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La paura di deludere e il coraggio di vivere

Da Note di Pastorale Giovanile, rubrica “Dicono di sé…dicono di noi”

di Giulia Ruscica e Luca Savatteri

Negli ultimi anni si sente parlare troppo spesso di giovani come noi che vanno incontro al suicidio.
La maggior parte delle volte nessuno, o quasi, è a conoscenza della sofferenza che portano dentro di sé e questo è un problema da attribuire alla società in cui viviamo, quella sempre pronta a giudicare. Non si sentono liberi di poter parlare di come stanno neanche con la famiglia e con gli amici più stretti, ed è per questo che si tengono tutto dentro fino a non farcela più.
E noi? Se provassimo ad aprirci agli altri, scopriremmo di non essere gli unici ad avere delle difficoltà o a sentire certe emozioni, ma poiché si tende a non parlarne, pensiamo che le altre persone stiano vivendo una condizione migliore e fingiamo di viverla anche noi, considerando “inferiore” o “inadatto” chi invece mette alla luce le proprie problematiche.
Inoltre, vengono rese pubbliche con grande enfasi le notizie di coloro che riescono ad ottenere ottimi risultati e posizioni, elogiandoli e facendo sentire al resto di noi di aver fallito.
Si ha paura di deludere i genitori, gli insegnanti, gli amici e per ultimi se stessi; si è spaventati di essere emarginati o rimanere troppo indietro, e tutto questo scatena un insieme di emozioni negative che possono portare a preferire la morte piuttosto che la vita.
Ci è capitato di leggere di alcuni universitari che hanno organizzato tutto ciò che sta attorno alla laurea, coinvolgendo parenti e amici, ma una volta arrivati a quel momento si sono tolti la vita, perché in realtà non c’era nessuna laurea ad aspettarli: dovevano ancora finire di fare gli esami di alcune materie! Si tratta di ragazzi che hanno avuto paura di affrontare la vita, i loro studi e la loro famiglia; hanno finto che andasse tutto bene senza parlarne a qualcuno, arrivando a compiere l’atto che ha posto fine alla loro sofferenza. E questo succede sia in ambito scolastico che lavorativo, perché la società chiede e pretende troppo da noi, escludendoci subito quando non si arriva a mantenere il canone richiesto.
Ci sentiamo schiacciati dalla paura di fallire sin dalla scuola superiore, nel momento in cui si deve capire cosa fare nel resto della vita. È positivo se si ha già un’idea di che lavoro svolgere e quindi se e con quali studi proseguire, ma non per tutti è così. Gli adulti credono che il tempo sia sufficiente per attuare una scelta, ma gli ambiti lavorativi sono troppi, così come le facoltà universitarie; gli orientamenti a scuola vengono svolti troppo tardi, quando già i test di ammissione sono iniziati e informarsi da soli su tutto non è facile. Ciò provoca ancora più ansia; non solo dobbiamo preoccuparci di studiare per la maturità, ma anche per i vari test o concorsi, con la paura di non superarli e perdere un anno. Non dovrebbe neanche essere considerato un problema se il test può essere ripetuto l’anno successivo, ma ancora una volta è la società ad imporre una corsa a chi è più bravo e veloce.
Dovremmo cercare di dare meno ascolto ai giudizi altrui, concentrandoci più sui nostri obiettivi e con i nostri tempi, perché non si può buttare l’importante dono della vita solo per non essere stati i più veloci a prendere un titolo di studio o a raggiungere una buona posizione nel lavoro.
Come cantava Battisti su un testo di Mogol: «I giardini di marzo si vestono di nuovi colori (…) ma il coraggio di vivere, quello ancora non c’è». E allora ci si chiede come si può trovare quel coraggio, come si può “trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha”? Forse la risposta sta proprio nel cercarla, nel porsi costantemente queste domande e nell’osservare come le risposte a queste ultime cambino giorno dopo giorno. Circa trent’anni fa l’artista Maurizio Cattelan rappresentava con l’opera “Charlie don’t surf” la mancata libertà dei ragazzi attraverso uno studente con le mani inchiodate al banco da un paio di matite. Oggi, invece, quella libertà che prima si percepiva come mancante, viene quasi sentita come ingombrante, e superflua. Oggi Charlie probabilmente è riuscito a sbarazzarsi di quelle matite che lo tenevano fermo, tuttavia ora che non ha più quel vincolo, come avrà reagito? Io lo immagino finalmente alzarsi, osservare le sue mani, ma con un briciolo di amarezza domandarsi: “E adesso?”.

* Studenti dell’I.S. Majorana-Arcoleo di Caltagirone

Sognatori con le ali di cartapesta

Dal sito di Note di Pastorale Giovanile – rubrica Dicono di sé… dicono di noi. I giovani narrano e si narrano

di Virginia Drago

Diceva il Visconte Dimezzato di Calvino: «Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane». Bisognerebbe trovare il coraggio di smentirlo e anche di dargli ragione. Spesso ci si sente incompleti e davvero lo siamo; spesso non è così e saremmo pure capaci di “toccare il cielo con il dito”, se solo ne avessimo la possibilità.
Bisognerebbe partire da un breve e non complesso ragionamento: uno dei punti di ritrovo per noi giovani, il luogo dove passiamo la maggior parte delle nostre giornate, checché se ne dica, è la scuola o l’università. Ore e ore, dietro quei banchi; ore e ore di lezione, esami, verifiche e interrogazioni; ore e ore di emozioni, gioie e delusioni, sogni e passioni condivise. Se volete osservarci, studiarci, o anche ammirarci, basterà entrare in una classe o in un’aula qualsiasi per capire che poi così incompleti non lo siamo, o se lo siamo è perché stiamo cercando una parte mancante, un tassello di quel puzzle enorme – noi stessi – costruito con fatica e determinazione.
Ci sono dei periodi in cui ci si ferma poco a riflettere e pensare, perché presi dal lavoro, dallo studio, dalle scadenze, dal tempo che sembra non bastare mai. Ci sono dei periodi, più o meno lunghi, in cui siamo chiamati a scegliere su come e cosa investire quel tempo che ci è dato. Diventando più grande, ho capito che è la scelta più complicata da fare.
Qualsiasi scelta richiede coraggio e volontà, sacrificio e passione, spesso rinunce difficili, difficilissime; ma sono scelte, e vanno fatte! Allora è da qui, dal momento in cui si inizia a scegliere: se studiare matematica o italiano, se diventar giurista o letterato, se esser fisico o chimico, se lavorare o studiare; se essere felice, arrabbiato, indifferente, se odiare o amare; persino se scegliere o no. Dietro ogni passo fatto c’è una storia intricata e complessa che meriterebbe la scrittura di un romanzo.
Sono tantissime le domande che ci facciamo, le insicurezze che ci portiamo dietro, le soddisfazioni che accumuliamo e conserviamo come punti di ripartenza quando tutto sembra andare storto. Ho spesso sentito parlare di noi giovani come: svogliati, disattenti, poveri di valori, deboli, poco pronti alla società feroce che ci circonda. Ho anche capito che in realtà “l’altro mondo”, quello dei “grandi esperti”, non vada poi meglio: basta aprire le pagine di cronaca di un giornale e tutto viene su a galla, come “tutti i nodi vengono al pettine”.
Mi piace quando qualcuno ha osato, in alcuni contesti, definire noi giovani delle “spugne”. Noi assorbiamo tutto ciò che ci si insegna, e anche ciò che ci manca, e poi diventiamo tutto ciò che ci è stato insegnato o l’opposto. Abbiamo forti spiriti critici, nonostante le critiche dei meno giovani; siamo attenti a qualsiasi movimento, come dei cecchini; cerchiamo di imparare e di sbagliare con le nostre gambe e le nostre menti. Ma abbiamo bisogno, soprattutto quando ci si dice di essere grandi e si pretendono da noi “cose da grandi”, di essere prima accompagnati, sostenuti, incentivati, motivati, anche rimproverati e corretti.
Spesso abbiamo la fortuna di incontrare chi crede in noi, come presente e futuro; altre volte chi non scommetterebbe neanche un euro sulle nostre capacità e potenzialità. E purtroppo, devo dire, che un numero maggiore di persone popolano la seconda categoria. Non bisogna perdersi d’animo, perché anche per l’unica persona che crede o crederà in noi vale la pena continuare ad essere quella rivoluzione che diciamo di voler attuare, quel cambiamento a cui guardiamo, quella speranza che conserviamo.
Siamo sognatori con le ali di cartapesta che si scontrano con la realtà: a volte cadiamo senza perdere l’equilibrio, altre volte l’impatto è così forte da impedirci di rialzarci nell’istante dopo. Abbiamo delle aspirazioni, dei progetti, degli obiettivi da portare a termine, guardiamo sempre in alto. Citando e parafrasando in parte Pirandello: “socchiudendo le palpebre dietro le lenti” pigliamo “tra i peli delle ciglia la luce d’una di quelle stelle, e tra l’occhio e la stella” stabiliamo “il legame d’un sottilissimo filo luminoso, e vi” avviamo “l’anima a passeggiare come” ragnetti “smarriti”. Lo smarrimento, quasi dantesco, tipico di chi, nonostante sia dato per fallito, crede di non esserlo e lavora per dimostrare il contrario.
E forse saremo incompleti alla ricerca della nostra completezza o siamo completi e ci sentiamo il contrario, perché desiderosi di essere migliori ogni giorno di più. Però non additateci come semplici sognatori “con la testa fra le nuvole”, perché ci nutriamo di concretezza, di vita quotidiana, come i più grandi, semplicemente con un pizzico di freschezza che la giovane età ancora ci consente di assaporare.
Dice Alessandro D’Avenia: «Forse ci si sente incompleti e si è soltanto uomini». Sarebbe bello e coraggioso ripartire da qui e riscoprirsi due facce della stessa medaglia: da una parte chi con esperienza e qualche ruga in più, dall’altra chi con la freschezza, il fuoco dentro e la forza di un gigante. Sarebbe bello e coraggioso guardare ad una vita e una società, una nuova società, basata sullo scambio, un do ut des della contemporaneità fatto di crescita, investimento e maturazione reciproca.

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Anche il gioco può favorire l’incontro con Dio

Dal sito di Note di Pastorale Giovanile.

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Intervista a d. Alessandro Zavattini

Stefano Rossini

Preti youtuber, altri che scrivono di fantasy, altri ancora che usano l’immagine, il teatro o i canali social… Don Alessandro Zavattini, 49 anni, da sempre impegnato nella pastorale giovanile, sulla narrazione educativa, biblica, il bibliodramma ha fatto la sua tesi di laurea ed è in Diocesi uno dei fautori del grande sviluppo di questo nuovo linguaggio, certamente utile alla catechesi, ma anche all’evangelizzazione degli adulti.

Alessandro, uno dei problemi che la Chiesa vive oggi è quello del linguaggio, di come riuscire a farsi ascoltare, ma soprattutto capire. Quanto questo problema tocca il tuo essere prete oggi?

Il problema del linguaggio non è solo quello di farsi ascoltare o capire, ma anche quello di come bene ascoltare e di come capire. Un autentico messaggio, infatti, è un incontro tra due mondi, due culture, il mio e il tuo. Quello che mi ha aperto gli occhi, alla scuola dei Salesiani, è che, come adulti e ancor più come Chiesa, siamo abituati ad informare e non a comunicare. La differenza sta qui: se voglio informare sono preoccupato che quello che ho in testa passi nella testa di chi mi ascolta, come convincere, persuadere l’altro. Gli devo “inoculare” il messaggio come un vaccino. Se invece voglio comunicare so che il messaggio è la sovrapposizione del mio pensiero con quanto tu percepisci di me e di ciò che “dico”. Non solo con le parole, ma con l’atteggiamento, il tono, l’espressione, il corpo… Comunicare è costruire un significato comune con te, dar vita ad un “noi”.
Ma come Chiesa Cattolica Italiana, nemmeno nei 10 anni dedicati al “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” ci siamo soffermati un attimo su cosa volesse dire veramente “comunicare”. Questo atteggiamento comunicativo mi è servito tanto, sin da subito, nella vita non solo pastorale, a voler mettermi in ascolto ed in cammino con le persone prima di parlare o agire. Ed anche ho scoperto sempre più affine allo stile di Gesù, comunicatore perfetto. Venuto non tanto per comunicare “le verità su Dio”, ma Dio stesso e la sua vita. È “l’auto-comunicazione di Dio” come fa intendere il Concilio. Il suo metodo (meth-hodos, attraverso il sentiero) è quello sulla strada di Emmaus, icona biblica scelta come sintesi del Sinodo dei Giovani: accostarsi sulla strada della fuga, chiedere e farsi raccontare, rileggere la vita alla luce della Parola, aprire gli occhi con la condivisione… Ed anche il suo stile di maestro con le parabole. Descrive il Regno di Dio parlando di semi con i contadini, di pesca coi pescatori, di talenti coi pubblicani. Mostra l’agire di Dio nel tuo mondo, nella tua cultura e poi te lo fa toccare pescando con te, mangiando alla tua tavola, passando tra i tuoi banchi di mercanzie. Per questo ho deciso, ormai da 20 anni, di tenere un piede dentro la scuola con gli adolescenti, dove passano la maggioranza del loro tempo. Qui trovo anche praticamente tutti quelli che camminano alla lontana non solo dalle nostre celebrazioni ma anche dai nostri incontri. Non tanto e non solo per insegnare, quanto per imparare da loro, che sono l’avanguardia dei cambiamenti, della cultura. Sono la parte più ambita dai modelli di consumo, dalle tendenze di mercato. Son li per ascoltarli non per “vendergli” il Vangelo, quanto per scoprire con loro cosa vuol dire la buona notizia di Dio oggi. E per comunicare che Gesù risorto è il liberatore dei linguaggi e dei talenti.
Tanti episodi me lo hanno fatto capire. Ne cito uno tra i tanti. Tornando dal pellegrinaggio in bicicletta con gli adolescenti da Savignano ad Assisi, in pulmino ascoltavamo la musica di Andrea che sparava un trap strapieno di volgarità, violenza e visioni scurrili delle donne. Gli chiesi se gli piacevano i testi e mi fece ascoltare altri testi più profondi degli stessi autori. Gli proposi di alternarci ad ascoltare una canzone del suo mondo con una del mio background rock anni ‘80. Mi fece ascoltare testi provocanti di rapper ed io gli feci apprezzare le melodie e le riflessioni dei Dire Straits. Ci arricchemmo a vicenda e tra i commenti disse di aver scoperto nuova musica. Diceva don Bosco: “interessati di ciò che piace ai giovani e loro si interesseranno di te”. Sapeva comunicare, come Gesù ad Emmaus.

Come ti sei interrogato? Quali strade innovative hai provato a percorrere?

Tenendo i piedi nel mondo degli adolescenti e del Vangelo, mi sono sorte tante domande proprio sullo stile di evangelizzazione. Anzitutto il mio interesse è sempre stato da una parte la relazione con Colui che mi ha salvato la vita, Gesù, la Sua Parola e il Suo Corpo, vivi. Dall’altra le nuove generazioni che perdiamo sempre più dalle fila delle nostre comunità. Sono entrambe una questione di sopravvivenza: senza il Risorto perdiamo la fonte di vita, senza i giovani ci estinguiamo. Nostro compito è farli incontrare. Questo ci rende fecondi e felici come Chiesa. Oggi i ragazzi (ma anche gli adulti e di conseguenza i bambini) non percepiscono affascinante ciò che per noi è più essenziale e “buono”: la Bibbia, la Messa, la fede, la Chiesa.. Dio stesso. Anzi tanti li descrivono sempre più repellenti. Faccio un gioco nelle classi e coi gruppi parrocchiali. Dispongo nella stanza due poli estremi, credo e non credo. Poi chiedo di disporsi tra i poli in base alla loro percezione attuale, ora. Con i dovuti distinguo, fino a qualche anno fa la maggioranza si poneva al centro con pochi ai due estremi. Più di recente, la maggioranza si pone dal centro verso il non-credo, con più di uno che dice: “se fosse possibile andrei oltre quel polo estremo”. E sono i ragazzi che hanno scelto l’ora di religione e i gruppi cattolici. Hanno immagini negative di chiesa e di Dio. Però ci stanno al confronto, sono favorevoli ad un dialogo autentico con gli adulti su questo. E sono pure interessati alla Bibbia se presentata nel modo giusto. Tra gli universitari ho incontrato diversi giovani che si dicevano agnostici ma leggevano il Vangelo. Addirittura una ragazza che non faceva religione al liceo classico, dopo aver ascoltato Cacciari attualizzare la lettera ai tessalonicesi, ha consegnato la sua tesina d’esame sul “katekon”, termine chiave della teologia neotestamentaria. Allora dove sta il problema?
Indagando sugli stili pastorali della nostra Italia, si comprende bene che l’ignoranza “biblica” di intere generazioni non deriva dalla scarsa informazione. Catechismo e ora di religione la fanno ancora una larga maggioranza. Piuttosto l’ostacolo risiede nell’ignoranza ecclesiale dei linguaggi e degli approcci che sono patrimonio dei “nativi digitali”. Non è questione di informare di più e meglio, di “catechizzare” giovani e adulti. I nostri approcci sono libreschi, intellettuali, criticano l’emotività, si pongono come rieducativi, scolastici, sistematici. Mentre le ultime generazioni Y (o millennials, nati tra l’80 e il’95) e Z (o iGen, nati tra il ‘95 e il 2010), molto più della X Gen (‘65-’80), sono allergici allo stile “educational”, percepito come “manipolatorio” della libertà. Preferiscono i film, i video, le serie tv, i social ai libri, le immagini alle parole, le emozioni ai pensieri, l’interazione più dell’ascolto passivo. Più che con la testa o il cuore, ragionano con la pancia e credono con il corpo (Cfr. i testi di Gilberto Borghi). Amano i videogiochi, le storie, i fantasy, i supereroi, i cosplay (vestirsi come i fumetti). Il Papa dopo il sinodo dei Giovani dice: “Essi ci mostrano la necessità di assumere nuovi stili e nuove strategie. Ad esempio, mentre gli adulti cercano di avere tutto programmato, con riunioni periodiche e orari fissi, oggi la maggior parte dei giovani si sente poco attratta da questi schemi pastorali. La pastorale giovanile ha bisogno di acquisire un’altra flessibilità e invitare i giovani ad avvenimenti che ogni tanto offrano loro un luogo dove non solo ricevano una formazione, ma che permetta loro anche di condividere la vita, festeggiare, cantare, ascoltare testimonianze concrete e sperimentare l’incontro comunitario con il Dio vivente.”
Così li giudichiamo virtuali, superficiali, irrazionali, disimpegnati, giocherelloni. Ma se guardiamo la Bibbia dalla loro parte, coi loro occhi scopriamo che è gran parte racconto, dramma, ironia, piena di visioni, parabole che stimolano la fantasia, guerrieri, eroi e antieroi. Che l’ebraico è una lingua che parla al corpo, tanto che “la Parola si fece carne”. Che Gesù parla col corpo e lo consegna come il vero testamento, è un autentico giocatore di ruolo, racconta parabole come role play, inverte i ruoli (suo il ritornello “i primi saranno gli ultimi…”), scambia la sua identità altri, con i piccoli, i poveri, i disprezzati, in vita e fin con la sua morte in croce. Insomma, studiando i giovani e Gesù, o meglio, la Parola attraverso gli adolescenti, ho scoperto l’importanza del raccontare più che insegnare, dell’homo ludens più dell’homo faber. Il gioco non è qualcosa di infantile, superficiale, poco serio o addirittura pericoloso (come le ludopatie, dipendenze da gioco). Anche la sapienza di Dio nella Bibbia gioca (Pr 8,30). Sono stato fino a Gerusalemme per cercare il significato originale di “parabola”, mashal, per scoprire che significa spesso racconto e gioco.
Servono, allora, approcci di apprendimento narrativo e ludico, modalità che non solo il marketing, ma anche la formazione professionale e scolastica ha da tempo riscoperto. Servono non tanto catechesi o scuole della Parola aggiornate, ma laboratori della fede, aperti in entrata ed in uscita anche ai chi fatica a credere o anche non crede, ma accoglie di mettersi in gioco con la Bibbia. Sono andato, attraverso una ricerca di dottorato, alla ricerca dei metodi che rispondessero a questi criteri. E ne ho trovati diversi molto interessanti. Non mi sono fermato a studiarli, ma, grazie anche a contatti di amici, ho cercato gli ideatori, ho partecipato ai laboratori e poi mi sono dedicato ad apprenderli. In particolare ho conosciuto il compianto Riccardo Tonelli e la narrazione educativa, il collega ed amico Marco Tibaldi e la narrazione biblica, il gesuita Beppe Bertagna e lo psicodramma biblico, Giovanni Brichetti e tutta l’Associazione Italiana Bibliodramma. Investendo su queste dinamiche attive con la Bibbia ho scoperto anche l’importanza di comunicare anche nel kerygma. Bertagna, in particolare, ci ha aperto gli occhi su come la Buona Notizia rischia di essere percepita come cattiva se rimane solo una entusiastica testimonianza: “Hai incontrato Dio e ti ha cambiato? buon per te! ed io, che ho un’altra storia rispetto alla tua? non è per me?”. Se il kerygma non rilegge e non tocca la vita di chi incontro, potrebbe addirittura amareggiare. Ancor di più serve facilitare col gioco l’incontro dei giovani, spesso disillusi e feriti, con Dio, gli increduli con il Padre che crede nei suoi figli, i “fuori dal recinto” con il pastore che esce a cercarli.

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L’eucaristia non è cosa per giovani (?)

Da NPG di aprile/maggio.

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di Manuel Belli

Nel piano pastorale di una diocesi ho letto che le persone avrebbero abbandonato la parrocchia tradizionale, che oggi entrerebbero in contatto con la chiesa in un modo diverso e in luoghi diversi, per esempio attraverso le scuole o le case di formazione, e che per molti un luogo di incontro sarebbe anche la celebrazione eucaristica domenicale. La partecipazione dei cattolici all’eucaristia scende sotto il 10% e tuttavia i responsabili continuano a scrivere che “per molti” un luogo di incontro con la chiesa sarebbe proprio la celebrazione eucaristica domenicale. Allora a partire da quale numero oseremo parlare di “poco”? Dobbiamo scendere ancora fino al per mille?[1]

Mi sono giocato ottocento dei caratteri che ho a disposizione con questa citazione, ma occorre partire da un sano “bagno” di realismo: tra coloro che si dicono cattolici, l’incontro con Cristo nell’eucaristia accade per una stretta minoranza di credenti, e le percentuali sono addirittura inferiori per la fascia di età tra i trenta e i quarant’anni. Se volessimo dirla senza girarci attorno e senza addolcire troppo la pillola, suonerebbe così: l’eucaristia non è un luogo in cui i giovani oggi incontrano il Signore, se non per una stretta minoranza. Valérie le Chevalier nelle sue pubblicazioni invita a superare l’identificazione del cattolico con il discepolo o con colui che partecipa ai riti, e statisticamente la questione è evidente: pochissimi giovani partecipano ai riti, ma in Italia poco più della metà non smette di dirsi cattolico[2]. Ben inteso: è un luogo di incontro con il Signore che vanta una partecipazione quattordici volte maggiore rispetto alle iniziative parrocchiali extra-liturgiche. Gli ultimi dati Istat dicono che il 14% dei giovani italiani va a messa circa una volta alla settimana, mentre circa l’1% transita con una certa regolarità negli ambienti parrocchiali[3]. Sviluppiamo allora alcuni pensieri in due direzioni: cosa succede per quel giovane e mezzo su dieci che viene a messa? Cosa potrebbe succedere per gli altri?

Per quell’uno e mezzo su dieci

Riformuliamo la questione: pochissimi giovani incontrano il Signore nell’eucaristia, tuttavia è probabilmente uno dei luoghi di incontro statisticamente più rilevante e teologicamente non vi è dubbio che sia il luogo più importante. Ebbene: dopo Sacrosanctum Concilium la Chiesa ha corso il rischio di ritenere che anche quel giovane e mezzo su dieci che viene ai riti deve farlo attivamente, piamente e consapevolmente e non deve assistervi come muto o estraneo spettatore (SC 48). In effetti, nell’instrumentum laboris del Sinodo dei Vescovi del 2018 si fa riferimento al questionario a cui molti giovani hanno lavorato e si dice che «molte risposte al questionario segnalano che i giovani sono sensibili alla qualità della liturgia» (187). La sfida sembra molto interessante: i giovani vengono molto meno all’eucaristia, ma chi viene chiede un’alta qualità della celebrazione liturgica. Sembra che nella coscienza dei giovani sia stato definitivamente bandito l’assioma per cui la messa domenicale sia un precetto a cui assolvere, ma sia intervenuta l’idea che sia un luogo della fede importante e da curare.
Ma cosa significa questo maggiore desiderio di qualità nella celebrazione? Sempre nel testo preparatorio al Sinodo leggiamo:

I giovani più partecipi della vita della Chiesa hanno espresso varie richieste specifiche. Ritorna spesso il tema della liturgia, che vorrebbero viva e vicina, mentre spesso non consente di fare un’esperienza di «alcun senso di comunità o di famiglia in quanto Corpo di Cristo», e delle omelie, che molti ritengono inadeguate per accompagnarli nel discernimento della loro situazione alla luce del Vangelo. «I giovani sono attratti dalla gioia, che dovrebbe essere un segno distintivo della nostra fede», ma che spesso le comunità cristiane non sembrano in grado di trasmettere. (69)

I giovani interpellati in vista del Sinodo chiedevano dunque un maggiore senso comunitario. Si tratta di una richiesta da interpretare: se è palese la contestazione di celebrazioni minimali e incentrare sul minimo necessario per la celebrazione, evidente il gruppetto di giovani che partecipa ai riti sente una certa discrepanza tra le parole della celebrazione (spesso nell’area semantica dell’amore) e una certa freddezza dell’assemblea liturgica.
Il rito ha conosciuto un’importante sotto-determinazione nella storia della riflessione teologica, ed è stato non raramente relegato a condizione necessaria perché si diano le grazie tipiche dell’eucaristia, ossia la presenza reale di Cristo e il suo sacrificio. L’assemblea liturgica in questo contesto era semplicemente una questione di praticità: tra corpo eucaristico di Cristo e corpo ecclesiale non era evidente alcun nesso nella celebrazione. I pochi superstiti giovani alle celebrazioni chiedono un atto di reintegrazione: il rito non è solo l’occasione per avere l’eucaristia, ma è necessario che sia uno spazio celebrativo intonato sull’eucaristia. Sacrosanctum Concilium insegna che tra i riti, le preghiere e la presenza di Cristo nell’eucaristia non ci deve essere alterità.
La provocazione che raccogliamo dal mondo giovanile non è semplicemente la richiesta di messe più animate, più smart, più solenni, ma più vere. Ciò che viene celebrato e la qualità della celebrazione vivono di una dissonanza che chiede di essere colmata. Giraudo sottolinea come i liturgisti del II millennio «ignorando del tutto i giochi di forze e la dinamica teologica degli elementi anaforici, si preoccupano unicamente del vano centrale della loro costruzione – fuori di metafora: la consacrazione –, e questo vano centrale, lo curano nei minimi particolari e lo caricano di addobbi, esattamente come la sala del cenacolo. Ne consegue che tale vano o elemento centrale, peraltro importante, risulta come librato in aria, senza più alcuna possibilità di accesso agli altri elementi della struttura»[4].

L’eucaristia non può essere celebrata con le uniche preoccupazioni della validità e della chiarezza del messaggio concettuale. Ciò che è non verbale, relazionale, bello, elegante, affettivamente non neutro deve essere recuperato e curato.

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Dai loro frutti li riconoscete. Sulla fecondità vocazionale della pastorale giovanile

Da Note di Pastorale Giovanile di aprile/maggio.

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di don Rossano Sala

Che cosa fa chi fa pastorale giovanile?

Quando penso alla pastorale giovanile come campo di azione e di ricerca ho in mente uno scenario molto ampio: come la pastorale della Chiesa nel suo insieme ha a cuore lo «sviluppo di tutto l’uomo e tutti gli uomini»[1], dobbiamo dire che, all’interno di questa passione dominante, l’orizzonte della pastorale giovanile è quello di avere a cuore “tutto il giovane e tutti i giovani”. Il sogno è quello di un’educazione integrale e integrata che non esclude nulla dal suo raggio d’azione. Di conseguenza, il “modello” di pastorale giovanile che ritengo valido per spiegare al meglio la nostra azione educativa ed evangelizzatrice cerca di armonizzare cinque ambiti di lavoro:[2]
– la promozione umana, che nel contesto delle giovani generazioni prende chiaramente il nome e la declinazione educativa, impegnando la Chiesa a «camminare con i giovani»[3], accompagnandoli amorevolmente nel loro itinerario di vita;
– l’annuncio esplicito, che implica per ciascun giovane «l’incontro vitale con la persona di Gesù Cristo»[4]: attraverso la liturgia, il kerygma e la catechesi ciò avviene anche oggi nella Chiesa;
– la formazione morale della coscienza, perché «la Chiesa, attraverso la catechesi e la pastorale giovanile, si sforza di rendere i giovani capaci e di attrezzarli per discernere tra il bene e il male, di scegliere i valori del Vangelo piuttosto che i valori mondani, e a formare solide convinzioni di fede»;[5]
– la corresponsabilità apostolica con i giovani: la pastorale giovanile si qualifica nel momento in cui è vissuta non solo “per i giovani”, ma “con i giovani”, facendo di loro non dei destinatari passivi della nostra azione pastorale, ma coinvolgendoli in prima persona nell’apostolato come protagonisti della missione;
– la cura della vita spirituale in ottica vocazionale: per essere all’altezza della sua vocazione, la pastorale giovanile deve condurre ogni giovane a riconoscere, accogliere e rispondere alla sua personale vocazione. Questo implica un competente impegno di accompagnamento spirituale in vista del discernimento vocazionale.
Queste cinque attenzioni non vanno separate, ma coltivate insieme, pur rispettandone le diverse originalità. La legge generale che regola l’integrazione di questo orizzonte è quella che tiene insieme gradualità della proposta e integralità dell’annuncio. Si può anche dire che noi, quando facciamo pastorale giovanile come si deve, evangelizziamo educando ed educhiamo evangelizzando.

L’anima vocazionale della pastorale giovanile

Il Dossier di questo mese punta in maniera decisa all’approfondimento dell’ultimo ambito della pastorale giovanile, quello delineato come “cura della vita spirituale in ottica vocazionale”. Ultimo ma non ultimo, perché ne è il seme fecondo e il lievito proprio, oltre che per molti aspetti la sua destinazione naturale. Una pastorale giovanile seria non è nemmeno ipotizzabile senza una chiara uscita vocazionale. Significherebbe – per usare un’immagine che spero sia efficace – avere un albero con radici, tronco, rami, foglie e fiori… ma senza frutti! Per questo la decisione vocazionale è mèta propria e coronamento di tutta l’opera della pastorale giovanile.
La “vocazionalità” della pastorale giovanile è in fondo il segno della sua “fecondità”. Quindi, al contrario, se la pastorale giovanile non inserisce nell’unica vocazione cristiana ad essere discepoli del Signore e nelle sue diverse realizzazioni vocazionali specifiche e personali, semplicemente rimarrà una pastorale sterile, che quindi smarrisce il suo senso autentico. A volte è così, purtroppo, anche perché ad alcuni pare che la questione vocazionale sia perfino estranea alla pastorale giovanile, e che sia invece di competenza di una “pastorale vocazionale” separata e diversa, con personale, teorie e pratiche dedicate a questo “settore” della pastorale generale della Chiesa.
In realtà il Sinodo sui giovani, che tanto ha riflettuto su questo, ha chiesto esplicitamente di pensare ad una “pastorale giovanile in chiave vocazionale”[6] e di svilupparla con coerenza e dedizione. Lo ha ritenuto un orizzonte fondante, oltre che fondamentale. Realizzare questa visione oggi non è per nulla facile, soprattutto in Europa, per molti motivi legati alla cosiddetta “fine della cristianità”[7], alla crisi epocale della Chiesa[8] e ai suoi tanti tentativi di riposizionamento in atto[9]. Tutte istanze che fragilizzano i giovani da tutti i punti di vista, i quali chiaramente faticano a trovare ancoraggi sicuri in un mondo ecclesiale che sta diventando anch’esso piuttosto liquido.
Sta di fatto che le profetiche previsioni dell’allora giovane teologo J. Ratzinger nel lontano 1969 si stanno realizzando: secondo le sue intuizioni di allora la Chiesa del futuro

diventerà più piccola, dovrà ricominciare tutto da capo. Essa non potrà più riempire molti degli edifici che aveva eretto nel periodo della congiuntura alta. Essa, oltre che perdere degli aderenti numericamente, perderà anche molti dei suoi privilegi nella società. Essa si presenterà in modo molto più accentuato di un tempo come la comunità della libera volontà, cui si può accedere solo per il tramite di una decisione[10].

Di certo la “decisione” di cui parlava il futuro Benedetto XVI è – per tutti, giovani e adulti, senza esclusione alcuna – quella vocazionale. Cioè l’intendere la vita umana come un dono immeritato, una chiamata alla gioia della fede, un appello all’appartenenza alla Chiesa e una spinta all’assunzione di responsabilità nel mondo.

 

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Ciò che rende credibile un educatore

Dalla newsletter di Marzo di NPG.

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di Ernesto Diaco

È trascorso un intero secolo da quando, negli anni Venti del Novecento, Romano Guardini assumeva la guida del movimento giovanile Quickborn (fonte viva), facendo del castello di Rothenfels sul Meno, nel centro della Germania, un laboratorio di sperimentazione pedagogica, liturgica e artistica. Nonostante la distanza che ci separa da allora, il pensiero educativo maturato in quegli anni dal giovane teologo, a stretto contatto con la vita dei giovani e con i fermenti che animavano l’Europa del primo dopoguerra, resta di avvincente attualità.
Sono del 1928, ad esempio, le sei introduzioni preparate per un raduno di educatori e insegnanti a Rothenfels, raccolte e pubblicate in italiano con il titolo La credibilità dell’educatore[1]. Si tratta di riflessioni poste in apertura dei lavori quotidiani, dedicati a “percorsi e mete” del compito educativo. Il taglio è semplice e colloquiale, ma la proposta si indirizza decisa verso gli aspetti più essenziali e profondi.
Chiunque voglia educare – esordisce Guardini – si trova a fare i conti abbastanza presto con un interrogativo: da dove gli viene la possibilità (e il diritto) di educare un’altra persona? Come si può cercare di orientare qualcuno verso la sua realizzazione? Certo non basta riconoscersi ‘già educati’ per assumere una responsabilità nella crescita altrui: un uomo che pensasse così “non avrebbe compreso che noi non possiamo mai considerarci ‘a posto’, ma cresciamo e diveniamo continuamente. Sarebbe più giusta un’altra risposta: perché io stesso lotto per essere educato. Questa lotta mi conferisce credibilità come educatore; per il fatto che lo sguardo medesimo che si volge all’altra persona insieme è rivolto anche su di me”[2].
È la cura di sé, senza trascurare nessuno degli aspetti che compongono la propria personalità, che permette di potersi prendere cura anche di altri. Poiché educare significa aiutare una persona a “conquistare la libertà sua propria”, non basta avvalersi di discorsi, stimoli o “metodi d’ogni genere”. “La vita – spiega Guardini – viene destata e accesa solo dalla vita. La più potente ‘forza di educazione’ consiste nel fatto che io stesso in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere… È proprio il fatto che io lotti per migliorarmi ciò che dà credibilità alla mia sollecitudine pedagogica per l’altro… Siamo credibili solo nella misura in cui ci rendiamo conto che un’identica verifica etica attende me, e colui che deve essere educato. Innanzitutto, vogliamo entrambi diventare ciò che dobbiamo essere”[3].

Una sana inquietudine

Alla base dell’opera educativa – e non solo all’inizio, ma lungo tutta la sua durata – sta dunque una sana inquietudine, che consente di non sentirsi mai ‘arrivati’ senza per questo cadere preda del senso di incapacità e di insoddisfazione. Il fatto di riconoscersi “figure incompiute, soltanto abbozzate”, paradossalmente, è una risorsa necessaria ed efficace per l’educatore, che può avvicinarsi agli altri in maniera dignitosa e affidabile solo se sinceramente convinto di dover (e poter) in primo luogo educare se stesso. Due sono i pericoli che possono minacciare tale atteggiamento costruttivo: la presunzione di credersi infallibili e la disperazione di chi, davanti alle cadute e agli insuccessi, getta la spugna e rinuncia a educare.
Ma questo lavoro su se stesso come avviene? In primo luogo – risponde Guardini – serve il “dono del discernimento” di ciò che si muove nel nostro intimo. Dentro di noi convivono bene e male; vanno portati in superficie, nella lucidità della coscienza.
Vi è poi una seconda via, che egli definisce “esercizio”. Si tratta di scegliere ciò che porta la vita fuori dal caos e le dà ordine, inscrivendolo gradualmente “nelle fibre vive del nostro essere. Allora, l’esercizio ha raggiunto il suo scopo: la virtù. Virtù è ciò in cui ‘valgo’; in cui sono ‘attivo’ e ‘uno’ con me stesso”[4].
Questa unità interiore è frutto di un’opera paziente e costante che conduce al possesso di sé, in un piano profondo dell’esistenza, dove verità e amore coincidono. Educazione, dirà più avanti, “significa rafforzare tutto ciò che ha influsso benefico sulla persona e combattere ciò che è causa della sua distruzione”[5]. L’educatore credibile è quello che non attende i giovani al termine della strada che ha loro indicato, ma colui che la percorre con loro.

Conoscere e accettare se stessi

Se c’è un’esperienza che l’educatore non tarda a fare è quella dei propri limiti. Senza ingrandirli oltre misura – potrebbe essere una comoda via di fuga – occorre essere sinceri con se stessi e con gli altri, così che il proprio volto, il volto dell’educatore, non finisca per ridursi a una maschera. Accettare se stessi è l’unico modo per “rimanere” nelle relazioni educative anche quando si fanno particolarmente difficili ed esigenti. Senza uno spazio in cui stare bene con se stessi, non è possibile alcun rapporto autentico con gli altri.
Conoscere e accettare se stessi è un cammino lungo e difficile. Romano Guardini – in un altro scritto debitore agli anni del Quickborn – lo paragona al viaggio di Dante nell’oltretomba, che egli considera un’opera interiore e spirituale, dunque educativa, oltre che letteraria. Un percorso in cui “al viaggiatore viene rivelato il mistero di Cristo, attraverso il quale la nostra essenza umana viene accolta nell’esistenza del Figlio di Dio. Egli allora non solo comprende ciò che sta al di là d’ogni realtà terrena, bensì anche se stesso”[6].
Per il teologo italo-tedesco, una persona non può comprendere se stessa solo a partire da sé. Agli interrogativi sulla propria identità ed esistenza, non si può dare risposta prendendo le mosse dalla propria natura. Risposta ad essi la dà solo Dio. La via puramente etica o psicologica non bastano: per accettare davvero se stessi occorre entrare nel campo della fede, dove cogliamo che “l’uomo non viene dalla natura, bensì dalla conoscenza e dall’amore, il che però significa dalla responsabilità del Dio vivente”[7]. Scoprire di essere dati a noi stessi porta a guadagnare il rispetto di sé, perché “Dio ha questo rispetto”[8].
In questo movimento, conoscersi e accettarsi stanno in un rapporto di stretta reciprocità: l’una cosa presuppone l’altra. Ed entrambi sono possibili unicamente nell’amore. “C’è sapere solo dove c’è amore”. L’uomo si conosce e si accetta “solo in quella magnanimità e libertà che si chiama amore. Ma l’amore ha inizio in Dio: nel fatto ch’Egli mi ama e che io divengo capace d’amarlo; e che Gli sono grato per il suo primo dono che m’ha fatto, ossia: me stesso”[9].

* Direttore dell’Ufficio Nazionale per l’educazione, la scuola e l’università della CEI e responsabile del Servizio Nazionale per l’insegnamento della religione cattolica della CEI.

NOTE

[1] R. Guardini, La credibilità dell’educatore, in Id., Persona e Libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, La Scuola, Brescia 1987, pp. 221-236.
[2] Ivi, p. 222.
[3] Ivi, pp. 222-223.
[4] Ivi, p. 228.
[5] Ivi, p. 235.
[6] R. Guardini, Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia 1992, p. 29.
[7] Ivi, p. 24.
[8] Ivi, p. 25.
[9] Ivi, p. 30.

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L’antico e il nuovo nella vita cristiana

Dal numero di marzo di Note di Pastorale Giovanile, la rubrica “Pastorale giovanile come apprendistato alla vita cristiana” di Marcello Scarpa.

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Iniziamo in questo numero una rubrica sulla Pastorale giovanile come apprendistato alla vita cristiana. Un tema impegnativo: come evitare il rischio del “già detto”, di ripetere i soliti discorsi teorici, formalmente accurati, ma spesso disincarnati, svincolati dalla realtà? Eppure, ciò rende la sfida ancora più affascinante: non sono forse gli stessi giovani, pur fra luci e ombre, ad aver espresso al Sinodo il desiderio di essere formati, accompagnati, resi protagonisti della vita ecclesiale?[1]
Nell’intraprendere questo cammino, nella scelta del titolo del primo numero della rubrica ci siamo lasciati ispirare dalle parole iniziali della poesia “L’aquilone” di Giovanni Pascoli:

          C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.
Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle querce agita il vento.[2]

Parole familiari, che accompagnano i nostri ricordi scolastici, che richiamano l’odore del gesso sulla lavagna, il sapore di merende in aule affollate, di giochi in cortile, all’aria aperta. Parole con le quali vogliamo accompagnare la nostra riflessione: cosa c’è di nuovo, anzi d’antico, nella formazione alla vita cristiana? In quale “altrove” vivono le nuove generazioni? Quale vento agita le querce secolari della Chiesa, e quali sono le viole che spuntano “nella selva del convento dei cappuccini, tra le foglie morte”, come recitano i versi della poesia di Pascoli?

C’è qualcosa di nuovo oggi nella vita cristiana…

Viviamo in un tempo di rapide trasformazioni culturali, sociali, mediatiche, un «cambiamento d’epoca» che richiede un rinnovamento delle prassi ecclesiali e pastorali, per sottrarle al rischio di cristallizzarsi in forme non più comprensibili agli uomini del nostro tempo. I due anni di pandemia, che hanno segnato la vita delle persone a livello mondiale, hanno fatto maturare nella coscienza collettiva alcune consapevolezze che, riecheggiando le parole di papa Francesco,[3] hanno trovato ampio spazio sui mezzi della comunicazione sociale: “siamo tutti sulla stessa barca”, “viviamo in un mondo dove tutto è connesso”, “nessuno si salva da solo”, sono diventate espressioni comuni, purtroppo confermate dagli imprevedibili e tragici avvenimenti della guerra in Ucraina.
All’interno di questo contesto, anche il cammino della Chiesa si è andato rivestendo di novità: papa Francesco ha aperto la stagione della sinodalità,[4] ovvero ha inaugurato il tempo dell’ascolto reciproco, dell’incontro, del dialogo, della collaborazione. Per rimanere nella metafora della poesia del Pascoli, il vento che agita le querce (= le tradizioni radicate nel tempo) della Chiesa è proprio quello della sinodalità, di cui ampiamente si scrive sulle pagine di questa rivista. Non è questa la sede per ulteriori approfondimenti sul tema; è sufficiente ricordare che l’espressione indica il “camminare insieme” di vescovi, laici, giovani, come un unico popolo di Dio. Purtroppo, dobbiamo riconoscere che per molto tempo nel campo dell’azione evangelizzatrice della Chiesa si è invece camminato per settori o ambiti separati: l’evangelizzazione, il primo annuncio, la catechesi, la pastorale giovanile, hanno viaggiato lungo binari paralleli, dialogando poco fra di loro, il più delle volte ignorandosi reciprocamente.
È invece importante ricordare che lavoriamo tutti, ognuno secondo i propri ruoli e responsabilità, per lo stesso Signore che guida la barca dell’umanità. In un tragitto comune non si tratta di dividersi i compiti e poi agire da soli, ma di mettere insieme le energie valorizzando il contributo di tutti, perché la vita cristiana non è appannaggio di nessuna delle diverse competenze pratiche o dei vari uffici diocesani e parrocchiali, che sono tutti, invece, a servizio del popolo di Dio. Pertanto, è bene che la pastorale giovanile e la catechesi, distinte tra loro ma non del tutto separate,[5] lavorino in sinergia nel contesto della formazione dei giovani. Da un lato la pastorale giovanile non può accontentarsi di fare solo un ottimo servizio educativo, ma deve interrogarsi sull’urgenza dell’evangelizzazione;[6] dall’altro, la catechesi non può limitarsi alla nuda enunciazione dei contenuti di fede, ma deve elaborare percorsi formativi in riferimento alle esperienze di vita dei giovani.[7]

Anzi d’antico…

Siamo nani sulle spalle dei giganti. La celebre frase di Bernardo di Chartres mette in evidenza che qualsiasi opera di rinnovamento non fa mai tabula rasa delle conoscenze ed esperienze maturate nel passato, anzi, ne fa tesoro per svilupparle in maniera più adeguata ai nuovi contesti del presente. Senz’altro con il trascorrere del tempo la formazione cristiana dei giovani, riprendendo l’immagine della poesia di Pascoli, ha lasciato dietro di sé alcune foglie morte. Pensiamo al fallimento del catechismo per i giovani, che aveva come meta finale dell’itinerario in dieci capitoli l’incontro con Gesù: nonostante lo stile narrativo dei discorsi formativi, l’orizzonte di comprensione del testo era quello di trasmettere dei contenuti dal punto di vista antropologico, biblico, kerigmatico, cristologico. Tutto ciò non ha intercettato le dinamiche esperienziali delle nuove generazioni, più sensibili al mettersi in gioco, fin da subito, nella realtà concreta della vita. Infatti, i giovani preferiscono più i “sapori” che i “saperi”, «vogliono toccare con le loro mani, […] si fidano solo della loro esperienza»[8] personale, pertanto questo è il tempo propizio per far “gustare” loro la bellezza della vita cristiana.
Inoltre i giovani, similmente a quanto il poeta G. Pascoli dice di sé, vivono “altrove”. Troppo facilmente siamo portati a dare per scontato che i giovani che frequentano gli ambienti ecclesiali abbiano dimestichezza con il Vangelo e conoscano i nuclei essenziali della fede cristiana. In realtà, come confermano le indagini sociologiche, i giovani evidenziano una povertà della conoscenza dei contenuti di fede «sproporzionata rispetto al tempo passato al catechismo e agli anni di formazione».[9] Si avverte, perciò, l’urgenza di rigenerare la fede e di introdurre alla vita cristiana tanti giovani per i quali i sacramenti dell’iniziazione cristiana sono stati l’addio, e non l’avvio, al cammino di fede.
Ma cosa vuol dire iniziazione cristiana? L’antica prassi del catecumenato, ripristinata dopo il Concilio Vaticano II, si rivolgeva ai convertiti non battezzati e si strutturava come un complesso organico e graduale per iniziare alla fede e alla vita cristiana. Proprio perché si rivolgeva a chi doveva essere introdotto (=iniziato) al cristianesimo, oggi lo stile del catecumenato «può anche ispirare la catechesi di coloro che, pur avendo già ricevuto il dono della grazia battesimale, non ne gustano effettivamente la ricchezza: in questo senso, si parla di ispirazione catecumenale della catechesi o catecumenato post-battesimale o catechesi di iniziazione alla vita cristiana» (DC 61).

 

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Sognatori con le ali di cartapesta

Da Note di Pastorale Giovanile, una nuova rubrica per il 2023: Dicono di sé… dicono di noi. I giovani narrano e si narrano.

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di Virginia Drago

Diceva il Visconte Dimezzato di Calvino: «Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane». Bisognerebbe trovare il coraggio di smentirlo e anche di dargli ragione. Spesso ci si sente incompleti e davvero lo siamo; spesso non è così e saremmo pure capaci di “toccare il cielo con il dito”, se solo ne avessimo la possibilità.
Bisognerebbe partire da un breve e non complesso ragionamento: uno dei punti di ritrovo per noi giovani, il luogo dove passiamo la maggior parte delle nostre giornate, checché se ne dica, è la scuola o l’università. Ore e ore, dietro quei banchi; ore e ore di lezione, esami, verifiche e interrogazioni; ore e ore di emozioni, gioie e delusioni, sogni e passioni condivise. Se volete osservarci, studiarci, o anche ammirarci, basterà entrare in una classe o in un’aula qualsiasi per capire che poi così incompleti non lo siamo, o se lo siamo è perché stiamo cercando una parte mancante, un tassello di quel puzzle enorme – noi stessi – costruito con fatica e determinazione.
Ci sono dei periodi in cui ci si ferma poco a riflettere e pensare, perché presi dal lavoro, dallo studio, dalle scadenze, dal tempo che sembra non bastare mai. Ci sono dei periodi, più o meno lunghi, in cui siamo chiamati a scegliere su come e cosa investire quel tempo che ci è dato. Diventando più grande, ho capito che è la scelta più complicata da fare.
Qualsiasi scelta richiede coraggio e volontà, sacrificio e passione, spesso rinunce difficili, difficilissime; ma sono scelte, e vanno fatte! Allora è da qui, dal momento in cui si inizia a scegliere: se studiare matematica o italiano, se diventar giurista o letterato, se esser fisico o chimico, se lavorare o studiare; se essere felice, arrabbiato, indifferente, se odiare o amare; persino se scegliere o no. Dietro ogni passo fatto c’è una storia intricata e complessa che meriterebbe la scrittura di un romanzo.
Sono tantissime le domande che ci facciamo, le insicurezze che ci portiamo dietro, le soddisfazioni che accumuliamo e conserviamo come punti di ripartenza quando tutto sembra andare storto. Ho spesso sentito parlare di noi giovani come: svogliati, disattenti, poveri di valori, deboli, poco pronti alla società feroce che ci circonda. Ho anche capito che in realtà “l’altro mondo”, quello dei “grandi esperti”, non vada poi meglio: basta aprire le pagine di cronaca di un giornale e tutto viene su a galla, come “tutti i nodi vengono al pettine”.
Mi piace quando qualcuno ha osato, in alcuni contesti, definire noi giovani delle “spugne”. Noi assorbiamo tutto ciò che ci si insegna, e anche ciò che ci manca, e poi diventiamo tutto ciò che ci è stato insegnato o l’opposto. Abbiamo forti spiriti critici, nonostante le critiche dei meno giovani; siamo attenti a qualsiasi movimento, come dei cecchini; cerchiamo di imparare e di sbagliare con le nostre gambe e le nostre menti. Ma abbiamo bisogno, soprattutto quando ci si dice di essere grandi e si pretendono da noi “cose da grandi”, di essere prima accompagnati, sostenuti, incentivati, motivati, anche rimproverati e corretti.
Spesso abbiamo la fortuna di incontrare chi crede in noi, come presente e futuro; altre volte chi non scommetterebbe neanche un euro sulle nostre capacità e potenzialità. E purtroppo, devo dire, che un numero maggiore di persone popolano la seconda categoria. Non bisogna perdersi d’animo, perché anche per l’unica persona che crede o crederà in noi vale la pena continuare ad essere quella rivoluzione che diciamo di voler attuare, quel cambiamento a cui guardiamo, quella speranza che conserviamo.
Siamo sognatori con le ali di cartapesta che si scontrano con la realtà: a volte cadiamo senza perdere l’equilibrio, altre volte l’impatto è così forte da impedirci di rialzarci nell’istante dopo. Abbiamo delle aspirazioni, dei progetti, degli obiettivi da portare a termine, guardiamo sempre in alto. Citando e parafrasando in parte Pirandello: “socchiudendo le palpebre dietro le lenti” pigliamo “tra i peli delle ciglia la luce d’una di quelle stelle, e tra l’occhio e la stella” stabiliamo “il legame d’un sottilissimo filo luminoso, e vi” avviamo “l’anima a passeggiare come” ragnetti “smarriti”. Lo smarrimento, quasi dantesco, tipico di chi, nonostante sia dato per fallito, crede di non esserlo e lavora per dimostrare il contrario.
E forse saremo incompleti alla ricerca della nostra completezza o siamo completi e ci sentiamo il contrario, perché desiderosi di essere migliori ogni giorno di più. Però non additateci come semplici sognatori “con la testa fra le nuvole”, perché ci nutriamo di concretezza, di vita quotidiana, come i più grandi, semplicemente con un pizzico di freschezza che la giovane età ancora ci consente di assaporare.
Dice Alessandro D’Avenia: «Forse ci si sente incompleti e si è soltanto uomini». Sarebbe bello e coraggioso ripartire da qui e riscoprirsi due facce della stessa medaglia: da una parte chi con esperienza e qualche ruga in più, dall’altra chi con la freschezza, il fuoco dentro e la forza di un gigante. Sarebbe bello e coraggioso guardare ad una vita e una società, una nuova società, basata sullo scambio, un do ut des della contemporaneità fatto di crescita, investimento e maturazione reciproca.

 

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Otto regole per viaggiare

Dal sito di NPG, un articolo di approfondimento sul tema del dossier di febbraio “Spiritualità del cammino”.

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di Franco Riva

Vedere è «lasciarsi scuotere», viaggiare è incontrarsi: passeggiare significa «permettere al mondo di entrare dentro noi stessi» (R. Walser, 2006). Del viaggio non si comprende nulla senza il rapporto con l’altro da sé. Non per una prevedibile curiosità nei suoi confronti, ma per lo stordimento che si riceve di contraccolpo quando si prende sul serio il pensiero che il mondo non è fatto a propria immagine e somiglianza.
Per Blanchot il viaggio, «l’esodo, l’esilio, indicano un rapporto positivo con l’esteriorità, e l’esigenza di questo rapporto è un invito a non accontentarsi di ciò che è nostro (ossia del nostro potere di assimilare ogni cosa, identificando e riferendo tutto al nostro Io)» (Blanchot, 1981, p. 168; cfr. Sartre, 1993, p. 89). Troppo comodo perciò accontentarsi di ciò che è nostro, troppo facile, violento, prendere sempre per sé. Si viaggia solo al di là di se stessi.
Essere nati, abitare il mondo, vivere, esistere, è invece un’avventura: un’uscita, un esodo, un esilio, un lasciare – un «naufragio» (cfr. Blumenberg, 2005, pp. 37 ss.). Viaggiare è metafora della vita; vivere è metafora del viaggio. La vita è un esporsi, un «cammino», come scrive Dante all’inizio della Commedia, un errare, una «via» dove bisogna guardarsi bene «dal prendere se stesso per fine» (Buber, 1990, p. 55).
Metafora della vita, il viaggio lo è pure della democrazia. Finché gli uomini continuano a ingurgitare il mondo e a divorarsi a vicenda l’un l’altro nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, nella città non ci sarà mai giustizia (Esiodo, 274-280). L’assimilazione dell’altro ha nomi diversi, ora più morbidi, ora più cruenti, che si rigirano tutti però, come una trottola, sullo stesso punto del prendere per sé: le logiche tenacemente individualistiche del fare esperienze, del crescere, del conoscere saranno poi così diverse dai colonialismi, dagli imperialismi, dalla cultura unica, dalle globalizzazioni del denaro, dai villaggi turistici, dai viaggi di piacere?
Per quanto pubblicizzato come l’avventura più straordinaria che si possa immaginare, non è mai un vero viaggio quello che assimila e che prende per sé, che riduce gli altri a strumento, a occasione per la propria crescita: motivo spesso sfruttato, in apparenza innocuo e benevolo, perfino educativo, si alimenta su uno sfondo opportunistico e perverso.

Prima regola: VIAGGIARE È LASCIARSI INCONTRARE DALL’ALTRO.

Sentire l’altro, la meraviglia

Nel suo andare, Violeta si sente «sempre più affascinata» (Serrano, 2008, p. 215). Nei racconti e nei film di viaggio la fanno sempre da protagonisti lo stupore e la meraviglia. In diversi casi a ragione, per via delle nuove esperienze che si stanno facendo; in altri casi a torto: l’enfasi, la ricerca d’effetto a tutti i costi, nasconde spesso un vuoto. In nome del meraviglioso ci si lascia abbindolare con viaggi dal sapore esotico che tradiscono le attese. Eppure, in bene o in male che sia, senza meraviglia e senza stupore non può esserci viaggio.
Stupore e meraviglia: restituiscono il senso dell’altro in quanto altro, come diverso da me, irriducibile a ciò che sono io, come qualcuno che mi costringe a pensare. Con la meraviglia s’inizia a pensare, a viaggiare, a parlare, di modo che ogni viaggio è un pensiero, ogni pensiero un viaggio: perché nel viaggio si pensa, perché si viaggia senza neppure uscire di casa (cfr. De Maistre, 1999), ma soprattutto perché quando si pensa, e quando si viaggia, niente rimane più come prima.
Il viaggio corre lungo i fili della meraviglia per quello che si vede, per gli incontri che si fanno, per il proprio meravigliarsi. Marco Polo vede in Oriente cose «meravigliose» e «quasi infinite»: sono i paesi e le città che visita, sono ancor più le persone con cui si ferma molto a parlare (Polo, 1954, pp. 3-4). Persone e meraviglia s’intrecciano nel viaggio.
Non c’è viaggio, parola, racconto, senza distacco da sé. Il segreto del viaggio è il suo momento di crisi, di uscita: è l’esperienza di qualcosa che non finisce perché non è più tutto nelle proprie mani. La crisi non segna il viaggio in negativo, quasi fosse un improvviso squilibrio, qualcosa che non doveva succedere, un incidente; come se il mondo prima fosse stato in ordine. Al contrario. Se non succede qualcosa, se non si rischia, non si esce, non possono cominciare né racconti, né viaggi. I racconti di viaggio confermano in pieno la struttura di ogni narrare (cfr. Todorov, 1995, cap. 6): come per Il piccolo principe di Saint-Exupéry, o II volo di notte, il viaggio e il racconto sono possibili grazie al momento di crisi che s’incunea tra la situazione iniziale e quella finale.

Seconda regola: DI FRONTE ALL’ALTRO – NELLA MERAVIGLIA, NELL’INFINITO, NELLA CRISI – STA LA VERA PARTENZA DI UN VIAGGIO.

Stare in viaggio

Nella meraviglia l’infinito si presenta come un distrarsi da sé, un viaggio. Non è il movimento circolare di andata e ritorno, un uscire e un rientrare da casa per sbrigare le faccende di ogni giorno; e nemmeno i nostri esodi forzati del tempo libero, da weekend, da vacanze estive, che ricalcano l’identico schema.
On the road, per strada. L’incontro con l’altro non ha termine, e ci lascia sempre con un sentimento struggente che spiazza luoghi e tempi, e il senso stesso di ciò che è proprio. Crescono allora desideri e pensieri strani, che il nostalgico Ulisse forse non conosce: di non tornare più al punto di partenza, che viaggiare sia lo stesso stare in viaggio. Al «mito di Ulisse che ritorna a Itaca», Lévinas contrappone perciò «la storia di Abramo, che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora sconosciuta» (Lévinas, 1979, p. 30). Come Abramo appunto, che parte sapendo di non tornare, come la liberazione dall’Egitto, come l’impegno per una causa giusta o una cosa bella, che rapisce. Per quanto, di fronte alle difficoltà, è facile lasciarsi andare al rimpianto per non essere rimasti tranquilli in qualche Egitto, in qualche «casa di schiavitù», ma almeno con la «pancia piena» – vale a dire con l’illusione di qualche sicurezza, naturalmente garantita dal tiranno di turno (cfr. Walzer, 2004, p. 35 ss.). Si vive così, tra Ulisse (Joyce, 2008) e Abramo (Lévinas, 1979; Derrida, 2005; Id., 1967, p. 228).
Per il viaggio tutto allora si complica. Quando inizia il viaggio, con la mia iniziativa o con il fatto di trovarmi di fronte all’altro? Dove arriva il mio andare, dove invece il rispondere a una chiamata che proviene dall’altro e che trasforma impercettibilmente il proprio muoversi in un lasciarsi portare? Qual è la prima parola, l’io o il tu, come suggeriscono Nietzsche e Buber?

Terza regola: VIAGGIARE È STARE IN VIAGGIO.

Senza pentimenti. I viaggi dell’Occidente

Ci sono dei viaggi che non lo sono per davvero perché si viaggia senza staccarsi da sé, senza incontrare l’altro. Il viaggio della conferma di sé trasforma tutto in una colonia: della propria patria, dei propri interessi, dei propri piaceri, delle proprie sensazioni; e sono scenari che si replicano di continuo. Il viaggio non-viaggio è sempre, in qualche modo, di conquista o di guerra.
Dopo che l’Occidente ha circumnavigato – e forse occupato – il globo terrestre non è difficile accorgersi, come tornando al punto di partenza, di cosa stanno diventando i viaggi nella stagione in cui niente più del viaggiare sembra caratterizzarlo. I viaggi dell’Occidente sono sempre più dei viaggi senza l’altro: standardizzati, militarizzati, resi virtuali.
Sulla scena mondiale della globalizzazione il viaggio si trova al tempo stesso, e per le identiche ragioni, potenziato e avvilito: enormemente facilitato dai meccanismi globali di unificazione politica, economica, tecnologica, culturale e linguistica, è ostacolato proprio dall’uniformità eccessiva di luoghi e culture, che lo declassano a un semplice spostamento tra il centro e la periferia dell’unica metropoli mondiale (Riva, 2009, pp. 17-60). Il ritorno allo spostamento giornaliero, da pendolari del globo, fa perdere al viaggio l’incontro con l’altro. Così diffuso, così mercificato, si riduce a un oggetto di consumo, a un prodotto industriale, fino al punto che il consumo stesso diventa, come nel caso dello shopping dislocato altrove o dei turismi sessuali, l’unico motivo del viaggio. Il consumo divora anche il viaggio.
I viaggi dell’Occidente sono sempre più militarizzati. Nell’era del viaggio generalizzato risorgono frontiere e dogane: magari meno percepibili di quelle di un tempo, contenute nell’esibizione dell’intimo ai controlli degli aeroporti, ma pur sempre frontiere e dogane, posti di blocco. Solo in nome della sicurezza? Le procedure d’identificazione del viaggiatore hanno perso il loro carattere rituale e d’incontro (cfr. Leed, 2007; Canestrini, 2004), per farsi indagine poliziesca e interrogatorio, radiografie oscene. Dall’altra parte ci sono i viaggi degli immigrati, che militarizzati rimangono nella vecchia maniera delle sentinelle armate e dei fili spinati. Ci sono pure i viaggi degli eserciti.
Viaggi, in generale, dove forse non c’è più nessuno da incontrare. Fine stessa di ogni viaggiare.

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Nostalgia del padre. Guida alla lettura delle opere d’arte citate

Da NPG di febbraio 2023.

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di Maria Rattà

Stelle, cielo… padre: il viaggio sui percorsi della nostalgia si arricchisce di una nuova parola dalle molte declinazioni (padre biologico, padre adottivo, padre celeste) incardinate nell’unica essenza dell’ancestralità e della generazione. Come infatti il desiderio delle stelle e dell’Assoluto è connaturale all’uomo, così la nostalgia del padre nasce con noi (lo sottolinea anche la psicologia): è una delle prime necessità dell’essere umano, espressione del bisogno di essere accuditi nel corpo, e di sentirsi al sicuro, protetti dai pericoli, al riparo dalla paura che scatta in noi venendo al mondo. È così importante, il padre, che perderlo significa sentirsi mancare il terreno sotto i piedi, specialmente se la perdita è prematura. Giovanni Pascoli, nella sua lirica X Agosto, ne parla in toni intensi, paragonando la figura paterna, barbaramente uccisa, a una rondine che faceva ritorno al proprio tetto portando nel becco un insetto per i rondinini. Si rimane così ibernati nell’attesa di colui che non farà più ritorno: un dolore immenso, come quel pianto di stelle che dal Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale, inonda quest’atomo opaco del Male che è il mondo. Nel pianto delle stelle, come in un gioco etimologico, è tutto il desiderio, la nostalgia di ritrovare chi non abita più questa terra.
Ma è anche figura “ambivalente”, il padre: uomo della protezione e uomo della legge, di quel divieto non scritto per cui non tutto è possibile, ma, anzi, per il quale ci sono dei limiti, il limite, come elemento fondamentale per la maturazione del figlio.
Dall’amore per e dal bisogno del padre si può passare allora al rifiuto del, alla fuga dal padre. Tematiche che la fiaba, nella sua sapiente pedagogia, fin da piccoli ci presenta attraverso uno dei suoi protagonisti più conosciuti: il Pinocchio di Carlo Collodi. Una storia per grandi e piccini, in verità, perché nelle vicende di questo burattino di legno creato dal buon Geppetto, e che fugge dal proprio “padre” e “creatore” per andare alla ricerca della libertà, ritroviamo anche il riflesso della vicenda di un altro figlio ribelle: il figliol prodigo. «Quella di Pinocchio» – diceva il card. Biffi – «è la sintesi dell’avventura umana. Comincia con un artigiano che costruisce un burattino di legno chiamandolo subito, sorprendentemente, figlio. E finisce con il burattino che figlio lo diventa per davvero. Tra i due estremi c’è la storia del libro. Che è identica, nella struttura, alla storia sacra: c’è una fuga dal padre, c’è un tormentato e accidentato ritorno al padre, c’è un destino ultimo che è partecipazione alla vita del padre. Il tutto grazie a una salvezza data per superare la distanza incolmabile, con le sole forze del burattino, tra il punto di partenza e l’arrivo. Pinocchio è una fiaba. Ma racconta la vera storia dell’uomo, che è la storia cristiana della salvezza».
Nelle pagine della Bibbia si parla di un padre terreno da cui due figli (non uno!) fuggono in modo differente, e James Tissot, nella sua serie Il figliol prodigo nella vita moderna (realizzato in quattro tele fra il 1880 e il 1882) con sottigliezza psicologica descrive il mondo interiore dei personaggi che ruotano attorno alla parabola, interrogando, attraverso di essi, gli spettatori di tutti i tempi: perché la modernità del contesto in cui cala i suoi protagonisti dipinti è in verità la modernità di chi guarda. Siamo tutti dei prodighi e siamo tutti anche come l’altro figlio che resta, ma è in realtà lontano, con un piede dentro e uno fuori di casa (cfr. quarto dipinto del file pdf); possiamo anche vivere l’esperienza di una genitorialità difficile, incompresa, che fatica a rapportarsi alla gioventù inquieta e desiderosa di inseguire un sogno di indipendenza e affrancazione dalla famiglia di origine, a volte anzitempo e senza le risorse necessarie (soprattutto morali!) per farlo senza perdersi nella giungla del mondo.
E la fine della parabola non solo esprime l’attrito fra legge e desiderio che spesso si avverte guardando il padre solo con gli occhi del figlio ansioso di trovare (e capire) la vera libertà, ma ci racconta anche chi è veramente il padre.

«La legge del padre non è contro il desiderio, ma supporta il desiderio. Freud dice: un padre è qualcuno che sa tenere gli occhi chiusi. Il padre è il volto umano della legge, e il suo compito è umanizzare la legge, e per umanizzare la legge bisogna renderla un po’ cieca, non bisogna vedere tutto. Ecco, questa possibilità di chiudere gli occhi rappresenta la maniera paterna di declinare in senso umano la legge. La legge è umana in quanto ospita il perdono, in quanto sa fare delle eccezioni, non si applica come un dispositivo acefalo, automatico» (Massimo Recalcati, Lessico famigliare. Il padre).[1]

Solo riconoscendo nel padre questa capacità di contemperare giustizia e misericordia è possibile “riconciliarsi” con lui, e passare dalla fuga all’obbedienza non cieca, ma voluta, ragionata… in una parola, libera. Anche l’esperienza di Gesù, come uomo, lo testimonia. A lui viene dato un padre terreno, Giuseppe, non padre nella carne, ma certamente vero padre, incaricato da Dio di assumerne le veci, tanto da esserne l’ombra, proprio come Jan Dobraczynski, scrittore polacco del secolo scorso, definisce san Giuseppe in uno dei suoi romanzi, usando una felice espressione ripresa anche da papa Francesco nella sua lettera apostolica Patris Corde (dedicata proprio alla figura del santo patriarca). Per parlare del padre terreno di Gesù facciamo uno strappo alla regola di questa rubrica, e ci caliamo anche in espressioni artistiche un po’ meno recenti. Sono infatti tele e sculture più antiche a esprimerne la paternità in una chiave ricca di sfumature. Così Philippe de Champaigne, ne Il sogno di san Giuseppe (1642-43) dipinge alla perfezione il padre umano che accetta i piani del Padre celeste, accostando l’annunciazione al falegname a quella della Vergine Maria, in una concretezza che si manifesta attraverso i dettagli dell’abbandono al sonno (la docilità alla voce di Dio) e dei calzari deposti, indice di un uomo che sa mantenere il contatto con la realtà pur essendo capace di coltivare grandi sogni. Giuseppe è un riflesso coerente del Padre: la Legge non si fa per lui un ostacolo ad accogliere Maria quando l’Onnipotente gli indica una strada che va al di là della Legge stessa. E così egli non diventa non un padre-padrone, ma un padre tenero, espressione della tenerezza del Padre Celeste, in grado di accompagnare Gesù sulle strade della vita, insegnandogli ben più di un mestiere. Se ne trova traccia artistica soprattutto nell’arte del XVII e XVIII sec., in rappresentazioni in cui Giuseppe cammina tenendo per mano il piccolo Gesù. Se Cristo ha nostalgia del Padre Celeste, di quel Dio che in tutte le religioni trova il suo titolo più antico proprio in quello di “padre”, di quel Dio di cui è venuto a mostrarci il volto paterno (insegnandoci a pregarlo come “Padre nostro”), ciò è certamente anche merito di Giuseppe, in cui il Figlio di Dio ha potuto rintracciare alcuni dei tratti della paternità divina. La nostalgia del Padre raggiungerà l’apice, in Gesù, nel momento più duro della sua vita: sulla Croce. Lì, nel grido angoscioso che Ann Kim esprime nella sua tela Eloi, Eloi, lama Sabachthani? (1998), citando anche L’Urlo di Munch, la parabola umana del Cristo ci dà la risposta alla nostalgia del Padre: la fede, il pieno abbandono nel Dio che non lascia soli i propri figli. Con le parole del poeta Bartolo Cattafi (poesie È qui che Dio e Libertà) potremmo riassumere questa nostalgia, che si fa certezza dell’amore paterno che mai lascia i propri figli in balia del caso:

È qui che Dio m’assiste / lungo la parte più assurda della curva / saldamente incollato / su questa traiettoria / ad occhi chiusi vinco / la vertigine il vuoto la mia storia.

Oh sì non alzo/ abbasso le mie ali/ ai Tuoi piedi mi metto/ libero lieve occhi socchiusi/ aspetto assorbo accetto/ dall’ultimo al primo i Tuoi soprusi.

Perché è più facile volare in alto se a sollevarci sono le braccia del Padre.

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