L’eucaristia non è cosa per giovani (?)

Da NPG di aprile/maggio.

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di Manuel Belli

Nel piano pastorale di una diocesi ho letto che le persone avrebbero abbandonato la parrocchia tradizionale, che oggi entrerebbero in contatto con la chiesa in un modo diverso e in luoghi diversi, per esempio attraverso le scuole o le case di formazione, e che per molti un luogo di incontro sarebbe anche la celebrazione eucaristica domenicale. La partecipazione dei cattolici all’eucaristia scende sotto il 10% e tuttavia i responsabili continuano a scrivere che “per molti” un luogo di incontro con la chiesa sarebbe proprio la celebrazione eucaristica domenicale. Allora a partire da quale numero oseremo parlare di “poco”? Dobbiamo scendere ancora fino al per mille?[1]

Mi sono giocato ottocento dei caratteri che ho a disposizione con questa citazione, ma occorre partire da un sano “bagno” di realismo: tra coloro che si dicono cattolici, l’incontro con Cristo nell’eucaristia accade per una stretta minoranza di credenti, e le percentuali sono addirittura inferiori per la fascia di età tra i trenta e i quarant’anni. Se volessimo dirla senza girarci attorno e senza addolcire troppo la pillola, suonerebbe così: l’eucaristia non è un luogo in cui i giovani oggi incontrano il Signore, se non per una stretta minoranza. Valérie le Chevalier nelle sue pubblicazioni invita a superare l’identificazione del cattolico con il discepolo o con colui che partecipa ai riti, e statisticamente la questione è evidente: pochissimi giovani partecipano ai riti, ma in Italia poco più della metà non smette di dirsi cattolico[2]. Ben inteso: è un luogo di incontro con il Signore che vanta una partecipazione quattordici volte maggiore rispetto alle iniziative parrocchiali extra-liturgiche. Gli ultimi dati Istat dicono che il 14% dei giovani italiani va a messa circa una volta alla settimana, mentre circa l’1% transita con una certa regolarità negli ambienti parrocchiali[3]. Sviluppiamo allora alcuni pensieri in due direzioni: cosa succede per quel giovane e mezzo su dieci che viene a messa? Cosa potrebbe succedere per gli altri?

Per quell’uno e mezzo su dieci

Riformuliamo la questione: pochissimi giovani incontrano il Signore nell’eucaristia, tuttavia è probabilmente uno dei luoghi di incontro statisticamente più rilevante e teologicamente non vi è dubbio che sia il luogo più importante. Ebbene: dopo Sacrosanctum Concilium la Chiesa ha corso il rischio di ritenere che anche quel giovane e mezzo su dieci che viene ai riti deve farlo attivamente, piamente e consapevolmente e non deve assistervi come muto o estraneo spettatore (SC 48). In effetti, nell’instrumentum laboris del Sinodo dei Vescovi del 2018 si fa riferimento al questionario a cui molti giovani hanno lavorato e si dice che «molte risposte al questionario segnalano che i giovani sono sensibili alla qualità della liturgia» (187). La sfida sembra molto interessante: i giovani vengono molto meno all’eucaristia, ma chi viene chiede un’alta qualità della celebrazione liturgica. Sembra che nella coscienza dei giovani sia stato definitivamente bandito l’assioma per cui la messa domenicale sia un precetto a cui assolvere, ma sia intervenuta l’idea che sia un luogo della fede importante e da curare.
Ma cosa significa questo maggiore desiderio di qualità nella celebrazione? Sempre nel testo preparatorio al Sinodo leggiamo:

I giovani più partecipi della vita della Chiesa hanno espresso varie richieste specifiche. Ritorna spesso il tema della liturgia, che vorrebbero viva e vicina, mentre spesso non consente di fare un’esperienza di «alcun senso di comunità o di famiglia in quanto Corpo di Cristo», e delle omelie, che molti ritengono inadeguate per accompagnarli nel discernimento della loro situazione alla luce del Vangelo. «I giovani sono attratti dalla gioia, che dovrebbe essere un segno distintivo della nostra fede», ma che spesso le comunità cristiane non sembrano in grado di trasmettere. (69)

I giovani interpellati in vista del Sinodo chiedevano dunque un maggiore senso comunitario. Si tratta di una richiesta da interpretare: se è palese la contestazione di celebrazioni minimali e incentrare sul minimo necessario per la celebrazione, evidente il gruppetto di giovani che partecipa ai riti sente una certa discrepanza tra le parole della celebrazione (spesso nell’area semantica dell’amore) e una certa freddezza dell’assemblea liturgica.
Il rito ha conosciuto un’importante sotto-determinazione nella storia della riflessione teologica, ed è stato non raramente relegato a condizione necessaria perché si diano le grazie tipiche dell’eucaristia, ossia la presenza reale di Cristo e il suo sacrificio. L’assemblea liturgica in questo contesto era semplicemente una questione di praticità: tra corpo eucaristico di Cristo e corpo ecclesiale non era evidente alcun nesso nella celebrazione. I pochi superstiti giovani alle celebrazioni chiedono un atto di reintegrazione: il rito non è solo l’occasione per avere l’eucaristia, ma è necessario che sia uno spazio celebrativo intonato sull’eucaristia. Sacrosanctum Concilium insegna che tra i riti, le preghiere e la presenza di Cristo nell’eucaristia non ci deve essere alterità.
La provocazione che raccogliamo dal mondo giovanile non è semplicemente la richiesta di messe più animate, più smart, più solenni, ma più vere. Ciò che viene celebrato e la qualità della celebrazione vivono di una dissonanza che chiede di essere colmata. Giraudo sottolinea come i liturgisti del II millennio «ignorando del tutto i giochi di forze e la dinamica teologica degli elementi anaforici, si preoccupano unicamente del vano centrale della loro costruzione – fuori di metafora: la consacrazione –, e questo vano centrale, lo curano nei minimi particolari e lo caricano di addobbi, esattamente come la sala del cenacolo. Ne consegue che tale vano o elemento centrale, peraltro importante, risulta come librato in aria, senza più alcuna possibilità di accesso agli altri elementi della struttura»[4].

L’eucaristia non può essere celebrata con le uniche preoccupazioni della validità e della chiarezza del messaggio concettuale. Ciò che è non verbale, relazionale, bello, elegante, affettivamente non neutro deve essere recuperato e curato.