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Sognatori con le ali di cartapesta

Da Note di Pastorale Giovanile, una nuova rubrica per il 2023: Dicono di sé… dicono di noi. I giovani narrano e si narrano.

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di Virginia Drago

Diceva il Visconte Dimezzato di Calvino: «Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane». Bisognerebbe trovare il coraggio di smentirlo e anche di dargli ragione. Spesso ci si sente incompleti e davvero lo siamo; spesso non è così e saremmo pure capaci di “toccare il cielo con il dito”, se solo ne avessimo la possibilità.
Bisognerebbe partire da un breve e non complesso ragionamento: uno dei punti di ritrovo per noi giovani, il luogo dove passiamo la maggior parte delle nostre giornate, checché se ne dica, è la scuola o l’università. Ore e ore, dietro quei banchi; ore e ore di lezione, esami, verifiche e interrogazioni; ore e ore di emozioni, gioie e delusioni, sogni e passioni condivise. Se volete osservarci, studiarci, o anche ammirarci, basterà entrare in una classe o in un’aula qualsiasi per capire che poi così incompleti non lo siamo, o se lo siamo è perché stiamo cercando una parte mancante, un tassello di quel puzzle enorme – noi stessi – costruito con fatica e determinazione.
Ci sono dei periodi in cui ci si ferma poco a riflettere e pensare, perché presi dal lavoro, dallo studio, dalle scadenze, dal tempo che sembra non bastare mai. Ci sono dei periodi, più o meno lunghi, in cui siamo chiamati a scegliere su come e cosa investire quel tempo che ci è dato. Diventando più grande, ho capito che è la scelta più complicata da fare.
Qualsiasi scelta richiede coraggio e volontà, sacrificio e passione, spesso rinunce difficili, difficilissime; ma sono scelte, e vanno fatte! Allora è da qui, dal momento in cui si inizia a scegliere: se studiare matematica o italiano, se diventar giurista o letterato, se esser fisico o chimico, se lavorare o studiare; se essere felice, arrabbiato, indifferente, se odiare o amare; persino se scegliere o no. Dietro ogni passo fatto c’è una storia intricata e complessa che meriterebbe la scrittura di un romanzo.
Sono tantissime le domande che ci facciamo, le insicurezze che ci portiamo dietro, le soddisfazioni che accumuliamo e conserviamo come punti di ripartenza quando tutto sembra andare storto. Ho spesso sentito parlare di noi giovani come: svogliati, disattenti, poveri di valori, deboli, poco pronti alla società feroce che ci circonda. Ho anche capito che in realtà “l’altro mondo”, quello dei “grandi esperti”, non vada poi meglio: basta aprire le pagine di cronaca di un giornale e tutto viene su a galla, come “tutti i nodi vengono al pettine”.
Mi piace quando qualcuno ha osato, in alcuni contesti, definire noi giovani delle “spugne”. Noi assorbiamo tutto ciò che ci si insegna, e anche ciò che ci manca, e poi diventiamo tutto ciò che ci è stato insegnato o l’opposto. Abbiamo forti spiriti critici, nonostante le critiche dei meno giovani; siamo attenti a qualsiasi movimento, come dei cecchini; cerchiamo di imparare e di sbagliare con le nostre gambe e le nostre menti. Ma abbiamo bisogno, soprattutto quando ci si dice di essere grandi e si pretendono da noi “cose da grandi”, di essere prima accompagnati, sostenuti, incentivati, motivati, anche rimproverati e corretti.
Spesso abbiamo la fortuna di incontrare chi crede in noi, come presente e futuro; altre volte chi non scommetterebbe neanche un euro sulle nostre capacità e potenzialità. E purtroppo, devo dire, che un numero maggiore di persone popolano la seconda categoria. Non bisogna perdersi d’animo, perché anche per l’unica persona che crede o crederà in noi vale la pena continuare ad essere quella rivoluzione che diciamo di voler attuare, quel cambiamento a cui guardiamo, quella speranza che conserviamo.
Siamo sognatori con le ali di cartapesta che si scontrano con la realtà: a volte cadiamo senza perdere l’equilibrio, altre volte l’impatto è così forte da impedirci di rialzarci nell’istante dopo. Abbiamo delle aspirazioni, dei progetti, degli obiettivi da portare a termine, guardiamo sempre in alto. Citando e parafrasando in parte Pirandello: “socchiudendo le palpebre dietro le lenti” pigliamo “tra i peli delle ciglia la luce d’una di quelle stelle, e tra l’occhio e la stella” stabiliamo “il legame d’un sottilissimo filo luminoso, e vi” avviamo “l’anima a passeggiare come” ragnetti “smarriti”. Lo smarrimento, quasi dantesco, tipico di chi, nonostante sia dato per fallito, crede di non esserlo e lavora per dimostrare il contrario.
E forse saremo incompleti alla ricerca della nostra completezza o siamo completi e ci sentiamo il contrario, perché desiderosi di essere migliori ogni giorno di più. Però non additateci come semplici sognatori “con la testa fra le nuvole”, perché ci nutriamo di concretezza, di vita quotidiana, come i più grandi, semplicemente con un pizzico di freschezza che la giovane età ancora ci consente di assaporare.
Dice Alessandro D’Avenia: «Forse ci si sente incompleti e si è soltanto uomini». Sarebbe bello e coraggioso ripartire da qui e riscoprirsi due facce della stessa medaglia: da una parte chi con esperienza e qualche ruga in più, dall’altra chi con la freschezza, il fuoco dentro e la forza di un gigante. Sarebbe bello e coraggioso guardare ad una vita e una società, una nuova società, basata sullo scambio, un do ut des della contemporaneità fatto di crescita, investimento e maturazione reciproca.

 

Otto regole per viaggiare

Dal sito di NPG, un articolo di approfondimento sul tema del dossier di febbraio “Spiritualità del cammino”.

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di Franco Riva

Vedere è «lasciarsi scuotere», viaggiare è incontrarsi: passeggiare significa «permettere al mondo di entrare dentro noi stessi» (R. Walser, 2006). Del viaggio non si comprende nulla senza il rapporto con l’altro da sé. Non per una prevedibile curiosità nei suoi confronti, ma per lo stordimento che si riceve di contraccolpo quando si prende sul serio il pensiero che il mondo non è fatto a propria immagine e somiglianza.
Per Blanchot il viaggio, «l’esodo, l’esilio, indicano un rapporto positivo con l’esteriorità, e l’esigenza di questo rapporto è un invito a non accontentarsi di ciò che è nostro (ossia del nostro potere di assimilare ogni cosa, identificando e riferendo tutto al nostro Io)» (Blanchot, 1981, p. 168; cfr. Sartre, 1993, p. 89). Troppo comodo perciò accontentarsi di ciò che è nostro, troppo facile, violento, prendere sempre per sé. Si viaggia solo al di là di se stessi.
Essere nati, abitare il mondo, vivere, esistere, è invece un’avventura: un’uscita, un esodo, un esilio, un lasciare – un «naufragio» (cfr. Blumenberg, 2005, pp. 37 ss.). Viaggiare è metafora della vita; vivere è metafora del viaggio. La vita è un esporsi, un «cammino», come scrive Dante all’inizio della Commedia, un errare, una «via» dove bisogna guardarsi bene «dal prendere se stesso per fine» (Buber, 1990, p. 55).
Metafora della vita, il viaggio lo è pure della democrazia. Finché gli uomini continuano a ingurgitare il mondo e a divorarsi a vicenda l’un l’altro nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, nella città non ci sarà mai giustizia (Esiodo, 274-280). L’assimilazione dell’altro ha nomi diversi, ora più morbidi, ora più cruenti, che si rigirano tutti però, come una trottola, sullo stesso punto del prendere per sé: le logiche tenacemente individualistiche del fare esperienze, del crescere, del conoscere saranno poi così diverse dai colonialismi, dagli imperialismi, dalla cultura unica, dalle globalizzazioni del denaro, dai villaggi turistici, dai viaggi di piacere?
Per quanto pubblicizzato come l’avventura più straordinaria che si possa immaginare, non è mai un vero viaggio quello che assimila e che prende per sé, che riduce gli altri a strumento, a occasione per la propria crescita: motivo spesso sfruttato, in apparenza innocuo e benevolo, perfino educativo, si alimenta su uno sfondo opportunistico e perverso.

Prima regola: VIAGGIARE È LASCIARSI INCONTRARE DALL’ALTRO.

Sentire l’altro, la meraviglia

Nel suo andare, Violeta si sente «sempre più affascinata» (Serrano, 2008, p. 215). Nei racconti e nei film di viaggio la fanno sempre da protagonisti lo stupore e la meraviglia. In diversi casi a ragione, per via delle nuove esperienze che si stanno facendo; in altri casi a torto: l’enfasi, la ricerca d’effetto a tutti i costi, nasconde spesso un vuoto. In nome del meraviglioso ci si lascia abbindolare con viaggi dal sapore esotico che tradiscono le attese. Eppure, in bene o in male che sia, senza meraviglia e senza stupore non può esserci viaggio.
Stupore e meraviglia: restituiscono il senso dell’altro in quanto altro, come diverso da me, irriducibile a ciò che sono io, come qualcuno che mi costringe a pensare. Con la meraviglia s’inizia a pensare, a viaggiare, a parlare, di modo che ogni viaggio è un pensiero, ogni pensiero un viaggio: perché nel viaggio si pensa, perché si viaggia senza neppure uscire di casa (cfr. De Maistre, 1999), ma soprattutto perché quando si pensa, e quando si viaggia, niente rimane più come prima.
Il viaggio corre lungo i fili della meraviglia per quello che si vede, per gli incontri che si fanno, per il proprio meravigliarsi. Marco Polo vede in Oriente cose «meravigliose» e «quasi infinite»: sono i paesi e le città che visita, sono ancor più le persone con cui si ferma molto a parlare (Polo, 1954, pp. 3-4). Persone e meraviglia s’intrecciano nel viaggio.
Non c’è viaggio, parola, racconto, senza distacco da sé. Il segreto del viaggio è il suo momento di crisi, di uscita: è l’esperienza di qualcosa che non finisce perché non è più tutto nelle proprie mani. La crisi non segna il viaggio in negativo, quasi fosse un improvviso squilibrio, qualcosa che non doveva succedere, un incidente; come se il mondo prima fosse stato in ordine. Al contrario. Se non succede qualcosa, se non si rischia, non si esce, non possono cominciare né racconti, né viaggi. I racconti di viaggio confermano in pieno la struttura di ogni narrare (cfr. Todorov, 1995, cap. 6): come per Il piccolo principe di Saint-Exupéry, o II volo di notte, il viaggio e il racconto sono possibili grazie al momento di crisi che s’incunea tra la situazione iniziale e quella finale.

Seconda regola: DI FRONTE ALL’ALTRO – NELLA MERAVIGLIA, NELL’INFINITO, NELLA CRISI – STA LA VERA PARTENZA DI UN VIAGGIO.

Stare in viaggio

Nella meraviglia l’infinito si presenta come un distrarsi da sé, un viaggio. Non è il movimento circolare di andata e ritorno, un uscire e un rientrare da casa per sbrigare le faccende di ogni giorno; e nemmeno i nostri esodi forzati del tempo libero, da weekend, da vacanze estive, che ricalcano l’identico schema.
On the road, per strada. L’incontro con l’altro non ha termine, e ci lascia sempre con un sentimento struggente che spiazza luoghi e tempi, e il senso stesso di ciò che è proprio. Crescono allora desideri e pensieri strani, che il nostalgico Ulisse forse non conosce: di non tornare più al punto di partenza, che viaggiare sia lo stesso stare in viaggio. Al «mito di Ulisse che ritorna a Itaca», Lévinas contrappone perciò «la storia di Abramo, che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora sconosciuta» (Lévinas, 1979, p. 30). Come Abramo appunto, che parte sapendo di non tornare, come la liberazione dall’Egitto, come l’impegno per una causa giusta o una cosa bella, che rapisce. Per quanto, di fronte alle difficoltà, è facile lasciarsi andare al rimpianto per non essere rimasti tranquilli in qualche Egitto, in qualche «casa di schiavitù», ma almeno con la «pancia piena» – vale a dire con l’illusione di qualche sicurezza, naturalmente garantita dal tiranno di turno (cfr. Walzer, 2004, p. 35 ss.). Si vive così, tra Ulisse (Joyce, 2008) e Abramo (Lévinas, 1979; Derrida, 2005; Id., 1967, p. 228).
Per il viaggio tutto allora si complica. Quando inizia il viaggio, con la mia iniziativa o con il fatto di trovarmi di fronte all’altro? Dove arriva il mio andare, dove invece il rispondere a una chiamata che proviene dall’altro e che trasforma impercettibilmente il proprio muoversi in un lasciarsi portare? Qual è la prima parola, l’io o il tu, come suggeriscono Nietzsche e Buber?

Terza regola: VIAGGIARE È STARE IN VIAGGIO.

Senza pentimenti. I viaggi dell’Occidente

Ci sono dei viaggi che non lo sono per davvero perché si viaggia senza staccarsi da sé, senza incontrare l’altro. Il viaggio della conferma di sé trasforma tutto in una colonia: della propria patria, dei propri interessi, dei propri piaceri, delle proprie sensazioni; e sono scenari che si replicano di continuo. Il viaggio non-viaggio è sempre, in qualche modo, di conquista o di guerra.
Dopo che l’Occidente ha circumnavigato – e forse occupato – il globo terrestre non è difficile accorgersi, come tornando al punto di partenza, di cosa stanno diventando i viaggi nella stagione in cui niente più del viaggiare sembra caratterizzarlo. I viaggi dell’Occidente sono sempre più dei viaggi senza l’altro: standardizzati, militarizzati, resi virtuali.
Sulla scena mondiale della globalizzazione il viaggio si trova al tempo stesso, e per le identiche ragioni, potenziato e avvilito: enormemente facilitato dai meccanismi globali di unificazione politica, economica, tecnologica, culturale e linguistica, è ostacolato proprio dall’uniformità eccessiva di luoghi e culture, che lo declassano a un semplice spostamento tra il centro e la periferia dell’unica metropoli mondiale (Riva, 2009, pp. 17-60). Il ritorno allo spostamento giornaliero, da pendolari del globo, fa perdere al viaggio l’incontro con l’altro. Così diffuso, così mercificato, si riduce a un oggetto di consumo, a un prodotto industriale, fino al punto che il consumo stesso diventa, come nel caso dello shopping dislocato altrove o dei turismi sessuali, l’unico motivo del viaggio. Il consumo divora anche il viaggio.
I viaggi dell’Occidente sono sempre più militarizzati. Nell’era del viaggio generalizzato risorgono frontiere e dogane: magari meno percepibili di quelle di un tempo, contenute nell’esibizione dell’intimo ai controlli degli aeroporti, ma pur sempre frontiere e dogane, posti di blocco. Solo in nome della sicurezza? Le procedure d’identificazione del viaggiatore hanno perso il loro carattere rituale e d’incontro (cfr. Leed, 2007; Canestrini, 2004), per farsi indagine poliziesca e interrogatorio, radiografie oscene. Dall’altra parte ci sono i viaggi degli immigrati, che militarizzati rimangono nella vecchia maniera delle sentinelle armate e dei fili spinati. Ci sono pure i viaggi degli eserciti.
Viaggi, in generale, dove forse non c’è più nessuno da incontrare. Fine stessa di ogni viaggiare.

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Nostalgia del padre. Guida alla lettura delle opere d’arte citate

Da NPG di febbraio 2023.

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di Maria Rattà

Stelle, cielo… padre: il viaggio sui percorsi della nostalgia si arricchisce di una nuova parola dalle molte declinazioni (padre biologico, padre adottivo, padre celeste) incardinate nell’unica essenza dell’ancestralità e della generazione. Come infatti il desiderio delle stelle e dell’Assoluto è connaturale all’uomo, così la nostalgia del padre nasce con noi (lo sottolinea anche la psicologia): è una delle prime necessità dell’essere umano, espressione del bisogno di essere accuditi nel corpo, e di sentirsi al sicuro, protetti dai pericoli, al riparo dalla paura che scatta in noi venendo al mondo. È così importante, il padre, che perderlo significa sentirsi mancare il terreno sotto i piedi, specialmente se la perdita è prematura. Giovanni Pascoli, nella sua lirica X Agosto, ne parla in toni intensi, paragonando la figura paterna, barbaramente uccisa, a una rondine che faceva ritorno al proprio tetto portando nel becco un insetto per i rondinini. Si rimane così ibernati nell’attesa di colui che non farà più ritorno: un dolore immenso, come quel pianto di stelle che dal Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale, inonda quest’atomo opaco del Male che è il mondo. Nel pianto delle stelle, come in un gioco etimologico, è tutto il desiderio, la nostalgia di ritrovare chi non abita più questa terra.
Ma è anche figura “ambivalente”, il padre: uomo della protezione e uomo della legge, di quel divieto non scritto per cui non tutto è possibile, ma, anzi, per il quale ci sono dei limiti, il limite, come elemento fondamentale per la maturazione del figlio.
Dall’amore per e dal bisogno del padre si può passare allora al rifiuto del, alla fuga dal padre. Tematiche che la fiaba, nella sua sapiente pedagogia, fin da piccoli ci presenta attraverso uno dei suoi protagonisti più conosciuti: il Pinocchio di Carlo Collodi. Una storia per grandi e piccini, in verità, perché nelle vicende di questo burattino di legno creato dal buon Geppetto, e che fugge dal proprio “padre” e “creatore” per andare alla ricerca della libertà, ritroviamo anche il riflesso della vicenda di un altro figlio ribelle: il figliol prodigo. «Quella di Pinocchio» – diceva il card. Biffi – «è la sintesi dell’avventura umana. Comincia con un artigiano che costruisce un burattino di legno chiamandolo subito, sorprendentemente, figlio. E finisce con il burattino che figlio lo diventa per davvero. Tra i due estremi c’è la storia del libro. Che è identica, nella struttura, alla storia sacra: c’è una fuga dal padre, c’è un tormentato e accidentato ritorno al padre, c’è un destino ultimo che è partecipazione alla vita del padre. Il tutto grazie a una salvezza data per superare la distanza incolmabile, con le sole forze del burattino, tra il punto di partenza e l’arrivo. Pinocchio è una fiaba. Ma racconta la vera storia dell’uomo, che è la storia cristiana della salvezza».
Nelle pagine della Bibbia si parla di un padre terreno da cui due figli (non uno!) fuggono in modo differente, e James Tissot, nella sua serie Il figliol prodigo nella vita moderna (realizzato in quattro tele fra il 1880 e il 1882) con sottigliezza psicologica descrive il mondo interiore dei personaggi che ruotano attorno alla parabola, interrogando, attraverso di essi, gli spettatori di tutti i tempi: perché la modernità del contesto in cui cala i suoi protagonisti dipinti è in verità la modernità di chi guarda. Siamo tutti dei prodighi e siamo tutti anche come l’altro figlio che resta, ma è in realtà lontano, con un piede dentro e uno fuori di casa (cfr. quarto dipinto del file pdf); possiamo anche vivere l’esperienza di una genitorialità difficile, incompresa, che fatica a rapportarsi alla gioventù inquieta e desiderosa di inseguire un sogno di indipendenza e affrancazione dalla famiglia di origine, a volte anzitempo e senza le risorse necessarie (soprattutto morali!) per farlo senza perdersi nella giungla del mondo.
E la fine della parabola non solo esprime l’attrito fra legge e desiderio che spesso si avverte guardando il padre solo con gli occhi del figlio ansioso di trovare (e capire) la vera libertà, ma ci racconta anche chi è veramente il padre.

«La legge del padre non è contro il desiderio, ma supporta il desiderio. Freud dice: un padre è qualcuno che sa tenere gli occhi chiusi. Il padre è il volto umano della legge, e il suo compito è umanizzare la legge, e per umanizzare la legge bisogna renderla un po’ cieca, non bisogna vedere tutto. Ecco, questa possibilità di chiudere gli occhi rappresenta la maniera paterna di declinare in senso umano la legge. La legge è umana in quanto ospita il perdono, in quanto sa fare delle eccezioni, non si applica come un dispositivo acefalo, automatico» (Massimo Recalcati, Lessico famigliare. Il padre).[1]

Solo riconoscendo nel padre questa capacità di contemperare giustizia e misericordia è possibile “riconciliarsi” con lui, e passare dalla fuga all’obbedienza non cieca, ma voluta, ragionata… in una parola, libera. Anche l’esperienza di Gesù, come uomo, lo testimonia. A lui viene dato un padre terreno, Giuseppe, non padre nella carne, ma certamente vero padre, incaricato da Dio di assumerne le veci, tanto da esserne l’ombra, proprio come Jan Dobraczynski, scrittore polacco del secolo scorso, definisce san Giuseppe in uno dei suoi romanzi, usando una felice espressione ripresa anche da papa Francesco nella sua lettera apostolica Patris Corde (dedicata proprio alla figura del santo patriarca). Per parlare del padre terreno di Gesù facciamo uno strappo alla regola di questa rubrica, e ci caliamo anche in espressioni artistiche un po’ meno recenti. Sono infatti tele e sculture più antiche a esprimerne la paternità in una chiave ricca di sfumature. Così Philippe de Champaigne, ne Il sogno di san Giuseppe (1642-43) dipinge alla perfezione il padre umano che accetta i piani del Padre celeste, accostando l’annunciazione al falegname a quella della Vergine Maria, in una concretezza che si manifesta attraverso i dettagli dell’abbandono al sonno (la docilità alla voce di Dio) e dei calzari deposti, indice di un uomo che sa mantenere il contatto con la realtà pur essendo capace di coltivare grandi sogni. Giuseppe è un riflesso coerente del Padre: la Legge non si fa per lui un ostacolo ad accogliere Maria quando l’Onnipotente gli indica una strada che va al di là della Legge stessa. E così egli non diventa non un padre-padrone, ma un padre tenero, espressione della tenerezza del Padre Celeste, in grado di accompagnare Gesù sulle strade della vita, insegnandogli ben più di un mestiere. Se ne trova traccia artistica soprattutto nell’arte del XVII e XVIII sec., in rappresentazioni in cui Giuseppe cammina tenendo per mano il piccolo Gesù. Se Cristo ha nostalgia del Padre Celeste, di quel Dio che in tutte le religioni trova il suo titolo più antico proprio in quello di “padre”, di quel Dio di cui è venuto a mostrarci il volto paterno (insegnandoci a pregarlo come “Padre nostro”), ciò è certamente anche merito di Giuseppe, in cui il Figlio di Dio ha potuto rintracciare alcuni dei tratti della paternità divina. La nostalgia del Padre raggiungerà l’apice, in Gesù, nel momento più duro della sua vita: sulla Croce. Lì, nel grido angoscioso che Ann Kim esprime nella sua tela Eloi, Eloi, lama Sabachthani? (1998), citando anche L’Urlo di Munch, la parabola umana del Cristo ci dà la risposta alla nostalgia del Padre: la fede, il pieno abbandono nel Dio che non lascia soli i propri figli. Con le parole del poeta Bartolo Cattafi (poesie È qui che Dio e Libertà) potremmo riassumere questa nostalgia, che si fa certezza dell’amore paterno che mai lascia i propri figli in balia del caso:

È qui che Dio m’assiste / lungo la parte più assurda della curva / saldamente incollato / su questa traiettoria / ad occhi chiusi vinco / la vertigine il vuoto la mia storia.

Oh sì non alzo/ abbasso le mie ali/ ai Tuoi piedi mi metto/ libero lieve occhi socchiusi/ aspetto assorbo accetto/ dall’ultimo al primo i Tuoi soprusi.

Perché è più facile volare in alto se a sollevarci sono le braccia del Padre.

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Grammatica e cantieri di sinodalità nella PG: il discernimento

Da NPG di febbraio 2023.

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di Gianluca Zurra

Il “discernimento” è una parola tradizionale della fede cristiana. Pensiamo, per esempio, al discernimento spirituale, fatto di ascolto e di preghiera, di aiuto reciproco e di suggerimenti fraterni. Dai più semplici monasteri fino alle più grandi abbazie, come dalla quotidianità delle nostre parrocchie fino ai grandi Concili, il discernimento rappresenta una tappa decisiva, tramite cui si realizzano le scelte ecclesiali più importanti, nell’intimità della coscienza come nello spazio pubblico, in genere dopo attenti confronti e verifiche.
Oggi, rimettendo al centro la forma sinodale della Chiesa, si è riscoperto questo processo di decisione, che coinvolge l’interiorità, certo, ma sempre dentro un contesto di relazioni comunitarie. Dire sinodalità, dunque, significa dire “percorso di scelta”, poiché senza la ricerca e il raggiungimento di una effettiva decisione comune il cammino sinodale rischierebbe di rimanere sterile.
Ci soffermiamo, allora, su questa parola, così antica ma anche bisognosa di essere riletta per la nostra situazione odierna.

La vita come discernimento

Per prima cosa è necessario ricordare che la vita stessa nel suo insieme è discernimento, cioè una vera e propria iniziazione a saper scegliere imparando a separare, a distinguere, a lasciare, a non volere tutto. Il senso di ogni cosa, infatti, non si dà per facile trasparenza immediata, ma può essere colto solo attraversando, leggendo e assumendo con libertà e responsabilità ciò che succede lungo la strada dell’esistenza. Inoltre, per il fatto che la nostra umanità è plurale, sinfonica, a più voci e non monolitica, il confronto tra le diversità non può essere evitato. Discernere, pertanto, richiama la nostra unicità di esseri umani, grazie alla quale non ci limitiamo a vivacchiare biologicamente, ma ci lasciamo interpellare dalla vita e con fatica scegliamo a proposito del futuro e del nostro posto nel mondo.
La tentazione più grande, oggi, sembra duplice: da un lato ritenere che si possa vivere senza decidere, quasi cercando di restare alla finestra senza scendere in strada, e dall’altra immaginare che il discernimento possa accadere tra sé e sé, nel chiuso del proprio intimismo, senza quella rete di relazioni, fatte di persone, di ambienti, di cose che ci circondano.
Scegliere, invece, si deve ed è possibile nella misura in cui ci si fida a tal punto da abbassare le proprie difese, per scoprire che proprio gli altri hanno qualcosa di unico da dirci a proposito di noi stessi. Fiducia e apertura sono il doppio motore del discernimento, che potrà giungere così ad un taglio, ad una separazione che fa partire, nascere e decidere: chi vuole tenere tutto non prenderà mai una direzione, ma tenderà a girare freneticamente come in una rotonda, senza scegliere davvero una strada.
Il cristianesimo si è intrecciato da sempre con questa profonda esigenza umana, presentandosi come la “Via” inaugurata da Gesù che, senza sostituirsi alla libertà, le permette di compiere il duro lavoro della scelta, evitando che resti a galleggiare “a metà strada” priva di una destinazione buona.

Il discernimento di Gesù

Gesù è riconoscibile come Maestro e Signore grazie al suo modo unico di leggere la realtà e di fare discernimento lungo tutta la sua vita. Basti pensare ai due grandi “deserti” da lui vissuti: le tentazioni[1], che lo spingono a rivelare il Padre secondo una logica di violenza e di spettacolarizzazione, a cui resiste dopo una lunga lotta di riflessione a partire dalle Scritture, e l’orto degli ulivi[2], luogo della sua decisione più drammatica, quella di continuare fino in fondo a testimoniare l’amore anche nel rifiuto violento che gli uomini gli stanno preparando.
Eppure, questi momenti di intima solitudine sono pieni di tutte quelle relazioni che il Figlio di Dio vive sulla sua pelle e tramite cui soltanto può fare discernimento a proposito del desiderio buono del Padre verso di lui. Nel gesto battesimale del Battista, inatteso e sorprendente, Gesù approfondisce il senso della sua identità udendo la voce dall’alto, mentre nei molteplici incontri lungo la strada comprende sempre meglio l’universalità della sua missione. Grazie alla rilettura della Legge e dei Profeti dà forma alla sua esistenza, fino a scoprire il Regno di Dio nelle cose di tutti i giorni e nella imprevista accoglienza dei piccoli e dei semplici. Quello di Gesù è uno sguardo di discernimento continuo, per il quale nulla di ciò che viene “dall’alto” può essere percepito senza il continuo attraversamento, saggio e profondo, di tutto ciò che arriva “dal basso”.
Uno dei brani evangelici più significativi a proposito del discernimento è senza dubbio Lc 12, 54-59: Gesù rimanda i suoi interlocutori alla responsabilità della loro coscienza, senza sostituirsi alla libertà consapevole a cui ciascuno è chiamato. La capacità di discernere il cambiamento del tempo atmosferico ricorda la necessità di saper valutare il tempo presente: “perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?”. L’esempio che viene utilizzato è spiazzante, ma assai suggestivo: sapersi accordare con l’avversario lungo la strada è conveniente, almeno per evitare violenze e ingiustizie più grandi. Colpisce come lo sguardo del Figlio di Dio sia molto concreto, liberando il discernimento da una cornice moralistica, per introdurlo invece nella logica, spesso drammatica e difficile, della costruzione della fraternità e della pacificazione. La fede, di cui Gesù è iniziatore e accompagnatore, diventa così criterio di scelta e direzione possibile per la coscienza, che non viene sollevata in modo infantile dal suo lavoro, ma condotta a muoversi con saggezza nelle molteplici esperienze della vita.
Per il medesimo motivo Gesù chiama a sé una comunità di discepoli e consegna loro, non a singoli, il compito missionario del discernimento evangelico, tramite un processo che diventerà fondamentale per la forma sinodale della Chiesa. Ne è testimonianza l’inizio del capitolo 10 di Luca[3]: i discepoli vengono inviati a due a due, non da soli, verso un contesto in cui è necessario prima di tutto cogliere la grande e promettente quantità della messe. Seguono poi alcune indicazioni su come muoversi nell’annuncio, con mezzi poveri e con libertà di spirito, senza protagonismi o invadenze che intacchino la libera accoglienza del vangelo. C’è poi un ritorno degli inviati, che raccontano e fanno un resoconto comunitario dell’accaduto; ma c’è bisogno di una ulteriore parola di Gesù perché ciò che succede possa essere pienamente compreso. Invio, stile evangelico, racconto e disposizione alla revisione del proprio lavoro sono i passaggi fondamentali di ogni discernimento, che è sempre relazionale, mai intimistico o magico.
Che Gesù ne sia davvero maestro lo si nota già nell’episodio della sua adolescenza, quando rimane al tempio di Gerusalemme senza ritornare nella carovana famigliare[4]. É suggestivo che proprio qui venga utilizzato il termine “sinodo” (comitiva, strada insieme): il Figlio adolescente riesce a discernere il luogo in cui deve stare in quel momento grazie alle molte voci “sinodali” della sua famiglia e della sua casa, comprese quella di Giuseppe e di sua madre, Maria. Certo, i genitori si stupiscono, ma a loro volta comprendono, mossi al discernimento, che ciò che sta accadendo è generativo: ogni vero percorso sinodale conduce a trovare una strada, un posto in cui poter dire: “qui e in questo modo ci si può occupare al meglio e insieme delle cose del Padre, dentro la quotidianità della storia”.
Dunque, è la fede stessa di Gesù a manifestarsi nella forma di un discernimento sulla vita e per tale motivo egli diviene Signore di ogni discernimento chiesto a chiunque si lasci condurre e rinnovare dal racconto evangelico. Un elemento è chiaro: soggetto di questo lavoro è sempre una comunità, perché non è possibile decidere di sé indipendentemente dal rapporto con gli altri.

Il discernimento ecclesiale

Quali criteri possiamo raccogliere a proposito di un discernimento ecclesiale veramente sinodale, secondo la forma di Cristo e del suo Spirito? I passaggi di questo processo, che deve giungere a decisioni precise, possibili e concrete, sono almeno tre: “stare sotto” agli avvenimenti che ci spiazzano, tenere al centro la profezia del racconto evangelico custodito dall’Eucaristia e creare luoghi istituzionali di decisione feconda e di revisione comunitaria. Tenendo sullo sfondo l’episodio evangelico dei discepoli di Emmaus[5] possiamo tracciare meglio questi tre passi.
“Stare sotto” agli avvenimenti che ci spiazzano vuol dire stare con pazienza e fermezza sulla strada di tutti, ascoltando dall’interno ciò che succede nel cuore di ciascuno e attorno a noi, come Gesù verso i due discepoli smarriti. Non si tratta di ascoltare per giudicare e insegnare, ma per maturare un pieno e profondo “patire insieme”. Solo dentro questo lavoro di “compassione”, che istruisce e smuove il cuore, è possibile lasciarci guidare dalle Scritture, che aprono porte inattese lungo il sentiero. La richiesta accorata dei discepoli verso lo straniero incontrato perché entri e rimanga a tavola con loro è già frutto di un discernimento che non avviene a caso, ma che è stato suscitato da un confronto con i precedenti fatti di Pasqua illuminati dalla Legge e dai Profeti, a cui Gesù fa riferimento. Il discernimento si compie però solamente quando i due discepoli ripercorrono la strada all’incontrario, incontrando il resto della comunità e gioendo con loro per il riconoscimento del Risorto. Questo ultimo passaggio è ciò che ci manca di più nella Chiesa: non basta ascoltare la vita e le Scritture in maniera sinodale, ma si tratta di vivere sinodalmente anche il processo decisionale che scaturisce da quel discernimento, in modo che non sia in mano a uno solo o a un gruppo di pochi. È necessario che, anche chi ha la responsabilità ultima nel ministero, eserciti tale autorità dentro spazi e modalità che non cancellino il percorso precedente, ma lo assumano realmente e lo rilancino in vista di una sua revisione nuovamente comunitaria.
Solo attraversando tutti questi momenti, senza saltarne nessuno, il discernimento, compito fondamentale della nostra vita, compiuto da Gesù nella sua stessa esistenza, può diventare un reale cammino ecclesiale, tramite il quale è possibile, oggi come allora, scioglierci insieme nella professione di fede: “Abbiamo visto il Signore”. E a questo punto la sinodalità troverebbe la sua efficacia come effettivo processo decisionale nello Spirito, in grado di alleggerire e innovare: “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono”[6].

NOTE

[1] Cfr. Mt 4, 1-11.
[2] Cfr. Mc 14, 32-42.
[3] Cfr. Lc 10, 1-20.
[4] Cfr. Lc 2, 41-50.
[5] Cfr. Lc 24, 13-35.
[6] Cfr. 1Ts 5, 21.

 

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Compagni di viaggio, A proposito del carattere “pellegrino” della Chiesa

Da NPG di febbraio.

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di don Rossano Sala

Stiamo entrando nel vivo del Sinodo sulla sinodalità

Nei giorni in cui leggerete questo editoriale si starà svolgendo a Praga l’incontro europeo di consultazione ecclesiale previsto dal cammino sinodale in atto (5-12 febbraio 2023). È uno dei sei incontri previsti a livello continentale per quella che appunto è chiamata la “tappa continentale” del Sinodo sulla sinodalità. Si tratta di far emergere le diverse sensibilità ecclesiali e originalità pastorali dei differenti contesti in cui la Chiesa è incarnata.
A questi incontri seguiranno due momenti a livello di Chiesa universale, così come è stato esplicitato da papa Francesco qualche mese fa:
Il 10 ottobre dell’anno scorso si è aperta la prima fase della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione”. Da allora si sta svolgendo nelle Chiese particolari la prima fase del Sinodo, con l’ascolto e il discernimento. I frutti del processo sinodale avviato sono molti, ma perché giungano a piena maturazione è necessario non avere fretta. Pertanto, allo scopo di disporre di un tempo di discernimento più disteso, ho stabilito che questa Assemblea sinodale si svolgerà in due sessioni. La prima dal 4 al 29 ottobre 2023 e la seconda nell’ottobre del 2024. Confido che questa decisione possa favorire la comprensione della sinodalità come dimensione costitutiva della Chiesa, e aiutare tutti a viverla in un cammino di fratelli e sorelle che testimoniano la gioia del Vangelo[1].
Dall’ottobre 2021 fino a metà agosto del 2022 abbiamo vissuto un percorso di ascolto verso tutte le Chiese particolari, che avevano come perno le 114 Conferenze Episcopali del mondo. Un momento in cui tutti hanno potuto partecipare, prendendo la parola e offrendo il loro contributo.
Il rilancio di questa fase di ascolto è avvenuto con la pubblicazione del Documento per la Tappa Continentale (24 ottobre 2022). Leggendolo con attenzione, questo testo non parla né in forma estesa dei giovani né in modo entusiasta della loro partecipazione al processo sinodale in atto. Dice infatti che

è universale la preoccupazione per la scarsa presenza della voce dei giovani nel processo sinodale, così come in modo crescente nella vita della Chiesa. Una rinnovata attenzione per i giovani, la loro formazione e il loro accompagnamento sono un’urgenza, anche in attuazione delle conclusioni del precedente Sinodo su I giovani, la fede e il discernimento vocazionale (2018). In quella occasione furono proprio i giovani a far emergere la necessità di una Chiesa più sinodale in vista della trasmissione della fede oggi[2].

Effettivamente, lo dobbiamo ammettere a quasi cinque anni di distanza, il Sinodo sui giovani è stato un grande momento di convocazione che ha creato entusiasmo e aperto possibilità, ma non ha per ora reso possibile un’autentica svolta nella pastorale giovanile e nell’attenzione ecclesiale verso le giovani generazioni. In gergo giovanile, possiamo dire che “non ha ancora sfondato”. La Chiesa nel suo insieme non è riuscita a mettere pienamente a frutto la “scossa” generata dal cammino compiuto insieme ai giovani.
In Italia abbiamo visto tante Chiese locali mettersi all’opera con sincerità e passione; tanti si sono messi in gioco dando priorità al lavoro pastorale con e per i giovani; alcune regioni ecclesiastiche stanno con creatività mettendo in dialogo i giovani con i loro pastori. Sussiste però ancora una fase di stanchezza e di debolezza. Anche perché davvero i ragazzi, gli adolescenti e i giovani di oggi vivono in un mondo molto diverso rispetto a quello abitato dai loro educatori e pastori. Superare questo vero e proprio gap generazionale non è per nulla facile.
Se poi diamo uno sguardo all’Europa nel suo insieme, ci accorgiamo che le fatiche sono ancora più grandi. Alcune Chiese sono finite in ginocchio durante la pandemia, che ha messo a dura prova perfino la loro sostenibilità e il mantenimento delle strutture ordinarie. La guerra tuttora in corso non promette nulla di buono per nessuno, e per i giovani in maniera specifica tronca le ali verso una visione di futuro positiva e propositiva.

La sinodalità manifesta il carattere pellegrino della Chiesa

Nell’Angelus citato sopra papa Francesco si augura che il cammino sinodale in atto “possa favorire la comprensione della sinodalità come dimensione costitutiva della Chiesa”. Proviamo allora anche noi a dire qualcosa di serio e fondato sull’idea di sinodalità. Anche perché, come tutti sappiamo, dopo Christus vivit non è possibile pensare e agire senza prendere sul serio il fatto che

la pastorale giovanile non può che essere sinodale, vale a dire capace di dar forma a un “camminare insieme” che implica una valorizzazione dei carismi che lo Spirito dona secondo la vocazione e il ruolo di ciascuno dei membri della Chiesa, attraverso un dinamismo di corresponsabilità. Animati da questo spirito, potremo procedere verso una Chiesa partecipativa e corresponsabile, capace di valorizzare la ricchezza della varietà di cui si compone, accogliendo con gratitudine anche l’apporto dei fedeli laici, tra cui giovani e donne, quello della vita consacrata femminile e maschile, e quello di gruppi, associazioni e movimenti. Nessuno deve essere messo o potersi mettere in disparte[3].

A partire da queste parole così chiare ci chiediamo: quando parliamo di sinodalità, che cosa intendiamo? È una moda del momento oppure un’esigenza imprescindibile per la Chiesa del terzo millennio? In che senso la sinodalità è un elemento “costitutivo” della Chiesa?
La Chiesa è, come recitiamo nel simbolo degli apostoli, “una, santa, cattolica e apostolica”. Queste sono le sue quattro note distintive, e sappiamo di che cosa si tratta. Nella sostanza la Chiesa è soprattutto “popolo di Dio”: questo è il suo essere, la sua realtà più vera. Affermare ciò non è semplicemente fare riferimento ad una metafora o un’immagine esplicativa, ma richiama la sostanza più propria della Chiesa: siamo un popolo che il Signore si è acquistato con il proprio sangue.
Potremmo dunque chiederci il perché dell’attuale insistenza sulla “sinodalità”, se non è una questione di essenza o di sostanza. In realtà la sinodalità non sta nella logica della sostanza, ma del dinamismo: è legata in maniera specifica al tempo che scorre, alla storia che avanza. Sinodalità è la sottolineatura che il popolo di Dio è in cammino. E quindi prende in considerazione il suo modo di procedere e il suo stile relazionale, per vedere se il suo incedere nella storia degli uomini è fedele all’evangelo di Dio.
Riconoscere ciò oggi è sempre più decisivo. La Chiesa non è una realtà statica, ferma, bloccata, ingessata, ma è una realtà dinamica, magmatica, vivace. È una vita che si sviluppa nel cammino e nella relazione, perché ha la forma dell’evento e dell’incontro. Per questo parlare di sinodalità significa invitarci ad una verifica seria della qualità relazionale del nostro essere Chiesa. Talvolta, anche all’interno della Chiesa, dominano invidia e gelosia, concorrenza e competizione, maldicenza e mormorazione. La sinodalità ci chiede di lavorare esattamente a questo livello relazionale, e anche a livello comunicativo.
Per dirla in un altro modo: dando per scontato la sostanza della Chiesa, il focus sulla sinodalità prende in considerazione la forma della Chiesa, e quindi, se necessario, la sua riforma. Questo dice che la Chiesa non esiste come idea teorica, ma come corpo vivente che cammina nel tempo e nello spazio. Quindi non semplicemente nel mondo in astratto, ma in un mondo concreto, situato, unico e non replicabile. In questo senso, come ben dice il documento finora migliore sul tema, «la sinodalità manifesta il carattere “pellegrino” della Chiesa»[4]. Così

la sinodalità esprime l’essere soggetto di tutta la Chiesa e di tutti nella Chiesa. I credenti sono σύνoδοι, compagni di cammino, chiamati a essere soggetti attivi in quanto partecipi dell’unico sacerdozio di Cristo e destinatari dei diversi carismi elargiti dallo Spirito Santo in vista del bene comune[5].

Notiamo, dal punto di vista biblico, come nei vangeli si utilizza solo una volta la parola “sinodo”[6]. Siamo nel simpatico episodio in cui Gesù adolescente è rimasto a Gerusalemme, mentre i suoi parenti facevano ritorno a casa: «Credendo che fosse nella comitiva (σύνoδία), fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo»[7]. Ecco l’idea di sinodalità nella sua semplicità e complessità: una comitiva, una carovana, un gruppo di pellegrini abbastanza eterogeneo ma unito da un medesimo obiettivo, quello di andare al tempio del Signore per rendergli omaggio e poi di ritornare pieni di gioia verso la loro dimora. Ciò che ci tiene uniti è il Signore, è l’essere salvati da lui e il camminare verso di lui nel tempo e nella storia. Siamo parte di una cordata, dipendenti gli uni dagli altri, affidati gli uni agli altri: questo è essere Chiesa!

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Premessa e orizzonti della rubrica “Dove i giovani possono incontrare oggi il Signore?”

Dalla nuova newsletter di NPG.

***

di Ariela Ligato

La domanda mi sembra che lasci inequivocabilmente tra parentesi un prerequisito essenziale: i giovani oggi cercano il Signore, lo vogliono incontrare e si interrogano, insieme ai loro educatori e all’intera comunità cristiana, riguardo ai “luoghi” in cui questa relazione si possa dare.

Si tratta in prima battuta di rendere ragione al punto di partenza della nostra riflessione, per evitare di vanificare ogni discorso che si farà successivamente. Per non parlare di giovani in generale mi riferirò ai giovani che in questi anni ho avuto modo di incontrare, raccontando in particolare un’esperienza, per me significativa. Anche il recente sinodo sui giovani, si è fatto queste stesse domande e ha interagito con molti giovani, da tutto il mondo; sarà necessario passare anche da lì per avvalorare la nostra ipotesi.

Alcuni anni fa sono stata invitata ad una tavola rotonda sul tema “Fidarsi è bene. Essere giovani nella terra di mezzo”. Ogni relatore aveva il compito di interagire con i giovani su un ambito della loro vita. Il tema a me assegnato riguardava la dimensione spirituale e mi aveva benevolmente sorpreso la concordanza tra una mia profonda convinzione, sperimentata durante gli anni di insegnamento e il loro feedback: i giovani non hanno spento la loro sete di Dio, il loro desiderio di incontrarlo. Nello stesso tempo, però, i toni con i quali hanno descritto questo loro anelito erano principalmente fatti di paura, inquietudine e solitudine.

Troviamo un riscontro analogo anche nel documento finale della XV assemblea generale ordinaria del sinodo dei Vescovi I giovani, la fede e il discernimento vocazionale (27 ottobre 2018): «In tanti modi anche i giovani di oggi ci dicono: “Vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,21), manifestando così quella sana inquietudine che caratterizza il cuore di ogni essere umano: “L’inquietudine della ricerca spirituale, l’inquietudine dell’incontro con Dio, l’inquietudine dell’amore”» (n. 50).

 

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Dilatare il cuore. L’orizzonte di una “programmazione”

Dal nuovo numero di NPG.

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di don Rossano Sala

La necessità di guardare lontano

Come sempre in questi ultimi anni l’editoriale di gennaio ha un respiro ampio. Penso che oggi più che mai sia necessario alzare lo sguardo per osservare il tutto della nostra azione pastorale da una prospettiva estesa, prendendo una certa distanza dal presente per poterlo comprendere meglio.
Effettivamente una delle esperienze che sto facendo in questi ultimi anni nel mondo della pastorale in generale e della pastorale giovanile in particolare è quella di una anomala concentrazione sulle emergenze del momento. Siamo troppo incurvati sul breve e sul brevissimo termine. Talvolta vedo l’incapacità di guardare lontano, di scrutare gli orizzonti, di avere un occhio capace di abbracciare almeno il medio, se non il lungo termine. Forse manchiamo un po’ di “lungimiranza”, di quella virtù che sa oltrepassare l’immediatezza.
Il nostro dunque è un invito ad allargare lo sguardo, a indagare un orizzonte più ampio, a non lasciarsi rinchiudere nelle catene di un presentismo che ci fa mancare l’aria. Questo dice quanto una Rivista come la nostra ha un compito ben preciso e penso oggi più strategico che mai: aiutare tutti coloro che la frequentano a non affondare nelle sabbie mobili di un presentismo che non ha futuro perché dimentica il passato. E che fa della riflessione seria e fondata un caposaldo della sua vocazione specifica nel mondo della pastorale dei giovani. Possiamo dire che questa è la nostra vocazione original.
Seguendo la sagacia di Chesterton, non possiamo che convenire sul fatto che «la Chiesa cattolica è l’unica cosa in grado di salvare l’uomo da una schiavitù degradante, quella di essere figlio del suo tempo […] Una realtà antica quanto la Chiesa Cattolica ha accumulato un arsenale e una camera del tesoro a cui attingere; può pescare con cura tra i secoli e chiamare un’epoca in soccorso di un’altra. Ha la possibilità di evocare il mondo antico perché ristabilisca l’equilibrio del nuovo» [1]. E tutto questo la Chiesa lo fa con la coltivazione di pensiero profondo, che passa necessariamente attraverso uno studio impegnato.
Sappiamo per esperienza che il cuore soffre quando lo sguardo è corto. Non riesce a trovare spazio di espressione e gli manca l’ossigeno. Il libro dei Salmi ha una bella espressione legata alla vita del credente che ci fa bene riportare alla nostra attenzione all’inizio di questo 2023: «Corro per la via dei tuoi comandamenti, perché hai dilatato il mio cuore» [2]. Il Signore con la sua grazia – simile ad una fiamma che scalda e illumina – allarga il nostro cuore e acuisce il nostro sguardo. E questo avviene attraverso esperienze di vita, condivisione di pensiero e collaborazioni operative.
Mi pare significativo mettere qui nero su bianco la bella avventura che stiamo vivendo insieme, quella di fare squadra e fare rete con il gruppo di redazione di NPG. In tutto siamo quasi 25 persone, e insieme portiamo avanti la riflessione sui contenuti da proporre, gli autori da coinvolgere e gli stili operativi da assumere. In questi ultimi anni, intorno alla metà di giugno, ci prendiamo una giornata di lavoro insieme in vista della programmazione dell’anno successivo. È un momento “generativo”: partendo dalle nostre diverse sensibilità e competenze, cerchiamo di sintonizzarci su ciò che sarà importante trattare: temi di prospettiva, problemi impellenti, approfondimenti necessari.
La nostra programmazione non è scritta a tavolino e in solitaria da qualche mente particolarmente brillante, ma è frutto di un discernimento comunitario. Mi piace allora dare voce in questo “editoriale” al lavoro che abbiamo fatto in redazione, proponendo ai lettori i cammini che percorreremo insieme nel 2023.

Sette passaggi cruciali

Dossier sono da sempre il cuore pulsante della nostra Rivista. Le tematiche sono quelle più importanti, ed ecco perché abbiamo ritenuto opportuno fare le seguenti scelte.
A gennaio, in piena continuità con il progetto della Conferenza Episcopale Italiana SemeDiVento abbiamo visto come l’attenzione agli adolescenti rimane qualcosa di decisivo per una comunità cristiana che desidera essere significativa. Una pastorale a misura di adolescenti è vivace, creativa, dinamica: abbiamo bisogno di una scossa che ci ridoni quell’entusiasmo che a volte rischiamo di perdere.
In febbraio abbiamo pensato ad una delle proposte pastorali che si sono riscoperte nel periodo postpandemico, cioè al pellegrinaggio. Non è solo una proposta pastorale, ma è la vera metafora della vita cristiana quella del pellegrinaggio: camminare e faticare insieme, condividere le risorse e le fragilità di ciascuno, andare insieme verso una meta significativa, riconoscendo che siamo stranieri e pellegrini su questa terra.
In marzo prenderemo sul serio un aspetto poco visibile dell’educazione: la cura e l’attenzione di coloro che si prendono cura di altri. Di fronte al fenomeno del burn-out e della fatica a vivere la responsabilità educativa da parte di formatori e pastori, ci è sembrato strategico concentrarci seriamente su questo aspetto, mettendolo a fuoco con realismo, serietà e maturità.
Nel numero di aprile-maggio tratteremo di un aspetto importante per qualificare la nostra pastorale giovanile. È la sua natura generativa e quindi vocazionale: effettivamente una pastorale giovanile che non sia vocazionalmente intenzionata non sembra essere all’altezza della sua vocazione, e rischia di essere una pastorale senza meta e senza orizzonte. D’altra parte una pastorale giovanile “in chiave vocazionale” è stata oggettivamente richiesta dal Sinodo sui giovani.
Arriviamo a settembre-ottobre 2023. Ci siamo resi conto che il mondo giovanile è in rapidissimo cambiamento e che quindi quasi a cadenza annuale dobbiamo scattare una fotografia aggiornata della cultura giovanile. I giovani, sismografi e sentinelle del nostro tempo, vanno monitorati nei loro mutamenti, per non perdere una conoscenza viva della loro condizione esistenziale sempre in magmatico movimento.
Novembre ci riserverà una riflessione sul tema della pace. Sulle sue condizioni, sulle sue istituzioni e soprattutto su come impostare con saggezza un cammino di “educazione alla pace” nel senso evangelico del termine. Stiamo vivendo – come dice papa Francesco – una “terza guerra mondiale a pezzi” e a partire dagli inviti e dalle provocazioni di Fratelli tutti ci sembrava necessario offrire spunti educativi e pastorali in questo ambito.
Dulcis in fundo, il numero di dicembre 2023 ci offrirà un Dossier sulle strutture pastorali che ospitano le nostre attività. Come si stanno modificando negli ultimi decenni e quali attenzioni pastorali suggeriscono? In che modo strutture nate per esigenze che oggi non ci sono più possono essere trasformate creativamente per rispondere alle attuali necessità pastorali? Come progettare nuove strutture pastorali adeguate alle sensibilità giovanili contemporanee?
Non mi soffermo in dettaglio sugli Studi e sulle Rubriche (sia in cartaceo che online) offerte per il 2023. Si potrà trovarne l’elenco preciso e aggiornato in quarta di copertina. Sono anch’essere frutto del discernimento del gruppo di redazione e rendono conto delle diverse attenzioni che sono emerse dal confronto fraterno. Solo dai titoli proposti il lettore inserito nel dinamismo quotidiano della pastorale giovanile potrà facilmente intuire la loro attualità e freschezza, oltre che l’urgenza. Sono il segno della vivacità di una Rivista che desidera rimanere sul pezzo e mai vuole allontanarsi dalla concretezza dell’azione educativa ed evangelizzatrice.

Due momenti decisivi

Concludo con due rilanci, che vengono dai due eventi che la Chiesa cattolica a livello universale si prepara a vivere rispettivamente ad agosto e ottobre del 2023. Sono due momenti di grande convocazione che, in un modo o in un altro, ci chiedono partecipazione e corresponsabilità.
Il primo è squisitamente nostro. La Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona. Abbiamo dedicato a questo momento il Dossier di dicembre 2022. L’intento era quello di “scaldare i motori” risvegliando il desiderio di vivere – tutti i giovani e tutte le Diocesi, tutti i movimenti e le associazioni, tutte le congregazioni religiose impegnate con i giovani – un’esperienza di Chiesa entusiasmante, che ci renda sempre più consapevoli di essere parte di una famiglia senza confini. La GMG sarà davvero per tutti noi una grande occasione per confermare la nostra appartenenza ecclesiale, per vivere un pellegrinaggio condiviso, per riscoprire la nostra fede e per riconoscerci ancora una volta fratelli e sorelle perché figli e figlie di un unico Padre.
Il secondo riguarda tutti. Dopo due anni di cammino preparatorio che ha coinvolto tutte le componenti della Chiesa, nell’ottobre 2023 ci sarà la prima delle due sessioni del Sinodo sulla sinodalità a livello di Chiesa universale. La seconda è prevista per l’ottobre del 2024. Vorrei ancora una volta ribadire che questo momento di confronto sulla forma sinodale della Chiesa – dove tutti sono chiamati ad essere protagonisti e dove nessuno può rimanere una comparsa – è stato il frutto maturo del Sinodo sui giovani. Questi ultimi hanno chiesto di prendere sul serio la riforma della Chiesa per essere all’altezza dell’evangelo di Dio e dei tempi che corrono. Tutto ciò non sarà estraneo al presente e al futuro della pastorale giovanile, in quanto il rinnovamento del volto della Chiesa è la necessaria premessa in vista della sua significatività per tutti i giovani, nessuno escluso.

NOTE

1 G.K. CHESTERTON, La Chiesa Cattolica. Dove tutte le verità si danno appuntamento, Lindau, Torino 2010, 85.86.
2 Sal 118, 32.

Note di Pastorale Giovanile: rubriche per il 2023

Per il 2023, la rivista Note di Pastorale Giovanile ha in cantiere diverse rubriche.

Abitare la Parola ‒ incontrare Gesù
Guido Benzi

Desideriamo indagare, attraverso il Vangelo, cosa significa un autentico «incontro con Cristo»; seguiremo dunque Gesù e analizzeremo il suo stile, il suo modo di incontrare diversi tipi di persone, mescolandoci tra di loro per poter così fare anche noi il «nostro» incontro con Lui.

1. Giovanni il Battista incontra Gesù (Gv 1,19-36)
2. Andrea, Pietro, Filippo e Natanaele incontrano Gesù (Gv 1,35-51)
3. Nicodemo incontra Gesù (Gv 3,1-21)
4. La samaritana incontra Gesù (Gv 4,1-30)
5. Il funzionario del re ed il suo bambino incontrano Gesù (Gv 4,46-54)
6. Il paralitico incontra Gesù (Gv 5,1-18)
7. La folla incontra Gesù (Gv 6,1-15)
8. L’adultera incontra Gesù (Gv 8,1-11)


Saper essere: le competenze trasversali nei contesti educativi

A cura di Alessandra Augelli

In un incrocio tra cosiddette soft skills e life skills, verranno analizzate le capacità dell’educatore (e del “pastore”) nell’incontro e cura delle persone e delle situazioni usuali e quotidiane della vita.

0. La trama invisibile: le competenze trasversali nella formazione
1. Consapevolezza di sé – fiducia in se stessi
2. Gestione delle emozioni
3. Gestione dello stress
4. Comunicazione efficace e ascolto attivo
5. Empatia
6. Creatività e pensiero divergente – flessibilità
7. Pensiero critico – Spirito di iniziativa – leadership
8. Decision making – autonomia
9. Problem solving – Pianificare e organizzare
10. Riflessività, apertura alla ricerca, apprendimento in itinere
11. Valutare e riconoscere le competenze trasversali in oratorio e nelle comunità pastorali


Dove possono i giovani oggi incontrare il Signore?

A cura di Elena Massimi

In collegamento e come riflesso della rubrica sopra riportata di Benzi, si tratta di fare un’operazione di concretizzazione e personalizzazione dell’incontro con Gesù. Nel quotidiano, nella vita, nelle esperienze che diversamente rischiano di risultare mute.

0. Premessa e orizzonti della rubrica
1. Nella Chiesa
2. Nella liturgia
3. Nell’Eucaristia
4. Nella Parola
5. Nella diakonia
6. Nell’annuncio/testimonianza
7. Nella sofferenza


Pastorale giovanile come apprendistato alla vita cristiana

Marcello Scarpa

Viviamo un tempo di rapide trasformazioni culturali, sociali, mediatiche, un cambiamento d’epoca segnato dalla fine del cristianesimo “sociologico”, dal passaggio da un cristianesimo di “tradizione” a uno di “convinzione”. La famiglia, la scuola e la società non sono più il grembo generatore della fede dei ragazzi; i giovani, anche se hanno frequentato i percorsi d’iniziazione cristiana, non conoscono più i codici linguistici della fede, vivono un analfabetismo religioso sproporzionato rispetto al tempo passato al catechismo e agli anni di formazione.
Consapevoli che qualsiasi proposta pastorale non può mai essere completa ed esaustiva, nella rubrica si proporrà un percorso di re-iniziazione dei giovani alla fede cristiana che si articola in otto punti. Dopo un primo numero d’introduzione al tema, si lascia spazio alle parole di papa Francesco che “annunciano” la possibilità di una vita diversa, perché ispirata dal Vangelo. Nei numeri successivi proporremo alcune esperienze di vita cristiana che ruotano intorno

– alla Scrittura
– al linguaggio liturgico
– a quello della carità
– della custodia del creato
– alle responsabilità della vita adulta
– e della missione


Ricchezza e problematicità dell’umano nella letteratura contemporanea
Giuseppe Savagnone

Da sempre la letteratura è uno specchio significativo della ricchezza e della problematicità della vita umana.
Ed è sotto questo profilo, piuttosto che dal punto di vista meramente estetico, che noi ci accosteremo ad alcune delle opere letterarie che ci sembrano particolarmente significative per il nostro tempo. Il nostro tentativo sarà, in primo luogo, di comprendere meglio, attraverso di esse, noi stessi, la nostra vita.
Perciò nello sceglierle non ci ha guidato altro criterio che la loro capacità parlare della nostra esperienza di uomini e donne di questo tempo e di illuminarne il significato, nella fiducia che in questo specchio possiamo comprendere un po’ meglio di ciò che siamo e viviamo.
– Cominceremo con un romanzo che ha avuta un enorme successo alla fine del Novecento e che si presenta come un “manifesto” dell’epoca post-moderna di cui siamo protagonisti, L’insostenibile leggerezza dell’essere, di Milan Kundera.
– Passeremo poi a un’opera del tutto diversa, Il mondo nuovo, di Aldous Huxley, che, scritto nel 1932, costituisce una straordinaria profezia del volto che la nostra società ha assunto.
– Continueremo con un romanzo che risale alla fine dell’Ottocento, Delitto e castigo, il cui autore, Fëdor Dostoevskij, è unanimemente considerato, oltre che uno dei massimi geni della storia della letteratura mondiale, un anticipatore dei problemi e della sensibilità della nostra epoca attuale.
– Saranno poi le vostre reazioni a guidarci nella scelta dei testi successivi. Per adesso, buona lettura.

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Conclusione del dossier “Accompagnare gli adolescenti: davvero missione impossibile?”

Da NPG.

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Per non concludere… comunità oasi

Sullo sfondo di tutto resta il grande tema della comunità cristiana. Una comunità chiamata a generare alla fede le giovani generazioni che, al tempo stesso, si trova spaesata e disorientata perché si rende conto che sono necessarie nuove strade ma ancora non sa quali. Ecco, allora, l’importanza di fermarsi, di stare con alcune domande, senza farsi prendere dall’ansia di dover fare tanto. Infatti, il vero problema della nostra attuale pastorale non è soltanto il “si è sempre fatto così”, ma anche la fatica di liberarsi dall’ansia di dover per forza proporre sempre qualcosa. La vera questione è una comunità che si dà tempo per pensarsi in maniera nuova, per sognare una forma altra di se stessa, che si dà nuove priorità e ha il coraggio di lasciare ciò che è infecondo. Questo è l’impasse che ci attende. Dall’eucarestia come centro missionario sarà necessario ritrovare quella forma pratica di “fare la comunione” all’interno e all’esterno della comunità; dall’eucarestia risulterà importante reimparare uno stile eucaristico di vita, fatto di gratuità, generosità, tempo speso per rifare la comunità.
Una comunità che ha il coraggio di verificarsi e di darsi nuovo slancio, probabilmente è una comunità molto coraggiosa, che non teme di fermarsi per un po’ di tempo per ritrovare il suo centro, per chiedersi che cosa le sta maggiormente a cuore, per ritrovare un rinnovato slancio missionario. Una comunità così comprende come sia necessario riprendere in mano il passaggio di testimone ai più giovani, che vengono considerati come il presente e il futuro, un terreno fertile sul quale scommettere le proprie energie. Se non si scommette sul futuro e sul presente, su che cosa si dovrebbe puntare? Una comunità così esprime passione educativa per i più giovani, trova qualcuno che si mette a disposizione per generare altri nella fede, perché è educata a guardare fuori di sé, non all’interno. Una comunità che non ha a cuore anzitutto le strutture e le iniziative, ma che sogna e propone oasi di fraternità e di incontro fra i giovani. Che cos’è un’oasi? È un luogo presente in mezzo al deserto (come appaiono tante nostre comunità oggi) che serve a dare riposo e dissetare durante il lungo cammino percorso, che rinfresca e solleva, dà nuove energie. L’oasi non è fatta per fermarsi a lungo, ma è di passaggio. Luogo fatto per ripartire più rinfrancati e motivati di prima. Così immagino una comunità e un oratorio per i nostri adolescenti. Terminato il tempo in cui i “nostri” luoghi erano contesti in cui si trascorreva molto del tempo libero, per giocare, incontrarsi, divertirsi, oggi la comunità, nelle sue varie espressioni, può davvero trasformarsi in un tempo anzitutto di esercizio della vita cristiana, nelle sue plurime espressioni. Non è più certamente un luogo fatto per sostare a lungo, per mettere le radici, ma può trasformarsi in una valida palestra di vita caratterizzata da un movimento inside/outside dei nostri giovani, che lì trovano adulti capaci di ascolto, liberi da pregiudizi, che non si servono di loro come forza lavoro, ma che vogliano loro bene e vogliano il loro bene. Una comunità o un oratorio oasi sopporta l’abbandono e il ritorno improvviso, perché non ha l’obiettivo di trattenere i giovani, bensì offre loro spazi e tempi per testarsi, sperimentarsi, essere protagonisti, farsi le ossa. Non c’è nessuna progettualità che ci possa assicurare tutto questo, servono solo domande e sogni che, con grande libertà e onestà, provano ad uscire dal già saputo. I punti di forza di una comunità così sono il forte valore delle relazioni non soffocate dalle cose da fare, la capacità di osare il nuovo superando l’immagine e la forma tradizionale di oratorio e di comunità, la grande fiducia nutrita nei confronti dei giovani, la priorità data ai processi piuttosto che al risultato di ciò che abbiamo fatto. È una comunità destrutturata, molto leggera, easy come si direbbe oggi. In cui c’è sempre qualcuno pronto a incontrare gratuitamente i giovani e con loro immagina una nuova forma di vivere la fede. Perché anche e soprattutto di questo si tratta.[1]

NOTE

1 A. MATTEO, Riportare i giovani a messa. La trasmissione della fede in una società senza adulti, Milano, Ancora, 2022.

 

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Democrazia

Come parlare 

Forse la cosa più importante per educare alla democrazia è sottolineare che non esiste un sistema “più” o “meno” democratico, così come non si può introdurre “un po’” di democrazia in uno Stato, una associazione o una istituzione. La democrazia è un gioco a somma zero: o c’è o non c’è, il che significa che in un sistema o i capi sono eletti da tutto il popolo oppure no; nel secondo caso non siamo in presenza di un sistema democratico, ma di qualcosa di differente. Intendere la democrazia come un concetto graduato significa stemperarne la potenza educativa e politica e soprattutto contribuire a creare ibridi politici, organismi nei quali una sostanziale impunità e ingiudicabilità dei dominanti viene coperta da una serie di graziose concessioni pseudo-democratiche che assicurano ai dominanti stessi un formale consenso; ricordiamo che anche il Duce indisse un patetico e penoso plebiscito! Ma se quanto detto sopra è vero, è allora implicito che un sistema formativo non può essere un sistema formalmente democratico: se i ragazzi non possono scegliersi gli insegnanti attraverso un voto (e al di là della demagogia di moda ci sentiamo di dire: che Dio ce ne scampi!), se i programmi scolastici sono predisposti dal Ministero e vengono poi sottoposti ai giovani e alle giovani senza sostanzialmente chiedere un loro consenso, se insomma l’educazione è per sua struttura basata su un dislivello di potere tra educatore/trice ed educando/a, allora siamo di fronte all’apparente paradosso di una struttura formalmente non democratica che però deve educare alla democrazia. Ma i come detto, il paradosso è solo apparente: l’educazione è una struttura di dipendenza che educa all’autonomia e dunque la relazione educativa è una relazione non democratica che, lavorando alla sua stessa fine, alla sua stessa estinzione, alla sua stessa morte, contribuisce, in quanto antropogenesi, a mettere al mondo soggetti democratici. Questo ovviamente può accadere soltanto se le strutture educative sono inserite in una società democratica e ne rispettano le regole di trasparenza e partecipazione; solo l’assoluta democraticità nella gestione delle istituzioni e dei servizi educativi, la pratica democratica quotidiana nelle relazioni tra colleghi, il rispetto delle decisioni prese collegialmente, solo la copresenza di queste caratteristiche che devono essere tipiche di ogni servizio (soprattutto pubblico) permette che l’educazione lavori per la democrazia; permette, in altri termini, che alla fine dell’educazione, alla morte della relazione educativa, allo sciogliersi del rapporto pedagogico, nasca, con l’adulto democratico, l’adulta democrazia.

Come pensare 

Una storia: chi decide chi decide?
Una bambina sta giocando in casa con il papà. A un certo punto la bimba dice
“Papà ho fame”
“È vero – risponde il padre – è ora di pensare alla cena”
“Che cosa c’è per cena?
“Beh, potremmo passare al microonde i cannelloni che ci sono in freezer oppure scendere a ordinare una pizza da asporto”
“Pizza o cannelloni… sono buoni tutti e due”
“Sì, ma non si possono mangiare tutti e due… bisogna decidere”
“Ma papà, chi decide?”
“Decidi tu se vuoi”.
La bambina riflette un attimo e poi chiede
“Ma papà, chi decide chi decide?”

Forse l’educatore non è colui che decide sempre, ma a volte decide che può essere l’altro a decidere. Ma:
– Lasciare che un altro decida non è “democrazia”; nella democrazia non la decisione non è concessione ma diritto
– Quali sono i limiti della decisione? Perché non includere anche i profiteroles nella scelta?
– Il padre è da solo: chi potrebbe aiutarlo a tracciare le linee di demarcazione della decisione?
– Quali altri ambiti (scuola, oratorio, squadra di calcio) possono permettere questa situazione nella quale l’adulto “decide che decidi tu”?

Film “La parola ai giurati” di Sidney Lumet, 1957
Il film è ambientato all’interno di un’aula di consiglio nella quale dodici uomini (il titolo originale è “Twelve Angry Men”, “Dodici uomini arrabbiati”) devono decidere se un ragazzo sia colpevole o meno di omicidio. La decisione deve essere presa all’unanimità, il che pone fortemente in questione il principio di maggioranza che siamo soliti associare in modo un po’ automatico alle decisioni democratiche. Undici uomini votano per la condanna, uno solo per l’assoluzione. Tutto il film è giocato sul potere di convincimento dell’uomo che nutre dubbi sulla colpevolezza del ragazzo (si noti: l’uomo non è sicuro dell’innocenza ma nutre “ragionevoli dubbi” sulla colpevolezza).
È interessante discutere sul senso della decisione a maggioranza e/o all’unanimità (quando il Sinedrio ebraico decideva all’unanimità una condanna a morte, l’imputato veniva assolto) ma anche sui meccanismi razionali di convincimento messi in atto dal protagonista, contro le posizioni opportunistiche, indifferenti o emotivamente deviate da parte degli altri personaggi.

Cosa fare 

La difficoltà della pratica quotidiana della democrazia è legata al fatto che alcuni conflitti (vedi il numero precedente) sfidano il semplice meccanismo del calcolo della maggioranza. Questo gioco può essere proposto a preadolescenti suddivisi in due gruppi e richiede ovviamente che si analizzino insieme ai ragazzi le varie possibili soluzioni.

GRUPPO 1
Siete un gruppo di naufraghi su un’isola sconosciuta e assente dalle mappe. Dopo una lunga esplorazione scoprite che sull’isola vivono degli indigeni che vi accolgono amichevolmente. Scoprite anche che la grande pietra che costituisce il loro luogo sacro è costituita da un materiale rarissimo, che esiste solo su quest’isola. Un medico che è con voi vi informa che quel materiale è l’anello mancante per una serie di ricerche che permetterebbero di inventare un vaccino definitivo contro ogni forma di Covid. Gli indigeni vi hanno fatto capire che per loro quella grande pietra è sacra, e costituisce la base di tutto il loro mondo; non sono per nulla disponibili nemmeno a farvi accedere ad essa. Il medico dice che occorrerebbe portare via tutta la grande pietra per poter raccogliere materiale necessario per la sintesi del vaccino. Che cosa decidete di fare?

GRUPPO 2
Siete un gruppo di indigeni che vive su un’isola sconosciuta e assente dalle mappe. Alcuni naufraghi occidentali sono sbarcati sull’isola e voi li avete accolti amichevolmente. Essi hanno scoperto che la grande pietra che costituisce il luogo sacro per la vostra tribù è costituita da un materiale rarissimo, che esiste solo su quest’isola. Un medico che è con loro informa che quel materiale è l’anello mancante per una serie di ricerche che permetterebbero di inventare un vaccino definitivo contro ogni forma di Covid. Per voi quella grande pietra è sacra, e costituisce la base di tutto il vostro mondo; non siete disponibili nemmeno a farvi accedere estranei alla tribù. Il loro medico dice che occorrerebbe portare via tutta la grande pietra per poter raccogliere materiale necessario per la sintesi del vaccino. Che cosa decidete di fare?

Come provare

“Ragazzi, decidiamo democraticamente quanto deve durare l’intervallo”.
“Bene, prof, abbiamo deciso: cinque ore”.
Non crediamo che questo scambio di battute sia realistico, perché siamo convinti della maturità e dell’intelligenza dei ragazzi e delle ragazze e della loro capacità di rimanere all’interno delle logiche dell’istituzione. Ma crediamo che a scuola educare alla democrazia significhi approcciare la democrazia come metodo e come oggetto di riflessione.
Ascoltare la canzone “Angeleri Giuseppe” di Giorgio Gaber ci richiama in modo ironico alla necessità di una responsabilità adulta soprattutto quando di educa alla democrazia

Buongiorno ragazzi
Anzi ciao!
(caos)
Sì, sì va bene mi piace, fate pure, parlate, parlate, sì capisco, e sì sì certo
Io sono Alberto, Alberto Vannucchi, il vostro nuovo maestro
Vi accorgerete subito che con me è tutto diverso
Niente autoritarismo, sono qui per lavorare su richiesta anzi per imparare, sì, per imparare con voi
Tra di noi ci sarà un rapporto di lavoro collettivo e di amicizia
Scusate se faccio l’appello, so che sono cose superate ma è per loro, sì, è per loro
Non si può fare a meno di una certa prassi
Non si può fare a meno di una certa prassi anche se tutti sappiamo che è una formalità, eh!?
Dunque allora cominciamo, eh
Angeleri Giuseppe
(tutti i ragazzi rispondono “Sono io”)
Tutti Angeleri Giuseppe
Bella questa
No, è geniale, sì, molto spiritosa, sì sì
No scusate io devo fare l’appello
Non è che ci tenga particolarmente per carità, ma proprio per conoscerci
Insomma per sapere chi siamo
(…)

“Ragazzi, preferite fare un intervallo di 20 minuti dopo la III ora oppure due di dieci minuti dopo la II e la IV ora?”. Porre questa domanda significa aprire possibilità, dare responsabilità e soprattutto permettere all’adulto di osservare i ragazzi nelle loro dinamiche di decisione e di discussione. Significa educare alla democrazia ma anche e soprattutto educarsi ad osservare la democrazia in azione, nei rapporti concreti tra ragazzi e ragazze.

Cosa domandarsi 

La democrazia non entra nelle relazioni educative solamente nei rapporti tra adulti e ragazzi, ma anche nelle relazioni tra educatori. Potremmo allora chiederci:
– Come gestiamo le nostre riunioni?
– Quando siamo in minoranza riusciamo ad accettare e a praticare le decisioni della maggioranza?
– Quando siamo in maggioranza riusciamo a rispettare fino in fondo le opinioni della minoranza?
– Siamo in grado di accettare ed elaborare le critiche dei colleghi?
– Siamo in grado di formulare le critiche ai colleghi in modo da non toccare le dimensioni personali?
– Quanto tempo utilizziamo per prendere le decisioni?
– Riusciamo a comunicare chiaramente le decisioni prese a tutti i colleghi, soprattutto a quelli assenti?

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