.

La premonizione della morte

La mattina del 29 aprile 1984, mentre si reca ad un incontro della Comunità Papa Giovanni a Igea Marina, Sandra viene investita da un’auto. Rimane in coma per tre giorni e il 2 maggio lascia questa terra. Quattro giorni prima dell’incidente Sandra aveva raccontato alla madre di aver visto in sogno il suo funerale e la sua tomba piena di fiori. Nell’ultima pagina del suo diario, due giorni prima dell’incidente, Sandra lasciò il suo testamento spirituale: “Non è mia questa vita che sta evolvendosi ritmata da un regolare respiro che non è mio, allietata da una serena giornata che non è mia. Non c’è nulla a questo mondo che sia tuo. Sandra, renditene conto! È tutto un dono su cui il «Donatore» può intervenire quando e come vuole. Abbi cura del regalo fattoti, rendilo più bello e pieno per quando sarà l’ora”.

Il diario e la beatificazione

Poco dopo la sua morte, don Oreste Benzi ebbe l’occasione di leggere ciò che Sandra aveva lasciato scritto in foglietti sparsi, brevi appunti da cui trapelava un profondo cammino spirituale. Questi pensieri furono ordinati e raccolti nel libro “Il diario di Sandra”.
Nel settembre 2006 fu aperta la causa di canonizzazione. Nel 2018 Sandra venne dichiarata “venerabile” e il 2 ottobre 2019 Papa Francesco autorizzò la promulgazione del Decreto che riconosceva «il miracolo, attribuito all’intercessione di Sandra Sabattini» relativo alla guarigione da un tumore maligno di Stefano Vitali, ritenuta «scientificamente inspiegabile».

Tutte le informazioni sulla vita e sulla cerimonia della beatificazione sono disponibili su www.sandrasabattini.org.

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Note di Pastorale Giovanile, gli articoli di Dalmazio Maggi

La presenza di don Dalmazio Maggi nella comunità del CSPG è stata soprattutto per l’animazione di parrocchie e oratori e come “delegato CNOS” per l’associazione PGS, cioè lo sport educativo che per tanti anni ha coordinato l’animazione e la pratica sportiva negli ambienti salesiani, garantendone la dimensione educativa e culturale e l’ispirazione carismatica. Poi la storia dell’associazione ha seguito il suo corso al di fuori dei riferimenti istituzionali di congregazione, ma continua ad offrire un modello di sport appunto educativo e con grande attenzione alle periferie e ai giovani più disagiati, nello stile tipicamente salesiano, di don Bosco.

A questo è servita in effetti la presenza di salesiani e suore salesiane che hanno vissuto questo ruolo (e le suore ancora oggi). Dopo il mitico “don Gino” (Borgogno), don Dalmazio Maggi ha proseguito questo impegno con il suo dinamismo tipicamente salesiano.
Anche se abbiamo dato lungo spazio al ricordo della PGS, occorre tuttavia ricordare che l’azione di pensiero e coordinamento principale e per cui anche oggi è ricordato, don Maggi l’ha svolto per il settore di PG delle parrocchie e oratori, come ricordato sopra, con una serie di convegni che sono rimasti “fondativi” in Italia (e che cercheremo di mettere on line sotto la rubrica con questo nome nella parte SDB del sito).

Un altro grande ambito di riflessione all’interno della comunità e della rivista è stato sia lo sport (anche con libri Elledici), che i diversi destinatari dell’azione educativa, in tutte le fasce dell’età: preadolescenti, adolescenti e giovani, circa tematiche come il gruppo, gli itinerari di educazione alla fede, e vari sussidi di gruppo e approfondimenti annuali delle proposte pastorali offerte ai nostri ambienti educativi: buona penna, utili riflessioni, decisamente.

Rientrato nell’azione educativa usuale dei nostri collegi e parrocchie, apprendendo i nuovi linguaggi e app offerte dalla tecnologia, continua il contatto con i tanti giovani incontrati con frequenti e-mail che richiamano temi ed eventi ecclesiali, invitando alla riflessione e a una scelta di vita cristiana, dunque coraggiosa e gioiosa.

Don Mail” (come viene bonariamente chiamato anche dai suoi confratelli) vive ancora in un cortile di oratorio, come ha sempre “predicato” (e fatto), anche se ora “digitale”.

Trovate gli articoli di don Maggi nella pagina dedicata sul sito di Note di Pastorale Giovanile:

Gli articoli di Dalmazio Maggi

Sentirsi Caino. Verso percorsi di riconciliazione

Da Note di Pastorale Giovanile.

di Carlo Roberto Maria Redaelli, Arcivescovo di Gorizia

Ci troviamo qui stasera in luogo pieno di storia. Anche con intrecci curiosi. Alle mie spalle, lì sulla collina, dove si vede il convento francescano di Castagnevizza – siamo già al di là del confine… – si trova sepolto l’ultimo re di Francia, Carlo X, in esilio dopo la rivoluzione del 1830.
Queste montagne e queste valli sono state il luogo di sanguinose battaglie della prima guerra mondiale: qui passava il fronte tra l’Italia e l’impero austroungarico di cui Gorizia era allora parte. Una guerra assurda e sanguinosa. Non lontano da qui, sul Carso, il sacrario di Redipuglia – “cimitero” l’ha chiamato giustamente papa Francesco quando lo ha visitato nel settembre del 2014 (e spesso ricorda quel suo pellegrinaggio che lo ha portato a piangere) – sono sepolti oltre 100.000 morti, quasi 15.000 nel vicino cimitero austro-ungarico. Lì davanti si intravvede sulla collina, in una frazione di Gorizia, il sacrario di Oslavia con più di 57.000 giovani soldati uccisi dalla guerra. Di fronte a me il Monte Sabotino e a fianco il Monte santo e il San Gabriele, teatro di sconti violentissimi. Il San Gabriele, poco più di una collina, il punto più avanzato dove riuscì ad arrivare l’esercito italiano nel 1917, in 9 giorni è stato preso e conquistato 5 volte dagli italiani, impiegando 700 cannoni, 45.000 proiettili e costando 17.000 morti.
Per non citare la seconda guerra mondiale, con l’ultima battaglia nella foresta di Tarnova tra i soldati italiani e i partigiani titini e le foibe e tutto il resto. E questa divisione assurda in due di una città.
Fino a un paio di settimane fa qui c’era ancora la recinzione alta un paio di metri che spaccava in due questa piazza attribuendo alla Jugoslavia (ora alla Slovenia) una delle stazioni più belle di Gorizia: la stazione Transalpina, da cui i treni partivano per andare verso nord.
Ma il confine aveva diviso piazze, strade, terreni, case, con episodi curiosi e tragici: un cimitero diviso in due qui vicino a Merna/Miren; le case scambiate tra due famiglie amiche (me lo ha raccontato qualche anno fa una signora allora bambina), una che aveva deciso di passare nella parte italiana e l’altra di andare in quella jugolasva.
Ma anche con momenti di grande forza morale e di testimonianza evangelica, come quando a un giovane seminarista sloveno scappato dalla parte italiana, al quale i titini avevano ucciso papà e fratelli, la mamma, restata al di là del confine, aveva urlato il giorno dell’ordinazione che poteva diventare prete solo se perdonava.
Tanto dolore, provocato dalla guerra e dalle uccisioni, che dura a lungo nel tempo. Ricordo, arrivato a Gorizia da un paio d’anni, di essere stato invitato a bere un caffè a un bar da una famiglia da poco conosciuta. Mentre ero seduto al tavolino, la bambina, di sei o sette anni, mi tira per la giacca e mi dice: “Vescovo, lo sai che gli sloveni sono cattivi?”. Io rispondo che non era vero, che tutti sono bravi. E lei mi controbatte, lasciandomi senza parole: “Sì, perché hanno ucciso mio nonno”.
Quante memorie, emozioni, ricordi sono concentrati qui. Ma c’è anche tanta voglia di riconciliazione, di perdono, di pace e di fraternità. Cito solo l’associazione, “Concordia et pax” che da decenni cerca e propone segni di riconciliazione. Il presidente, un italiano, ha avuto il papà gettato in una foiba…
Come si fa a realizzare qui e altrove percorsi di riconciliazione? Anzitutto sentendosi tutti Caino. Qualche volta mi è capitato di ascoltare discussioni su chi, da una parte o dall’altra, ha avuto più morti uccisi dalla parte avversa. Ma se uno è stato di meno Caino, non per questo è diventato Abele!
E poi lavorare sempre per la pace: sempre! Perché chi lavora per la guerra, lo fa sempre: non ha ferie, non ha interruzioni. È come nella vita spirituale, se si sta fermi, in realtà si va indietro.
Lavorare con realismo e concretezza: ci sono sentimenti da controllare, gesti di riconciliazione da fare, capacità di mediazione da sviluppare, complessità da riconoscere, umiltà da vivere.
Tra l’altro la pace non può essere un valore assoluto e isolato dagli altri: se non c’è giustizia, libertà, riconciliazione, accoglienza, ecc. non può esserci pace. Ce lo ricordano da decenni ogni primo dell’anno i messaggi dei papi per la giornata mondiale della pace.
A voi che siete responsabili della pastorale giovanile nelle nostre diocesi, ricordo che il lavoro educativo per la pace si deve fare sempre e non solo quando siamo tutti coinvolti dall’emozione di una guerra vicina.
Senza mai dimenticare che è la Parola di Dio ciò che dà speranza. Che dice che solo Cristo è capace di abbattere il muro, anzitutto dentro il cuore. Da noi si dice che qualcuno, anche se il confine fisico è sparito da 30 anni, ha ancora il confine in testa…
E la Parola ci svela il mistero della croce. Proprio pensando ai tanti morti il cui sangue ha bagnato come fiumi questa magnifica terra, non mi è difficile capire il perché della croce: il massimo della nostra cattiveria. Abbiamo ucciso lo stesso Figlio di Dio. Ma la croce è anche il massimo dell’amore. Quello di Dio, che è il fondamento di ogni perdono, di ogni pace, di ogni riconciliazione, di ogni fratellanza.
Per questo vi chiedo di recitare qui con me il Padre nostro. Lo farò con voi in sloveno:

Oče naš ki si v nebesih,
posvečeno bodi tvoje ime,
pridi k nam tvoje kraljestvo,
zgodi se tvoja volja
kakor v nebesih tako na zemlji.
Daj nam danes naš vsakdanji kruh
in odpusti nam naše dolge,
kakor tudi mi odpuščamo svojim dolžnikom,
in ne vpelji nas v skušnjavo,
temveč reši nas hudega.
Amen.

Grammatica e cantieri di sinodalità nella PG: fraternità

Da NPG

Contestabile e amata

di Sophie Perret

“Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo!
Quanto mi hai fatto soffrire, eppure quanto a te devo!”
Con queste parole di Carlo Carretto vorrei iniziare a raccontare il mio piccolo sogno, il “cantiere di fraternità” che sta coinvolgendo, a piccoli passi, la mia vita. Mi chiamo Sophie e ho 28 anni. Da molto tempo ho il desiderio di mettermi a servizio della Chiesa e in particolare della comunità di cui faccio parte. Ho iniziato 14 anni fa con il servizio educativo in Azione Cattolica e con l’animazione dei più piccoli e dei giovani in parrocchia, poi con l’impegno in cantoria. Tuttavia ho sempre la sensazione di poter fare qualcosa di più, di volermi mettere in gioco un po’ di più.
L’idea di cui voglio raccontare è nata nel 2019, dopo il pellegrinaggio diocesano alla comunità di Nuovi Orizzonti a Como. Abbiamo incontrato giovani laici che per scelta vivono insieme, pregano insieme e si dedicano al servizio degli altri, mantenendo il proprio lavoro e la propria vita “ordinaria”. Questa esperienza mi ha colpita molto e ne ho parlato a lungo con una mia amica che, come me, ha vissuto in modo intenso questo pellegrinaggio. Così abbiamo iniziato a ragionarci e ci siamo dette che sarebbe bello provare a vivere qualcosa di simile.
Abbiamo iniziato a guardarci intorno e ad informarci, anche andando a conoscere realtà diverse. Siamo andate a visitare la Comunità Cenacolo e ci siamo confrontate con persone che fanno esperienze simili. Ad un certo punto abbiamo capito che dovevamo partire da qualcosa di più piccolo, semplice, vicino.
Da pochi anni il mio parroco aveva ricevuto l’incarico di occuparsi anche della parrocchia limitrofa, poiché il parroco precedente era venuto a mancare. La casa parrocchiale era rimasta vuota, disabitata. Perché non provare a chiedere? Certo, sarebbe strano se delle ragazze abitassero in casa parrocchiale, chissà cosa direbbero le persone, chissà come reagirebbero i nostri genitori. Nonostante questi pensieri ho voluto parlarne con il parroco e, con mio grande stupore, la reazione è stata di entusiasmo ed accoglienza. Ne abbiamo parlato a lungo e poi, passo dopo passo, lo abbiamo detto alle comunità parrocchiali incontrando i consigli pastorali:
“Per iniziare, l’obiettivo non è quello di fare cose straordinarie ma semplicemente di tenere “viva” la casa. I gruppi delle medie e delle superiori, che fino ad ora si incontravano solo nella parrocchia vicina, potrebbero iniziare ad incontrarsi anche qui e, se sarà possibile, cercheremo di proporre qualche giornata di gioco anche per i bambini, durante l’anno o in estate. Vorremmo semplicemente vivere insieme il nostro essere laiche, cristiane, al servizio della Chiesa. Ovviamente, oltre al servizio pastorale, siamo disposte a contribuire a livello economico con una quota mensile e pagando le spese legate all’appartamento. Non ci stiamo rivolgendo alla Parrocchia per averne un vantaggio in questo senso ma perché vorremmo davvero viverlo come un servizio alla comunità”.
Davvero niente di straordinario, semplicemente abitare un luogo che, per sua natura, ha un valore un po’ più profondo di un qualunque appartamento. Vivere insieme, pregare insieme, andare a lavorare, mantenere gli impegni personali, ma abitare un luogo un po’ particolare.
La mia amica mi ha accompagnata fino a qui, fino a quando il nostro sogno ha iniziato a prendere forma, poi ha fatto un piccolo passo indietro e mi ha detto che per lei non è ancora il momento di andare via dalla propria casa. Quindi a novembre 2021 sono entrata nel nuovo alloggio da sola, ma se non fossi stata con lei a “progettare” questa avventura non so se sarei arrivata fin qui.
Per ora è così, ho iniziato ad ambientarmi e a conoscere le persone che abitano accanto a me, ad incontrare alcuni ragazzi e a proporre degli incontri, ma sono sicura che questo “cantiere” sia ancora aperto. Sono convinta che il Signore abbia in mente ancora qualcosa per questa casa. Tutto è nato da un desiderio di comunità, di fraternità, e questo mi allarga il cuore. Vorrei che questi spazi diventassero luogo di incontro, di condivisione, di quotidianità spezzata con altri. Forse non nel modo che credevo, forse per altre strade.
Non so come andrà avanti il “cantiere”, non so se qualcuno verrà a vivere qui o se il Signore si inventerà nuove idee per dare vita a questo luogo, ma so per certo che sono felice di far parte di questa Chiesa e di dedicarmi ad essa. Per quanto sia complicata, contestabile e dolorante, la Chiesa ha ancora molto da dire e da dare alle persone. Anche io, come Carlo Carretto, le devo molto e voglio provare a mettermi a disposizione.

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Il filo di Arianna della politica – Il potere

di Raffaele Mantegazza

Come parlare

Il potere ce l’hanno sempre gli altri. Il dittatore, il presidente, il capufficio, il preside: sembra quasi che il potere sia un oggetto che qualcuno detiene e che qualcun altro può sottrargli. Non stiamo dicendo che questa rappresentazione del potere sia sbagliata, ma è molto semplicistica. Il potere probabilmente è un sistema di relazioni, un modo di rapportarsi con le altre persone; c’è ovviamente chi usufruisce di maggior potere e chi lo subisce, ma pensare il potere in dimensione relazionale vuol dire provare a capire come ridistribuirlo e come affrontare le iniquità e gli squilibri.
In fin dei conti il principio di divisione dei poteri, già per il fatto di parlare al plurale, ci mostra una possibile strada. Il potere è una questione di equilibrio e di squilibrio, di relazioni che vanno controllate, monitorate e se necessario modificate.
Chi ha il potere dunque in una classe scolastica? Da un certo punto di vista sicuramente l’insegnante, ma anche il leader positivo o negativo, il ragazzo o la ragazza più grandi, il gruppetto che determina l’umore e la possibile collaborazione dei ragazzi alla lezione. Impostare il potere come strategia di relazioni aiuta i ragazzi e le ragazze a capire che stiamo parlando di un oggetto molto complesso, che non si riduce all’utilizzo della violenza fisica.
C’è inoltre un potere evidente, che si manifesta in modo esplicito, che si presenta in tutta la sua fisicità e la sua forza, anche con la violenza; e c’è accanto ad esso un potere più suadente, più sottile, evidente nella pubblicità o in una certa propaganda elettorale. C’è un potere che ti fa star male, che ti ferisce, che ti punisce, ma c’è anche un potere che ti fa stare bene, un poter-fare le cose, un poter alleviare le sofferenze. Ogni visione solamente negativa del potere ci sottrae la possibilità di comprenderlo in tutte le sue articolazioni, e ci nega l’opzione di stare all’interno del potere con l’intenzione di promozione e di miglioramento della dignità umana su questo pianeta.
Dunque proporre il problema del potere ai ragazzi e alle ragazze significa aiutarli a capire come il potere circola tra di loro; non solo il potere dei genitori e degli insegnanti, ma tutte le relazioni nelle quali qualcuno tra loro, nei loro gruppi, nelle loro aggregazioni, sente di esercitare o di subire un potere. E tutti gli spostamenti, i cambiamenti, le ridefinizioni che questo sistema subisce e agisce con il passare del tempo. Abituare a vivere il potere nella quotidianità è fondamentale per poi capire quanto la ritualizzazione del potere tipica dei meccanismi democratici ammorbidisca da un certo punto di vista la sua pervasività e lo renda padroneggiabile o perlomeno controllabile.
Esiste poi un potere che cancella, che punisce, che ferisce, il tipico potere della censura, ma anche un potere che costruisce, che fa essere le cose; e c’è poi anche un potere che lascia essere, che si fa da parte, che lascia il campo agli altri. Quando si parla di educazione alla politica, il tema del potere deve essere trattato in ogni suo aspetto, altrimenti si conduce a una a semplificazione che porta a pensare semplicemente che si possa prendere il potere e cambiare le cose; il che ovviamente è anche vero; ma se non si modificano le dinamiche di relazione tra le persone, la semplice presa del potere di per sé non può assolutamente bastare.

Come pensare

→ Opera analizzata: Nella mia ora di libertà di Fabrizio de Andrè

In questa canzone l’autore immagina che un prigioniero voglia eliminare tutto ciò che potrebbe fargli dimenticare di trovarsi in carcere, e in particolare per questo motivo rinuncia all’ora di libertà. È come se volesse incarcerare psicologicamente i suoi stessi secondini mantenendo le distanze da essi e relegandoli al ruolo di guardie.
Si possono porre a questo proposito alcune domande:
– È giusto questo atteggiamento che cerca un allontanamento totale dalla guardia senza nessuna possibilità di incontrarsi umanamente?
– quale potrebbe essere invece un gesto fatto dal prigioniero o dalla guardia per trovare un incontro al di là dei ruoli?
– quali sono le altre situazioni nelle quali rischiamo di essere imprigionati nei ruoli di potere e non riuscire ad uscirne vedendo l’umanità nell’altro?

→ Opera analizzata: La ronda dei prigionieri di Vincent van Gogh

In questo quadro i prigionieri girano a vuoto continuamente.
Anche qui si possono porre alcune domande:
– dove si trova il potere in questo quadro?
– qual è il sentimento che possano provare i prigionieri sapendo che stanno camminando senza fare nulla e senza produrre nulla?
– se dovessimo aggiungere al quadro la figura del secondino, lo faremmo visibile oppure nascosto mentre osserva i prigionieri?
– quale gesto di ribellione possono fare i prigionieri per riuscire a contrapporsi al potere che stanno subendo?

Cosa fare

L’educatore Vladimir Makarenko racconta che nella sua comunità, quando si trattava di punire un ragazzo che aveva trasgredito alle regole, chiedeva sempre ai suoi coetanei quale sarebbe stata la punizione migliore; e doveva sempre intervenire per rendere meno severa l’applicazione delle regole, perché la punizione scelta dei ragazzi era sempre eccessiva. Si potrebbe ragionare in modo molto aperto con i ragazzi sul tema del rapporto tra trasgressione e punizione, su quanto il potere sia qualche cosa che punisce ma anche qualcosa che permette di fare e di produrre.
Ad esempio si può proporre un gioco consistente nel fatto di immaginare che in un gruppo di ragazzi a turno per un’ora ognuno possa far fare agli altri tutto ciò che vuole, e in una seconda situazione in cui sempre a turno ognuno possa offrire agli altri una parte del suo talento: quali sarebbero le differenze tra le due situazioni? A questo proposito sarebbe anche interessante proporre l’ascolto del monologo La collana di Giorgio Gaber.

Come provare

Quando si lavora con un gruppo di adolescenti, è molto importante provare a capire come gestiscono il loro potere e i loro rapporti reciproci. Da questo punto di vista un esercizio estremamente utile è quello di farli provare a decidere su temi per loro importanti come gli orari, la strutturazione delle attività, la scansione della verifica in una classe, ecc.
Dopo averli osservati durante la loro discussione, è interessante far emergere gli impliciti, i ruoli di potere, le negoziazioni, le modalità attraverso cui hanno preso una decisione.
Quando un gruppo di ragazzi non è mai stato investito da una responsabilità di decidere, non si può porre la questione del potere in modo astratto, così come non la si può porre nemmeno quando i ragazzi sono totalmente abbandonati a loro stessi senza avere un adulto che cerca di aiutarli a prendere le decisioni.

Cosa domandarsi

Ovviamente è estremamente importante per l’educatore porsi delle domande a proposito del proprio potere e del proprio ruolo, ad esempio:
– quanto potere gioco con questi ragazzi specifici?
– quanto mi lascio eventualmente travolgere dal mio ruolo di potere magari senza rendermene conto, e così ferisco i ragazzi e le ragazze?
– quanto sto riproducendo con questo gruppo di giovani le dinamiche di potere che ho subito alla loro età, e rispetto alle quali non sono ancora sufficientemente risolto?
– quanto sono da condividere il mio potere nel rapporto collegiale e di collaborazione con gli altri educatori?

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Le esperienze estive post-COVID: educare i giovani in una Chiesa sinodale

Da Note di Pastorale Giovanile.

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Di Claudia Simonetto e Cristiano Vanin

Progettare esperienze estive in tempo di pandemia

Per due anni consecutivi (2019-2020) le linee guida nazionali e regionali di attuazione dei Centri estivi hanno chiesto a tutti coloro che si occupano di attività estive di ripensare le loro strutture e iniziative per contenere e ridurre le occasioni di contagio.

Quello che per molti anni ha alimentato le settimane di Grest e Centri estivi, ovvero la dinamica competitiva a grandi squadre fatta di gare, tornei e attività volte a guadagnare punti per decretare alla fine dell’esperienza un vincitore, non è stato più praticabile per il ridimensionamento drastico dell’interazione tra gruppi. Anche i molteplici sussidi già esistenti, che aiutavano sacerdoti, religiosi, religiose e laici nella progettazione e realizzazione di queste esperienze estive, durante le estati COVID sono risultati anacronistici e inutilizzabili a causa di modalità assembleari nei momenti di formazione o di preghiera e per la commistione di più gruppi nelle attività e laboratori. Impraticabili anche le sfilate, i tornei, le serate con i giovani animatori o con i genitori.

Tuttavia quello che inizialmente in queste estati COVID sembrava un vincolante limite al divertimento e alla condivisione si è trasformato in occasione di rinnovamento educativo. Protagoniste di questo sviluppo sono state le diverse parrocchie, case religiose e associazioni cristiane che, possedendo un minimo di risorse necessarie (educatori, volontari e spazi), hanno messo in discussione programmazioni ormai consolidate per dare la precedenza ad attività flessibili e modulari realizzate tra gruppi di coetanei.

Nonostante ciò si sia rivelato una promettente fucina di sperimentazione che ha aperto nuove strade e dato frutti inaspettati, dalle comunità pastorali traspariva un più o meno esplicito desiderio di “tornare presto alla normalità”, intesa come il ripristino delle modalità di animazione e organizzative precedenti la pandemia.

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